Discipline e Guerra Fredda: per uno studio dei documenti strategici statunitensi in chiave foucaultiana

Daniele Curci, Discipline e Guerra Fredda: per uno studio dei documenti strategici statunitensi in chiave foucaultiana, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 59, no. 3, giugno 2025, doi:10.48276/issn.2280-8833.12928
L’articolo propone un’interpretazione delle strategie statunitensi per il confronto con l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda attraverso la categoria delle discipline. Al contempo, l’articolo auspica di colmare, quantomeno parzialmente, un vuoto storiografico e politologico: le discipline foucaultiane e il Panopticon benthamiano hanno trovato, infatti, ancora poca applicazione nell’analisi interpretativa della Guerra Fredda e nelle relazioni internazionali. Con questa indagine non si vuole sostenere un appiattimento della ricerca storico-politologica sulla dimensione disciplinare, ma fornire una chiave di lettura valida per alcune tendenze presenti durante la Guerra Fredda attraverso l’analisi di alcuni documenti scelti per il loro carattere esemplificativo.
Come si vedrà, durante la Guerra Fredda l’obiettivo statunitense non era la scomparsa dell’Urss come entità statale, ma un suo disciplinamento – renderla, cioè, compartecipe dell’ordine globale – un obiettivo da raggiungere attuando un equilibrio competitivo: il mantenimento dello status quo internazionale pur attuando delle pressioni su Mosca. Pertanto, l’impiego dell’esercito statunitense non era volto ad annettere territori, ma a ristabilire l’ordine internazionale, con una concezione d’impiego simile a quella della polizia: ciò che definiremo come policing the military.
Brevi considerazioni sulle discipline
Secondo il pensatore Michel Foucault le discipline sarebbero «le tecniche per assicurare la regolamentazione delle molteplicità umane» 1. Nello specifico:
«Peculiare delle discipline, è che esse tentano di definire nei riguardi delle molteplicità una tattica di potere che risponde a tre criteri: rendere l’esercizio del potere il meno costoso possibile (economicamente, con la spesa modesta che richiede; politicamente, per la sua discrezione, la sua esteriorizzazione limitata, la sua relativa invisibilità, la scarsa resistenza che suscita); fare si che gli effetti di questo potere sociale siano portati al massimo d’intensità ed estesi quanto più lontano possibile, senza scacchi, né lacune; collegare infine questa crescita «economica» del potere al rendimento degli apparati all’interno dei quali esso si esercita. […] Infine, la disciplina deve far giocare i rapporti di potere non al disopra, ma nel tessuto stesso della molteplicità. […] Diciamo che la disciplina è il procedimento tecnico unitario per mezzo del quale la forza del corpo viene, con la minima spesa, ridotta come forza «politica», e massimizzata come forza utile 2.»
Nel loro funzionamento, le discipline agirebbero grazie alle relazioni di potere che Foucault sostiene essere qualcosa di coestensivo ai rapporti sociali, una forza che agisce “nell’ombra”, e che si differenzia dalla repressione:
«Quando si definiscono gli effetti di potere attraverso la repressione ci si dà una concezione puramente giuridica di questo stesso potere; lo s’identifica ad una legge che dice no; avrebbe soprattutto la potenza dell’interdizione. […] Quel che fa sì che il potere regga, che lo si accetti, ebbene, è semplicemente che non pesa solo come una potenza che dice no, ma che nei fatti attraversa i corpi, produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere, produce discorsi; bisogna considerarlo come una rete produttiva che passa attraverso tutto il corpo sociale, molto più che come un’istanza negativa che avrebbe per funzione di reprimere 3.»
Le discipline incanalano le pulsioni in modo da depotenziare la minaccia insita in un comportamento giudicato “scorretto” o “pericoloso”. Si può affermare, pertanto, in maniera estremamente schematica, che il potere è la capacità di produrre o indurre un effetto o un comportamento su una o più persone sulla base del reticolo di relazioni e che nei risultati ottenuti risiede la realizzazione dell’effetto del potere 4.
Per Foucault il potere è una forma di sapere positivo, perché crea una forma di conoscenza 5. La capacità di estrarre informazioni dalla situazione contingenziale e dalla popolazione permette, infatti, di individuare la tecnica più adeguata di applicazione del potere. La tecnica è necessaria per ottenere l’efficacia dell’azione. L’efficacia viene ottenuta esercitando un controllo sul modo operativo, sul come sono condotte le attività per renderle efficienti individuando delle tecniche generali che guidino l’azione. Allo stesso tempo instaurando una sorveglianza gerarchica fra i vari possessori del potere al fine di pianificare ed ottimizzare l’azione. Pertanto, se è vero che il potere è insito in ogni relazione, è anche vero che la capacità di saperlo esercitare deriva dal possesso di informazioni e conoscenze che danno luogo alla tecnica di applicazione. È quest’ultimo aspetto che definisca il potere in maniera definitiva.
Foucault indicava nell’idea del Panopticon (1791) del filosofo britannico Jeremy Bentham (1748 – 1832) l’emblema del funzionamento delle discipline.
Nell’idea benthamiana, il Panopticon era un meccanismo per dare vita a delle esperienze che modificassero il comportamento del singolo, addestrandolo e recuperandolo attraverso un modello di funzionamento che potesse essere riprodotto in numerosi contesti. Scopo del Panopticon era modificare il comportamento grazie all’influenza che l’ambiente avrebbe esercitato sul soggetto, in quanto col tempo il comportamento desiderato sarebbe stato fatto proprio dal condannato 6.
L’esempio più noto del funzionamento del Panopticon è quello del progetto della prigione da cui prende il nome. In questo luogo di reclusione i carcerati avrebbero dovuto essere divisi in celle separate, in uno spazio a circolo, su più piani. Al centro avrebbe dovuto esserci un’alta torre con il guardiano: i detenuti non avrebbero potuto parlare fra di loro, né sapere se dalla torre qualcuno li stesse osservando. In questo modo si sarebbe creata un’auto-sorveglianza disciplinare: non potendo verificare la presenza dei controllori, i carcerati si sarebbero sempre comportati come se questa vi fosse, rendendo così sufficiente la presenza di poche guardie.
Discipline e Guerra Fredda
In base a quanto evidenziato nelle righe precedenti si procederà adesso con un’analisi di alcuni documenti statunitensi per il confronto con l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda che evidenziano particolarmente la presenza di una mentalità disciplinare 7.
Il National Security Council 68 (NSC-68) del 1950, uno dei documenti più importanti della Guerra Fredda, sosteneva che: «affirming our values our policy and actions must be such as to foster a fundamental change in the nature of the Soviet system 8». Nell’NSC-68, come in altri documenti successivi, l’obiettivo degli Stati Uniti era quello di indurre un mutamento nella natura del nemico, senza provocarne la scomparsa come entità statale – ciò che possiamo definire come disciplinamento. Un obiettivo riscontrabile anche in documenti successivi, compreso il Defense Planning Guidance for the 1994-99, redatto nel 1992, uno dei documenti più importanti dell’immediato periodo successiva alla fine della Guerra Fredda, che definiva così la strategia del contenimento: «The containment strategy we pursued for the past forty years […] By our refusal to be intimidated by Soviet military power, we and our allies molded a world in which Communism was forced to confront its contradictions 9». L’attenzione va posta nella scelta dei termini, in questo caso «molded» e «confront» che rispettivamente indicano un’azione di “modellazione” del contesto internazionale tale da indurre l’Urss a mutare la sua natura («confront its contraddictions»), divenendo un soggetto partecipe dell’ordine internazionale parcellizzando così le istanze di controllo.
Quanto detto risulta particolarmente evidente nel seguente passaggio dell’NSC-68, in cui erano delineati gli elementi che avrebbero dovuto guidare la strategia statunitense nel confronto con l’Urss:
1. «The objectives of a free society are determined by its fundamental values and by the necessity of maintaining the material environment in which they flourish. Logically and in fact, therefore, the Kremlin’s challenge to the United States is directed not only to our values but to our physical capacity to protect their environment. […]
2. It is only by practical affirmation, abroad as well as at home, of our essential values, that we can preserve our own integrity, in which lies the real frustration of the Kremlin design.
3. But beyond thus affirming our values our policy and actions must be such as to foster a fundamental change in the nature of the Soviet system, a change toward which the frustration of the design is the first and perhaps the most important step. Clearly it will not only be less costly but more effective if this change occurs to a maximum extent as a result of internal forces in Soviet society 10.»
Riconoscendo l’importanza dell’ambiente nel determinare i comportamenti degli individui e della popolazione, l’NSC-68 sottolineava la necessità di «mantenere» un ambiente favorevole al proliferare di quei valori considerati positivi. Difatti la sfida del Cremlino non si dirigeva, secondo l’NSC-68, solamente ai valori statunitensi, ma all’«environment». Pertanto, l’NSC-68 sottolineava l’importanza di garantire la stabilità interna agli Stati Uniti e nei paesi alleati o comunque non allineati con l’Urss, perché tale stabilità interna avrebbe consentito la creazione di quello che possiamo definire come equilibrio competitivo: il mantenimento di una situazione di pace con l’Urss cercando, al contempo, di creare un ambiente internazionale che fosse sempre più sfavorevole a Mosca così da indurla a un mutamento nella sua natura, al disciplinamento. Come sottolineava Henry Kissinger in uno scritto del 1969, se in passato il «balance of power» era raggiunto in maniera territoriale, cioè la superiorità veniva affermata attraverso la conquista, durante la Guerra Fredda il potere di uno Stato derivava dal controllo che questo esercitava all’interno del proprio territorio: «In other words, the really fundamental changes in the balance of power have all occurred within the territorial limits of sovereign states 11».
Su questo aspetto è particolarmente chiaro l’NSC-68:
«As for the policy of “containment,” it is one which seeks by all means short of war to (1) block further expansion of Soviet power, (2) expose the falsities of Soviet pretensions, (3) induce a retraction of the Kremlin’s control and influence, and (4) in general, so foster the seeds of destruction within the Soviet system that the Kremlin is brought at least to the point of modifying its behavior to conform to generally accepted international standards 12.»
La scelta dei termini e, quindi, del regime discorsivo è particolarmente chiarificatrice. L’NSC-68 poneva un primo accento sulla necessità di «bloccare» l’espansione del potere sovietico, esponendo la falsità delle sue pretese, quindi mantenere una situazione di equilibrio che era però competitiva. Difatti l’NSC-68 parlava di «indurre» un ridimensionamento della sfera sovietica e, in generale, di «promuovere» ciò che avrebbe modificato la condotta del Cremlino in modo da «conformare» il «comportamento» agli standard internazionali.
La scelta dei termini è esemplificativa anche di come nelle strategie statunitensi si pensasse al comportamento dell’Unione Sovietica come al comportamento di un individuo, ad esempio nella scelta del termini «behavior» anche perché, come l’NSC-68 stesso sottolineava, dietro al comportamento di uno Stato vi sono le molteplicità umane. Si trattava, quindi, di un conflitto che coinvolgeva la sfera delle mentalità, una guerra culturale e delle idee. Pertanto, la creazione dell’equilibrio competitivo passava dalla creazione di un sistema relazionale fondato su una serie di meccanismi e accordi volti a creare un’interdipendenza economica, politica valoriale, anche con programmi di diplomazia culturale e di propaganda. Tale sistema relazionale corrisponde in parte a ciò che è stato definito dal politologo Joseph Nye come soft power, la cui essenza risiederebbe nella capacità di cambiare i comportamenti degli Stati: «Proof of power lies not in resources but in the ability to change the behavior of states 13». Il soft power crea interdipendenza, comprensione e attrazione non solamente tra i soggetti istituzionali, ma andando ad agire sui cittadini, promuovendo anche l’azione dei privati, portando in questo modo alla parcellizzazione delle istanze di controllo 14.
Ritornando all’analisi terminologica, un verbo particolarmente importante, anche per la sua persistenza nei documenti, è «to maintain» (mantenere). Lo si è visto anche nell’NSC-68:«The objectives of a free society are determined by its fundamental values and by the necessity of maintaining the material environment in which they flourish». Preservare l’ordine è la premessa per indurre il mutamento comportamentale, motivo per cui le strategie statunitensi si concentrarono sul mantenimento dell’ordine internazionale. Questo aspetto si basava su un punto fondamentale: che vi fosse un bilanciamento interno ed uno esterno, in quanto essi erano interdipendenti. Il primo era necessario per la proiezione globale, perché senza un controllo del proprio Paese la conduzione di una guerra sarebbe stata difficile. Inoltre, la stessa ricerca dell’equilibrio al di fuori degli Stati Uniti era funzionale alla propria preservazione, perché al mutamento dell’equilibrio avrebbe corrisposto una minaccia alla stabilità interna degli Stati Uniti – si pensi, ad esempio, alla teoria del domino 15. John F. Kennedy, ad esempio, in un discorso del 1963 in cui giustificava la necessità dell’impegno politico, militare ed economico statunitense, sottolineava come l’interesse nazionale e la sicurezza statunitense fossero legate al «preserving and protecting a world of diversity» in cui nessuno Stato avrebbe potuto minacciare la situazione di equilibrio, perché ciò avrebbe indebolito la sicurezza internazionale, motivo per cui l’impego di Washington era considerato una forma di azione anche preventiva:
«The reason that we moved so far into the world was our fear that at the end of the war, and particularly when China became communist, that Japan and Germany would collapse, and these two countries which so long served as a barrier to the Soviet advance and the Russian advance before that would open up a wave of conquest of all of Europe and all of Asia, and then the balance of power turning against us we would finally be isolated and ultimately destroyed. That is what we have been engaged in for 18 years, to prevent that happening, to prevent any one monolithic power having sufficient force to destroy the United States 16.»
Anche Henry Kissinger, allora consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Gerald Ford, in un bollettino del dipartimento di Stato in cui si discuteva sul conflitto in Angola affermava concetti simili: «if we do not exercise our responsibilities to maintain the international balance, if Congress and the executive are unable to act in concert when vital national interests are affected, then world security may well be seriously undermined 17». Oppure, come affermò più esplicitamente in Diplomacy, una fonte retrospettiva perché il volume è stato pubblicato nel 1994 ma comunque utile:
«Once the Soviet Union could no longer count on permanent hostility between the world’s most powerful and most populous nations – even more so if the two were actually perceived as having started to cooperate – the scope for Soviet intransigence would narrow and perhaps evaporate 18.»
Per garantire la stabilità interna di uno Stato e quindi l’equilibrio competitivo le strategie approntate da Washington prevedevano, inoltre, la creazione di programmi che investivano nella formazione delle forze di polizia e di eserciti locali, addestrando i quadri delle polizie dei vari paesi presso l’International Police Academy di Washington D.C. sia direttamente nei paesi stessi, ma anche approntando piani specifici per gli addestramenti come il NSC 1290-d Program dell’amministrazione Eisenhower e proseguito poi da Kennedy, che si rivolgeva a Corea, Giappone e Filippine 19. Al contempo, erano previste covert operations – come l’OPLAN 34A del 1961 rivolto ai vietnamiti del Nord per persuaderli che era nel loro interesse economico desistere dall’aggressione nel Vietnam del Sud – e ricognizioni aree, così che la sorveglianza fosse permanente e, al contempo, difficilmente o non verificabile. La difesa si combinava così con un obiettivo strategico: creando una forma di pressione sul nemico cercare di indurlo al riconoscimento di un sistema di controllo reciproco – si pensi al piano Open Skyes di Eisenhower e agli accordi sulla limitazione degli armamenti firmati da Stati Uniti e Unione Sovietica 20.
Un documento particolarmente esplicativo che mostra la continuità dell’elemento disciplinare nella Guerra Fredda è il National Security Decision Directive 75 (NSDD-75) del 17 gennaio 1983. Secondo il NSDD-75 Washington sarebbe potuta intervenire per ristabilire l’ordine se questo fosse stato a rischio, anche se l’intervento era da ritenere improbabile visto che la creazione di questo sistema avrebbe dovuto funzionare da deterrenza, disciplinando i vari Stati. Nell’NSDD-75 si leggeva al riguardo: «The U.S. effort in the Third World must involve an important role for security assistance and foreign military sales, as well as readiness to use U.S. military forces where necessary to protect vital interests and support endangered Allies and friends». Al contempo, l’NSDD-75 preveda la creazione di un ambiente “della visibilità” che avrebbe servito il duplice scopo del «contain and over time reverse soviet expansionism» e dello «shaping the environment in which Soviet decisions are made 21». L’NSDD-75 auspicava la creazione di un equlibrio compettivo attraverso un ambiente globale gradualmente sempre più sfavorevole all’URSS:
«There are a number of important weaknesses and vulnerabilities within the Soviet empire which the U.S. should exploit. U.S. policies should seek wherever possible to encourage Soviet allies to distance themselves from Moscow in foreign policy and to move toward democratization domestically. The primary U.S. objective in Eastern Europe is to loosen Moscow’s hold on the region 22».
In questo modo, secondo l’NSDD-75, Washington avrebbe promosso il «process of change in the Soviet Union toward a more pluralistic political and economic system in which the power of the privileged ruling elite is gradually reduced 23» in modo che Mosca entrasse in un processo di cambiamento della sua natura dovuto alla creazione di un ambiente globale sfavorevole anche per la condivisione o parcellizzazione delle istanze di controllo:
«In Europe, the Soviets must be faced with a reinvigorated NATO. In the Far East we must ensure that the Soviets cannot count on a secure flank in a global war. Worldwide, U.S. general purpose forces must be strong and flexible enough to affect Soviet calculations in a wide variety of contingencies. […] Creating a long-term Western consensus for dealing with the Soviet Union [..] will require that the U.S. take Allied concerns into account, and also that U.S. Allies take into equal account U.S. concerns 24.»
Facendo un passo indietro, gli elementi disciplinari che abbiamo individuato fino ad ora si ritrovano anche nella strategia approntata da Richard Nixon del «containement without isolation», il cui scopo rimaneva quello di indurre un cambiamento interno in uno Stato nemico, così da depotenziarne la possibile minaccia. Come spiegava Nixon:
«We need a positive policy of pressure and persuasion, of dynamic detoxification, a marshaling of Asian forces both to keep the peace and to help draw off the poison from the Thoughts of Mao. […]
Dealing with Red China is something like trying to cope with the more explosive ghetto elements in our own country. In each case a potentially destructive force has to be curbed; in each case an outlaw element has to be brought within the law; in each case dialogues have to be opened; in each case aggression has to be restrained while education proceeds 25.»
Si trattava di attuare una forma di «pressione e di persuasione» che portasse a una disintossicazione dai pensieri maoisti in Cina, una forma di «education» delle mentalità e dei comportamenti. Si trattava di incanalare delle pulsioni (le «forze potenzialmente distruttive») per ricondurle nel perimetro della legalità, depotenziandone così la minaccia. L’aspetto che la citazione di Nixon mette in luce è nella volontà di non volere la dissoluzione della Cina maoista, ma nel volere gestire una forma di “illegalismo”. Del resto, Nixon paragonava la Cina ai ghetti che possiamo definire come forme di «illegalismo controllato» se guardiamo a questa citazione di Michel Foucault:
«Que le système pénal ne soit pas véritablement, malgré les ordres qu’il se donne, un appareil de répression des délits, mais un mécanisme de gestion, d’intensification différentielle, de diffusion des illégalismes, de contrôle et de distribution de ces différents illégalismes. […] Le problème, ce n’est pas l’amour des gens pour l’illégalité, le problème c’est : le besoin que le pouvoir peut avoir de posséder les illégalismes, de contrôler ces illégalismes, et d’exercer son pouvoir à travers ces illégalismes. Que cette utilisation des illégalismes se fasse par la prison ou se fasse par le « Goulag », je crois que de toute façon le problème est là : peut-il y avoir un pouvoir qui n’aime pas l’illégalisme? 26»
Per quanto le strategie statunitensi auspicassero il raggiungimento di un’era di pace non prevedevano la fine degli “illegalismi” – non sarebbe, peraltro, stato realistico – e, inoltre, essi erano necessari, all’interno degli Stati Uniti come all’esterno, al funzionamento stesso del potere che non si basava – quantomeno non solamente – sulla repressione, ma sulla gestione, l’incanalamento di determinate pulsioni in favore del disciplinamento. Si trattava di trovare forme di accordo, ad esempio in seno alle Nazione Unite o con i trattati sugli armamenti, mantenendo una situazione di equilibrio costante attraverso le discipline, una situazione sotto questo punto di vista potenzialmente precaria.
Il policing the military
«We covet no territory, we seek no dominion, we fear no nation, we despise no people. With our arms we seek to shelter the peace of mankind. […] We are armed, not for conquest, but to insure our own security and to encourage the settlement of international differences by peaceful processes. […] We Americans are responsible not only for our own security but, in concert with our Allies, for the security of the Free World. Upon our strength and our wisdom rests the future not only of our American way of life, but that of the whole society of free men 27.»
«Campaigns of conquest are contrary to the policy of the Government of the United States. […] The United States forces seek to restore domestic tranquility as soon as possibile 28.»
Le due citazioni sono esplicative di una questione che è emersa implicitamente nelle pagine precedenti: quella dell’impiego dell’esercito statunitense nel contesto della Guerra Fredda come parte di quel sistema disciplinare che abbiamo descritto. La prima citazione è del presidente Lyndon B. Johnson e risale al 18 gennaio 1965, quando iniziava l’impegno boots on the ground dei soldati statunitensi in Vietnam. La seconda è tratta dallo Small Wars Manual, uno dei manuali dato in dotazione all’esercito degli Stati Uniti dal 1940 in poi. Entrambe mettono in risalto come l’impegno militare statunitense non fosse volto ad annettere nuovi territori come nella concezione “classica” dell’impiego dell’esercito, ma di vigilare, preservare e restaurare l’ordine internazionale. È una posizione che si ritrova anche nei documenti relativi alla Guerra Fredda, come il seguente Position Paper del 1950 preparato per la delegazione statunitense all’ONU dove centrale è il termine «restoration»:
«Accordingly, while seeking to keep the conduct of the fighting in Korea and the restoration of its peace and security in the hands of the Security Council, we should urge that the Assembly make recommendations for the post-hostilities period which would include a reiteration of the principle that Korea should be united under a free and independent national government 29.»
Anche nel caso del breve conflitto di Grenada del 1983 Ronald Reagan sottolineò come «America seeks no new territory, nor do we wish to dominate others 30». In particolare, Reagan motivò ai suoi concittadini l’intervento ponendo l’accento sulla necessità di «proteggere» delle vite, «di prevenire» destabilizzazioni ulteriori e quindi per «restaurare» le «condizioni di legge ed ordine» su Grenada:
«We have taken this decisive action for three reasons. First, and of overriding importance, to protect innocent lives, including up to a thousand Americans, whose personal safety is, of course, my paramount concern. Second, to forestall further chaos. And third, to assist in the restoration of conditions of law and order and of governmental institutions to the island of Grenada. […] 31.»
La concezione d’impiego dell’esercito statuitense che sottintende a queste citazioni, volta a ristabilire e mantenere l’ordine e la sicurezza internazionali, è ciò possiamo definire come policing the military. Si tratta di una concezione simile a quella del ruolo della polizia. 32
Secondo il criminologo canadese Jean-Paul Brodeur la polizia, a differenza dell’esercito, interviene non per ottenere una vittoria definitiva, ma per ristabilire l’ordine interno a un Paese 33. Per questo motivo la polizia, tramite la sua azione, non applica ma crea e/o mantiene l’ambiente in cui la legge possa essere applicata, cioè preserva l’ordine all’interno del quale le norme trovano realizzazione 34. Se è vero che l’esercito americano cercava una vittoria definitiva all’interno del Paese in cui interveniva, è anche vero che lo faceva per ristabilire l’ordine globale minacciato in una specifica regione del mondo, al fine di mantenere l’equilibrio competitivo. Il policing the military è, pertanto, l’uso dell’esercito per ristabilire l’equilibrio all’interno della Guerra Fredda.
Torniamo all’esempio di Grenada. Riportare l’ordine su un isola in cui il potere era stato preso illegalmente e in cui erano commesse delle uccisioni significava impiegare l’esercito con funzioni di policing, anche perché il regime da combattere era qualificato come «outlaw», come era infatti definito nel National Decision Directive 110 A (NSD-110A) del 1983, in quanto aveva infranto l’ordine internazionale – si rammenti che anche Nixon aveva paragonato i nemici, in quel caso la Cina, a qualcosa che aveva a che fare con l’illegalità, i « the more explosive ghetto elements». Il ricorso all’espressione «outlaw», che nell’NSD-110A venne fatto sulla scorta di una condanna collettiva da parte dei paesi caraibici e degli States, aveva il duplice scopo di squalificare il regime e fornire una base concreta di intervento sull’isola con una missione, appunto, di policing: «These Caribbean democratic nations have unanimously and formally resolved to form a multi-national Caribbean force to remove “the outlaw regime on Grenada” and restore democracy by any means, including force of arms35».
A quanto detto è necessario aggiungere un aspetto, relativo alla funzione disciplinare della polizia, sottolineato da Michel Foucault in Sorvegliare e Punire:
«[La polizia] al suo ruolo di ausiliaria della giustizia nella ricerca dei criminali e di strumento per il controllo politico dei complotti, dei movimenti di opposizione o delle rivolte, aggiunge una funzione disciplinare. Funzione complessa perché unisce il potere assoluto del sovrano alle più piccole istanze di potere disseminate nella società; perché, tra le differenti istituzioni disciplinari chiuse (fabbriche, esercito, scuole), tende una rete intermedia, agente là dove quelle non possono intervenire, disciplinando gli spazi non disciplinari: essa li ricopre, li collega fra di loro, li garantisce con la sua forza armata. La polizia […] fa corpo, per la sua estensione e i suoi meccanismi, con la società di tipo disciplinare 36.»
Sulla base di quanto affermato da Foucault possiamo sostenere che l’esercito statunitense nella Guerra Fredda rappresentava la rete intermedia che, al di là della funzione repressiva (ottenere una vittoria definitiva sui Vietcong, ad esempio) possedeva anche una funzione disciplinare garantendo la sorveglianza (ad esempio con lo spionaggio, i sistemi radar, aerei e sottomarini di monitoraggio da possibili attacchi missilistici e di altro tipo) prevedendo la possibilità di agire all’interno del Paese occupato o soggetto al conflitto per contribuire a ristabilire l’ordine anche con funzioni di polizia. Tale possibilità era stata prevista anche dallo Small Wars Manual ed era stata implementata, con una serie di piani, anche nella Guerra di Corea. Già nel 1950, infatti, i documenti sostenevano che lo scopo di una eventuale momentanea occupazione militare sarebbe stato di «facilitate public order, economic rehabilitation and the democratic mode of life in the area and to prepare the way for the unification of the free and independent Korea 37».
Fondamentale sarebbe stato, pertanto, il rafforzamento delle istituzioni democratiche e dell’economia, ma anche la creazione di forze dell’ordine in grado di garantire la sicurezza interna e, in caso di sconfitta nord-coreana, capaci di ristabilire l’ordine nel Nord 38.
Sotto questi punti di vista, l’impiego dell’esercito statunitense all’interno dei conflitti di Corea e Vietnam, ma è un discorso che può essere esteso anche all’invasione di Grenada del 1983, prevedeva, oltre alle funzioni militari e di combattimento “classiche” riservate alle forze armate, un ruolo intermediario e capillare dell’esercito volto a stabilizzare il Paese in cui era intervenuto, agendo in tal senso come rete intermedia 39. L’idea era di nuovo che controllando l’ambiente, in questo caso interno allo Stato occupato, garantendo la sicurezza alla popolazione questa avrebbe collaborato con le forze di occupazione, creando così un ambiente ostile al nemico che sarebbe stato così sconfitto. Come sintetizzava in tal senso un consulente britannico in Vietnam nel 1962:
«This is a battle for the control of the villages and the protection of the population. If security and Government control are restored, then, with the assistance of the people themselves, the elimination of the Vietcong will automatically follow. The Vietcong cannot exist unless they can intimidate and gain the support of elements in the population 40.»
Al contempo, lo sviluppo di forze dell’ordine locali e di un esercito vietnamita avrebbe rappresentato la realizzazione “autoctona” della rete intermedia per una maggior vigilanza sulla popolazione al fine di «isolate insurgents and sympathizers from the support of the populace 41». Per Washington era infatti necessario eliminare il controllo e la direzione insurrezionale che i vietcong potevano avere nei vari territori, così da erodere i margini di consenso del nemico 42.
Nel corso di questo articolo si è cercato di mostrare, attraverso una scelta di alcuni documenti, la presenza delle discipline nelle strategie che guidarono il confronto statunitense con l’Unione Sovietica. In particolare, ci si è concentrati su come queste strategie sfruttassero l’ambiente internazionale e interno agli Stati per creare quello che abbiamo definito come equilibrio competitivo che portasse, nel tempo, ad un disciplinamento – cioè un mutamento comportamentale – del nemico. Si è mostrato, infine, come l’impiego dell’esercito statunitense adottasse una funzione di policing coerente con il sistema disciplinare da noi descritto. Né l’esercito stesso, né la politica nei suoi rami più alti concepivano gli interventi militari come finalizzati all’annessione. Anche l’analisi lessicale conferma tale posizione: la parola usata non era mai «conquest», ma «occupation». Una volta occupato il territorio, si progettava una messa in sicurezza della popolazione al fine di portare gli abitanti a identificarsi con il governo sostenuto dagli Stati Uniti. Il ristabilimento della legge e dell’ordine era considerato di vitale importanza e, come mostra lo Small Wars Manual, uno dei compiti centrali affidati all’esercito che diveniva in questo modo la «rete intermedia 43». Per tutti questi motivi, quindi, l’esercito americano non aveva altra funzione che di prevenire o ristabilire un ordine in funzione del mantenimento della sicurezza internazionale, esattamente come la polizia doveva fare all’interno del Paese. Ecco perché definisco questo processo policing the military. Un processo che riguardava il modo di intendere l’utilizzo delle forze armate. Queste, pur continuando ad attuare un management della violenza in campo esterno in una situazione di guerra, miravano appunto a ristabilire l’ordine o a prevenirne una sua caduta, così da garantire l’equilibrio competitivo che, sul medio-lungo periodo, avrebbe condotto ad un disciplinamento dell’Unione Sovietica.
Discipline e teoria delle relazioni internazionali: una proposta per l’oggi
Obiettivo delle discipline è indurre un mutamento nella natura di uno o più soggetti, così da renderli partecipi del sistema in cui sono calati, cioè soggetti responsabili e portatori delle istanze di controllo. Se applichiamo questo principio teorico alle relazioni internazionali odierne affermeremo che l’obiettivo di una strategia disciplinare, che per comodità definiremo panoptismo, è quello d’indurre uno Stato a mutare la sua natura, portandolo ad accettare un determinato sistema di regole e, quindi, a essere un partner internazionale affidabile e compartecipe del mantenimento dell’ordine. Per ottenere questo scopo è necessario attuare forme di pressione più o meno percepibili sullo Stato avverso senza però arrivare a un conflitto armato, anche se la forza militare può servire a mettere in pratica forme di pressione e di deterrenza prevedendo, inoltre, la possibilità di un intervento militare corrispondente al policing the military. Quanto detto è ciò che abbiamo definito come equilibrio competitivo.
Fondamentale in questa strategia è il possesso di informazioni volto a creare un sapere positivo sulla cui base determinare le modalità operative che suddividiamo su tre livelli – la creazione di un contesto internazionale sfavorevole all’avversario; la popolazione dello Stato avverso; l’azione rivolta verso il governo avversario – a livello tattico ma riunite a livello strategico.
Centrale sarà pertanto esercitare forme di controllo, di spionaggio e infiltrazione: essere, cioè, coestensivi alla realtà avversa e inverificabili nella propria presenza. Al contempo, i vertici dello Stato avverso e le sue intelligence devono avere contezza della capillarità della presenza dello spionaggio, perché essa stessa può indurre una forma di disciplinamento. La raccolta di informazioni e l’investimento nella conoscenza della storia di un’area geografica deve essere inoltre funzionale alla creazione o al mantenimento di una rete di alleanze globali e macroregionali che siano di tipo militare ed economico – in questo coinvolgendo anche i privati – e che favoriscano programmi di scambio interculturali. Si tratta di creare un ambiente internazionale vantaggioso e attrattivo per i suoi benefici anche per la popolazione nemico così da erodere la fonte di legittimazione del regime. Sulla base di questi aspetti si cercheranno il dialogo e gli accordi, anche sfruttando la tecnica dei linkage che creano un legame tra i progressi nei rapporti al comportamento dell’avversario in un altro ambito, con l’avversario. È ciò che possiamo definire come soft power, la capacità di ottenere dei risultati attraverso l’attrazione – generata dall’intreccio tra cultura, ideali politici e politiche – e seduzione che creerebbero legittimazione, due aspetti fondamentali per indurre Stati e popolazioni a essere ben disposti nei propri confronti 44.
Un aspetto fondamentale delle discipline sono le mentalità, perché il disciplinamento dei comportamenti è essenzialmente un mutamento che riguarda i sistemi di pensiero, quindi i pattern culturali 45. Sotto questo punto di vista, il panoptismo è essenzialmente una teoria volta a evitare la deflagrazione dei conflitti mettendo in atto una guerra delle idee, cioè della legittimità di determinate posizioni, nella consapevolezza che lo Stato-Nazione e la nozione di popolo sono comunità immaginate che abbisognano di un processo di costruzione e legittimazione costante 46. Pertanto, nel panoptismo è fondamentale sviluppare delle strategie di propaganda che implementino il soft power di uno Stato o di un’alleanza.
Come le discipline, la propaganda è un sapere positivo che incanala le pulsioni, depotenziando le minacce, inducendo un mutamento nei pensieri e nelle azioni creando una narrazione sulla base degli elementi valoriali disponibili attingendo sia da quelli che si vogliono proteggere e diffondere, sia a quelli da sostituire o modificare. In questo senso la propaganda non crea qualcosa di nuovo: si limita a trasformare, a indirizzare le pulsioni e i desideri in maniera favorevole al propagandista che “gioca” sulla nozione di verità, cioè l’insieme di informazioni che si ricavano dalle notizie, dal sentito dire, e così via su un determinato fenomeno 47. Le strategie di propaganda e soft power dovranno, pertanto, rivolgersi alla popolazione, prevedendo anche strategie di contropropaganda, cercando di incanalare gli elementi sfavorevoli allo Stato avverso in forme di protesta e, in generale, di indebolimento delle posizioni avversarie, così da indurre un mutamento nella classe dirigenziale.
Concludendo, il panoptismo è una strategia che auspica un disciplinamento creando un ambiente internazionale gradualmente sempre più sfavorevole all’avversario. Centrale è il mantenimento dell’equilibrio interno al proprio Stato, con una coincidenza valoriale tra azione interna ed esterna, negli Stati alleati e rivolta alla popolazione nemica, obiettivi raggiungibili con lo sviluppo di: forme di propaganda e contropropaganda (sfruttando in particolare le tecnologie informatiche e i social) che espongano le falsità delle affermazioni nemiche e, sfruttando i sentimenti della popolazione di una data regione, creino un sentimento di comprensione e alleanza a proprio vantaggio; di soft power, dove comprendiamo anche i programmi di scambio culturale e di aiuto alla popolazione, ma anche attraverso la creazione di sistemi di alleanza economico, militare, politico. Al contempo, l’esercito può essere utilizzato sia in funzione di policing, sia in funzione di deterrenza anche sviluppando strategie di suddivisione spaziale del globo in aree di controllo, difesa e, quindi, pressione e frustrazione dei disegni avversari. Ci riferiamo, ad esempio, alle strategia di Anti-Acess/Area Denial (A2/D2) strategie difensive e di pressione che suddividono lo spazio in “bolle” volte a impedire il raggiungimento di una zona strategica da parte del nemico (Anti-Access) e sugli ostacoli che possono essere imposti alla capacità di movimento del nemico qualora esso riesca a penetrare nel territorio alleato (Area Denial) 48. Fondamentale, come abbiamo accennato, sono anche le azioni di spionaggio e infiltrazione, cui aggiungiamo l’indispensabile sorveglianza esercitabile con sistemi difficilmente verificabili nella loro presenza (droni, satelliti e aerei spia, informatica) che marcano una differenza rispetto al passato e che in questa sede possiamo solamente accennare considerata la vastità dell’argomento. In questo modo si eroderanno gli spazi di legittimità avversaria portando al disciplinamento delle istituzioni governative avverse.
Note
- Michel Foucault, Sorvegliare e Punire Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 2014 (ed. or. 1975), p. 237.
- M. Foucault, Sorvegliare e Punire cit., pp. 237-241.
- Michel Foucault (a cura di Alessandro Fontana e pasquale Pasquino), Microfisica del potere. Interventi politici, Torino, Einaudi, 1977, p. 13.
- Foucault ha parlato ampiamente del concetto di potere, rimando in particolare a: Sicurezza, Territorio, Popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Milano, Feltrinelli, 2005 e al già citato Microfisica del potere. Si veda, inoltre l’introduzione (con Michelle Perrot) al Panopticon di Jeremy Bentham in Panopticon, Ovvero la Casa dell’Ispezione, Venezia, Marsilio, 1983, quest’edizione del Panopticon è quella che è stata maggiormente utilizzata per la stesura dell’articolo.
- Come noto, il pensiero foucaultiano si è poi sviluppato in direzione del paradigma securitario o della “governamentalità”: uno sviluppo utile anche per il nostro contesto in vista di studi futuri. Tra i diversi spunti di Foucault si veda: “Il faut défendre la société”. Cours au Collège de France, 1975-1976, Parigi, Gallimard-Seuil, 1997.
- Sul Panopticon e Bentham esiste un’ampia letteratura, mi limito pertanto a segnalare il testo per me di riferimento che ha il pregio di analizzare la questione includendovi anche Foucault: Anne Brunon-Ernst (a cura di), Beyond Foucault. New perspectives on Bentham’s Panopticon, Burlington, Ashgate, 2012.
- Trattandosi di un ampio periodo storico e avendo a disposizione un’ampia mole documentaria si è optato per questa scelta che lascia da parte molta della complessità storica che sta dietro i documenti e l’arco di tempo che intercorre tra di loro. La letteratura scientifica sulla Guerra Fredda è molto ampia, mi sono appoggiato in particolare sugli studi di Odd Arne Westad e Melvyn Leffler, in particolare la Cambridge History of the Cold War. Volume I- III (Cambridge, Cambridge University Press, 2010) da loro curata, Mario Del Pero (tra cui segnalo Libertà e Impero. Gli Stati Uniti e il mondo. 1776-2011, Bari, Editori Laterza, 2011), Federico Romero (tra cui segnalo Storia della guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2009), John Lewis Gaddis (in particolare Strategies of Containment. A Critical Appraisal of American Security Policy During the Cold War, New York, Oxford University Press, 2005, ed. or. 1982). tra gli altri.
- In: Harry S. Truman Library and Museum, Ideological Foundations of the Cold War, President’s Secretary’s Files, A Report to the National Security Council – NSC 68, 12 Aprile 1950, p. 9 (da ora in poi abbreviato in NSC-68). Tutti i link sono stati controllati un’ultima volta il 4 giugno 2025.
- In: U.S. Department of Defense, National Archives, Defense Planning Guidance , FY 1994-99, 16 aprile 1992, pp. 4-5.
- In: NSC-68, p.9.
- In: Foregin Relations of the United Sates (d’ora in poi abbreviato in FRUS) Essay by Henry A. Kissinger, gennaio 1969, 1969-1972, in: Foundations of Foreign Policy, Vol. I, p.26.
- In: NSC-68, p. 21.
- Joseph S. Nye, Soft Power, in: “Foreign Policy”, LXXX (1990), pp. 153 – 171. Si veda anche: Liam Kennedy, Scott Lucas, Enduring Freedom: Public Diplomacy and U.S. Foreign Policy, in: “American Quarterly,” Vol. 57, N. 2, Giugno 2005, pp. 309-333 e Jan Melissen, (a cura di), The New Public Diplomacy. Soft Power in International Relations, New York, Palgrave Macmillan, 2005.
- Joseph Nye Jr., Soft Power. The Means to Success in World Politics, New York, Public Affairs, 2004.
- Tra i vari documenti si segnalo: The American Presidency Project (APP), Dwight D. Eisenhower, The President’s News Conference, 7 aprile 1954. Per la Teoria del Domino si rimanda a: Frank Ninkovich, Modernity and Power: A History of the Domino Theory in the Twentieth Century, Chicago, Chicago University Press, 1994.
- In: APP, John F. Kennedy, Address in Salt Lake City at the Mormon Tabernacle, 26 Settembre 1963, corsivo mio.
- In: Department of State Bulletin, Vol. 74, N. 1912, 16 febbraio 1975, p. 181-182.
- Henry Kissinger, Diplomacy, New York, Simon and Schuster, 1994, p. 719.
- In: Dwight D. Eisenhower Presidential Library, NSC 1290-d program, Box 1, NSC Series, Dwight D. Eisenhower’s Papers as President (Ann Whitman File). Si veda anche Jeremy Kuzmarov, Modernizing Repression. Police Training and Nation-Building in the American Century, Amherst and Boston, University of Massachusetts Press, 2012, p.9 e seguenti.
- James J. Marquardt, Transparency and Security Competition: Open Skies and America’s Cold War Statecraft, 1948-1960, in: “Journal of Cold War Studies,” Vol. 9, N. 1, 2007, pp. 55-87.
- In: Ronald D, Reagan Library and Archives, National Security Decision Directive 75 (NSDD-75), U.S. relations with the USSR, 17 gennaio 1983, pp. 2-4.
- In: Ronald D, Reagan Library and Archives, National Security Decision Directive 75 (NSDD-75), U.S. relations with the USSR, 17 gennaio 1983, pp. 2-4.
- In: NSDD-75, pp.1-2.
- Ivi, pp. 2 – 7.
- In: FRUS, Article by Richard M. Nixon, ottobre 1967, 1969-1972, Foundations of Foreign Policy, p.19.
- Jean-Paul Brodeur, Alternatives à la prison: diffusion ou décroissance du contrôle social? Une entrevue avec Michel Foucault, in: “Criminologie”, Vol. 26, N. 1, 1993, pp. 13-34. Non è possibile affrontare l’argomento in questa sede, ma si tenga di conto che tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta negli Stati Uniti nascevano gli studi di prevenzione del crimine in ambito urbanistico che volevano sfruttare l’ambiente per indurre forme di disciplinamento, ad esempio il Crime Prevention Through Environmental Design (1971), il Defensible Space (1971) e la Broken Windows Theory (1982). Al contempo, fu alla fine degli anni Sessanta che negli Stati Uniti iniziò a svilupparsi il fenomeno della militarizzazione della polizia, su questa si veda: Peter B. Kraska e Victor E. Kappeler, Militarizing American Police: The Rise and Normalization of Paramilitary Units, in : “Social Problems,” Vol. 44, N. 1, Febbraio 1997, pp. 1-18; Daryl Meeks, Police Militarization in Urban Areas: The Obscure War Against the Underclass, in : “The Black Scholar,” Vol. 35, N. 4, 2006, pp. 33-41; Larry Gaines, Victor Kappeler, Policing in America, Waltham, Elsevier, 2011; Abigail R. Hall e Christopher J. Coyne, The Militarization of U.S. Domestic Policing, in : “The Independent Review,” Vol. 17, N. 4, 2013, pp. 485-504.
- In: APP, Lyndon B. Johnson , Special Message to the Congress on the State of the Nation’s Defenses, 18 gennaio 1965.
- In: US Marine Corps, Small Wars Manual, Washington, United States Government Printing Office, 1940, cap. 1, p. 2; Cap. XII, p.2.
- In: FRUS, Position Paper Prepared for the United States Delegation to the United Nations General Assembly, 19 settembre 1950, in Frus, 1950, Korea, Vol. VII, p.741.
- In: APP, Ronald D. Reagan, Remarks to Military Personnel at Cherry Point, North Carolina, on the United States Casualties in Lebanon and Grenada, 4 novembre 1983. Una posizione simile venne riaffermata nel Remarks at a White House Ceremony Marking the First Anniversary of the Grenada Rescue Mission, 24 ottobre 1984, in APP: «Side by side, with forces from neighboring Caribbean democracies, the brave young soldiers, sailors, marines, and airmen accomplished their mission. They went to Grenada not to conquer, but to liberate, and they did».
- In: APP, Ronald D. Reagan, Remarks of the President and Prime Minister Eugenia Charles of Dominica Announcing the Deployment of United States Forces in Grenada, 25 ottobre 1983, corsivo mio.
- Come accennato alla nota 26 vi è un legame tra la militarizzazione della polizia in diversi paesi dell’area euro-atlantica (si pensi alla polizia italiana, smilitarizzata solamente con la riforma del 1981) e i fenomeni presi in esame in questo articolo. Si tratta di un argomento vasto e ancora poco studiato e che ha un ottimo punto di partenza nell’articolo, anche se ormai datato, di Philip Jenkins, Policing the Cold War: The Emergence of New Police Structures in Europe, 1946–1953, in: “The Historical Journal”, Vo.31, N.1, 1988, pp. 141-157.
- Jean-Paul Brodeur, Force policière et force militaire, in Frédéric Lemieux, Benoît Dupont (a cura di), La militarisation des appareils policiers, Saint-Nicolas, La Presses de l’Université Laval, 2005, p. 45.
- Jean-Paul Brodeur, Une police taillée sur mesure: une réflexion critique, in André Normandeau (a cura di), Une police professionnelle de type communautaire, Vol. II, Montréal, Les Éditions du Méridien, 1998, pp. 18-19. Per gli aspetti legati alla polizia e alla sua storia e al policing mi sono appoggiato in particolare agli studi di Jean-Paul Brodeur, ma si veda anche, tra i numerosi studi: Larry Gaines e Victor Kappeler, Policing in America, Waltham, Elsevier, 2011 e Markus Dubber, Mariana Valverde (a cura di), The New Police Science. The Police Power in Domestic and International Governance, Stanford, Stanford University Press, 2006. Per gli studi sull’esercito, oltre ai classici di Samuel Huntington, The soldier and the state. The theory and politics of civil-military relations, Harvard, Harvard University Press, 1981 e di Morris Janowitz, Military conflict: essays in the institutional analysis of war and peace, Beverly Hills, Sage Publications, 1975, rimando, tra la vasta letteratura: Derek Lutterbek, Between Police and Military, in: “Journal of the Nordic International Studies Association,” Vol. 39, N. 1, pp. 45-68; Thomas Weiss, The blurring border between the police and the military: A debate without foundations, in: “Sage Journals,” Vol. 46, N. 3, 2015, pp. 396-405; Zoltan Barany, The role of the military, in: ”Journal of Democracy”, Vo. 22, N. 4, 2011, pp. 24-35; Balsazs Szanto, War and International Relations. A Critical Analysis, Londra, Routledge, 2023; Mary Kaldor, Le Nuove Guere. La Violenza Organizzata nell’Età Globale, Roma, Carocci, 2013; Caroline Holmqvist, Policing Wars. On Military Intervention in the Twenty-First Century, Basingstoke, Palgrave MacMillan, 2014, Marilyn B. Young, The Vietnam Wars, 1945-1990, New York, Harper-Collins, 1991.
- In: Ronald D. Reagan Library and Archives, National Security Decision Directive 110A, 23 ottobre 1983.
- M. Foucault, Sorvegliare e punire cit., pp. 234-235.
- In: FRUS, Draft Paper Prepared in the Department of the Army, 3 ottobre 1950, in Frus, 1950, Korea, Vol. VII, p.855.
- «Then if the North Koreans surrendered, units of the South Korean constabulary could be sent in» esplicitava ad esempio il Minutes of the Sixth Meeting of the United States Delegation to the United Nations General Assembly, 25 settembre 1950, in FRUS, 1950, Korea, Vol. VII, p.772.
- Ad esempio, in un memorandum del Segretario della Difesa Robert McNamara si sottolineava, in riferimento allo sviluppo della polizia nazionale vietnamita che: «assistance should be able to take the form not only of economic and social measures but also police and military help to root out and control insurgent elements», in: FRUS, Memorandum from the Secretary of Defense (McNamara) to the President, 16 marzo 1964, in Frus, 1964-1968, Vietnam, Vol. I, p.154.
- In: FRUS, Draft Paper by the Head of the British Advisory Mission in Vietnam (Thompson), senza data, in Frus, 1961-1963, Vietnam, Vol. II, 1962, p.103.
- In: FRUS, Paper Prepared by the Country Team Staff Commitee (Counterinsurgency Plan), 4 gennaio 1961, in Frus, 1961-1963, Vietnam, Vol I, 196, p.9.
- Oltre ai documenti citati si veda anche Report of the Office of the Secretary of Defense Vietnam Task Force, United States – Vietnam Relations, 1945–1967: A Study Prepared by the Department of Defense, “Pentagon Papers”, Part IV. B.2. Evolution of the War. Counterinsurgency: the Strategic Hamlets Program, 1961-63.
- In: US Marine Corps, Small Wars Manual cit., capitolo 1, pagina 2, cap V p.13, cap 12 p. 2.
- Joseph Nye Jr. Soft Power. The Means to Success in World Politics, New York, in: “Public Affairs”, 2004, p. X.
- Per la definizione di cultura ho ripreso la definizione di Joseph Nye, secondo cui essa è l’insieme dei valori e delle pratiche che creano una cornice di significato per la società.
- Benedict Anderson, Imagined Communities, Londra, Verso, 2013 (ed. or. 1983).
- Christian Mull, Matthew Wallin, Propaganda: A Tool of Strategic Influence, in: “American Security Project”, settembre 2013.
- Trattandosi di una strategia, quello dell’A2/D2, sviluppata soprattutto nei think-thank e negli ambienti della difesa è difficile trovare studi puramente teorici sull’argomento. Si rimanda, tuttavia, allo studio di Timothy M. Bonds (et alii), What Role Can Land-Based, Multi-Domain Anti-Access/Area Denial Forces Play in Deterring of Defeating Aggression?, Santa Monica, Rand Corporation, 2017 che al di là del focus su Cina e Stati Uniti offre gli spunti teorici necessari. Non accademico, ma relativo ad un punto di vista militare è il volume di Sam J. Tangredi, Anti-Access Warfare: Countering A2/D2 Strategies, Annapolis, Naval Institute Press, 2013.
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