Bibliomanie

Editoriale
di , , numero 54, dicembre 2022, Editoriale, DOI

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Come citare questo articolo:
Mattia Arioli, Editoriale, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 54, dicembre 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.10221

In quella che è stata per anni un’opera seminale e irrinunciabile negli studi di fantascienza, Metamorphoses of Science-Fiction: On the Poetics and History of a Literary Genre (1979), il critico letterario Darko Suvin definisce questo genere – in modo tanto basilare quanto suggestivo – come «la letteratura dello straniamento cognitivo.» Quasi trent’anni più tardi, Fredric Jameson raccoglie l’intuizione di Suvin nel suo Archeologies of the Future (2005), e individua nella fantascienza una funzione «essenzialmente epistemologica», scrivendo come questo genere sia «specificamente dedicato a immaginare forme sociali ed economiche alternative.» L’approccio storico-materialista di Jameson inquadra la Speculative Fiction all’interno dei rapporti produttivi del tardo capitalismo, e, fedele alla sua visione della forma letteraria – già espressa con dovizia d’analisi nel fondamentale The Political Unconscious (1981) – ne dimostra il ruolo intrinseco di atto ideologico indissolubilmente legato alla realtà socio-politica nel quale viene ad avverarsi.
Pertanto, il genere fantascientifico diventa un potente mezzo di critica culturale grazie, soprattutto, alla sua capacità di farci abitare temporaneamente “modi altri,” fatti – per dirla con Larry McCaffery (1990) – di «distorsioni cognitive e figurazioni poetiche delle nostre relazioni sociali,» nel preciso momento in cui queste sono costruite e alterate da nuove tecnologie. Questo straniamento è spesso raggiunto attraverso l’invenzione linguistica, il ricorso all’utopia e/o distopia, ‘divergenze’ temporali (tra cui l’ucronia), dislocazioni o viaggi spaziali e mutamenti tecnologici, capaci di perturbare il lettore che percepisce una dissonanza tra il mondo fittizio della narrazione in cui è immerso e quello in cui si trova quotidianamente a vivere. Tuttavia, citando Gwyneth A. Jones (1999), la fantascienza non necessita tanto di una sospensione dell’incredulità, quanto di un continuo atto interpretativo. La fantascienza è infatti un mezzo esplorativo dell’alterità di cui il lettore è invitato a esplorare i contorni. L’autore invita consapevolmente il lettore a riflettere sulla lingua e su come significati e significanti non siano indissolubilmente legati, ma soggetti a continui mutamenti, visibili nel glossario che l’autore fornisce progressivamente al lettore al fine di permettergli di entrare nel proprio mondo narrativo. Questo processo di costruzione e decostruzione linguistica ha spesso lo scopo di rendere il lettore consapevole del fatto che la realtà in cui abita è soggetta a simili regole di costruzione di significato.
In un’epoca in cui le metanarrazioni del progresso hanno decretato la fine della storia, indicando nelle democrazie liberali e nella guida economico-tecnologica offerta dal capitalismo la vetta teleologica dell’evoluzione umana (e quindi negando di fatto la possibilità di un futuro), l’ostinazione con la quale la fantascienza continua a immaginare mondi alternativi non fa che rafforzare la tesi di Jameson. In spregio ai proclami trionfalistici con i quali l’egemonia culturale dell’Occidente continua a sostenere il proprio dominio, la fantascienza e la speculazione dimostrano come l’immaginario occidentale sia più che mai concentrato in un processo «generativo» (così lo definisce Jameson) che, investendo il presente, è capace non solo di proiettare la società al di fuori dei percorsi precostituiti, ma di re-immaginare la storia alla ricerca di narrazioni fondanti spesso schiacciate dall’imposizione del mito del progresso.
Non sorprende, quindi, l’appropriazione di questo genere da parte di gruppi marginali e subalterni, che utilizzano la fantascienza, non solo per denunciare storie di violenza (tra cui esperienze coloniali) appartenenti a un passato recente, e connesso al presente tramite forme di trasmissione intergenerazionale del trauma, ma soprattutto per immaginare nuovi scenari trasformativi ed “empowering” per la comunità. Immaginare il futuro implica molto spesso ripensare i destini di una comunità, uscendo da narrazioni apocalittiche e/o vittimarie per recuperare spazi, ruoli (di leadership) fino a quel momento preclusi. L’afro-futurismo e il futurismo indigeno sono chiari esempi di questo processo. Infatti, come discusso dal critico culturale Mark Dery (1993) «L’afrofuturismo è l’appropriazione della tecnologia e dell’immaginario della science-fiction da parte degli afroamericani [… che] equivale a fare uso di strumenti informatici freddi e ostili per trasformarli in armi utili alla resistenza di massa.» Una poetica simile si riscontra anche nelle scritture transmediali e multimediali prodotte dalle popolazioni native del Nord America, dove l’idea di testo viene estesa oltre i confini del letterario e letterato. Come evidenziato da Grace Dillon (2012), in Walking the Clouds: An Anthology of Indigenous Science Fiction, il futurismo indigeno esplora il lascito del colonialismo sull’individuo e le comunità soggiogate al fine di eliminare il suo impatto emotivo e psicologico, e poter così recuperare conoscenze e tradizioni ataviche capaci di fornire a queste popolazioni strumenti di sopravvivenza al mondo post-apocalittico in cui vivono.
Infine, è interessante notare come la fantascienza sia non solo uno strumento di empowerment, ma anche il riflesso di dibattiti (e paure) legati a particolari situazioni geopolitiche. Difatti, la fantascienza presenta spesso un’incontro-scontro con l’alterità. Ne sono un esempio i vari scenari coloniali ambientati nello spazio o il tecno-orientalismo, ovvero un approccio esotico all’alterità che legge l’innovazione tecnologica dei paesi dell’Estremo Oriente come causa di processi di sub-umanizzazione dell’individuo.
Partendo da queste premesse teoriche, il numero 54 di Bibliomanie – Fantascienza, fantastoria – raccoglie una serie di interventi che, nel dedicarsi alle forme della sci-fi, intervengono nel dibattito storico, politico e letterario per analizzare il modo in cui questo genere funziona e ha funzionato come paradigma ermeneutico e, soprattutto, come discorso epistemologico capace di produrre significati ragionando sul presente, rileggendo la storia, e immaginando il futuro.
Il saggio di Valentina Romanzi esplora come Unauthorized Bread di Cory Doctorow e Ubik di Philip K. Dick utilizzino gli strumenti dell’ironia e della satira per evidenziare le derive autoritarie e alienanti del capitalismo. Tramite il confronto di queste due opere, Romanzi mette in luce l’evoluzione dei modi di produzione e consumo tra Ventesimo e Ventunesimo secolo, mostrando come queste modifiche strutturali influiscano non solo sull’immaginario popolare e letterario, ma sulla vita quotidiana degli individui.
Cristophe Duret utilizza il romanzo Toxoplasma di Sabrina Calvo per mostrare come il Cyberpunk, a seguito della grande popolarità vissuta negli anni Ottanta del Novecento e del successivo declino individuato da critici come Arthur e Marilouise Kroker, non sia oggi da intendersi tanto come un genere inerentemente nostalgico, quanto come un meta-discorso che, attraverso un’estetica retro-futurista, continua a riflettere sui rapporti, spesso distopici e sempre problematici, tra esseri umani e tecnologie in continua evoluzione.
Domenico Elia analizza come il fumetto di Alfredo Castelli Martin Mystère utilizzi i codici dell’ucronia nella creazione di un’allegoria della Guerra fredda, coeva alla pubblicazione degli albi presi in considerazione. In particolare, Elia mostra come i miti della città perduta di Atlantide e del continente di Mu, presentati da Castelli come potenze in conflitto, vengano rielaborati in una fantastoria nella quale è possibile leggere un commento sulle complesse relazioni politiche tra Stati Uniti e Russia dagli anni Ottanta del novecento a oggi.
Il saggio di Pierre-Antonie Marti discute come i testi narrativi che usano il riferimento al mito per parlare di scienza finiscono per costruire un mito della scienza stessa. Analizzando i modi in cui la fantascienza è stata utilizzata più o meno coscientemente come veicolo di una mitopoiesi della scienza, Marti utilizza il genere come un prisma attraverso il quale leggere e interpretare i legami tra mito e scienza, tecnologia e finzione letteraria, nell’articolazione dell’idea stessa di futuro.
Sheyla Moroni volge l’attenzione ai fruttuosi legami tra utopia, distopia e visione politica analizzando il ruolo avuto dalle opere degli scrittori Ignatius Donnelly ed Edward Bellamy nell’ispirazione dell’ideologia del People’s Party statunitense. Il saggio di Moroni mette a confronto Looking Backward di Bellamy e Ceasar’s Column: A Story of the Twentieth Century di Donnelly (colti nel proprio contesto storico-politico) per mostrare come le speculazioni della fantascienza siano in rapporto potenzialmente trasformativo con il reale; potenzialità in questo caso (parzialmente) concretizzatesi nei programmi del “terzo partito” americano alla fine del Diciannovesimo secolo.
Giorgia Bosco affronta il ruolo avuto da alcune serie TV contemporanee nell’evoluzione e nell’ibridazione della fantascienza. Occupandosi nello specifico delle relazioni tra horror e sci-fi, Bosco si focalizza su True Blood, The Walking Dead e American Horror Story per dimostrare come la serialità televisiva sia a oggi uno dei luoghi di maggior fermento e sperimentazione per il genere. Il saggio illustra come le serie in questione rinnovino e amplino le possibilità della fantascienza contemporanea nell’equilibrio tra imperativi commerciali e innovazione formale, e attraverso una sapiente commistione di speculative fiction e canoni della narrativa del terrore.
Il saggio di Giuseppe Crivella si addentra nei territori del post-apocalittico attraverso l’opera crepuscolare di Guido Morselli, Dissipatio H.G. L’oggetto del romanzo – l’inspiegabile, improvvisa e inquietante scomparsa del genere umano – viene inquadrato da Crivella come un dramma metafisico totalizzante che, attraverso il medium della fantascienza, crea un “mondo estremo” nel quale il pessimismo radicale di Morselli si esprime in tutta la sua forza, ma non senza una certa cupa ironia.
La sezione tematica di questo numero si conclude con l’opera di Marco Moschetti, un esercizio di scrittura creativa (ma solidamente ancorato nella ricerca storica) in cui si immagina cosa sarebbe successo se il PCI di Togliatti avesse vinto le elezioni del 1948. L’ucronia immaginata da Moschetti, e accompagnata dalle illustrazioni di Andrea Gualandri, è un esperimento di historiographic metafiction caratterizzato da una comicità irriverente e da un’accurata ricostruzione storica.

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