Bibliomanie

La conquista dell’ombra: prigionia e isolamento ne L’incendiario di Palazzeschi
di , numero 59, giugno 2025, Saggi e Studi, DOI

La conquista dell’ombra: prigionia e isolamento ne <em>L’incendiario</em> di Palazzeschi
Come citare questo articolo:
Luca Marzolla, La conquista dell’ombra: prigionia e isolamento ne L’incendiario di Palazzeschi, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 59, no. 6, giugno 2025, doi:10.48276/issn.2280-8833.12922

Introduzione

Michel Foucault, nel suo studio fondamentale sul Panopticon di Jeremy Bentham all’interno del saggio Sorvegliare e Punire1, mette a fuoco un aspetto cruciale del meccanismo architettonico e disciplinare ideato dal filosofo inglese: la costante visibilità del detenuto — che non può invece mai sapere se sia effettivamente osservato oppure no — si realizza a scapito di un secolare strumento punitivo, l’oscurità. Questa diviene infatti in qualche modo un rifugio per il carcerato, proprio perché interrompe il principio di visibilità permanente che sta alla base del Panopticon, rompendo al contempo il meccanismo che mantiene il detenuto nella costante incertezza di essere sorvegliato: coperto dalle tenebre, il recluso sa di essere al riparo dallo sguardo dei suoi repressori.

Insomma, il principio della segreta viene rovesciato; o piuttosto, delle sue tre funzioni — rinchiudere, privare della luce, nascondere — non si mantiene che la prima e si sopprimono le altre due. La piena luce e lo sguardo di un sorvegliante captano più di quanto facesse l’ombra, che, alla fine, proteggeva. La visibilità è una trappola2.

Il buio — condizione che determina l’annullamento del principale senso umano, la vista, e risveglia dunque un terrore arcaico per uno stato di vulnerabilità assoluta — inteso per secoli, o forse millenni, come disperante supplizio, si rivela ora come un possibile spazio di libertà per il carcerato e — a fronte di un progetto di controllo e disciplinamento totali — deve essere eliminato. Quella stessa visibilità alla quale si attribuiva un valore positivo all’interno dell’opposizione luce-ombra diviene invece la «trappola» che condanna il recluso a una condizione di assoggettamento assoluto. Tali riflessioni foucaultiane costituiscono un interessante punto di partenza per sviluppare uno studio dei temi della prigionia e dell’isolamento all’interno della raccolta poetica L’incendiario di Aldo Palazzeschi, nella quale il tòpos della reclusione presenta un’interessante ambivalenza: se da una parte la raccolta si apre infatti con la scarcerazione — all’interno del componimento eponimo — della figura dell’incendiario, esposto in una gabbia sulla pubblica piazza e liberato dal soggetto poetico affinché possa diffondere il fuoco dell’avanguardia (ricordiamo il finale, dai toni schiettamente futuristi, con l’invito a correre «a riscaldare / la gelida carcassa / di questo vecchio mondo»3), l’opera si conclude poi con l’autosegregazione del poeta all’interno di un «decrepito castello / mezzo rovinato», un «covo da gufo» che verrà identificato come dimora d’elezione per una vita appartata e solitaria4.
Come è stato osservato, il poeta che apre la raccolta sembra quasi non essere lo stesso che la conclude: l’artista rintanato nel maniero fatiscente della sezione finale de L’incendiario risulterebbe infatti «assai più pigro o, se si vuole, più riflessivo di quello che l’aveva inaugurato»5. La nostra proposta, sulla scorta della riflessione foucaultiana sul rovesciamento del «principio della segreta» operato dal dispositivo panoptico, è però quella di leggere entrambe le operazioni — la distruzione della gabbia e l’auto-reclusione in luoghi arcani e tenebrosi — come diverse declinazioni di un medesimo atto eversivo, e cercheremo di illuminare questi aspetti a partire da uno studio di entrambi i temi — prigionia e isolamento — nella prima stagione poetica di Palazzeschi, dall’esordio con I cavalli bianchi (1905) fino alla pubblicazione de L’incendiario (1910).

Rompere ogni gabbia: il tema della prigionia nel Palazzeschi futurista

Come è noto, la pubblicazione della quarta raccolta palazzeschiana, L’incendiario, avviene in seguito all’incontro (preceduto da una serie di scambi epistolari) con il fondatore del movimento futurista, Filippo Tommaso Marinetti. Il carteggio intrattenuto tra i due nel corso del 1909, nel quale Marinetti avrà modo di riconoscere ed esprimere il suo apprezzamento per Palazzeschi — celebrandone, in particolare, la poetica eversiva e innovatrice — culmineranno poi con l’inserimento del poeta fiorentino all’interno del movimento, e con il suo coinvolgimento nelle serate futuriste, a partire da quella del 12 gennaio 1910 nel Politeama Rossetti di Trieste6. Se il fatto che la poesia d’esordio (L’Incendiario, componimento eponimo della raccolta) sia stata composta dopo le altre rimane solamente un’ipotesi, è d’altra parte certo che la raccolta abbia ottenuto il suo titolo definitivo solo a ridosso dell’effettiva pubblicazione, già che almeno fino alla fine del 1909 l’idea di Palazzeschi era quella di intitolare l’opera Sole mio7. Come è stato osservato, e come risulta peraltro evidente fin dall’epigrafe con dedica a Marinetti nel componimento eponimo («A F.T. MARINETTI / anima della nostra fiamma»8), l’immagine dell’incendiario — evidente metafora della rivoluzione avanguardista — è fortemente associata alla recente svolta futurista del poeta, e c’è ragione di credere che la scelta del titolo, che trasforma l’intera opera in un manifesto militante del futurismo, sia stata in qualche modo condizionata da Marinetti, che dispose peraltro l’inserimento di un Rapporto sulla vittoria del Futurismo a Trieste come introduzione al libro, «ben settantacinque pagine di esclusiva pubblicità, senza il minimo accenno alle poesie che c’erano dentro», come ebbe modo di commentare Palazzeschi in seguito9. Se la figura dell’incendiario si relaziona strettamente con la retorica del primo futurismo — ricordiamo l’incipit del manifesto Uccidiamo il chiaro di Luna! («Olà! Grandi poeti incendiari, fratelli miei futuristi»10), ma soprattutto il Manifesto del Futurismo del 1909 («E vengano dunque, gli allegri incendiarii dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!… Suvvia! date fuoco agli scaffali delle biblioteche!»11) — altrettanto futurista è l’immagine della scarcerazione, l’idea per cui occorra liberare l’arte e l’artista da tutte le gabbie (del passatismo, della normatività accademica, della sintassi, ecc.)12. Anche in questo senso il Manifesto del 1909 si presenta come un nucleo di fondamentale importanza («È dall’Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il «Futurismo», perché vogliamo liberare [corsivo mio] questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologhi, di ciceroni e d’antiquarii»13, ma il tema si manterrà nella retorica marinettiana anche negli anni successivi (si pensi, ad esempio, al Manifesto tecnico della letteratura futurista, del 1912, in cui il riferimento alla prigionia diviene esplicito: «Bisogno furioso di liberare le parole, traendole fuori dalla prigione del periodo latino»14).
Ma, al di là delle possibili ingerenze editoriali di Marinetti e della retorica futurista, risulta evidente una certa continuità tematica tra L’Incendiario e i testi precedenti: basti pensare che proprio la raccolta anteriore, Poemi, si concludeva col componimento Il Frate Rosso, a sua volta incendiario di un altare, e sul quale si apriva una prima allusione al tema della prigionia15. In questo senso, la scarcerazione che dà il là alla raccolta del 1910, è sì il manifesto di una chiara adesione — sia pur per un breve periodo — al movimento futurista, ma allo tesso tempo dà ragione di una continuità tematica che trova nella figura dell’incendiario una delle immagini più iconiche del Palazzeschi poeta. Allo stesso tempo, si tratta di un incendiario messo alla berlina, un soggetto rinchiuso in una gabbia ed esposto sulla pubblica piazza. Si riproducono quindi alcuni degli elementi che contraddistinguono maggiormente la poesia del primo Palazzeschi: il tema della «gente» — personaggio collettivo che costituisce una coppia oppositiva col soggetto poetico — e gli spazi di reclusione e isolamento — siano questi edifici (come torri, castelli, palazzi e conventi) o gabbie e recinti che permettono la visione dall’esterno16. Queste tematiche si sviluppano ed evolvono in maniera significativa nelle prime raccolte poetiche di Palazzeschi, dando luogo ne L’incendiario al duplice esito che abbiamo descritto. Vale dunque la pena di approfondire brevemente l’evoluzione anche di queste tematiche all’interno della prima stagione poetica dell’autore fiorentino.

La gente e il poeta

La «gente», intesa come personaggio collettivo, fa la sua comparsa in Palazzeschi fin dal componimento d’esordio de I cavalli bianchi, e costituisce una presenza costante in tutta la raccolta (si consideri che, su 25 componimenti, solamente 6 sono quelli in cui il termine «gente» non compare17). Si tratta, come anticipato, di una sorta di soggetto collettivo che svolge una funzione costante e reiterata: quella di osservare dall’esterno — talvolta con meraviglia, talvolta con timore — gli “elementi di alterità” che affollano la raccolta. I cavalli bianchi offre infatti una rassegna di figure arcane e inquietanti, luoghi ammantati di sacralità e mistero, architetture fiabesche semidiroccate, presentate come oscure e inaccessibili, tutti elementi di rottura e divergenza rispetto alla quieta normalità delle cose, di fronte ai quali la gente rimane ammirata, stupita, spaventata. Fin dalla sua prima apparizione, dunque, la «gente» di Palazzeschi è soggetto della visione, e viene infatti costantemente rappresentata nell’atto di interrompere il proprio movimento per fermarsi a guardare: «si sosta […] / la gente a guardare» (Il cancello), «La gente alle rive si ferma guardando» (La lancia), «La gente passando si ferma a guardarlo» (Il pappagallo), «la gente si ferma guardando in quel campo riarso» (Il campo dell’odio), «La gente si ferma a guardarlo» (Il figlio d’un re), «La gente passando si ferma a guardare» (Il manto), «La gente passando si ferma a guardare» (Le fanciulle bianche), «La gente passando si volge e procede» (Il castello dei fantocci). La gente funziona quindi come una sorta di pubblico popolare, una folla paesana che si raduna attorno a stagni, cancelli e pozzi incantati, curiosa di scoprirne i misteri, meravigliata e allo stesso tempo timorosa, inquieta (ricordiamo anche la reiterazione del rimando al segno della croce: «La gente passando si ferma un istante / e […] / fa il Segno di Croce», La croce; «La gente al narrarlo fa il segno di croce», L’orto dei veleni; «la gente fa il segno di croce», Il tempio pagano).
Se ne I cavalli bianchi la «gente» rappresenta un nucleo sostanzialmente popolare, una massa indistinta che esprime il punto di vista di una collettività paesana, avanzando verso L’incendiario il personaggio collettivo inizia ad assumere sempre più i tratti della società borghese benpensante, e inizia inoltre a scindersi in distinte individualità, presentando un’articolazione polifonica. Nella prima raccolta la gente si limitava infatti a passare e fermarsi a guardare (nonché, in qualche occasione, a segnarsi, come abbiamo visto), ma non era quasi mai soggetto di un’enunciazione. Fatta eccezione per formule come «si dice» (cfr. La vasca delle anguille, v. 3 e Il tempio pagano, v. 3) e «la gente al narrarlo fa il segno di croce» (L’orto dei veleni, v. 14), la «gente» de I cavalli bianchi è sostanzialmente una folla muta. Al contrario, già dal componimento d’esordio della seconda raccolta (Lanterna, 1907), fa la sua comparsa — per la prima volta nella poesia di Palazzeschi — il discorso diretto e, come anticipato, la «gente» si frammenta in un coro di singole individualità («— Si legge là dentro! / — Si legge una pagina al giorno! / — Chi legge? / — Qual libro?», Torre Burla, v. 20 e seguenti). Se nella prima raccolta poetica palazzeschiana la gente passava e si fermava a guardare, a partire da Lanterna quella stessa «gente» inizia a dire, a chiedere, a sentenziare, senza però mai perdere il suo originario tratto distintivo: il peso dello sguardo. Tale pressione visiva, inizialmente rivolta agli elementi misteriosi e inquietanti che abbondano nelle prime raccolte di Palazzeschi, inizierà poi ad avere per oggetto l’autore stesso: emblematico, in questo senso, il componimento Chi sono?, testo d’esordio della terza raccolta poetica (Poemi, 1909). La poesia è assai nota, ma varrà la pena di ricordarne il finale: «Son dunque… che cosa? / Io metto una lente / davanti al mio cuore / per farlo vedere alla gente. / Chi sono? / Il saltimbanco dell’anima mia»18. Si noti come, nel finale di questo componimento, alla «gente» si attribuisca una funzione di validazione rispetto alla nuova identità poetica dell’autore — quella di poeta-saltimbanco — che si espleta proprio a partire da un riconoscimento visivo («per farlo vedere alla gente»).
Il rapporto tra il soggetto poetico e la «gente» diverrà, a partire da L’incendiario, nettamente oppositivo, e il componimento eponimo si presenta come il testo più emblematico della raccolta in questo senso: l’incendiario, rinchiuso in una gabbia ed esposto nella piazza cittadina, è oltraggiato dalla gente («— Si meriterebbe altro che berlina!»19, «— Io lo farei volentieri a pezzetti. / — Buttatelo nel fosso! / — Io gli voglio sputare / un’altra volta addosso!»20, «— Perché non lo buttano in un pozzo?»21) fino all’intervento del poeta, che entra in scena con una feroce invettiva contro il volgo e libera poi l’incendiario salutandone la fuga coi versi menzionati anteriormente. Il poeta — che si definisce a sua volta come «povero incendiario mancato / incendiario da poesia»22 — condivide con il piromane anche la condizione di prigioniero («Anch’io sai, sono un incendiario, / un povero incendiario che non può bruciare, / e sono come te in prigione»23), e denuncia il disciplinamento artistico e morale a cui è soggetto («Incendio non vero / è quello ch’io scrivo, / non vero seppure è per dolo. / Àn tutte le cose la polizia, / anche la poesia»24), che lo costringe a rifugiarsi nella propria dimora, spazio intimo e privato nel quale può esprimersi liberamente («Nel segreto delle mie stanze / passeggio vestito di rosso, […] / Fuori vado vestito di grigio, / ovvero di nessun colore, / c’è anche per le vesti una polizia, / come per le parole»25). I temi della prigionia e dell’isolamento vengono quindi plasmati contestualmente ne L’Incendiario: la prima si definisce come prodotto della repressione, del controllo sociale, delle limitazioni imposte dalla morale e dell’accademismo; il secondo emerge invece come opzione di resistenza, come fuga verso uno spazio solitario nel quale esercitare la propria libertà.
La «gente», che funzionava come una sorta di personaggio collettivo privo di una voce propria, diventa il coro di osservatori di fronte alla quale il poeta si definisce e con cui dovrà poi costantemente scontrarsi, scegliendo spesso piuttosto di nascondersi, di isolarsi, ritirandosi in quegli stessi spazi architettonici che nelle prime raccolte attraevano l’attenzione e il timore della gente. In questo senso, lo studio del tema della «gente» in Palazzeschi e quello delle sue architetture deve procedere di pari passo: via via che il poeta si identifica con le sue architetture e comincia ad abitarle, diviene sempre più l’oggetto dello sguardo che la massa indistinta del volgo rivolge ai ruderi di un passato che appare oscuro e remoto, e la cui misteriosa potenza non è ancora esaurita. Varrà quindi la pena di concentrarci brevemente anche sull’evoluzione del tema architettonico in Palazzeschi, una tematica che il poeta fiorentino condivide inizialmente col suo ambiente poetico, ma a cui inizierà ad attribuire poi declinazioni e significati personalissimi e di grande interesse per questo studio.

I castelli del saltimbanco: il tòpos architettonico nel primo Palazzeschi (1905-1910)

Nel Palazzeschi delle prime raccolte poetiche, abbondano le immagini di castelli, torri, palazzi, luoghi per lo più descritti come arcani e misteriosi, rispetto ai quali, almeno ne I cavalli bianchi, il poeta condivide con la «gente» una prospettiva esterna (pensiamo, per esempio, al castello inaccessibile de Il cancello, alla sala da ballo di Diaframma di evanescenze, o al Palazzo dei fantocci, tutti luoghi di cui né la gente, né il poeta conoscono gli interni). Il tema dell’hortus conclusus è caro a tutta la generazione crepuscolare a cui il primo Palazzeschi è accostato — ospedali, conventi e spazi chiusi da cancelli appaiono frequentemente nella poesia di Corazzini, Govoni, Moretti e Gozzano — ma nel caso di Palazzeschi il tòpos conosce un’evoluzione peculiare, e le architetture inaccessibili —sempre presenti nelle prime quattro raccolte poetiche dell’autore — assumono spesso i connotati di edifici in rovina, che assurgono a metafore della decadenza della poesia. Un esempio in questo senso è senz’altro Torre Burla, il già citato testo d’esordio di Lanterna, il cui ignoto abitante ogni giorno, al calar del sole, sfoglia la pagina di un libro («La sera, ogni sera, al tramonto, / ognuno s’appressa e n’ascolta il romore; / romore che tutti ormai sanno: / voltare di foglio, / voltare leggero di foglio»26). Se il castello diroccato diviene sempre più metafora dell’edificio decadente dell’arte alle soglie del XX secolo, l’identificazione tra gli oscuri abitanti di queste architetture e il poeta diviene a sua volta sempre più esplicita, a partire per lo meno dal poemetto Le mie ore (all’interno di Poemi), e in particolare dal componimento La porta:

Dinanzi alla mia porta
si fermano i passanti per guardare,
taluno a mormorare:
là dentro quella casa
la gente è tutta morta, 5
non s’apre mai quella porta,
mai mai mai.
Povera porta mia!
Grande portone oscuro,
trapunto da tanti 10
grossissimi chiodi,
il frusciare più non odi
di sete a te davanti.
Dagli enormi battenti di ferro battuto, 15
che nessuno batte più,
nessuno à più battuto
da tanto tempo.
Rosicchiata dai tarli,
ricoperta dalle tele dei ragni, 20
nessun ti aprì
da anni ed anni,
nessun ti spolverò,
nessun ti fece
un po’ di toeletta. 25
La gente passa e guarda,
si ferma a mormorare:
là dentro quella casa
la gente è tutta morta,
non s’apre mai quella porta, 30
mai mai mai27.


Dinanzi alla mia porta, scrive Palazzeschi: la prospettiva è cambiata, ora il poeta si trova all’interno dell’edificio, lo abita. Ancora una volta compare il personaggio collettivo della «gente», mantenendo i caratteri consolidati nell’arco delle prime raccolte poetiche (si ferma «per guardare» e «mormorare»), e si insiste nuovamente sulla decadenza dell’edificio, metafora della poesia e dell’arte in genere (la porta non ode più «il frusciare […] / di sete» davanti a sé, ed è «rosicchiata dai tarli» e «ricoperta dalle tele dei ragni»), ma questa volta il soggetto poetico si trova all’interno del maniero diroccato, e ha accesso agli spazi segreti e misteriosi che fino alla seconda raccolta erano anche a lui preclusi. Il poemetto Le mie ore si svolge integralmente all’interno del palazzo malandato che il poeta sceglie come dimora, e costituisce in qualche modo l’antecedente letterario di Al mio bel castello (sezione conclusiva de L’incendiario, che è stata in più sedi identificata appunto come ripresa e ulteriore sviluppo di Le mie ore28). La sezione si apre col già menzionato componimento Quando cambiai castello, di cui citiamo i versi d’esordio:

Un poeta quando è stanco
cambia castello;
piglia sulle spalle il suo fardello
come un qualunque saltimbanco. O come un povero uccello 5
cambia lido
quando gli rompono il nido.
Lassù non ci si poteva più stare,
è inutile, non ci si poteva più stare.
Senza tanto pensarci 10
decisi di cambiare.
Cambiare castello.
Il posto era assai bello,
le passeggiate, i dintorni,
le adiacenze, 15
la casa era distante dal cancello,
ma la vita si era ridotta
zeppa d’inconvenienze.
Mi conoscevano tutti,
un pochino alla volta 20
tutti m’avevan conosciuto, e il bello d’un poeta
è, l’essere sconosciuto.
Tutto di me sapevano,
appena fuori d’un passo 25
tutti mi salutavano, nella via mi squadravano,
mi pesavano, ed ognuno
voleva dir la sua29.


Gli elementi che abbiamo già identificato diventano qui ancora più espliciti: il poeta — abitatore di spazi appartati e inaccessibili («la casa era distante dal cancello»30)— è costretto trasferirsi, a «cambiare castello», come se si trattasse di una sorta di muta, e la responsabilità di tale esigenza di cambiamento è da imputarsi ancora una volta alla gente, che ha — o pretende di avere — una conoscenza ormai totale del poeta («tutto di me sapevano»), ed esercita una pressione sociale che passa in primo luogo per la vista («nella via mi squadravano, / mi pesavano») e poi per la sentenza verbale («ognuno / voleva dir la sua»). Si ripete quindi il binomio «guardare» e «mormorare» de La porta, che trova qui uno svolgimento più ampio: la poesia segue infatti con una tirata di venti versi in cui si riportano le opinioni e le battute della gente, che rendono ormai insopportabile la permanenza nella vecchia dimora («non ci si poteva più stare»31). Il poeta decide quindi di trasferirsi, ovviamente in un luogo appartato, solitario e decadente («Su, su, lontano dall’abitato, / trovai quello che avevo sognato: / un decrepito castello / mezzo rovinato»32). L’agente immobiliare spiega al poeta che si tratta di un edificio in condizioni non più ottimali («la porta è sgangherata», «occorrono molte riparazioni»33), anche se un tempo fastoso e frequentato «da grandi uomini […]/ da scienziati e da poeti»34, e che è stato per lungo tempo abitato da una contessa centenaria e da «due sue vecchie donne / […] come lei centenarie»35 (riappare dunque il tema del castellano centenario, nonché delle tre donne anzianissime, figure mitico-fiabesche che ricorrono anch’esse fin dalla prima raccolta poetica dell’autore). Ovviamente il poeta non ha alcuna intenzione di ristrutturare il castello, anzi: «Quest’ammasso di rovine / mi va, buon uomo, mi va, / è un covo da gufo / che per me farà»36.
Palazzeschi si è trasformato nella strega de L’orto dei veleni, nel misterioso abitatore della Torre Burla, nel castellano del maniero che il volgo osservava attraverso la recinzione ne Il cancello, secondo l’evoluzione di una tematica che è ormai definita e matura: le rovine inquietanti di un mondo che risulta arcano e inaccessibile sono una metafora dell’arte e della poesia nell’epoca Moderna, e il poeta è colui che le abita, isolandosi rispetto al resto del mondo. E anche in questo senso risulta estremamente significativa la lettura foucaultiana del rapporto della Modernità con le rovine del mondo premoderno, espresso nell’intervista che fa da prologo all’edizione italiana del Panopticon di Bentham:

Una paura ha ossessionato la seconda metà del diciottesimo secolo: lo spazio scuro, la cortina di oscurità che fa da ostacolo all’intera visibilità delle cose, delle persone, delle verità.
[…]
I castelli, gli ospedali, gli ossari, le case di reclusione, i conventi, hanno suscitato, fin da prima della Rivoluzione, una diffidenza e un odio che sono stati eccessivamente valorizzati; il nuovo ordine politico e morale non può instaurarsi senza cancellarli.
I romanzi di orrore, all’epoca della Rivoluzione, sviluppano tutto un immaginario fantastico della muraglia, dell’ombra, del nascondiglio e della segreta, che danno rifugio, in una complicità che è significativa, ai briganti e agli aristocratici, ai monaci e ai traditori: i paesaggi di Ann Radcliffe sono montagne, foreste, caverne, castelli in rovina, conventi la cui oscurità e silenzio fanno paura. Ora, questi spazi immaginari sono come controfigure delle trasparenze e delle visibilità che si cerca di imporre37.


Le immagini scelte da Palazzeschi sono esattamente le stesse: castelli diroccati, regge oscure e inquietanti, torri arcigne e inaccessibili. E l’ombra, l’oscurità che intimorisce il volgo, ne è una componente fondamentale: il buio avvolge il poeta e lo protegge, sottraendolo al principio di visibilità permanente funzionale all’imposizione della disciplina. Le scene di condanna e demonizzazione dell’alterità ricorrenti in Palazzeschi rimandano senz’altro a una concezione arcaica del castigo, nella quale il condannato è messo alla berlina e giustiziato a furor di popolo, ma ciò che si mantiene della logica del panoptismo è proprio la visibilità assoluta come strumento di controllo, a cui si oppone da un lato ovviamente l’evasione (l’incendiario in fuga dalla pubblica gogna), dall’altro la ricerca dell’ombra, di un rifugio che risulti imperscrutabile: oltre agli esempi già citati, si pensi anche all’interdizione esplicita della visione ne La città del sole mio («La città voi non la potete vedere»38), altro luogo di autoreclusione interdetto al volgo in cui il poeta protegge la propria “invisibilità”, illuminato da un sole di tenebra («Un sole pieno d’ombre, / di rabeschi. / Che sole ci può brillare, / se non un faro di scarabei, / nel cielo dei sogni miei?»39). L’ombra diviene quindi lo spazio d’elezione del poeta, il rifugio che consente di liberarsi dallo sguardo della gente e dai dispositivi di controllo sociale. Il poeta opera nell’ombra: al di fuori dell’imperativo della produttività e delle norme della morale borghese, in un autoesilio nel quale riecheggiano i «lunghi bagni di tenebre» del Baudelaire di Anywhere out of this world40.

Conclusione

La contraddizione apparente tra queste due anime poetiche — da una parte, il poeta incendiario che scarcera il piromane ingabbiato, dall’altra, il poeta saltimbanco che sceglie di ritirarsi di sua volontà in un luogo di isolamento diroccato, oscuro, di cui il popolo ha timore — può essere quindi risolta leggendo entrambe le operazioni come atti di dissidenza volti a proteggere il soggetto poetico dallo sguardo delle masse, dalla «trappola» (ricordando Foucault) della visibilità totale, che è lo strumento di controllo necessario all’imposizione della disciplina. In questo senso convivono, nel giovane Palazzeschi, la vocazione più smaccatamente avanguardista, e il richiamo per le rovine di un mondo arcaico che la modernità si è lasciata alle spalle senza riuscire a disattivarne del tutto la potenza e il mistero (scriverà in una lettera a Paolo Buzzi: «Io sono futurista in un certo senso, in altro forse c’è ancora in me qualcosa di decrepito che non so se a Marinetti possa soddisfare completamente»41). Se nella poesia della modernità «la regressione (alla preistoria), diviene una forma di rifiuto e di critica del mondo, di cui si prende per altro lucidamente atto», come osserva Guido Guglielmi nel saggio La voluttà di essere fischiati, tale rifiuto in Palazzeschi assume la forma di un esilio volontario in rovine fantasmatiche e inquietanti: l’altra faccia dell’incendiario iconoclasta è lo spettro («qui vive / sepolto / un poeta», scriverà pochi anni dopo in Postille42), che coltiva nell’ombra il suo spazio di dissidenza.

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Tellini, Gino (2021), Palazzeschi, Roma, Salerno (versione e-book).

Wehle, Winfried (2015), Chi sono? Saggio sull’avanguardia di Aldo Palazzeschi, in Gino Tellini (a cura di) Aldo Palazzeschi: der Dichter, der Gaukler und die Ernsthaftigkeit des Spiels; Aldo Palazzeschi: il poeta saltimbanco e la serietà del gioco, Firenze, Società Editrice Fiorentina.

Note

  1. Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. it. di Alcesti Tarchetti, Torino, Einaudi, 1993.
  2. Ibidem, p. 218.
  3. Aldo Palazzeschi, L’Incendiario, v. 249, in Tutte le poesie, a cura di Adele Dei, Milano, Mondadori, 2002, p. 188.
  4. A. Palazzeschi, Quando cambiai castello, vv. 98-99 e 152, in Tutte le poesie, cit., pp. 243 e 245; i versi citati appartengono al primo componimento della sezione Al mio bel castello, che conclude la raccolta.
  5. Giuseppe Nicoletti, Introduzione, in Aldo Palazzeschi, L’incendiario, a cura di Giuseppe Nicoletti, Milano, Mondadori, 2006, p. 28 (versione e-book).
  6. Cfr. G. Nicoletti, Introduzione, in A. Palazzeschi, L’incendiario, cit., p. 6 (versione e-book).
  7. Sulla vicenda editoriale de L’incendiario, cfr. Gino Tellini, Palazzeschi, Roma, Salerno, 2021, pp. 132-162 (versione e-book), G. Nicoletti, Introduzione, in A. Palazzeschi, L’incendiario, cit., pp. 5-37 (versione e-book), e le pagine relative a L’incendiario (1910) nella sezione Descrizione e storia dei volumi di poesia a cura di Adele Dei, in A. Palazzeschi, Tutte le poesie, cit., pp. 971-977.
  8. A. Palazzeschi, L’Incendiario, epigrafe, in Tutte le poesie, cit., p. 181.
  9. A. Palazzeschi, Marinetti e il futurismo, prefazione a Filippo Tommaso Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Mondadori, Milano, 1968, p. XXI; tra gli studi critici sull’avanguardia palazzeschiana e sul rapporto tra Palazzeschi e il futurismo cfr., tra gli altri, François Livi, Tra crepuscolarismo e futurismo: Govoni e Palazzeschi, Milano, Istituto di Propaganda Libraria, 1980; Antonio Saccone, Figurazioni del personaggio incendiario: Marinetti e Palazzeschi, in «La trincea avanzata» e «La città dei conquistatori», Napoli, Liguori, 2000, pp. 63-86; Antonio Saccone, «Qui vive / sepolto / un poeta». Divertimento e trasgressione: Palazzeschi, Marinetti e altri, in «Qui vive / sepolto / un poeta». Pirandello, Palazzeschi, Ungaretti, Marinetti e altri, Napoli, Liguori, 2008, pp. 29-58; Winfried Wehle, Chi sono? Saggio sull’avanguardia di Aldo Palazzeschi, in Gino Tellini (a cura di) Aldo Palazzeschi: der Dichter, der Gaukler und die Ernsthaftigkeit des Spiels; Aldo Palazzeschi: il poeta saltimbanco e la serietà del gioco, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2015; Giuseppe Muraca, Il giovane Palazzeschi. Saggio sul poeta d’avanguardia, Verona, Ombre Corte, 2021.
  10. Filippo Tommaso Marinetti, Uccidiamo il chiaro di luna!, in Filippo Tommaso Marinetti (a cura di), I Manifesti del futurismo, Firenze, Edizioni di “Lacerba”, 1914, p. 11.
  11. Filippo Tommaso Marinetti, Fondazione e Manifesto del futurismo, in F. T. Marinetti (a cura di), I Manifesti del futurismo, cit., p. 8.
  12. Anche in questo caso ci riferiamo alla stagione iniziale del futurismo italiano, quella che va dal Manifesto del 1909 alla Prima Guerra Mondiale.
  13. Ibidem, p. 9.
  14. Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista, in F. T. Marinetti (a cura di), I Manifesti del futurismo, cit., p. 88.
  15. Così si conclude il componimento: «Dove anderà [sic] ora il Frate Rosso? / Dove anderà? / Fra tutta la gente vestita / di colore indeciso, / lui, tutto rosso, / con quel suo strano viso… / Se lo mettessero in prigione?», A. Palazzeschi, Il Frate Rosso, vv. 150-156, in Tutte le poesie, cit., p. 178.
  16. Il tema dello spazio serrato — al passaggio o alla vista — in Palazzeschi è stato trattato in numerosi studi, tra i quali segnaliamo F. Livi, Tra crepuscolarismo e futurismo: Govoni e Palazzeschi, cit.; Adele Dei, Giocare col fuoco. Storia di Palazzeschi poeta, in A. Palazzeschi, Tutte le poesie, cit., pp. IX-XLIX; Paolo Febbraro, La tradizione di Palazzeschi, Roma, Gaffi, 2007; G. Tellini, Palazzeschi, cit.; tra i contributi critici incentrati sulla prima stagione poetica palazzeschiana cfr., tra gli altri, Piero Pieri, Ritratto del saltimbanco da giovane. Palazzeschi 1905-1914, Bologna, Pàtron, 1980; Antonio Saccone, L’occhio narrante. Tre studi sul primo Palazzeschi, Napoli, Liguori, 1987; Mimmo Cangiano, L’Uno e il molteplice nel giovane Palazzeschi (1905-1915), Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2011.
  17. Per l’esattezza, nell’ordine: Lo specchio delle civette; Ara, Mara, Amara; La ferita del silenzio; Il pastello del sonno; Diaframma di evanescenze; Oro, Doro, Odoro, Dodoro; Il pastello del tedio.
  18. A. Palazzeschi, Chi sono?, vv. 18-22, in Tutte le poesie, cit., p. 71.
  19. A. Palazzeschi, L’Incendiario, v. 60, in Tutte le poesie, cit., p. 182.
  20. A. Palazzeschi, Ibidem, vv. 66-69.
  21. A. Palazzeschi, Ibidem, v. 77.
  22. A. Palazzeschi, Ibidem, vv. 182-183.
  23. A. Palazzeschi, Ibidem, vv. 178-180.
  24. A. Palazzeschi, Ibidem, vv. 189-193.
  25. A. Palazzeschi, Ibidem, vv. 204-205, 211-214.
  26. A. Palazzeschi, Torre Burla, vv. 13-17, in Tutte le poesie, cit., p. 35.
  27. A. Palazzeschi, La porta, in Tutte le poesie, cit., p. 145.
  28. Cfr. Adele Dei, Le case di Palazzeschi, in “Studi italiani”, XI, 1-2, 1999, ripreso in G. Nicoletti, Introduzione, in A. Palazzeschi, L’incendiario, cit., oltre a A. Dei, Giocare col fuoco. Storia di Palazzeschi poeta, in A. Palazzeschi, Tutte le poesie, cit., pp. XXXVIII-XXXIX.
  29. A. Palazzeschi, Quando cambiai castello, vv. 1-29, in Tutte le poesie, cit., p. 241.
  30. Si noti il richiamo al piazzale del castello de ll cancello, ne I cavalli bianchi, attorno al cui recinto si affollava la gente, come sempre intenta a osservare il castellano centenario e il suo maniero impenetrabile.
  31. Ibidem, v. 50.
  32. Ibidem, vv. 96-99.
  33. Ibidem, vv. 109, 112.
  34. Ibidem, vv. 126-128
  35. Ibidem, vv. 118, 120.
  36. Ibidem, vv. 150-153.
  37. Michel Foucault, Michelle Perrot e Jean-Pierre Barou, L’occhio del potere. Conversazione con Michel Foucault, in Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Michel Foucault e Michelle Perrot, trad. di V. Fortunati, Venezia, Marsilio, 2002; ed. or. Le panoptique. Précédé de L’oeil du pouvoir : entretien avec Michel Foucault, Parigi, Pierre Belfond, 1977.
  38. A. Palazzeschi, La città del sole mio, v. 22, in Tutte le poesie, cit., p. 223.
  39. Ibidem, vv. 108-112.
  40. Charles Baudelaire, Lo Spleen di Parigi, trad. it. di Riccardo Bacchelli, in Poesie e prose, a cura di Giovanni Raboni, Milano, Mondadori (4a ed.), 1981, pp. 323-415; ed. or. Petits poèmes en prose, in Œuvres complètes de Charles Baudelaire, Parigi, Michel Lévy Frères, 1869.
  41. Aldo Palazzeschi, Lettera a Paolo Buzzi, Settignano, 14 ottobre 1909, in Paolo Buzzi, Futurismo. Scritti, carteggi, testimonianze, vol. III, a cura di Mauro Morini e Giampaolo Pignatari, Milano, Biblioteca Comunale, 1983, pp. 310-311, citato in Giuseppina Giacomazzi, La regola del sole di Aldo Palazzeschi, scanzonata sovversione dei topoi decadenti, nell’ultimo fascicolo di “Poesia” (agosto-ottobre 1909), in “Rivista di letteratura italiana”, N. 2, 2006, p. 141.
  42. A. Palazzeschi, Postille, vv. 21-23, in Tutte le poesie, cit., p. 305.

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