Bibliomanie

Isolamento, quarantena, controllo. I tre grandi baluardi della risposta istituzionale alle epidemie dalla peste al Covid-19
di , numero 53, giugno 2022, Saggi e Studi, DOI

Isolamento, quarantena, controllo. I tre grandi baluardi della risposta istituzionale alle epidemie dalla peste al Covid-19
Come citare questo articolo:
Eugenia Tognotti, Isolamento, quarantena, controllo. I tre grandi baluardi della risposta istituzionale alle epidemie dalla peste al Covid-19, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 53, no. 1, giugno 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.9907

1. Quarantene e lazzaretti
Per secoli l’unico modo per tenere sotto controllo le ricorrenti incursioni di malattie epidemiche e limitarne la diffusione è stato quello di mettere in campo un sistema complesso e articolato di quarantene, cordoni sanitari, isolamento degli infetti in lazzaretti, fumigazione e disinfezione, regolamentazione e controllo delle categorie sociali a rischio. Esso era il frutto di una lunga elaborazione cominciata nelle città italiane durante la terrificante epidemia di peste nera del 1347-48, portata da equipaggi contagiati dalle navi provenienti dalla Crimea e approdate in quel mare epidemico che era il Mediterraneo1. Dalla città di Messina, il contagio aveva serpeggiato per l’Italia decimando la popolazione di potenti città-stato come Firenze, Pisa, Venezia, Genova che persero circa 1/3 dei loro abitanti2.
La peste aveva tutti i crismi per incutere terrore: la brevissima incubazione, la capacità di diffusione rapidissima, l’acuzie del quadro clinico (febbre, dolori, tosse, emottisi, tumefazioni linfoghiandolari), la prognosi inesorabile quando la forma era quella della peste polmonare e setticemica , trasmessa dalle particelle di espettorato dei malati, tramite contagio uomo –uomo, una delle catene di propagazione del male che poteva anche trasmettersi in modo indiretto ( topo nero -pulce-uomo o pulce-uomo)3.
Non per niente il suo nome deriva dal latino “pestis” (distruzione, rovina). Un male assoluto, dunque, contro il quale la medicina era del tutto impotente. L’unica strategia conosciuta dall’antichità per prevenire malattie contagiose ad alta mortalità era l’isolamento temporaneo di individui affetti da malattie contagiose, documentata già nel Vecchio Testamento. Il concetto (moderno) di quarantena preventiva – che comportava compulsory physical separation (including restric-una obbligatoria separazione fisica tion of movement) of groups of healthy individuals di individui sani who have been potentially exposed to a contagiouspotenzialmente esposti a un contagio – si afferma nel plague and dates back to 1377, when the Rector of the seaport of Ragusa (then heightened interest during episodes of epidemics.The term is strictly related to1377, nella città di Ragusa (Dubrovnik) , nella Dalmazia meridionale. Le autorità locali decretarono che gli individui in arrivo in città, sospettati di essere entrate in contatto con malattie trasmissibili, dovevano essere separate dal resto della comunità per non rischiare di diffondere la malattia4. Il tempo era fissato in quaranta giorni, necessari , secondo Ippocrate (V sec. a .C) al manifestarsi dei sintomi di una malattia infettiva. Se la peste non compariva entro quel termine , il soggetto isolato poteva considerarsi non infetto5. Da strutture temporanee per l’isolamento – vere e proprie anticamere della morte- si passò ai lazzaretti. Il primo fu aperto dalla Repubblica di Venezia, che sistemò in un’isoletta della laguna un ospedale per gli appestati poveri. La struttura aveva preso il nome dell’antico convento che vi si trovava , S. Maria di Nazareth, le cui deformazioni lessicali avrebbero portato al nome di lazzaretto6. L’esempio di Venezia fu subito seguito da altre città che si attennero a un insieme di regole. Anzitutto un’adeguata distanza dal centro abitato per impedire il contagio, senza però che fosse troppo lontano in modo da non rendere disagevole il trasporto degli ammalati. Inoltre una particolare attenzione fu riservata all’orientamento al fine di evitare l’esposizione ai venti occidentali che – secondo la medicina ippocratica- erano ritenuti nocivi (per questo prendevano anche il nome di “putridi”). Laddove era possibile si interponeva tra la città e il lazzaretto una barriera naturale come il mare o il corso di un fiume. I lazzaretti per la quarantena portuale erano costituiti da più edifici separati e destinati all’isolamento degli appestati, dei sospetti, del personale superiore (ispettori, commissari), delle merci. Alle prime avvisaglie di un’epidemia di peste tra il mar Nero e il mar Mediterraneo , le città chiudevano i loro porti alle provenienze da luoghi infetti. Le “patenti di sanità”7, certificavano la provenienza delle imbarcazioni: “infetti”, “sospetti”, “sani” a cui corrispondevano patenti “brutte”, “postillate” o “nette : un modo per controllare ed eventualmente sottoporre a quarantena i “sospetti” che potevano divenire veicolo del contagio. La prima a perfezionare il sistema di difesa fu Venezia che per la particolare configurazione geografica e i poderosi flussi commerciali era pericolosamente esposta al rischio che la peste arrivasse dal mare, in particolare dai paesi di Levante, da paesi che, privi di una legislazione sanitaria, come quella degli Stati italiani, non erano in grado di garantire che i loro carichi fossero sicuri8. Pericoloso corridoio di passaggio di epidemie, le acque della laguna costituivano una barriera sanitaria naturale consentivano un efficacissimo sistema di contumacie e quarantene che, a metà del XVII secolo, fu in grado di tenere lontana la peste nella sua ultima comparsa in Occidente, nel 1720 a Marsiglia e nel 1743 a Messina.

2. Il governo politico e il controllo sociale
Col tempo, isolamento e quarantene divennero i capisaldi della risposta istituzionale alle epidemie. L’irruzione della peste equivaleva a quella di un nemico armato che perseguisse una strategia di annientamento totale. La peste disarticolava l’organizzazione politico-amministrativa; travolgeva le strutture economiche e le gerarchie sociali; minava le reti di solidarietà familiare e parentale e la fiducia nei pubblici poteri e nella medicina; faceva crollare l’universo di certezze delle comunità che conoscevano l’esperienza di più totale rivolgimento che essa potesse sperimentare. Un evento traumatico, dunque, capace di provocare reazioni sconsiderate (come la fuga) e che esigeva un esercizio rapido e inflessibile del potere politico-amministrativo e la pronta mobilitazione della funzione poliziesco-repressiva dello Stato. Se la peste entrava in una città o in uno Stato, l’istituzione civile le autorità stendevano ai confini, lungo le vie di transito e nei punti di accesso alle città un cordone sanitario, costituito da guardie armate. Nessuno poteva forzarlo, pena la vita. Ogni commercio con le zone sospette veniva interrotto. Una serie di misure veniva messa in capo per circoscrivere il contagio ed impedire movimenti di uomini e cose. Alle prime avvisaglie di casi di peste l’istituzione civile metteva in campo le misure per allontanare gli eventuali veicoli del contagio dalle città e chiuderne l’accesso. E, ancora, per proibire gli assembramenti e le processioni religiose, in quanto occasione di contatti . Punizioni severissime erano riservate a chi si sottraeva all’isolamento coatto e a chi si introduceva nelle case abbandonate dagli appestati per rubare indumenti e suppellettili per individuare locali (o lazzaretti) per l’isolamento e la quarantena. Le case degli appestati venivano murate e si provvedeva a raccogliere uomini per rimuovere e trasportare i cadaveri; procurare i carri . Gli spazi per le sepolture erano dislocati fuori dalle mura, badando che fossero effettuate in modo da evitare i danni prodotti dalla decomposizione dei corpi. Tutti questi interventi richiedevano un saldo “governo politico” centralizzato , che metteva in campo forme di controllo sociale, particolarmente necessario nella città dove serpeggiavano pericolosamente paura , aggressività e violenza che prendevano di mira presunti “untori”9. Il tentativo era quello di produrre nella città l’ordine del lazzaretto:10 la separazione tra malati e sospetti, il controllo rigido di chi entrava e usciva, la “disinfezione” di arredi , indumenti e utensili.
Pene severissime – fino a quella di morte- venivano inflitte a chi tentava di passare o trasportare cose nelle parti proibite al transito. Ai mendicanti era proibito chiedere l’elemosina per le strade. Ancora nel XV secolo in alcune città venivano addirittura cacciati, insieme alle prostitute, in quanto possibili veicoli del contagio. Nel 1493, a Napoli, il re Ferdinando I d’Aragona, ordinò che “i pezzenti” si allontanassero dalla città perché “causa potentissima di contagio”, promettendo la pena della frusta e di quattro tratti di corda ai renitenti. Insieme a loro dovevano andarsene gli ebrei, “gli altri” della società cristiana dell’epoca, sospettati in quell’anno di diffondere la peste nella diaspora seguita alla loro cacciata dalla Spagna l’anno prima.
La città doveva essere controllata palmo a palmo e i movimenti dovevano avvenire attraverso passaggi obbligati e custoditi da armati. A Palermo durante la peste del 1630 la città fu suddivisa in “insule”, affidate a gruppi di medici, chirurghi, ostetriche, balie e religiosi. Ma, ovunque, si affermò la prassi di decentrare i poteri a deputati di sanità , per rione o parrocchia. in modo da seguire da vicino i movimenti di persone e l’insieme dei diversi compiti che riguardavano l’individuazione delle case infette da sequestrare , l’isolamento coatto degli appestati e dei sospetti, il loro trasporto nel lazzaretto o in altre strutture provvisorie. E, ancora, la disinfezione ( detta “purgation” negli Stati della Corona spagnola) delle case degli appestati e la loro tinteggiatura con calce; nonché la distruzione con fuoco degli indumenti e degli oggetti d’uso comune.
In molte città la difesa dei sani comportava una limitazione dei loro movimenti e l’isolamento coatto nelle case. Un potente strumento di controllo era la “fede di sanità” – attestante la provenienza da località esenti da contagio – concessa dai medici e dalle autorità cittadine. Nessuno poteva attraversare i cordoni sanitari (o i posti di blocco) se ne era sprovvisto. Durante la peste di Messina del 1743, il viceré di Sicilia ordinò che quel certificato fosse concesso solo a coloro “ che per 40 giorni avessero dato chiari e indubitati argomenti di loro salute”11. Pene severissime erano previste per coloro che falsificavano “le fedi” o “patenti “ e per gli osti che accoglievano viandanti che ne erano privi.
A Venezia i controlli erano particolarmente severi: gli stranieri che arrivavano in città e i passeggeri delle navi dovevano possedere un lasciapassare che attestava la loro provenienza. L’intero apparato di difesa, faceva quasi completamente a meno dei medici, eccetto che nei lazzaretti. La totale impotenza della medicina che vagava nel buio circa la natura della tremenda malattia; l’incapacità dei medici di apprestare qualche rimedio; il loro terrore di fronte ai malati 12, la fuga di molti di essi dalle città appestate, lasciavano il campo a un “governo politico” dell’ epidemia in cui l’aspetto tecnico e igienico-poliziesco predominava nettamente su quello assistenziale sanitario.

3. La risposta istituzionale alle minacce epidemiche nel XIX secolo: dalla febbre gialla al colera
Isolamento, contumacia, sanificazione13 tornarono alla ribalta all’inizio del XIX secolo in una città di mare , Livorno, investita da una malattia tropicale, arrivata in Italia con l’equipaggio di una nave spagnola proveniente da Cadice (1804-1805) . Alcuni decenni dopo , nel 1835, l’antico sistema di difesa – in auge con alcuni adattamenti dal XIV secolo in tutti i Paesi civilizzati – fu mobilitato nell’intero il territorio nazionale come risposta alla prima epidemia di colera.
Malattia esotica, fino allora sconosciuta , il colera, investì l’Italia , in quel secolo, in sei successive ondate , con perdite catastrofiche , in particolare nel 1855-5714. Del tutto nuova per il mondo Occidentale , l’esotica malattia chiamata anche “peste” – termine usato spesso come sinonimo di “cholera morbus” negli Annali e nelle cronache del tempo – atterrì i contemporanei e non solo per la sua spaventosa letalità che oscillava tra il 52 e il 55 per cento.15 Del resto, pur nella diversa dinamica biologica, il colera riproduceva esattamente il velocissimo decorso della peste che aveva svolto un ruolo paradigmatico come flagello pestilenziale archetipico che terrorizzava le popolazioni dei Paesi mediterranei16.
Indicata anche con il nome di “mostro asiatico”, aveva tutte le caratteristiche per scatenare il panico: l’origine extraeuropea che chiamava in causa i concetti di civiltà e barbarie; la repentinità dell’attacco con continui vomiti e diarrea che nel giro di poche ore portava alla perdita di un quarto dei liquidi del corpo, senza che i medici, impotenti, potessero far nulla, mentre la malattia faceva strage nelle città in crescita, aiutata dalle pessime condizioni igienico-sanitarie e dalla carenza di infrastrutture per l’approvvigionamento idrico e lo smaltimento dei rifiuti.
All’annunciarsi del morbo in Russia, nei primi anni Trenta, i governi degli Stati italiani ricorsero alle tradizionali strategie preventive, con la differenza, rispetto al tempo della peste, che i medici ricoprivano ora ruoli importanti nelle Commissioni sanitarie e nelle magistrature di sanità e organizzavano l’assistenza. Grandi clinici, professori d’università e membri di prestigiose accademie, erano ascoltati consiglieri dei governi in tutto ciò che riguardava la “politica della salute pubblica”, frutto delle idee dell’illuminismo. I magistrati di Sanità provvidero – quindi, nel Regno di Sardegna e in quello delle Due Sicilie – a istituire cordoni sanitari marittimi e a varare i regolamenti sulle contumacie, vale a dire i giorni di quarantena per le imbarcazioni provenienti da luoghi infetti ( per quelle cosiddette ‘di rigore’ sarebbero state individuate nei decenni successivi apposite stazioni sanitarie)17.
In qualche Stato, come nel Regno delle Due Sicilie, si rafforzarono controlli e divieti nei confronti delle merci provenienti da paesi infetti , ma anche da luoghi (come Livorno e Civitavecchia) particolarmente a rischio e che aggiravano le regole della contumacia coprendo con buste nuove le lettere provenienti dalla Francia dove erano presenti focolai. Inoltre si richiamarono in vigore le leggi che punivano con la morte i violatori dei cordoni sanitari e delle contumacie.
Gli indirizzi sperimentati sotto la spinta dell’emergenza del colera erano, quindi, sostanzialmente simili a quelli adottati in tempo di peste. Esse riguardavano la regolamentazione del flusso di merci e di uomini, la predisposizione di “officine di disinfettazione” di mercanzie e uomini; il controllo di ospedali, lazzaretti, caserme, scuole, prigioni e un “quadrillage “ dello spazio urbano infetto, sottoposto, per zone, alla giurisdizione di commissari o deputati di sanità, nominati dal potere esecutivo18. A questo puntavano, da una parte, le disposizioni per porre un freno all’inquietante e pericoloso vagare per le città delle schiere lacere e affamate di mendicanti , vagabondi , meretrici, che ovunque si cercò di isolare e ricoverare in ospizi e depositi di mendicità19. Dall’altra il sequestro delle case dei colpiti, vigilate da guardie armate. Lazzaretti, ospedali temporanei, locali di fortuna erano destinati a persone da curare e isolare, che avevano avuto contatti con persone infette o che provenivano da luoghi sospetti. Particolarmente dure le disposizioni per evitare gli assembramenti e per neutralizzare le temibili reazioni di terrore e di fuga. Reazioni provocate anche dalla totale impotenza della Medicina di fronte alla ferocia del male contro il quale si usava un armamentario di cure e trattamenti che comprendevano l’oppio per arrestare i movimenti dell’intestino , l’ossido di zinco, i lassativi, la gomma arabica e un’infinità di altri ‘rimedi’ empirici. Nelle città investite dal colera le strade erano chiuse da palizzate, mentre baracche temporanee erano destinate “a ricevere i generi e le persone per le debite purificazioni e contumacie”. Non si trattava di limiti invalicabili: i contemporanei segnalano che sulle barriere ebbero spesso la meglio “l’oro, la colpevole ignoranza e l’ingordigia”. Se con la peste e il vaiolo l’apparato difensivo e offensivo dello Stato aveva avuto il potere di controllare la catena del contagio, le modalità di trasmissione del “vibrio cholerae “ – l’agente patogeno della malattia – e il ruolo giocato da portatori sani o convalescenti erano tali da render inutili isolamento e contumacie. Né gli interventi una tantum per sanificare lo spazio urbano e regolare minuziosamente l’azione sociale avevano la possibilità di prevenire la diffusione della malattia. Non solo . All’indomani delle rivoluzioni del ’48, le misure precauzionali repressive agirono da potentissimo detonatore di tensioni sociali e politiche, a conferma del ruolo che esse sono in grado di svolgere durante un’emergenza epidemica20. Nelle pandemie che si susseguirono fino alla fine del secolo , cordoni sanitari e quarantene provocarono qua e là ribellioni e proteste sia là dove le autorità pubbliche non le pianificavano sia dove la loro implementazione deprimeva la vita economica, ostacolava la mobilità e le comunicazioni, interveniva su nuove libertà e conquiste del progresso civile.Con i grandi progressi batteriologici di fine Ottocento e la scoperta degli agenti patogeni del colera , della febbre gialla e della peste si giunse finalmente a un accordo degli Stati europei sulle politiche isolazioniste-protezioniste per il controllo della diffusione transfrontaliera delle malattie che aveva comportato il controllo delle merci in entrata ed uscita, il blocco degli scambi tra i porti per mesi e la sospensione della vita economica .

4. Le strategie di controllo nell’era della società di massa, dalla Spagnola al Covid-19
La pandemia d’Influenza del 1918-19 ,comunemente nota come “Spagnola”, ha aperto un nuovo capitolo nella pratica della salute pubblica21. Si trattava della prima pandemia globale verificatasi nell’era della “società di massa”22. Nonostante la scoperta, nei decenni precedenti, di decine di microrganismi che causavano molte delle peggiori afflizioni dell’umanità, i ‘cacciatori di microbi’ non furono in grado, in piena pandemia, di dare una risposta sull’eziologia dell’influenza, mentre la malattia si diffondeva velocemente per il mondo causando un altissimo numero di morti : 40-50 o addirittura 100 milioni secondo le stime23. Dopo decenni di enormi progressi nel controllo delle malattie trasmissibili, la sconfitta subita dalla batteriologia trionfante nell’individuare l’agente eziologico , impartì una severa lezione nel drammatico-autunno inverno del 1918-1924: la vittoria definitiva della medicina sulle malattie infettive, che sembrava a portata di mano alla vigilia della guerra, era ancora ben lontana, mentre s’infittivano gli interrogativi preoccupanti sull’efficacia dei moderni metodi di salute pubblica25. L’idea che città, affollamento ed epidemie andassero insieme non era affatto nuova all’inizio del XX secolo. Per secoli, gli osservatori avevano notato che dove molte persone si ammassavano insieme, spesso seguivano malattie. Ma la pandemia d’Influenza, arrivata in piena guerra, nel 1918, poneva altri e diversi problemi26. Pur nell’oscurità che circondava l’agente patogeno – un virus – l’influenza fu subito riconosciuta come un’infezione respiratoria che viaggiava per contatto diretto da persona a persona, attraverso la tosse, gli starnuti e gli sputi: era una “malattia della folla” e fin dall’inizio fu collegata a luoghi affollati.
In assenza di cure e vaccini, gli interventi non farmaceutici dovevano puntare a interrompere la catena dell’infezione. Ma le misure che avevano funzionato meglio per controllare una malattia altamente infettiva – e cioè divieti di riunioni pubbliche, chiusura delle scuole, e rigorose quarantene e isolamento – applicato anche per la tubercolosi polmonare – erano quelli più difficili da implementare in una moderna società di massa. Per dimensione e complessità, le città erano ben diverse da quelle ottocentesche in cui i responsabili della salute pubblica avevano messo in campo l’armamentario di difesa: case, edifici pubblici , fabbriche, scuole, teatri, luoghi di ritrovo, sistemi di trasporto creavano una vasta autostrada in cui i germi mortali potevano viaggiare rapidamente. In un paese ancora in guerra come l’Italia, le misure adottate furono molto diversa da quelle messe in campo negli Stati Uniti, dove alcune città stabilirono un ordine sanitario rigidissimo e chiusure ermetiche dei luoghi pubblici27. All’avvicinarsi della seconda, tremenda ondata epidemica nella primavera -estate del 1918, i prefetti – su ordine del ministro dell’Interno – fecero ricorso alle misure che tendevano a regolare la congestione degli spazi pubblici, attraverso la chiusura di scuole, teatri, e altri luoghi di ritrovo28. Sebbene poche delle singole misure fossero del tutto nuove per la pratica della salute pubblica, la portata della loro attuazione non aveva precedenti. Le strategie incentrate al tempo della peste e del colera su gruppi specifici – indigenti, questuanti, mercanti girovaghi, prostitute – furono ampliate per coprire l’intera popolazione urbana. La principale preoccupazione erano gli assembramenti, legati anche allo stato di guerra. Processioni e funerali furono vietati, e così le manifestazioni sportive e le feste patronali. Aboliti anche i funerali e le cerimonie religiose. Fu stabilito anche un ‘coprifuoco’: l’orario di chiusura delle botteghe, ristoranti, negozi era anticipato rispetto ai tempi normali. Tra le misure preventive praticate durante la pandemia, interventi inefficaci quale la disinfezione con acido fenico degli spazi pubblici nelle grandi città – basata sull’idea del potere infettivo della polvere e dello sporco.
La Spagnola favorì l’entrata in campo di nuove precauzioni igienico-sanitarie – suggerite dalle autorità sanitarie pubbliche – per limitare l’infezione da goccioline: le ‘Istruzioni popolari’ insistevano sulla più scrupolosa igiene individuale, risciacquo della bocca con colluttori e lavaggio delle mani – una pratica ancora poco diffusa nel primo Novecento in Italia, persino tra il personale sanitario. Le raccomandazioni ricalcavano il protocollo standard anti-tisi: tenere le finestre aperte per diluire i germi nell’aria; proteggere gli altri da tosse, starnuti e sputi, usando un dispositivo di protezione – una larga maschera di garza – che compariva allora per la prima volta come misura di prevenzione. Utilizzato per la prima volta in ambito chirurgico , nel 1897, questo presidio sanitario ebbe una tiepidissima accoglienza in Italia e quasi solo in ambienti ospedalieri. Negli Stati Uniti, invece, furono imposte obbligatoriamente in alcune città29.
Un secolo dopo, una malattia altamente infettiva, causata da un coronavirus (SARS-CoV-2), segnalata per la prima volta a Wuhan, in Cina, avrebbe fatto diventare le mascherine in contesti comunitari il più diffuso dispositivo di protezione individuale per rispondere ad una nuova pandemia – Covid-19 – una minaccia senza precedenti per la salute globale. In assenza di farmaci e vaccini, le antiche misure di salute pubblica , indicati come interventi non farmaceutici – sono state implementate in tutto il mondo per frenare la diffusione del virus, diventando il cardine della risposta all’emergenza30: isolamento e quarantena, divieti di eventi e raduni sociali, chiusure di scuole , teatri e ristoranti, lavoro a distanza , viaggi nazionali e internazionali, coprifuoco. Se le misure di contenimento si collocavano in una sostanziale linea di continuità tra quelle messe in campo nelle diverse epidemie/pandemie che hanno attraversato i secoli, dalla peste alla Spagnola , passando per il colera, la febbre gialla, il vaiolo31, il Covid-19 ha segnato una cesura importante. Per la prima volta le misure di quarantena ( lockdown) sono state attuate contemporaneamente in tutto il mondo e l’Italia è stato il primo Paese a implementarle il 9 marzo 2020. Limitate , nel passato, a città, porti, aree territoriali circoscritte, l’introduzione della quarantena estesa all’intero territorio nazionale è stata un unicum nella storia . Nessuno poteva uscire di casa se non per necessità, per lavoro o gravi ragioni di salute. Questa misura ha trasformato ogni casa in un luogo di isolamento (autoisolamento) . Per uscire , per motivi di lavoro, per ragioni di salute , i cittadini dovevano munirsi di autocertificazioni in cui dichiaravano, sotto la propria responsabilità, se fermati da forze di polizia, di non essere in quarantena: una sorta di ‘fede della salute’ come quelle distribuite in tempo di peste a coloro che venivano autorizzati dalle autorità sanitarie a circolare liberamente, in quanto liberi ‘da ogni sospetto di mal contagioso”.
Durante la pandemia di Covid-19 , i termini quarantena e isolamento ( o lockdown, sono stati a al centro del dibattito pubblico. Usati talora come sinonimi, gli interventi non farmaceutici – come vengono ormai comunemente indicati – rimandano ad antiche risposte di salute pubblica, di segno igienico- poliziesco, piuttosto che medico-sanitario. Elaborate per far fronte alla peste nera a partire dal XIV secolo32, sono state messe in campo tra XX e XXI secolo – in risposta a focolai di altre malattie infettive emergenti e riemergenti, come la malattia da virus Ebola (EVD), la Sindrome respiratoria acuta grave (Sars) , l’influenza, Covid-19. Se sono efficaci nel salvare vite umane durante le epidemie – specialmente in presenza di un alto rischio di trasmissione da persona a persona e in assenza di terapie efficaci e vaccini – entrambe quelle strategie- pur con un elevato livello di sofisticazione dovuto ai progressi tecnologici – implicano una limitazione delle libertà individuali, la restrizione dei movimenti e il confinamento in uno spazio particolare/specifico. La risposta istituzianale alle grandi epidemie/ pandemie ha sempre sollevato, in ogni tempo, una miriade di questioni politiche, etiche , legali, socio-economiche. Farne la storia può aiutare a inserirle nel contesto e coglierne le lezioni per il presente e per il futuro.

Note

  1. Sulla “Peste Nera”, la più grave catastrofe sanitaria della storia, è disponibile una sterminata bibliografia per l’Europa e l’area mediterranea, che la ricerca sta arricchendo, per quanto riguarda gli effetti sociali, demografici ed economici, la religione popolare, l’iconografia e gli aspetti medico-scientifici. Numerosi sono anche i racconti di città e cronache contemporanee a cui si può fare riferimento per studiare l’impatto della tremenda malattia sui contemporanei, i loro atteggiamenti di fronte alla morte, e per la descrizione dei sintomi (per una biografia completa e comparativa cfr. Gabriele Zanella, Italia, Francia e Germania: una storiografia a confronto, in “Atti del XXX Convegno Storico Internazionale”, La peste Nera: dati di una realtà ed elementi di una interpretazione, Spoleto, Centro Italiano dell’Alto Medioevo, 1994, pp.49-136. Per l’ambito mediterraneo , Daniel Cohen, The Black Death, 1347-1351, New York, Watts, 1974; Jean-Noël Biraben, Les hommes et la peste en France et dans les pays europèens et méditerranéens, Paris-La Haie 1975-76, vols. 1-2; William McNeill, Plagues and Peoples, New York, Anchor Books ; Klaus Bergdolt, La peste nera, Milano: Edizioni Piemme, 1997; Ovidio Capitani, Morire di peste: testimonianze antiche e interpretazioni moderne della peste nera del 1348, Bologna, Edizioni Patron, 1995; Philip Ziegler, Colin Platt, The Black Death, 2nd ed., London, Penguin, 1998). Per alcune città italiane, Elisabeth Carpentier, Une ville devant la peste: Orvieto et la peste noire de 1348, Paris, Sevpen, 1962; Jhon Henderson, La Peste Nera a Firenze: le risposte mediche e communali, in Maria Luisa Betri, Alessandro Pastore ( a cura di), L’arte di guarire. Aspetti della professione medica tra Medioevo ed Età Contemporanea, , Bologna, Clueb, 1993, pp. 11-29; Samuel K. Cohn, The Black Death: End of a Paradigm in  “The American Historical Review”, 2002,  n.107 , pp. 703–738.
  2. Carlo Maria Cipolla, Contro un nemico invisibile: epidemie e strutture sanitarie nell’Italia del Rinascimento, Bologna, Il Mulino, 1986; Daniel Ponzac, Quarantines et lazarets: l’Europe et la peste d’Orient (XVII-XX siècles) , Aix En-Provence, Edisud, 1986. Una interpretazione critica del governo “politico” delle epidemie è in Sheldon Watts, Epidemics and History Disease. Power and Imperialism , New Haven and London, Yale University Press, 1997, in particolare il cap. 1, “Human response to Plague in Western Europe and the Middle East, 1347 to 1844”, pp.1-39.
  3. Ovidio Capitani, Morire di peste: testimonianze antiche e interpretazioni moderne della peste nera del 1348, Bologna, Patron, 1995.
  4. Mirko D. Grmek, Le concept d’infection dans l’Antiquité et au Moyen Âge, les anciennes mesures sociales contre les maladies contagieuses et la fondation de la première quarantine a Dubrovnik,” in «Rad Jugoslavenske Akademije », 1980, 384, pp. 9-55; Idem, Les débuts de la quarantine maritime,” in « L’Homme, la santé et la mer », Christian Buchet ( a cura di ) , Paris,Honoré Champion, 1997, pp. 39-60.
  5. È incerto se questa durata fosse influenzata dalle teorie di Ippocrate che sosteneva che le “ malattie acute” si manifestavano dopo un limitato numero di giorni di incubazione. O se, invece, fosse legata alla teoria dei numeri applicata alla scienza naturale dal grande matematico Pitagora. Il 4 e il 7 rivestivano un particolare significato. Nella Bibbia un numero infinito è indicato come 70 volte 7. Tra l’altro il 7 moltiplicato per 4 dà 28, cioè il mese lunare della mestruazione, e 7 per 40 dà 280, cioè la durata in giorni della gravidanza. Così i 40 gg che servirebbero per evitare il contagio delle malattie, sarebbe derivato dal concetto di sacralità del numero 40.
  6. Nelli Vanzan Marchini, Le leggi di Sanità della Repubblica di Venezia , Venezia, Neri Pozza, 1995; Richard Palmer, L’azione della Repubblica di Venezia nel controllo della peste. Lo sviluppo della politica governativa, in “Venezia e la peste, 1348/1797”, 1979, pp. 103-110.
  7. A Genova la presenza di “bullettones sanitates” è documentata dal XIV secolo . Cfr. Antonio Luigi Bruzza, Origine dei lazzaretti e dei Magistrati di Sanità, Genova, Tipografia del Commercio, 1874 , p. 39.
  8. Nelli Vanzan Marchini, Le leggi di Sanità della Repubblica di Venezia, cit.
  9. Carlo Maria Cipolla, Chi ruppe i rastelli di Monte Lupo? , Bologna, Il Mulino, 1977; Paolo Preto, Peste e società a Venezia, Vicenza, Neri Pozza, 1978, pp. 76-89.
  10. In questa struttura delimitata, chiusa, la peste veniva messa sotto controllo , governata da regole e regolamenti. La volontà di controllo dall’alto, dei pubblici poteri si incontrava col consenso dal basso, di chi andava in quarantena di propria volontà. Michel Foucault, Nascita della clinica , Torino, Einaudi, 1977, pp. 29-30.
  11. Francesco Testa, Relazione istorica della peste che attaccossi a Messina nell’anno millesettecento quarantatre, Palermo, 1745, p.36; Giuseppe Pinna, Sulla pubblica sanità in Sardegna dalle sue origini e fino al 1850, Sassari-Caglari , 1898.
  12. «nec medicus visitat infirmum, si tamen ei dantur quicquid infirmus in hac vita possideret». Dirk Schoenaers, Dirk, Graeme Dunphy, Cristian Bratu (a cura di), Breve chronicon Flandriae, in Encyclopedia of the Medieval Chronicle, consultato il 10 maggio 2022.
  13. G. Palloni, Osservazioni mediche sulla malattia febbrile dominante in Livorno, Livorno 1804; Id. Parere medico sulla malattia febbrile che ha dominato la città di Livorno l’anno 1804, Firenze, 1805.
  14. Per una breve storia del colera cfr. Robert Pollitzer, Cholera , Geneve, World Health Organization, 1959. Tra gli studi sugli effetti sociali del colera Louis Chevalier ( a cura di) , Le Choléra: La première épidémie du 19 e siècle, La Roche sur Yon, Imprimerie Centrale de l’ouest, 1958; Albert Colnat ( a cura di) ,L’âge du Choléra, in « Les Epidémies et L’Histoire », Paris, Editions Hippocrates, 1937, pp.162-181 ; Jaques Ruffié, Jean-Charles Sournia, Les épidémies dans l’histoire de l’homme , Paris, Flammarion, 1984. Per quanto riguarda l’Italia, cfr. Eugenia Tognotti, Il mostro asiatico. Storia del colera in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2000; Anna Lucia Forti Messina, L’Italia dell’Ottocento di fronte al colera, in Storia d’Italia, Annali 7, Torino, Einaudi, 1984; Paolo Sorcinelli, Nuove malattie antiche paure. Uomini e colera nell’Ottocento, Milano, ed. Franco Angeli. Antonio Tagarelli, Anna Piro ( a cura di), La geografia delle epidemie di colera in Italia. Considerazioni storiche e medico-sociali, San Giovanni in Fiore, Publisfera, 2002, 3 voll.
  15. Patrice Bourdelais ed., Peurs et Terreurs face à la contagion. Choléra, tuberculose, syphilis, XIXe-XXe siècle , Paris, Fayard ,1988 ; Patrice Bourdelais, J-Y. Raulot, Une peur bleu , Paris,Payot, 1987.
  16. Asa Briggs, Cholera and society in the nineteenth century, in “Past and Present”, 1961, 19, pp. 76-96.
  17. Atti del Governo di Sua Maestà il re di Sardegna , Regie Patenti colle quali S.M. istituisce una Giunta Superiore di Sanità coll’incarico di dare gli opportuni provvedimenti per preservare li Regi Stati dal Cholera che imperversa nelle parti orientali d’Europa, n. 2410, 28 luglio 1831 , Torino; Archivio di Stato di Napoli, Archivio Borbonico, Sullo stabilimento del cordone di frontiera e della crociera, b. 932, 9 agosto 1835; Atti del Governo di S.M. il re di Sardegna, Manifesto dell’eccellentissimo Magistrato Generale di Sanità portante alcuni provvedimenti a preservazione del cholera morbus, addì 3 agosto 1835 .Torino,1835.
  18. Eugenia Tognotti, Il mostro asiatico , cit ( in particolare il Cap. III “ Gli Stati italiani di fronte al colera: i sistemi di protezione”, p.45 ss; Anna Lucia Forti Messina, Società ed epidemia. Il colera a Napoli nel 1836 , Milano, Franco Angeli Ed., 1979; Giancarlo Dardano, Epidemie, contesto urbano e interventi di risanamento a Genova, in “Storia urbana, 1977, 3, pp. 46-52; Anna Lucia Forti Messina, Società ed epidemia. Il colera a Napoli nel 1836 , Milano, Franco Angeli Editore, 1979.
  19. Per le città toscane, nell’epidemia di colera del 1864-55 cfr. Pietro Betti, Sul colera asiatico che contristò la Toscana nelli anni 1835-36-37-49. Considerazioni mediche di Pietro Betti , Firenze, Forni, 1856; Id. Documenti annessi alle considerazioni mediche sul colera asiatico che contristò la Toscana negli anni 1835-36-37-49 , Firenze, 1857.
  20. Richard J. Evans, Epidemics and Revolutions: cholera in nineteenth-Century Europa in “Past and Present”, n. 120, 1988, pp. 120-123.
  21. Jeffery K. Taubenberger, Morens, David M, 1918 influenza: the mother of all pandemics, in “Emerging Infectious Diseases”, 2007, n.12, pp.15–22.
  22. Dopo decenni di eclissi sulla cosiddetta Spagnola , la devastante pandemia d’influenza che attraversò come un uragano l’intero pianeta nel 1918-19, gli studi hanno conosciuto un’escalation, in particolare negli ultimi anni. Tra le opere generali cfr. Alfred W. Crosby,, America’s Forgotten Pandemic : The Influenza of 1918. 2nd ed.  New York, Cambridge University Press, 2003; John M. Barry, The Great Influenza : The Epic Story of the Deadliest Plague in History, New York, Viking, 2004; W.I B. Beveridge, Influenza: The Last Great Plague , London, 1977 ; Richard Collier, La malattia che atterrì il mondo , Mursia, Milano, 1980; Laura Sinney, 1918. L’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo, Marsilio, Venezia, 2019. Per l’Italia cfr. Eugenia Tognotti, La Spagnola in Italia. Storia dell’Influenza che fece temere la fine del mondo, 2 Ed. , Franco Angeli Editore, Milano, 2015; Francesco Cutolo, L’ influenza spagnola del 1918-1919. La dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale,IS.R.Pt, Pistoia 2020.
  23. Niall P. A. S. Johnson , Juergen Mueller. Updating the Accounts: Global Mortality of the 1918-1920 “Spanish” Influenza Pandemic in “ Bulletin of the History of Medicine”, vol. 76, n.1, 2002.
  24. George A. Soper, The lessons of the Pandemic, in “Science”, 1919, n. 49 (1274), pp. 501-506; GM Price,  Influenza-destroyer and teacher: A general confession by the public health authorities, Survey , 1918, n.41, pp.367–369.
  25. Howard Markel, Harvey B Lipman, J. Alexander Navarro, Alexandra Sloan, Joseph RMichalsen, Alexandra Minna Stern, Martin S Cetron. Non pharmaceutical Interventions Implemented by US Cities During the 1918-1919 Influenza Pandemic in “JAMA”, 2007, n. 6, pp. 644-54.
  26. Daniel Oriesek, Non-pharmaceutical interventions in the fight against pandemics now and then, consultato il 10 maggio.
  27. Martin C.J Bootsma, Neil Ferguson, The effect of public health measures on the 1918 influenza pandemic in U.S. cities, in “PNAS”, 2007, n. 104, pp.7588-7593
  28. Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Sanità Pubblica, Circolare del 18 Ottobre 1918, Epidemia d’Influenza, b.180.
  29. GM Price,  Influenza-destroyer and teacher: A general confession by the public health authorities, Survey , 1918, n.41, pp.367–369.
  30. Liu, Y., Morgenstern, C., Kelly, J. et al. The impact of non-pharmaceutical interventions on SARS-CoV-2 transmission across 130 countries and territories. BMC Medicine,  2021, n. 40.
  31. Eugenia Tognotti , Lessons from the history of quarantine, from plague to influenza A, in “Emerging INfectious Diseases”, 2013, n. 19, pp. 254-9.
  32. Ibidem.

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