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Fortune e sventure del cortigiano: il caso della carriera politica di Jacopo Gaufrido nella prima metà del Seicento
di , numero 51, giugno 2021, Saggi e Studi, DOI

Fortune e sventure del cortigiano: il caso della carriera politica di Jacopo Gaufrido nella prima metà del Seicento
Come citare questo articolo:
Fabio Martelli, Fortune e sventure del cortigiano: il caso della carriera politica di Jacopo Gaufrido nella prima metà del Seicento, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 51, no. 11, giugno 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.5961

Jacques Jaufré o Jacopo Gaufrido secondo l’uso quasi univoco delle fonti coeve rappresenta una tipologia peculiare in seno ai letterati. E tuttavia nuovi moduli interrelazionali fra potere ed intellettuali nell’ ”Autunno del Rinascimento” accomunarono gli scrittori di questo periodo così che non pochi tra essi conoero un susseguirsi di alterne fortune al pari del Gaufrido. Va poi sottolineato che di tale personaggio la valutazione, quasi esclusivamente negativa, proveniva da figure che avevano condiviso con esso la partecipazione a numerose Accademie culturali,: con Gaufrido avevano inoltre in comune molte esperiene esistenziali a cominciare dai contatti con i grandi nobili all’interno di una sorta di proto République des Léttres e dall’ambizione, concretata o meramente ipotizzata, di acquisire un ruolo politico formale o, in subordine, di entrare de facto nella cerchia dei potenti nelle vesti di informatori o spie.
Per dare una definizione rapida ed ovviamente semplicistica del contesto in cui operò il Gaufrido si può osservare che, dalla natia Francia, egli si calò in un contesto italico in cui resisteva una sorta di galassia di principati, più o meno vasti, tutti comunque correlati all’autorità ed alla forza del maggiore tra tutti gli stati italiani del tempo e cioè il Papato.
L’autoidentità complessiva, quella che di fatto univa in termini ideologico-formali i signori di questi potentati era il presentarsi come una sorta di “super oligarchia” cui la storia, nei secoli, avrebbe affidato e continuava ancora ad affidare il compito di proteggere il Papato e le sue libertà.
Lo Stato della Chiesa a sua volta recepiva di fatto in senso inverso questa stessa chiave di lettura in nome di una presunta diretta dipendenza patrimoniale o di antichi legami semifeudali o di un obbligo spirituale verso la Cattedra di San Pietro. Da ultimo se necessario, il Papato faceva pesare la propria predominanza politica, economica e diplomatica rispetto alla troppo spesso palesata impotenza dei vari staterelli italiani. Perciò questi ultimi, visti da Roma, apparivano per l’appunto come una sorta di “corona” di strutture dipendenti dal Papato e vincolate ad seguirne la politica ed a sostenerla anche in termini militari.
Nella realtà questa prospettiva corrispondeva fondamentalmente ad una sorta di reciproca autogiustificazione ideologica del contesto storico costituitosi anche se, come è ovvio, i piccoli stati della Penisola cercavano di resistere, a volte anche in termini militari, alle ambizioni di espansione dello Stato della Chiesa e all’aggressività dei familiari dei vari pontefici nell’erodere antiche possessioni nobiliari.
Queste dinamiche si trovavano a svilupparsi, poi, all’interno del grande conflitto tra Spagna e Francia che a partire dal 1618 esplose feroci ed apparentemente quasi inarrestabili della guerra dei Trent’anni.
In questo panorama ambiguo e complesso si mosse allora dalla Francia verso l’Italia il Gaufrido.
Presumibilmente egli nacque intorno al 1610 nel piccolo centro, La Ciotat, dalla bella assonanza provenzale.
A smentire sin da subito le voci ostili levatesi dalle fonti dopo la sua condanna capitale, va detto che, a dispetto della quasi unanimità su tale dettaglio, il padre di Jacopo non era medico, bensì notaio e soprattutto che non indirizzò il figlio ad emigrare verso Bologna perché costretto dall’indigenza, scelta peraltro piuttosto bizzarra sotto ogni profilo pragmatico.
Il padre che medico non era ma che essendo notaio aveva una condizione economica di tutto rispetto volle che invece la professione medica fosse esercitata dal figlio e perciò affrontò non irrilevanti spese per mandarlo a studiare nella lontana Bologna1.
Il suo arrivo in città non ha lasciato particolari tracce salvo il ricordo, peraltro incerto ed esso stesso suscettibile di essere oggetto di un topos da parte degli amici del Gaufrido, della rapidità con cui egli avrebbe appreso contestualmente la lingua italiana, oltre al latino ed al greco che padroneggiava perfettamente; si aggiunga poi che il Gaufrido concluse gli studi di medicina con una precocità cui non corrispose in seguito un vero interesse per questa disciplina. Non risulta infatti che egli abbia esercitato tale professione né che abbia tentato di insegnare presso l’ateneo.
Purtroppo la mole non irrilevante degli scritti che egli redasse nel corso della sua vita è stata editata solo in minima parte.
La maggior quantità delle sue opere sono rimaste allo stato di manoscritti, quasi meri lacerti conservati frammentaria.
Di certo possiamo dire che egli fu autore di una serie di testi miscellanei tra i quali compaiono anche alcuni, pochi fogli dedicati alla medicina ma è difficile, per non dire quasi impossibile, sia il datarli esattamente sia comprendere appieno quale ne fosse la funzione.
Di certo Gaufrido fu considerato, per quanto ci è noto, come un valido studioso di tale materia dal momento che andava impartendo lezioni ai più giovani studenti di varie discipline e tra queste figurava anche la medicina e forse i pochi lacerti di suo pugno pervenuti a proposito di essa possono avere un collegamento con questa sua attività di didattica2.
E tuttavia appare significativo che già in questo contesto egli privilegiasse piuttosto le lezioni di logica, di metafisica e di letteratura.
In altri termini egli compie, non sappiamo esattamente per quali motivi, una brusca scelta di campo.
Laureatosi, come era nei progetti paterni, in medicina, quasi subito egli abbandona ogni tentativo di continuare gli studi in questo settore e tanto meno fa mostra di abbracciare la professione e si dedica piuttosto con assoluta passione e successo a due filoni ben precisi: la letteratura e le scienze esatte, in particolare matematica ed astronomia.
Nulla ci è dato sapere circa le ragioni di questa svolta ma è certo che essa fu praticata in ambo gli ambiti con particolare successo.
In primo luogo egli come poeta abbraccia, ed era quasi inevitabile, l’indirizzo marinista che allora prevaleva in maniera quasi assoluta nella penisola e ciò lo mise in contatto con quello che, a torto od a ragione, era considerato come il più brillante tra gli epigoni dello stesso Marino, di cui era stato fedele amico, cioè a dire l’Achillini3.
Tra il poeta e giurista ed il Provenzale si istituisce un’amicizia forte, solida e duratura.
Qualche riflessione sulla personalità dell’Achillini va comunque rapidamente esposta dal momento che se lo riducessimo alla dimensione di prestigioso letterato o ad archetipo del poeta marinista di successo (così come lo interpretò il Manzoni mettendolo più volte in ridicolo nelle pagine dei Promessi Sposi) compiremmo di certo un’analisi limitativa.
La fortuna pubblica dell’Achillini, infatti, fu legata in buona parte alla sua attività di esperto di giurisprudenza. Praticò direttamente l’attività forense ed anzi fu un protagonista di alcuni dei casi giudiziari celeberrimi nella città a quel tempo, a cominciare dalla drammatica vicenda del presunto Andrea Casali, giovane patrizio bolognese dato per morto nelle Fiandre e ricomparso in città molti anni dopo liberato dai Padri dell’opera del Riscatto dalla schiavitù in terra africana.
Circa il suo riconoscimento (legato anche a rilevanti interessi patrimoniali) la società locale si divise e l’Achillini (che sosteneva la parte di quanti tacciavano questo révenant di impostura) fu più volte insultato e dileggiato. E pur tra tanti incarichi egli attese sempre con fervore ai propri obblighi accademici nel cui svolgimento dimostrò una particolare capacità di didattica.
L’Ateneo lo volle come docente ad ogni costo, giungendo persino ad attribuirgli uno stipendio di 300 lire, somma del tutto inusitata e talmente incongrua, così almeno veniva definita, da spingere i suoi colleghi ad una pubblica protesta e ad una altrettanto clamorosa risposta dell’Achillini il quale finì per prevalere e conservare tale stipendio.
Sotto questo profilo l’Achillini era tanto brillante quanto, si potrebbe dire in un certo senso, avido di onori e denaro.
Sappiamo che si separò dall’Ateneo quando chiese di ricoprire una nuova cattedra, pretendendo uno stipendio ancora più alto e di qui iniziò una serie di peregrinazioni tra le varie università vicine.
Fu dapprima a Ferrara poi si trasferì invece a Parma sotto l’entusiastica protezione di Odoardo Farnese che gli concesse stipendi favolosi, tale era ormai la reputazione e la comprovata capacità di questo personaggio come giurista.
Ma al pari di molti uomini di cultura del tempo l’Achillini intendeva anche fare del proprio iter studiorum una sorta di “grimaldello” verso più elevate posizioni in un ambito squisitamente politico.
Egli fu sempre attratto dall’ingresso nelle gerarchie ecclesiastiche tanto che, forse avendo ricevuto una qualche prebenda minore, passò tutta la vita in abito clericale.
Questa devozione esteriore avrebbe dovuto forse anche aiutarlo nella sua ininterrotta richiesta di essere assunto a Roma in qualche posizione di prestigio presso la Cattedra di San Pietro ed è singolare notare che, nonostante i suoi successi di avvocato, gli fu sempre opposto un diniego.
Al contrario egli si dimostrò (essendosi proposto egli stesso per tale ruolo) diplomatico abbastanza brillante, tra l’altro proprio per gli stessi Farnese.
Le sue furono missioni ufficiali anche se non mancò probabilmente di svolgere una poco significativa attività di spionaggio.
Questo personaggio proteiforme e tanto ricco di erudizione e di contraddizioni uno dei primi protettori del Gaufrido e la loro divenne un’amicizia tanto solida da spingere l’Achillini non solo a rafforzare Gaufrido nell’idea di volgersi alla sola letteratura ma anche ad impegnarsi nella pubblicazione a stampa delle poche opere del Francese.
Quest’ultimo si andava così affermando come letterato dai molteplici interessi ed ai distici latini assommava infatti sempre più raffinate poesie in volgare e soprattutto anche una sorta di anticipazione della critica artistica, come possiamo desumere da un suo breve scritto su un’opera di Guido Reni.
L’Achillini inoltre si batté perché il Gaufrido potesse essere membro della Accademia della Notte, uno dei luoghi in cui i massimi esponenti della cultura bolognese si incontravano e dove un certo spirito eterodosso in materia politica circolava sovente, tollerato dalle autorità pontificie.
Il legame tra l’Achillini ed il Gaufrido viene suggellato poi da un libretto di poesie in cui, seguendo il genere pseudo epistolografico, i due si scambiano opinioni su argomenti di varia natura .
L’opera si divide in parti, con una prima sezione che riprende le tematiche più direttamente mariniste, legate all’osservazione dei temi topici della letteratura di ogni età e si risolve in una sorta di gioco d’abilità nello sviluppo parallelo di una stessa questione che i due amici esaminano gareggiando tra loro in cultura ed abilità letteraria.
Cambia però il tono nella seconda ed ultima parte della piccola raccolta laddove entrambi si impegnano in tematiche di carattere teologico; non si tratta di approfondimenti di particolare rilevanza né tanto meno essi si propongono come novelli interpreti di questioni di gran peso.
Pur conservando un tono sostanzialmente leggero essi comunque si dedicano ad una sorta di riepilogo, elaborato in termini letterariamente piacevoli, di alcuni dei principali dogmi del pensiero cattolico e del rapporto con la Chiesa di Roma; opinioni tutte estremamente ortodosse e non suscettibili di essere oggetto di qualche dubbio in termini di eresia4.
Il ruolo dell’Achillini fu, da molte fonti del tempo e da molti storici successivi ed anche di epoca nostra, valutato come il fattore che decise della futura carriera politica di Gaufrido
Sicuramente il rapporto tra l’Achillini ed i Farnese fu un viatico sicuro per il Provenzale al fine di installarsi nella corte di Parma; era infatti il supporto di un giurista e, al tempo stesso, di un acclamatissimo letterato, che il Duca Odoardo aveva voluto con sé a dimostrare il prestigio culturale del proprio dominio; e dunque anche il Gaufrido, tanto esaltato, sino ai limiti del ridicolo, in così tante opere dall’Achillini non poteva che avere aperte le porte del principato.
Il rapporto con l’Achillini sembrerebbe per molti versi assorbire e riassumere in sé tutto quanto era rilevante e al tempo stesso necessario a Gaufrido per la propria ascesa futura.
Del resto, tramite l’Achillini, ormai in Bologna e nell’ambito culturale assai vasto che i letterati di quest’ultima frequentavano nel territorio padano e non solo, il Gaufrido veniva presentato come uno dei massimi letterati dell’età sua, punto di partenza dunque per quella carriera politica che, forse da subito, il Gaufrido aveva vagheggiato.
Eppure vediamo che nello stesso periodo e sempre a Bologna egli divide il proprio tempo tra le preoccupazioni letterarie, la stampa dei propri versi di concerto con l’Achillini, e la cura dell’amicizia profondissima verso quest’ultimo, con un interesse apparentemente non meno pregnante per le scienze esatte.
Il tramite in questo caso è un altro personaggio locale, Cesare Marsili, figura indubbiamente di ben maggiore rilevanza soprattutto in termini sociali e politici rispetto all’Achillini.
Egli appartiene infatti ad una delle più antiche e prestigiose famiglie della città. La sua autorevolezza di scienziato poi è riconosciuta e nota da tempo non solo a Bologna ma nell’intero territorio nazionale e in molte parte d’Europa.
Tra i corrispondenti del Marsili figurano membri delle più importanti casate nobiliari italiane del tempo, da esponenti della famiglia Medici sino ai molti membri del casato del Montecuccoli, uomini di potere che ammirano e rispettano il Marsili non solo come scienziato, ma, soprattutto, come tramite e punto di riferimento di un pensatore che tutti costoro seguono con ammirazione e che poi tenteranno senza successo, di difendere.
Si tratta di Galileo Galilei che ebbe tra i propri corrispondenti più cari lo stesso Cesare Marsili con il quale intrattenne un carteggio che getta luce sulle molteplici tematiche che i due uomini, ovviamente con ben diverso livello qualitativo sul piano scientifico, dedicavano alla teoresi; nell’epistolario tra Cesare e Galileo (ora edito nell’edizione Nazionale delle opere del grande scienziato) vi era anche ampio spazio per aspetti decisamente privati, personali, addirittura compromettenti se si tiene conto che su richiesta degli amici del Marsili, e con ogni probabilità con generoso compenso, Galileo si riproponeva quale interprete delle congiunzioni astrali di questo o quel membro della nobiltà.
Il ruolo che Cesare Marsili aveva poi nelle Accademie e nello stesso Ateneo e, più in generale, nella vita politica bolognese era indubbiamente assai superiore a quello dell’Achillini.
Gaufrido entrò presto in contatto con lo studioso, sollecitando in Cesare una tale attenzione ed un tale entusiasmo, nelle vesti questa volta, di cultore di cosmologia e dunque del pensiero di Galileo, da indurlo a scrivere in forma decisamente encomiastica al grande studioso circa questo nuovo sodale.
E lo stesso Galileo, interessato dall’entusiasmo di Cesare, si spinse addirittura a chiedere notizie di quello che da principio cominciò a chiamare lo studente franzese come già risulta nella lettera al Marsili del 29 novembre 1631.
I due poi, attraverso il Marsili, ebbero contatti che infine pur se in casi limitati, a quanto ci risulta, si tradussero in un rapporto quasi diretto.
Il Gaufrido del resto riusciva a fondere le due linee della sua progressione culturale, quella umanistica e quella scientifica,e così, ottenuto di essere adlectus nell’Accademia della Notte, qui proponeva ora alcune apologie del metodo galileiano, così come risulta dalla lettera allo stesso Galileo scritta dal Francese il 26 marzo 1632.
E ancora scriveva, inviandone poi copia allo stesso Galileo, un’elegante apologia latina dello scienziato nella sua veste di dux dell’Accademia dei Lincei5, Galilaeo Galilaeo Lynceorum duci, appunto edita a Bologna nel 1631.
L’apprezzamento del Marsili era tale da ospitare in quel periodo il Gaufrido nel proprio palazzo.
E del resto, per quanto ci è noto, il Gaufrido a quell’epoca era particolarmente impegnato nella diffusione, quasi in termini “pubblicitari”, del pensiero galileiano all’interno della cultura italiana così che il Provenzale ebbe l’idea di comporre, sotto le forme di un breve apologo latino, una sorta di asserzione formale di adesione al pensiero di Galileo dedicandolo, per l’appunto, alla natura della terra come corpo mobile, facendola seguire da una lunga sottoscrizione da parte di scienziati e uomini di cultura, una specie di “manifesto”, si potrebbe dire, in cui egli chiedeva da molti di schierarsi pubblicamente per Galileo.
Quanto quest’operazione fosse opportuna in senso politico è difficile a dirsi, ma di certo essa fu caratterizzata da un bizzarro episodio.
Nell’elenco di firmatari che erano qualificati come sostenitori delle tesi galileiane (ed il testo era già stampato, inutile dirlo, a spese dello stesso Marsili) compariva anche il nome del Cottunio, celebre studioso di origini greche, docente prima a Bologna ed infine a Padova dove diede alle stampe una fondamentale opera di metafisica aristotelica e saldamente legato a taluni dogmi anti galileiani che, a suo dire, trovavano conferma nel pensiero dello Stagirita.
Cottunio dunque si risentì profondamente di essere stato inserito, a suo dire indebitamente e senza alcuna consultazione, in questo elenco che lo poneva tra i seguaci di un pensiero che egli, al contrario, avversava e per nulla condivideva.
L’intera vicenda si fece imbarazzante dal momento che l’opera era ormai stata stampata, anzi il Marsili ne aveva ampiamente dato notizia allo stesso Galileo informandolo non da ultimo dei nomi dei firmatari.
La presenza del nome del Cottunio aveva favorevolmente, con ogni evidenza, sorpreso lo stesso Galileo il quale rispondeva con varie lettere nelle quali si premurava ogni volta di ringraziare tutti coloro che erano artefici di tale cortesia il Gaufrido, naturalmente, il Marsili, ma anche lo stesso Cottunio, quasi che quella fosse la prova di una sorta di conversione di quest’ultimo alla sua metodica interpretativa (se non all’intera struttura del suo pensiero sull’organizzazione del cosmo).
Il Cottunio tuttavia non cedeva, anzi iterava con toni sempre più veementi la propria protesta ed il proprio diniego a vedere la propria firma posta in quell’elenco. Non restava altro (e il Marsili lo rilevava con estremo disappunto in varie lettere) che provvedere e placare innanzi tutto il Cottunio stesso.
Si giunse così ad una seconda edizione dalla quale il nome dello studioso dissidente ovviamente risultava espunto.
Ma del pari emerge con evidenza come ciò che maggiormente preoccupava allora il Marsili non era tanto l’ira di quest’ultimo, quanto piuttosto il disagio di dover dare al Galileo notizia dell’equivoco che si era creato. Ed è bizzarro che in tale circostanza il Marsili, certo mettendo in conto il rapporto strettamente amicale con Galileo, non cercasse in qualche modo di sottolineare il ruolo, quanto meno improvvido, avuto dal Gaufrido in quella circostanza: l’idea dell’opera era infatti del Francese, sua la compilazione del testo, sua la raccolta delle firme da inserire.
Certo il Marsili era colui che concretamente ne aveva consentito l’edizione e, visto che ospitava il Gaufrido, non poteva anche non essere il supervisore del testo, ma poche frasi avrebbero in qualche modo potuto agevolare o alleggerire, rispetto al grande scienziato toscano, la posizione del Marsili il quale appariva, nonostante tutto, non solo contrito ma anche allarmato dall’episodio quasi che esso potesse privarlo dell’amicizia di Galileo.
Eppure e converso possiamo anche dire che tanto teneva anche al rapporto con il Gaufrido da assumere su di sé la sostanziale responsabilità dell’incidente. Ciò avviene attraverso un processo ex silentio ma proprio per questo estremamente esplicito: a Galileo infatti non viene fornita alcuna spiegazione di come il nome del Cottunio sia stato inserito dal Gaufrido anzi il nome del Gaufrido, sottolineato molte volte nell’annuncio della prima edizione come quello dell’artifex primario di questo forte gesto di solidarietà, ora che si tratta di ripartire le colpe per questo scivolone di incomprensibile natura, del Provenzale quasi non si parla.
Se dunque da un lato il Marsili si responsabilizza dinanzi a Galileo come colpevole di un fraintendimento di dimensioni clamorose e chiede venia al grande studioso, dall’altra, tuttavia, evitando accuratamente di spiegare la meccanica con cui questo evento era stato reso possibile, con ogni evidenza esclude il nome del Gaufrido dalla pesante responsabilità che questi non poteva non avere in questo episodio.
Gli interrogativi restano dunque molti: come poté in ogni caso il Marsili ignorare una semplice revisione delle bozze di questo testo prima che andasse in stampa? Come e perché il Gaufrido ritenne di potersi appropriare del nome di Cottunio, notoriamente avverso a Galileo, per porlo tra quelli degli apologeti del grande scienziato?
E non da ultimo vien da chiedersi se (al di là del carattere in molte circostanze tanto discreto e disponibile soprattutto verso gli amici quale era il Marsili) vi siano state altre ragioni per motivare la risposta di Galileo, sobria e priva di qualsiasi accenno polemico.
In essa egli non chiede alcuna giustificazione né, tanto meno, le origini di quel clamoroso equivoco. Accetta de plano le argomentazioni del Marsili e ancora una volta porge i propri saluti allo stesso Cesare, al Gaufrido e nuovamente al Cottunio, noblesse oblige in un certo senso, anche se, probabilmente, il senso ultimo di questo gesto, estremamente elegante, risiede nella volontà di dimostrare al Cottunio di rispettare senza ostilità o acrimonia la decisione di quest’ultimo di discostarsi da ogni aspetto del pensiero galileiano6.
Nel ’32, dopo aver in Bologna conquistato menti e cuori dei maggiori studiosi, sia sul versante umanistico sia su quello scientifico, dopo essere riuscito ad accedere alle importanti Accademie locali ed aver trovato una via diretta anche presso l’élite cittadina giungendo ad essere ospite di un membro del casato dei Marsili, tanto rilevante e celebre per i suoi meriti scientifici, ecco che d’improvviso Gaufrido deve abbandonare Bologna.
Le fonti dicono che la sua Apologia per il Re di Francia risultò sgradita all’autorità pontificia ed il Gaufrido a questo punto decise di spostarsi a Venezia.
Non abbiamo alcun elemento sicuro per confermare questa presa di posizione ecclesiastica contro il testo del Gaufrido.
Il Gaufrido peraltro già si era segnalato, in termini politici filo-francesi, per una breve composizione latina circa l’immotivato odio che, secondo lui, nella Penisola avrebbe colpito per l’appunto i suoi connazionali.
Di certo la scelta di Venezia come luogo d’asilo appariva perfettamente compatibile: proprio nella città lagunare le conoscenze maturate nell’ambito bolognese gli aprivano le porte di un entourage culturale vasto e prestigioso.
Il Marsili otteneva per lui infatti un solido radicamento nell’Accademia degli Incogniti, struttura che oltre ad accogliere, sotto la guida dello stesso Loredan, alcuni dei più importanti esponenti della nobiltà della Serenissima, aveva tra i suoi membri anche molte figure che si andavano affermando presso le maggiori potenze europee impegnate nella Guerra dei Trent’Anni; a tutti costoro andavano aggiunti poi pensatori come il Bisaccioni o il Brusoni e molti altri ancora, scrittori il cui pensiero libertino era alla base di una reinterpretazione aspra, e spesso sin troppo esplicita in senso irreligioso, della storia d’Europa e dell’Italia in particolare quando non più in generale dello stesso rapporto tra Stato e Spiritualità.
In questo contesto particolarmente elitario il Gaufrido trova immediatamente accoglienza ed anche in tale circostanza viene adlectus nell’Accademia.
Del resto qualsiasi condotta egli abbia tenuto in quel momento, tutto avveniva sotto gli auspici potenti ed autorevoli innanzi tutto di Cesare Marsili e, non da ultimo, dello stesso Achillini.
Qui l’analisi storica pone una serie di momenti particolarmente rilevanti per la futura attività del Gaufrido dal momento che proprio a Venezia egli avrebbe ottenuto di potersi trasferire alla corte del Duca Odoardo Farnese, un’asserzione che peraltro, in qualche misura, contrasta con quella secondo cui la venuta stessa del Gaufrido in Italia, o quanto meno la sua attività bolognese, altro non sarebbero stati che una premessa abilmente calcolata e decisa dello stesso Cardinale de Richelieu; lo scopo sarebbe stato quello di avere un personaggio colto e brillante, influente, inserito all’interno di quelle strutture statuali minori che tuttavia si andavano rivelando essenziali a mano a mano che lo scontro tra Spagna e Francia si faceva sempre più concreto all’interno del nord della Penisola.
Se così fosse naturalmente, una volta costretto a lasciare Bologna, con le credenziali di cui disponeva e soprattutto con l’aiuto occulto del Richelieu, Gaufrido non avrebbe avuto troppa difficoltà ad installarsi direttamente a Parma, senza questa sorta di digressione veneta di cui a prima vista appare difficile comprendere il significato. E d’altronde, a prescindere dal legame morale che egli poteva avere con il proprio signore naturale, e cioè il re di Francia, e dunque, anche col potente primo ministro di quest’ultimo, il Cardinale Richelieu, Gaufrido non sembra avere dimostrato una costante attitudine filo francese.
Certo egli fu autore di scritti, dall’Apologia sino al trattatello, sull’insano odio italico per i suoi connazionali in cui sosteneva ovviamente le cause e le motivazioni politiche della Francia.
Trasferendosi poi a Parma, dove la sua carriera fu politicamente assai rapida, egli si trovò inserito in un contesto politico in cui l’apertura di un’esplicita ostilità alla Spagna divenne un topos centrale poi per quello che sarebbe stato l’orientamento del penultimo Duca farnesiano.
Eppure alcuni elementi risultano in tal senso scarsamente convincenti.
In primo luogo infatti vi è da considerare che se il Gaufrido (che ancora non aveva un ruolo tale da potersi considerare in grado di imporre decisioni) o piuttosto pressioni e promesse giunte da Parigi fossero state all’origine del distacco clamoroso da Madrid e della sfortunata guerra farnesiana contro la Spagna, ben difficilmente la Francia avrebbe mostrato di farsi cogliere impreparata da quel brusco revirement del Duca, tanto inopinato ed improvviso da impedire al re francese, che pure ne avrebbe tratto notevolissimo vantaggio, di prestare un qualche concreto aiuto a questo nuovo alleato.
Quando infatti Odoardo, accompagnato dallo stesso Gaufrido, andò a chiedere un supporto economico e militare a Parigi, ricevette molte manifestazioni di solidarietà ma nessuna forma di sostegno concreto cosicché le sorti di quella guerra andarono costantemente peggiorando sino a richiedere l’intervento stesso del Pontefice per placare almeno in parte l’ira degli spagnoli.
E d’altronde una manifestazione di presa di distanze dalla politica iberica, in ragione della sua eccessiva ingerenza egemonica, fu in quell’epoca manifestata dalla gran parte dei potentati padani che, pur senza aver al proprio interno “quinte colonne” organizzate dal Cardinale Richelieu, si allontanarono da Madrid per avvicinarsi spontaneamente a Parigi.
Credo più plausibile ritenere innanzi tutto che la chiamata del Gaufrido a Parma abbia avuto in origine la sua spiegazione in un indirizzo che corrispondeva ad una scelta di campo verso la quale ormai lo stesso Odoardo si era orientato.
Non va dimenticato infatti il carattere decisionista, autoritario, bizzarro, per molti versi incomprensibile del Duca. Difficilmente avrebbe accettato imposizioni o insinuazioni che non corrispondessero a quanto egli in fondo desiderava7.
Lo spostarsi del Gaufrido a Venezia dimostra poi inoltre che in prima battuta, diventata comunque Bologna, città dello Stato della Chiesa un luogo oggettivamente o soggettivamente insicuro per le posizioni politiche palesate soprattutto nell’Apologia, egli abbia cercato recetto laddove maggiormente, non già la Francia bensì piuttosto i suoi personali amici, a cominciare dallo stesso Cesare Marsili, avevano contatti e forti conoscenze.
E ciò è ben dimostrato dal fatto che il nostro “profugo” viene immediatamente accolto non in seno a qualche incarico ufficiale per la Serenissima, e tanto meno nell’alveo dei molti esponenti della diplomazia francese presenti nella città lagunare; piuttosto egli si trova ad entrare nella “protezione” del Loredan e, contrariamente alle abitudini consolidate, ad essere immediatamente inserito tra i membri dell’Accademia degli Incogniti.
È da questa posizione sicura e prestigiosa che egli, guardandosi intorno, trova con facilità in Parma (a prescindere da ogni specifica cabala politica del grande Cardinale, ciò che mai si può escludere) un asilo sicuro.
Il ruolo particolare dell’Achillini alla corte di Odoardo, giurista e diplomatico all’un tempo, dunque, par giustificare con sufficiente plausibilità ed autonomia il passaggio di Gaufrido da una Venezia dove si stende l’ombra protettiva di Cesare Marsili ad un nuovo stato dove è il prestigio dell’Achillini a garantire al Provenzale una brillante sistemazione.
Bologna, dunque, sembra per molti versi essere stata una sorta di fucina intellettuale nella quale il Gaufrido ha imparato una lezione fondamentale circa la possibilità di riunire in un rapporto sintetico la forza del sapere, e del prestigio che ne deriva, e l’attività politica.
Il collegamento con il potere gli si apre attraverso uomini, come il Marsili, che hanno un peso estremamente rilevante all’interno della politica bolognese e che sono tuttavia in stretto legame con un mondo assai più vasto, quello che ruota intorno al desiderio di conoscere il nuovo pensiero di Galileo, di entrare in contatto con quest’ultimo, di farsi in un certo senso sostenitori e seguaci del grande scienziato.
Questo desiderio che fa fulcro sull’amicizia tra il Marsili e il Galileo coinvolge molti esponenti di casate bolognesi ma anche più generalmente della nobiltà padana.
La nuova cultura in questo caso diventa allora uno strumento per dare coesione, solidarietà, ma anche protezione a quanti se ne mostrano esponenti e seguaci in un contesto di figure di un certo rilievo, anche se a livello locale.
E d’altra parte la cultura consente anche di sviluppare un’autonoma carriera.
Se all’Achillini tale strumento non è bastato per ottenere favori e ruoli all’interno dello Stato pontificio, esso gli consentirà non solo di ottenere insegnamenti estremamente prestigiosi, ma soprattutto di avere un ruolo all’interno della politica attiva.
Pare dunque che il Gaufrido abbia intuito tale potenzialità vivendo a Bologna in uno stretto mélange tra istituzioni culturali e potere politico. Di certo egli mantenne una duplice identità: quella di un uomo di lettere che, dalla originaria funzione di scrittore e studioso delle scienze, si volgeva, a mano a mano che la sua carriera politica progrediva, al ruolo di protettore di queste ultime, in un programma costante di crescita in seno allo stato farnesiano.
Fondamentale poi in uno stato assolutista come quello del Ducato, dove tutto dipendeva dall’umoralità ondivaga del governante, la capacità, questa sì maturata attraverso gli studi molteplici, dalla medicina all’oratoria, dalla letteratura alle scienze esatte, di sapersi costantemente modellare ai desiderata del principe.
Anche se dopo la sua uccisione, i letterati del tempo si affrettarono a denunciare il Gaufrido come subdolo e malvagio artefice di un vero condizionamento della psiche degli ultimi due duchi farnesiani, la realtà delle testimonianze storiche coeve ci mostra una situazione del tutto opposta.
Forse non condividendo, se non in parte o per nulla, i propositi di Odoardo, egli riuscì costantemente a mostrarsi di essi ben soddisfatto, solidale con le scelte del suo signore e soprattutto capace di porre rimedio alle risultanze, spesso drammatiche, che ne discendevano. Ma a spiegarne la “fortuna” il Gaufrido si mostrò capace di offrire totale giustificazione e dunque una sorta di “assoluzione” storica al proprio principe, anche quando questi era artefice di condotte autolesionistiche. Del resto Odoardo mai sopportò qualsivoglia tipo di critica e le capacità psicagogiche in cui il Gaufrido riuscì a dispiegare l’arsenale della propria cultura consistono proprio nell’aver posto Odoardo al riparo da qualsiasi contestazione pur in seno ad una corte divisa in molti partiti8.
Per comprendere invece le ragioni della sua fine tragica ed i misteri che in certa misura la circondano ancora, occorre rifarsi, sia pure in forma estremamente sintetica, alla natura dell’attività politica del Gaufrido a Parma.
Egli riuscì innanzi tutto ad incantare gran parte della nobiltà, spesso riottosa e ribelle al dominio farnesiano in Parma e Piacenza, ancora una volta tramite la cultura, in ragione della sua capacità di padroneggiare, in apparenza con profondità e piacevolezza, ogni argomento dello scibile umano.
Questo fece sì che molti esponenti del ceto nobiliare guardassero a lui come ad un potenziale maestro morale, oltre che culturale; una condizione che entusiasmava Odoardo poiché illustrava, attraverso Gaufrido, la gloria di quella corte di cui il Duca si sentiva il centro.
Odoardo, per scelta propria e sicuramente non per capacità psicagogica di Gaufrido che allora svolgeva solo funzioni di segretario, decise poi, come si è detto, di porsi in urto con la Spagna senza ottenere peraltro (quasi a dimostrazione dell’estraneità del Gaufrido alla genesi del progetto) alcun aiuto economico o militare da Parigi.
Fu il papa in questa circostanza a togliere d’impaccio il Duca riuscendo ad ottenere per lui condizioni di pace piuttosto comprensive da parte della corte di Madrid.
Di certo l’ascesa politica di Gaufrido, ferreamente voluta da Odoardo a dispetto dell’ostilità che la moglie Margherita manifestò verso il Nostro per tutta la vita, manifesta in primo luogo la costanza del Duca nella sua scelta di appoggiarsi ormai alla Francia.
Era questa, come si è detto, del resto una linea condivisa dalla gran parte di quanto restava dei principati italiani ancora autonomi.
A turbare questa condizione di attesa e pausa dopo tanti conflitti e tensioni provvide la drammatizzazione di una vicenda che si riproponeva sovente, ma che riguardava un’area ormai di scarso interesse.
Nel territorio intorno al lago di Bolsena, dove già da tempo i Farnese avevano un gran numero di proprietà, il papato aveva eretto un piccolo stato che le conglobava ad altri territori finitimi, il cosi detto Ducato di Castro: una costruzione magnifica all’inizio, e costosissima, giustificata essenzialmente dalla sua funzione strategica, essendo posta su un alto sperone di tufo da dove si controllavano facilmente le vie che portavano da un lato al vicino confine del territorio mediceo, dall’altro alle piazzeforti sussidiarie della Spagna intorno ad Orbetello e non da ultimo alla stessa Roma. In quel momento la liaison apparentemente indissolubile tra la Spagna ed i Farnese faceva di Orbetello, da una parte, e di Castro, dall’altra, una specie di presidio militare rivolto sulla stessa città di Roma poiché milizie spagnole e farnesiane, in caso di contrasti con i pontefici, avrebbero potuto in pochissimo tempo marciare sulla città9. D’altronde nel favorire il proprio casato il pontefice Paolo III aveva costituito anche il Ducato di Parma e Piacenza e quest’ultimo per rilevanza militare, estensione e potere economico aveva subito attirato l’attenzione di tutti i signori di Castro.
Solo in un primissimo tempo i Farnese si erano dedicati con reale impegno ai loro possessi laziali: a Castro avevano operato costruendo il palazzo Ducale, una sede governatorale, una zecca ed un arsenale, artisti come il Vignola. Lo stesso Michelangelo aveva elaborato disegni per le facciate degli edifici più importanti e già era stato scelto anche un poeta di corte (che aveva seguito, non senza lamentare taluni disagi, l’evolversi rapidissimo di questa città sorta quasi dal nulla) nella persona del grande Annibal Caro.
Ma tutto questo apparteneva al passato. Parma e Piacenza avevano fatto scemare ogni vero interesse per Castro che progressivamente era decaduta in ragione dell’abbandono in cui era lasciata dai Farnese che l’affidarono ad un governatore dai modesti poteri.
Il bilancio del Ducato di Castro era sempre stato sostanzialmente fallimentare per la casata farnesiana la quale, dopo il disastro della sconfitta contro la Spagna, si trovava ad essere oberata da debiti sempre maggiori.
Si formulò allora una soluzione che avrebbe aperto la via a risultati terribili. I Farnese infatti accettarono la costituzione dei cosiddetti Monti farnesiani, una “cordata” di banchieri romani, di fatto garantiti dalla Santa Sede e presto capeggiata dalla famiglia dei Siri, che prestavano tali enormi somme al Duca ottenendone in cambio, a garanzia, le rendite e l’intero capitale del Ducato di Castro.
Tale impegno fu contratto da Parma con assoluta leggerezza, pensando in tal modo di risolvere la situazione contingente senza in realtà pensare concretamente alle forme con cui saldare l’enorme debito.
Non fu in verità la preoccupazione per i Montisti, quanto piuttosto la decisione di sottrarre ai Farnese questa specie di feudo rivolto potenzialmente contro il territorio di Roma, che indusse Papa Barberini ed i suoi nipoti ad una stringente politica circa la questione debitoria; i Monti farnesiani andavano costantemente crescendo e il papa manifestava l’intenzione di tutelare chi era impegnato in essi.
Il tergiversare dello stesso Odoardo, alternato ad una serie di proposte finanziarie ragionevoli cui seguivano però manovre di fortificazione della stessa Castro, rappresentavano elementi sufficienti per giustificare la volontà espansionistica di Urbano VIII e con essa l’azione militare10.
A Parma Gaufrido era ormai pienamente coinvolto ai vertici dello stato anzi era diventato, di fatto oltre che formalmente, il principale consigliere del Duca.
Ciò non significa tuttavia che lo stesso Gaufrido sia stato, come poi verrà ricostruito in apparenza senza alcuna forma di dubbio, la mente sottile che, quasi a spingere alla rovina il proprio signore, indusse quest’ultimo a rompere le trattative con il pontefice.
In primo luogo non vi era uomo, a cominciare dallo stesso Gaufrido, che potesse smuovere Odoardo da una decisione presa. In secondo luogo, qualunque fosse stata la mossa di Parma, salvo una clamorosa ed immediata restituzione di ogni debito (ciò che era evidentemente impossibile) la volontà di Urbano VIII di acquisire Castro era ben palese e ben radicata.
Quando la città fu assalita e presa con grande facilità, si trattava ormai di un centro in decadenza difeso da poche truppe, ma la risposta di Odoardo fu volitiva ed imprevedibile.
Le sue armate si muovevano infatti contro il territorio pontificio utilizzando due linee vettoriali che potremo così riassumere: la più audace per via marittima avrebbe dovuto condurre un piccolo ma agguerrito esercito nel Lazio, progetto che non ebbe successo per una tempesta; più concreta si fece invece l’aggressione dei territori della Legazione di Bologna.
Ecco che paradossalmente Gaufrido si trovava ora, pur non conducendo egli alcuna armata, a reggere le sorti di uno stato che faceva guerra a quella che si può, con ogni evidenza, considerare la sua seconda patria.
E in queste circostanze emergono fattori di deformazione topica nelle fonti, ad esempio la ridicolizzazione del cardinal nipote Antonio, descritto come vile, fellone e deriso soprattutto per la sua deformità; al contrario rispetto all’attendismo del Mattei e di altri condottieri pontifici ed alla successiva partecipazione senza slancio e spesso in forma piuttosto fellonesca di truppe veneziane, il cardinal Antonio Barberini guidò di persona molte offensive e controffensive nel bolognese alla testa delle proprie truppe, ottenendo anche qualche vittoria ma soprattutto spingendosi tanto in avanti da avere il cavallo ucciso nel corso di uno scontro.
In concreto la guerra avrebbe stagnato senza particolari evoluzioni se le pretese dei Barberini non avessero allarmato l’insieme di stati italiani e tra essi il Gran Ducato mediceo e soprattutto il Ducato di Modena tenacissimo in questa lotta dal momento che da parte estense si continuava a sognare la riconquista di Ferrara. Ad essi poi, da ultimo, si unì la stessa Venezia, il tutto sotto un’aura protettiva diplomatica garantita da Parigi, ma non avversata neppure da Vienna.
L’insieme della guerra non divenne allora particolarmente dinamico. Di recuperare Castro, saldamente in mano ai pontifici, non v’era possibilità. Il territorio delle Legazioni, quello sì, poteva essere messo a sacco anche se inizialmente le truppe pontificali reagirono veementemente invadendo il territorio modenese ed alcuni segmenti di quello mediceo.
Poi soprattutto sul versante toscano tra il 1642 ed il 1643 si susseguirono sconfitte per le truppe di Urbano VIII e non da ultimo sul campo, su richiesta del Duca di Modena, comparve lo stesso Raimondo Montecuccoli che già si andava palesando, nel corso della terribile Guerra dei Trent’Anni come uno dei generali più originali ed audaci del tempo11.
Fu lui ad infliggere ai pontifici una durissima sconfitta che aprì in qualche modo spazio alle trattative di pace; trattative che si svilupparono a Venezia, che si conclusero poi a Roma nel marzo del 1643 ed in seno alle quali il Gaufrido ebbe un ruolo primario nel sostenere e tutelare le ragioni del proprio signore.
Alla fine della guerra, salvo ulteriori spese a carico dei Farnese come ovviamente di tutti i belligeranti, nulla era cambiato: Castro, sebbene pesantemente bombardata, ritornava sotto il controllo farnesiano e solo al passaggio di mano di piccole fortezze d’assoluta irrilevanza davano memoria di quell’accadimento.
Gaufrido fu salutato da una serie di feste, ovviamente decise dallo stesso Odoardo, come figura centrale di quella guerra che fu descritta come una vittoria.
In buona sostanza Castro era ritornata, come Odoardo voleva, in mano ai Farnese e ciò era indubbiamente in parte merito di una Lega che aveva combattuto il Papa sul campo di battaglia ma anche dell’efficacia delle trattative condotte a Venezia e qui il merito sembrava spettare in maniera primaria allo stesso Gaufrido togliere. La sua carriera politica continuava inarrestabilmente ed egli otteneva una serie di feudi e con essi un’importante sequela di titoli sino al più rilevante fra tutti, quello di Marchese. Egli continuava poi i contatti con il mondo della letteratura e così quando si trovò, per volontà dello stesso Odoardo, ad avere il privilegio di sposare la giovanissima e nobilissima esponente della famiglia degli Anguissola e spettò al Morando, poeta marinista di notevole prestigio al tempo, comporre il già citato epitalamio Venere la Celeste per celebrare queste nozze.
Le sorti di Gaufrido erano state sino a quel momento strettamente al rapporto d’amicizia, più che non di mera fiducia, che egli aveva potuto instaurare con il Duca, ma nel momento in cui Odoardo venne a mancare tutto poteva cambiare.
Non solo il suo signore lo aveva provvisto di titoli e di numerosi mezzi ma soprattutto aveva raccomandato, anzi quasi imposto al proprio erede, Ranuccio II, ad onta dell’ostilità di Margherita, di servirsi come primo ministro dello stesso Gaufrido; ciò che Ranuccio fece ben volentieri avendo probabilmente ricevuto dal Provenzale, oltre che dai suoi maestri ufficiali, numerosi indirizzi di tipo culturale nella fase della giovinezza.
La tensione in realtà regnava perché, a dispetto di quanto avevano scritto in origine le fonti anche in seno a relazioni riservate, ora le fortune di Gaufrido servivano solo a rafforzare gruppi di corte a lui ostili, capeggiati dalla Duchessa Madre che lo aveva sempre avuto in odio.
In questa tensione si inserì ancora una volta la questione di Castro. Ora era lo stesso Innocenzo X che esigeva la chiusura dell’assetto debitorio; in altri termini si chiedeva a Ranuccio di sanare la situazione di crisi in cui i Montisti continuavano a versare anche perché lo stesso Odoardo non aveva provveduto che in minima parte, a dispetto degli impegni e delle promesse sanciti a Venezia, a limitare la propria esposizione economica.
Ranuccio si trovò in quella circostanza ad avere una condotta assai incerta. Il suo carattere era certamente più malleabile ma anche meno vigoroso di quello del padre ed è probabile che in questa circostanza Gaufrido abbia avuto ben maggiore rilevanza politica nelle scelte della condotta generale.
In primo luogo egli da tempo aveva nuovamente orientato l’indirizzo del Ducato verso una liaison con la Spagna.
Dai suoi contatti ufficiali, ma soprattutto attraverso quelli segreti tessuti a Milano, aveva tratto la convinzione che da parte spagnola si sarebbe rispettato l’impegno di entrare in guerra a fianco di Parma in caso di pretese pontificie sul Ducato di Castro.
A quanto sappiamo da fonti attendibili di questi accordi segretissimi Madrid lasciò invece trapelare numerose notizie, non già per intimorire il pontefice rispetto ad un’azione contro Castro, quanto, piuttosto, per convincere Innocenzo X a rivelarsi assai più conciliante verso le richieste iberiche su altri versanti, in cambio di un impegno a desistere da ogni supporto ai Farnese.
Di quest’ultima circostanza il Gaufrido pare non essere stato adeguatamente informato dal momento che egli continuò ad operare come se l’intervento spagnolo in termini di alleanza militare fosse una certezza.
Va detto d’altronde che la posizione francese era stata sempre a dir poco ambigua od inefficace. Nel momento delle grandi scelte Parigi aveva sì sostenuto le ragioni del Duca ma non lo aveva fornito di un vero appoggio militare che era quanto ciò che maggiormente premeva ad Odoardo12 togliere.
Sembrava che solo Madrid in questa circostanza, almeno a parole pur se tramite i suoi massimi rappresentanti riuniti a Milano, fosse pronta a sostenere la causa di Parma, facendo così cadere il Gaufrido ed il suo Duca in un vero e proprio tranello.
Le pretese papali si fecero allora molto più ampie e il primo casus belli fu rappresentato dalla scelta del vescovo di Castro. Lungi dal seguire la prassi ordinaria, e cioè una valutazione tra due candidati proposti dallo stesso Duca, il pontefice nominò vescovo il barnabita Giarda con l’intento di procedere in forma analoga anche a Parma, Piacenza e a Borgo San Donino.
Si trattava di un’ingerenza decisamente ostile e soprattutto foriera di un approccio politico assai aggressivo.
La questione dei Monti farnesiani poi, secondo molti storici del tempo, a cominciare da Gregorio Leti, sarebbe stata sostenuta da Donna Olimpia Maidalchini, vedova del fratello del pontefice che avrebbe avuto imprecisati ed inconfessabili interessi per spingere Innocenzo X ad una linea intransigente e belligera.
Anche in questo caso in realtà non abbiamo nessuna traccia né di una motivata ostilità della “Pimpaccia” contro i Farnese né di un qualche interesse personale di quest’ultima nel sostegno dei Montisti.
L’idea di Innocenzo X che, Pastore d’anime, muoveva guerra a queste ultime non era in effetti particolarmente edificante ed ecco che trasferire gran parte della responsabilità su di Olimpia, genio malefico della corte di papa Panfili, appariva quasi una soluzione d’obbligo. In altri termini la storiografia del tempo tende a focalizzarsi sul ruolo perverso di Donna Olimpia che vuole la guerra ad ogni costo e paratatticamente su quello di Gaufrido che, del pari, desidera lanciarsi in un’operazione militare.
In entrambi i casi mancano le motivazioni cosicché le fonti saranno costrette a ricercarle in contesti implausibili.
Si asserì ad esempio che Ranuccio, novello Paride, in un dialogo avrebbe optato per Olimpia di Francia ritenuta da lui superiore alla Olimpia della corte pontificia e ciò sarebbe stato sufficiente per giustificare l’odio della “Pimpaccia”.
Del pari l’ambizione, invece, di Gaufrido viene chiamata in causa per giustificare la scelta dello scontro in terra di Parma. Desideroso di mutare, come affermano le fonti, la penna, nella quale tanto egli era esperto, in un bastone di comando di cui nulla sapeva, per mera infinita ambizione, egli avrebbe portato il suo Duca alla rovina.
La decisione di Innocenzo X resta per molti versi ancora oggi incomprensibile: la pressione che egli esercitò su Ranuccio Farnese, anche in termini finanziari, risulta per molti versi irrealistica a meno di non considerarla come mero pretesto per chiudere definitivamente la questione di Castro la quale tuttavia, ormai, non era più neppure una città e tanto meno la sede di un Ducato ma un insieme di rovine nelle quali vivevano più o meno stabilmente tra le ottocento e le novecento persone, e tra queste meno di ottanta, compreso il governatore, erano pronte alle armi.
Il fattore geopolitico che aveva motivato la nascita e la potenza di Castro era già nei fatti venuto meno e si poteva piuttosto ragionare sulle possibilità di chiudere in un tempo plausibilmente lungo la posizione debitoria dei Farnese; ma con ogni evidenza non era questa la volontà di Innocenzo X il quale trasse spunto in partenza proprio dalla nomina del Giarda a vescovo dell’infelice cittadina.
Ranuccio respinse quella nomina così come rifiutò di aprire ogni tipo di trattativa con gli emissari del Giarda e tanto meno si adoperò per cercare una qualche soluzione di compromesso.
Il Giarda peraltro era personaggio di ben altra tempra rispetto ai contendenti. Barnabita, originariamente speranzoso di darsi all’attività missionaria, si era poi concentrato sulla raccolta ed edizione dei documenti del suo Ordine, scrivendo numerosi trattati sino a ricevere l’incarico ufficiale dai superiori di redigere in forma definitiva una storia dell’Ordine Barnabita.
Questo divenne in realtà lo scopo della sua vita, ciò a cui dedicava ogni momento il che lo spingeva anche a cercare di restare il più possibile vicino a Roma; per ragioni d’ufficio fu anche per un breve tempo a Bologna, ma era nell’Urbe che poteva consultare gli amati archivi e procedere nella sua opera monumentale.
Non a caso cercò di rifiutare l’episcopato di Castro non già per i pericoli connessi a quell’incarico, quanto piuttosto perché esso gli avrebbe reso difficile la compulsazione dei propri materiali. Meglio piuttosto accettare una soluzione di compromesso quale qualcuno avanzava, mandare un proprio delegato a Castro, e forse anche non entrarvi neppure, ma prendere sede ad Acquapendente il che gli avrebbe consentito facilmente di continuare nella propria opera di storico dell’Ordine. Ma il papa non volle sentire ragione.
A questo punto si aggiunsero minacce delle quali non si ha testimonianza precisa; si tratta di voci riportate in documenti dell’epoca, ma prive di riscontri documentari e riportate da personaggi che le conoscevano de relato.
Dopo un lungo periodo di rinvii il Giarda per ordine del pontefice si mise in marcia. Rifiutò, e qui la polemica con Innocenzo X appare evidente, di portare con sé truppe di scorta dal momento che egli, così disse, andava come Pastore d’anime e ciò escludeva l’ostentazione delle armi.
Con gli intimi il Giarda vaticinò la certezza della propria morte in quella circostanza, ciò che avvenne in un agguato tesogli da una decina di uomini mentre era ancora in località Monterosi: si era ormai al tramonto quando i sicari presero a far fuoco sul piccolo corteo e per il Giarda, ferito sin dai primi colpi, non vi fu nulla da fare13.
Ad indirizzare le indagini sui fatti fu un biglietto lasciato sul corpo in cui a titolo di sfida si invitava a non offendere il volere dei principi, allusione sin troppo trasparente e dunque un po’ incongrua al diniego di Ranuccio verso quella nomina.
Senza entrare nello specifico si può osservare che, contrariamente alle tradizioni del tempo ed alla mobilitazione dell’intero Ordine Barnabita, la beatificazione non fu concessa al Giarda e che presto il problema della sua morte venne dimenticato.
Va notato solo un dettaglio: nella certezza subito diffusasi che i mandanti di quell’omicidio folle fossero lo stesso Ranuccio e soprattutto il suo primo ministro provenzale si individuarono alcuni indiziati, sette in tutto tra cui un canonico, il Lambertini, mente della stessa operazione, che avrebbero materialmente compiuto l’atto14.
Alcuni furono condannati in contumacia, altri furono poi uccisi ma la rilettura degli atti mostra l’estrema confusione con cui il processo, tenutosi a Viterbo, esaminò le prove o, meglio, le costruì di sana pianta.
Uno dei principali imputati infatti non poté essere riconosciuto con certa identità, ed è questo un problema generale del processo. Tutti i testimoni, che non furono in aula ulteriormente sentiti, affermarono infatti di aver visto nella luce del giorno che ormai tramontava figure travisate da sciarpe e maschere e fuggite poi rapidamente; un’indicazione che pone seri dubbi sull’attendibilità di questa identificazione.
Ma vi sono dati anagrafici ancora più significativi.
Il principale reo, tal Cocchi, presenta negli atti notarili che lo riguardano ora rinvenuti una serie di materiali che suggerirebbero quasi un vero e proprio alibi, mai utilizzato né consultato, per il momento del delitto.
Altri documenti ancora, recentemente emersi , indicano come il suo principale complice, e forse coordinatore sul luogo dell’operazione, fosse stato identificato in maniera incerta. Vi era infatti sul cognome un’omonimia che univa un Ranuccio ed un Enrico, presenti nello stesso tempo, negli stessi luoghi ma con due biografie profondamente diverse.
I documenti inseriti negli atti processuali e gli atti processuali stessi, come si può facilmente vedere, confondono ininterrottamente i due uomini che si trovavano a decine di chilometri di distanza l’uno dall’altro e questo insieme di confusioni, volute o frutto di un verdetto già predisposto, rinviano anche al luogo di organizzazione della congiura e di rifugio di alcuni dei colpevoli.
In questo caso è una sola lettera, una “i”, a stabilire la differenza: si trattava infatti di Sorano o Soriano?
Anche in questo caso due località estremamente vicine, ma due giurisdizioni completamente diverse, una delle quali peraltro potrebbe chiamare in causa Donna Olimpia Mancinelli che aveva la sovranità su Sorano e che dunque avrebbe potuto ospitare sia la riunione preparatoria sia alcuni dei membri dell’omicidio, conoscendone l’identità od ignorandola.
Da questo punto di vista le fonti possono solo suggerire l’estrema confusione del tutto ma aprire anche scenari di tipo machiavellico che non possono essere né smentiti né confermati15.
Sull’estrema nebulosità delle circostanze vale da ultimo la richiesta del pontefice che, a procedimento ormai quasi concluso, invita un numero rilevante di autorità ecclesiastiche a provvedere affinché vengano raccolte ed esaminate tutte le documentazioni relative all’uccisione del vescovo Giarda e tutti gli elementi utili ad identificarne gli autori, quasi che coloro che erano già sotto processo, e che stavano per essere condannati per quel reato, risultassero poco plausibili allo stesso pontefice.
Resta di fatto che se quello fu il casus belli, cioè l’episodio dal quale scaturì un insieme di apprestamenti militari che accelerarono l’inizio della guerra, quest’ultima ufficialmente cominciò solo per la questione dei Monti farnesiani.
Il rifiuto del Farnese in tal senso, sicuramente (visto il ruolo di primo ministro che ricopriva) sostenuto dal Gaufrido, chiudeva, almeno in apparenza, una fase di potenziale trattativa che il Papa del resto non aveva mai mostrato seriamente condurre.
Gaufrido contava in quella circostanza su un appoggio o almeno su di una mediazione di Madrid.
Così facendo di sicuro sbagliava; la potenza spagnola perorò solo a parole la causa del Duca. Il potere mediceo si interpose proponendo varie soluzioni di carattere finanziario per rendere plausibile ancora una volta il saldo di quell’immenso debito ma, in buona sostanza, era proprio Innocenzo X a non voler chiudere la vicenda senza la presa della città.
Il che avvenne con singolare difficoltà vista la straordinaria abilità dell’Asinelli, ultimo governatore farnesiano di Castro, nel reggere all’attacco di forze papali enormemente superiori, trincerandosi in una città che la guerra precedente aveva ormai trasformato in rovine abbandonate.
Del resto le parti avevano già cominciato gli apprestamenti, Ranuccio ordinando la raccolta di tutti i materiali bellici sul territorio e la loro concentrazione a Castro nonché l’erezione, non si sa con quali mezzi, di nuove solide difese, mentre i papalini si erano del pari armati ed avevano iniziato a concentrarsi intorno al Ducato.
A rendere irreversibili i fatti fu tuttavia la tradizionale tattica farnesiana. Ancora una volta fu preparato un esercito, per la verità di non significative proporzioni, che avrebbe dovuto colpire Bologna ed occuparla e da questa posizione di forza poi aprire la trattativa su Castro.
L’occupazione di Bologna era stata ventilata anche durante la prima guerra di Castro ed era apparsa plausibile persino ai pontifici.
Una lettera del Morone ci descrive infatti lo sgomento del Mattei e di altri comandanti vedendo che a Bologna la nobiltà ed il popolo, lungi dal voler partecipare alla difesa, erano atterriti e che l’unico strumento di difesa attrezzato consisteva in una sommaria muratura delle porte e che pochi pezzi di artiglieria erano disposti qua e là, più con valore simbolico che effettivo.
Ma allora si andava combattendo quella che probabilmente sarebbe stata l’ultima guerra a coinvolgere tutti gli stati italiani ancora autonomi.
Nel 1649 in realtà era solo l’esercito di Parma che muoveva ed il Mattei che si preparava a contrastarlo.
La vicenda si risolse sul piano militare in termini rapidi ma è la premessa ad essi che ci interessa.
Il Gaufrido questa volta, secondo la quasi unanimità delle fonti, volle impugnare la spada e guidare, cosa che non aveva mai fatto, un esercito contro la propria antica città di adozione.
Lo scontro avrebbe visto inizialmente, dopo una serie di manovre di avvicinamento, la carica dei dragoni Ducali che sarebbe risultata irresistibile sino al momento in cui un paio di cannoni in posizione trincerata non aprirono il fuoco disperdendo il nemico, anzi mettendolo in fuga.
E qui inizia il dramma del Gaufrido in primis con la lettera che, tramite l’Anguissola, cognato e fedele amico, inviò a Parma dove si dava notizia della ritirata e si attendevano ordini.
La risposta di Ranuccio fu estremamente generosa: si accertava innanzi tutto delle buone condizioni dello stesso Gaufrido aggiungendo che essendo salvo lui di tutto il resto nulla gli interessava.
Questo documento è attestato da una solida tradizione ma consente anche una pluralità di interrogativi. Ancora lontano da Parma il Gaufrido voleva infatti sondare il terreno per capire se dover fuggire o poter ritornare nella città Ducale? E ancora, la risposta di Ranuccio rappresentava il sentimento di quello che era l’allievo verso un antico maestro e protettore o piuttosto un escamotage machiavellico con cui convincerlo a rientrare nella capitale per impossessarsi di lui?
Sul primo punto possiamo dire che il Gaufrido probabilmente era già in sospeso. Come vedremo aveva percepito una serie di manovre contro di lui che si focalizzavano ovviamente sull’andamento di quella campagna militare mentre per ciò che concerne l’atteggiamento di Ranuccio è quasi impossibile pronunciarsi. Se la lettera fosse stata o meno condizionata dalla Duchessa madre o se esprimesse invece un’emotività autentica del Duca è impossibile a dirsi16.
Rassicurato in ogni caso da questo atteggiamento Gaufrido fece l’errore di rientrare per ritrovarsi presto incarcerato e imputato di una lunga serie di reati tra cui spiccavano la fellonia, con riferimento evidentemente allo scontro d’armi, ma soprattutto l’aver agito senza avvisare il Duca di quanto andava compiendo, abusando cioè dei propri poteri e millantando l’appoggio ducale.
Si noti che non vi è alcun specifico riferimento all’uccisione del Giarda e d’altra parte più in generale tutta la condotta dell’ultimo anno viene attribuita, pur non esplicitamente, al Gaufrido e non al suo signore, premessa dunque per una rappacificazione, grata naturalmente anche alla Duchessa Madre e rivolta in primo luogo all’autorità pontificia.
Lo scontro con quest’ultima poteva comprendere o no anche la vicenda del Giarda, ma nessuna delle due parti sollevava in qualche modo l’eco delle vicende di Monterosi. Ogni condotta disdicevole era frutto dell’atteggiamento tirannico e di una forma di millantato credito di cui Gaufrido era colpevole in primo luogo contro il suo stesso signore e per questo egli veniva condannato a morte, pena che affrontò (tutte le fonti a lui ostili sono concordi su questo) con grande dignità e coraggio, more nobilium decapitato per spada. Questa vita intensa si era protratta in realtà probabilmente per meno di quarant’anni. Se incerta è la data di nascita ma collocabile intorno al 1610, sicura invece quella della sua decapitazione nel 1649.
È abbastanza improbabile, come vedremo, che Gaufrido avesse motu proprio accettato di fare qualcosa come una campagna militare, ciò che mai aveva affrontato in vita sua.
Per quanto gli era stato possibile egli aveva proceduto sempre con grande cautela cercando di seguire le orme tradizionali della diplomazia del tempo che muovevano nell’ombra, attraverso personaggi minori, evitando che figure istituzionali risultassero compromesse in vicende delicate o scabrose.
Ed era questa una lezione che il Gaufrido pareva aver imparato sin da giovanissimo.
Si può anche ipotizzare che all’inizio nessuna delle parti, né il Papato né lo stesso Ducato farnesiano, pensassero di giungere ad una sorta di soluzione finale circa la questione di Castro.
Vi fu un crescendo di reciproche provocazioni all’interno delle quali, tuttavia, sembrava fosse lasciato spazio per importanti mediazioni e quella spagnola sicuramente nel caso di Parma vi fu ma in termini estremamente vaghi e certo non cogenti.
Giova ancora una volta ricordare che in questo caso i veri artefici dell’inganno furono proprio i rappresentanti iberici che garantirono, negli incontri segreti di Milano proprio al Gaufrido, l’intervento militare della Spagna a difesa di Castro, ciò che poteva facilmente determinarsi con truppe in partenza da Orbetello o da qualsiasi altra posizione, ma che nei fatti già le diplomazie di tutta Europa, compresa quella pontificia, sapevano essere un qualche cosa di condizionato esclusivamente al comportamento del papa su altre ben più importanti questioni.
Quando su queste ultime Innocenzo X mostrò significative aperture fu del pari chiaro, anche a Parma, che l’appoggio spagnolo militare non sarebbe mai pervenuto, sostituito da un generico supporto diplomatico che poco valeva.
Parma con quella mossa peraltro si era alienata ogni possibilità di intervento francese; su quest’ultimo forse poco si poteva contare ma dopo questo tipo di svolta politica esso era escluso.
Di una nuova Lega dei principati italici, come era accaduto per la prima guerra di Castro, non vi era da far conto: del tutto ostili ad una possibilità del genere erano i veneziani e lo stesso Duca d’Este. I Medici, pur non essendo disponibili ad una guerra, si attivarono in maniera concreta per trovare una soluzione finanziaria che, come si è detto, sembrò avvicinare le due parti salvo poi essere vanificata da reciproche provocazioni.
Restano alcuni episodi che confermano la natura incompleta della ricostruzione motivazionale della guerra di Castro a cominciare dalla distruzione stessa di quel sito.
Esso fu completamente raso al suolo e un’epigrafe ne accompagnò la scomparsa con la semplice frase: “qui fu Castro”, anche se, quasi a trarre vendetta dell’arroganza pontificia, il cippo fu a sua volta distrutto dalle truppe di Napoleone.
Resta da chiedersi il perché di tanta furia da parte del pontefice o, per chi ama le ipotesi complottistiche, di Donna Olimpia.
Castro rientrava tra i beni della Camera Apostolica, era nuovamente dunque proprietà dello Stato della Chiesa e custodiva preziose reliquie che dovettero essere in tutta fretta trasportate prima che la furia dei distruttori minacciasse anch’esse.
Quanto poi agli abitanti, a cui il Giarda si era rivolto sottolineando la voglia di esserne anche a costo della vita esclusivamente Pastore, nulla avevano a che fare con la vendetta pontificia; persino nel processo di Viterbo non vi erano inseriti tra gli imputati abitanti della città di Castro.
Né la distruzione dell’insediamento era in qualche misura d’aiuto ai Montisti. Questi ultimi potevano ricevere infatti lo sperone di Castro quando quest’ultimo, dissennatamente rovinato e raso al suolo, perdeva ulteriormente quel po’ di valore che ancora possedeva.
Un gesto di apparente irrazionalità e di furore scatenato tuttavia da motivazioni che restano oscure visto lo scarso livello di attenzione che il pontefice e la Curia prestarono alla sorte dello stesso Giarda.
Accanto a questo restano altre circostanze difficilmente spiegabili, a cominciare per l’appunto da questa sorta di “sacrificio” che il Gaufrido venne a subire ed è in questo senso che l’approccio delle fonti dell’epoca si rivela fondamentale per comprendere quanto accadde in realtà al nostro protagonista o, quanto meno, per avanzare un’ipotesi plausibile.
In primo luogo dobbiamo dar atto che più o meno tutti i cronisti del tempo concordano con i maggiori letterati, dal Brusoni all’Aprosio, nel sottolineare la totale negatività del Gaufrido come pensatore, come politico e anche come uomo di corte.
Egli rappresenterebbe l’archetipo di ciò che il cortigiano non deve essere, attento, cioè, a condizionare e a prendere possesso della mente del proprio signore, a sostituire i propri desiderata alle intenzioni di quest’ultimo, ad isolare il principe dal resto della corte e persino dai propri familiari per meglio controllarne l’agire.
La cultura e la conoscenza di una molteplicità di discipline sarebbero stati, nel caso di Gaufrido (ma anche in quello di altri cortigiani infedeli evocati dalle fonti in maniera più o meno esplicita) strumenti ulteriori per supportare la capacità innata di costui nell’apparire uomo piacevole, disponibile e leale.
Questa dissimulazione avrebbe consentito al Gaufrido di prendere possesso della mente di Odoardo per condurlo verso risultati rovinosi, condizione che si sarebbe replicata sino al 1649 anche per il figlio Ranuccio che solo dopo quel momento sarebbe stato libero da questa sorta di opprimente e malvagio controllore della sua vita personale e politica.
La Duchessa Madre, durante il lungo governo di Odoardo e ancora agli inizi di quello di Ranuccio, avrebbe assistito impotente allo scempio dello stato. La sua voce non si sarebbe levata per evitare che all’interno della famiglia e della corte si creassero fazioni e partiti che dilacerassero ulteriormente un tessuto già pesantemente colpito dall’azione del Provenzale.
A lei sarebbe apparso consono dunque un conciliante silenzio nonostante la consapevolezza delle colpe e delle prepotenze di Gaufrido.
Ancora poi quasi tutti gli autori del tempo danno per certe e assodate le accuse rivoltegli al ritorno dalla disfatta di Castel San Pietro: fellonia, certo, dal momento che alcuni, quasi fossero stati testimoni oculari, si spingono ad affermare che Gaufrido sarebbe rimasto ancor più indietro delle retrovie e che, cominciando a nutrire dubbi sulla vittoria, si sarebbe messo ad urlare ininterrottamente “fuggite, fuggite, abbiamo perso” e frasi di analogo devastante impatto17.
Eppure anche tali asserzioni risultano poco plausibili dal momento che la descrizione dello scontro non avrebbe consentito, stando nelle retrovie o in una posizione comunque defilata, di interagire a voce con i comandanti dei singoli reparti impegnati direttamente nella battaglia.
Anche le altre accuse specifiche sono da ritenersi del tutto implausibili: incerto forse circa la possibilità di controllare totalmente la volontà di Ranuccio, Gaufrido si sarebbe servito della condizione di primo ministro appunto per abusare del proprio ufficio, ordinando azioni diplomatiche e persino militari senza che il Duca o altri della corte ne giungessero a conoscenza; ipotesi quest’ultima riferita soprattutto all’insieme delle vicende che portarono alla seconda guerra di Castro nella quale di certo il Gaufrido ebbe un ruolo ma ben diverso da quello così descritto.
Egli con ogni evidenza rimase, legato fino a quando le circostanze lo resero plausibile, all’ipotesi di un sostegno spagnolo e così di fatto si comportò anche lo stesso Ranuccio alternando opzioni di soluzioni finanziarie per il problema dei Monti farnesiani, a gesti di vera e propria intimidazione di carattere militare, atteggiamento quest’ultimo comprensibile solo pensando alla certezza di un estremo supporto da parte di Madrid.
È interessante notare che le inesattezze delle fonti sul Gaufrido proposta anche da autori di notevole qualità, porta ad esiti per certi versi paradossali ed incomprensibili.
Non si capisce, ad esempio, per qual motivo la gran parte degli autori attribuisca al padre di Gaufrido la professione di medico piuttosto che non quella di notaio, dignitosamente parificabili l’una all’altra nell’ambito delle attività liberali.
Significativo invece il notare che soprattutto nelle fonti piacentine (e più in generale del Ducato) si voglia insinuare contro il Provenzale l’accusa di eresia.
Essa non fu mai contestata a Gaufrido né nel processo né successivamente da alcuna autorità ecclesiastica eppure numerosi autori sottolineano come egli fosse considerato, ancora prima della sua rovina militare, eretico da molti e fondatamente, tanto che ciò avrebbe prodotto l’ostilità degli ecclesiastici verso di lui, attribuendogli la segreta volontà di far di Parma una “nuova Ginevra”.
Un ulteriore riferimento in tal senso lo troviamo forse nel Gualdo Priorato che all’interno dell’Historia delle rivoluzioni di Francia compie una bizzarra digressione.
Dopo aver parlato della vicenda di Loudun egli dà conto, al pari di molti altri scrittori, di un’altra ben nota circostanza similare alla prima: un tal Godefroy – Jauffré, sacerdote e presunto medico o forse semplicemente ciarlatano, avrebbe sedotto con facilità, per conto del demonio naturalmente, numerose novizie di un convento. Finalmente individuato ed incarcerato in sede processuale avrebbe confessato di possedere, attraverso il demonio, la facoltà di fare invaghire della sua persona qualsiasi donna semplicemente toccandola. Costui, naturalmente poi finì bruciato.
Quasi fosse una clausola contestuale a questa vicenda, ecco che il nostro autore passa immediatamente a parlare di Jacopo Gaufrido, medico, figlio di medico ed anch’egli come il precedente personaggio originario della Provenza. E qui il Priorato ci dà notizia dei suoi presunti comportamenti iniqui, della sua presa di controllo dell’animo dei Duchi e dell’ambizione che lo conduce sino all’estrema rovina osservando, con quel gusto classicistico dei paralleli peculiare della nostra fonte, come Gaufrido fosse stato in realtà una sorta di Seiano di Parma.
In verità il parallelo suggerisce tra le righe un concorso di responsabilità: se Seiano infatti fu l’esecutore spietato e al tempo stesso scarsamente affidabile di Tiberio, Tiberio stesso viene indicato come tirannico, crudele, privo di giustizia proprio nel periodo in cui si affida completamente a Seiano.
Ecco dunque che, al di là di una sorta di implicita chiamata in causa senza specificazioni anche delle responsabilità degli stessi Duchi farnesiani, il Priorato suggerisce questo accostamento tra Jacopo Gaufrido (di cui si parlava, senza che poi ciò si traducesse in accuse di eresia) e un suo quasi perfetto omonimo vissuto più o meno nella stessa epoca, nato negli stessi luoghi e che fu bruciato come servitore del demonio.
Strumento questo, una volta di più, per introdurre questa tematica decisamente tranchant circa l’essenza ultima della morale, se non addirittura dell’anima, di Gaufrido, forse sin troppo simile al suo omonimo tanto da essere lui stesso sospettabile se non d’eresia quanto meno di comportamenti stregoneschi.
Un approccio bizzarro nel pensiero del Priorato invece cultore del razionalismo della Ragion di Stato18.
Al di là delle intime convinzioni coscienziali del Gaufrido, a noi ovviamente ignote, quanto concretamente sappiamo di lui non ce lo mostra certo quale eretico.
Gli scambi poetici con l’Achillini dedicati a tematiche religiose rispecchiano non solo un’assoluta ortodossia dogmatica ma anche la volontà di ostentare il pieno rispetto dell’autorità della Chiesa e naturalmente, in primis, del potere papale.
Gaufrido però, sarebbe stato perversamente ambizioso, capace di qualsiasi doppiezza ed infedele alla causa del proprio signore, sostituendo agli interessi di quest’ultimo la propria volontà ed il proprio tornaconto personale conseguendo così un utile economico ma, soprattutto, una costante crescita sociale ed istituzionale.
A ciò si aggiunge la condanna dell’amore del Gaufrido per lo spionaggio, per gli accordi segreti e le trame occulte condotte, sia pure a nome di Parma, con rappresentanti di potenze straniere; una visione del personaggio che, come si è detto, risulta un po’ particolare dal momento che gli autori che ci parlano di lui in questi termini, dal Brusoni al Siri, altro non fecero che, con maggiore o minore fortuna sul piano operativo, seguire la stessa strategia. Ma in senso più lato si può affermare che in questo momento di crisi dell’identità politica e culturale di molte delle società italiane, anche la figura del cortigiano, un tempo esaltata nelle sue potenzialità positive, comincia a vivere una sorta di vera e propria crisi di auto identità.
Nella censura del Gaufrido nessuno di questi autori coglie tuttavia il paradosso di esercitare di fatto una sorta di autocensura.
Nell’incertezza dell’attività del cortigiano, tematica più volte lamentata ed esemplificata dagli errori veri o presunti del Gaufrido, non sembra infatti percepirsi la consapevolezza che la transizione verso un nuovo modello sociale va rendendo la vita nelle corti particolarmente pericolosa per chi voglia manifestare in essa capacità politiche.
Un caso per tutti può considerarsi emblematico. Tra gli interlocutori più brillanti e decisamente più politicamente preparati del Gaufrido durante la prima guerra di Castro vi fu anche Fulvio Testi, personaggio eminentissimo della corte estense di Modena, grande letterato, politico sottile, eccellente diplomatico, legato anch’egli a quell’entourage complesso che, attraverso vari casati come ad esempio i Montecuccoli, conduceva sino alle corrispondenze e ai contatti con i Marsili di Bologna o con i Bentivoglio ed altri ancora.
Non è strano dunque che due personaggi messi in contatto dalla formazione culturale e dalle circostanze politiche dopo un lungo scambio epistolare siano anche stati legati da una stretta amicizia, un’amicizia che tuttavia si conclude drammaticamente in maniera simmetrica: da un lato, per motivi in parte ancora ignoti nel 1646, dopo una lunga carcerazione, Fulvio Testi viene fatto uccidere in segreto dal Duca estense ed appena tre anni dopo il suo amico Gaufrido, con una serie di pretesti, conosce, questa volta pubblicamente, la stessa sorte.
Cosa accadde allora al Gaufrido?
Fortunatamente una fonte del tutto particolare e, si potrebbe dire, anomala lumeggia tale circostanza: è il Mercurio del Siri che nel tomo XIV illustra l’ultima fase della vita del Gaufrido.
Dapprima egli ci ha illustrato con dovizia di dettagli tutti i dati relativi all’incontro del Gaufrido a Milano con il Caracena esponente plenipotenziario della corte di Madrid in cui il Nostro credette di aver restaurato l’antico legame con la Spagna.
Da bravo diplomatico e spia il Siri, membro anch’egli dell’Accademia degli Incogniti, riceve quasi subito copia del segretissimo accordo che dovrebbe condurre in caso di necessità le truppe di Madrid a difendere il ducato di Castro e, se necessario, anche quello di Parma e Piacenza. Il Siri dà naturalmente una valutazione totalmente negativa dell’operazione, la considera un tradimento della causa di Parigi cui Parma dovrebbe essere legatissima e ancor più lo dovrebbe essere il Gaufrido che ha promosso un tempo la scelta di adottare Luigi come protettore e che per di più è francese di nascita. Ma al di là di queste riflessioni polemiche, il Siri trascrive documenti che altrimenti non ci sarebbero pervenuti.
Mentre all’epoca della prima guerra di Castro Modena, Firenze e Venezia avevano affiancato Odoardo preoccupati dell’espansionismo dei Barberini, ora invece né Modena né Venezia accettano che un altro e ben più terribile egemonismo, quello spagnolo, trovi il proprio punto di forza nel ducato farnesiano.
Diversa la posizione medicea che, come si è detto, punta ad un obiettivo ancora più alto, cioè spegnere sul nascere le possibilità di ulteriori ingerenze, quale che ne sia il pretesto, da parte francese o spagnola. Tentativo che peraltro fallisce, come si è visto.
Tutte le fonti, compattamente ostili al Gaufrido, evitano di precisare questi dettagli e non danno alcun cenno né dell’attesa dell’intervento spagnolo né dei susseguenti tentativi, disperati ed infruttuosi, di ricreare una sorta di “Lega italica” antipapale nel Nord.
Del pari esse danno una spiegazione assurda, ma perfettamente coerente con la topica retorica censoria del personaggio del cortigiano dissennato che essi hanno proposto per il Gaufrido, circa la scelta di quest’ultimo di guidare l’esercito.
Questo compito sarebbe spettato, si scrive, al Serafini, uomo altamente qualificato in questo senso, che con grande rammarico si sarebbe visto escludere da quella funzione in modo che il Marchese Gaufrido, primo ministro, ottenendo l’incarico di comandante supremo dell’esercito potesse, unico nello stato, fregiarsi del titolo di Eccellenza.
Questa effimera lusinga davanti ad un’impresa a dir poco quasi priva di speranze, avrebbe spinto l’incauto Gaufrido ad impegnarsi in prima persona come leader militare.
Altra invece l’analisi minuta del Siri che mostra di conoscere ben altre relazioni riservate.
Nel momento in cui, falliti i tentativi di ottenere interventi militari da parte di qualsiasi tipo di alleato e preso atto della volontà di guerra del Papa, che anzi ha ormai già iniziato le ostilità, resta solo il problema di come rispondere. Sono state levate un certo numero di compagnie, decisamente insufficienti per replicare le operazioni contro Bologna della prima guerra di Castro ed è ora da decidere chi le debba comandare.
In verità il Siri ci parla di uno scontro al vertice tra la Duchessa madre e il Serafini, da una parte ed il Gaufrido, dall’altra; scontro interessante perché nessuno dei due, né il Gaufrido né il Serafini, intendono accogliere quell’incarico.
In altri termini è evidente a tutti e due che per le condizioni di partenza la sconfitta è certa. Il Serafini poi, come, con profusione di dettagli, ci attesta il Siri, non era affatto un importante condottiero ma aveva avuto solo qualche esperienza di guerra all’estero, servendo in ranghi minori, mai aveva ricoperto funzione di leadership alla guida di qualche esercito o di grosse unità militari e appariva coraggioso ma totalmente privo di ingegno strategico.
Entrambi due, consapevoli di una disfatta ineludibile, intendevano trasferire la responsabilità di questo imminente insuccesso al proprio rivale.
Quello che prevalse quindi non fu il Gaufrido bensì piuttosto il Serafini e pare di intendersi dalle pagine del Siri che, al di là di una certa voglia di gloria che neppure il Siri esclude nel comportamento del Gaufrido, vi fosse in quest’ultimo quanto meno la certezza che il Duca, al pari di suo padre, sarebbe stato presente sul campo di battaglia.
Il che significava molto e cioè che, al di là delle titolature, il comandante formale e sostanziale delle operazioni sarebbe stato lo stesso Ranuccio e che il risultato dello scontro non avrebbe potuto essere attribuito al solo Duca ma neppure solo a chi, al suo fianco, ne aveva eseguito gli ordini; probabilmente, come in altre circostanze, le truppe o i comandanti inferiori sarebbero stati accusati di incapacità o fellonia.
Questo comunque richiedeva la presenza di Ranuccio sul campo e par quasi da intendersi dalle parole del Siri che strategia del Provenzale fosse, come in passato con Odoardo, quello di mai discostarsi anche fisicamente dal fianco del Duca.
Anche se il titolo di comandante dell’esercito comportava dunque un’ulteriore responsabilità è chiaro che disporsi a fianco di Ranuccio era, o almeno così pensava il Gaufrido, la più solida assicurazione di non vedersi fulminato da alcuna censura poiché ciò avrebbe significato il coinvolgimento dello stesso Ranuccio19.
Il vero “colpo di stato” fu realizzato dunque alla vigilia della battaglia. L’esercito ducale era già pronto quando, con una mise en scene, realizzata a freddo, la Duchessa madre si gettò piangente sul figlio ricordandogli la recente perdita del padre e supplicandolo di non lasciarla sola all’interno della corte con l’angoscia di saperlo in battaglia.
Ecco subito che il Serafini e tutto il suo partito si mossero a sostegno della Duchessa, che probabilmente aveva orchestrato tutto già da tempo, sino a convincere Ranuccio, che probabilmente da tale cabala era estraneo, a rinunciare alla sua presenza sul campo di battaglia per amore della madre.
Dice il Siri che i suoi informatori gli riferirono che in quel momento Gaufrido era sbiancato. In quella situazione drammatica la sua unica tutela veniva meno e immediatamente egli fece alcune mosse scarsamente congrue e sicuramente inefficaci: prima chiese di abbandonare la carica che gli era stata assegnata, poi la offrì al Serafini il quale immediatamente la rifiutò ancora una volta ed infine chiese di poter attendere ancora altro tempo per poter disporre di maggiori informazioni sul nemico ma anche a questa dilazione fu opposto un netto rifiuto. L’esercito ducale dunque si mosse con il proprio comandante in un vero e proprio stato di panico.
Non che ciò abbia potuto influire molto sull’esito reale dello scontro. Il Siri, raccogliendo le relazioni del tempo che trascrive puntualmente, impietosamente parla di uno scontro che avrebbe confermato il Machiavelli nella sua idea dell’incapacità all’armi dei mercenari italiani: all’inizio i dragoni farnesiani mossero all’attacco e senza nessun motivo plausibile, salvo l’impreparazione e la vigliaccheria, le truppe pontificie si misero da se stesse in rotta, né i loro capitani fecero alcunché di significativo per arrestarle.
Quando l’avanzata senza merito né gloria dei ducali già stava per giungere alle retrovie ecco che due cannoni aprirono il fuoco a coprire la ritirata papalina. Tanto fu sufficiente perché quasi senza perdite l’esercito farnesiano rovesciasse il proprio ordinamento ed iniziasse a sua volta una rotta altrettanto sconsiderata.
La conclusione del Siri fu che ambo gli eserciti avrebbero dovuto vergognarsi in egual misura della condotta tenuta in quella circostanza, che un vero scontro non era avvenuto, che le perdite, che egli puntualmente elencava, capitani compresi, si contavano sulla punta delle dita di una mano e che raramente, persino nei più modesti scontri tra piccoli stati, si era potuta constatare una simile fellonia da parte dei due eserciti che, a suo dire, dovevano in realtà considerarsi entrambi battuti.
A dimostrazione ulteriore della circostanza il Siri afferma che a metà dello scontro una missiva fu rapidamente spedita a Bologna avvisando la città di prepararsi a sostenere l’attacco farnesiano poiché la battaglia era perduta.
Il terrore fu tale che, quando poi in serata i messi dell’esercito pontificio tentarono di farsi aprire le porte per comunicare la vittoria (o quella che almeno così veniva celebrata) lo sconcerto era ancora tanto intenso che si rifiutò di dar seguito alla richiesta, temendo che si trattasse di uno stratagemma dell’esercito ducale vincitore e solo quando uno dei membri della scolta addetto alle mura riconobbe personalmente uno dei messi, si accettò l’idea che quella che era stata descritta come una totale sconfitta si fosse inopinatamente trasformata in una vittoria e che le porte potessero essere dunque aperte20.
Quale che sia il significato non tanto della missiva del Gaufrido dopo il disastro quanto piuttosto della risposta di Ranuccio, esempio di machiavellismo o affettività soverchiata poi dalle trame del partito avverso al Provenzale, la sorte di quest’ultimo era già segnata.
Si deve comunque osservare che quello che lo condannava ora era un mondo profondamente cambiato rispetto a quello che il Gaufrido aveva conosciuto un ventennio prima giungendo a Bologna.
La sua figura resta, al di là delle numerose ombre che la circondano, emblematica in riferimento alla struttura sociale interna del mondo delle corti padane.
Quanto a Bologna lo studio del latino, della letteratura volgare, del greco, delle scienze esatte, della medicina, della retorica, della giurisprudenza consentirono ancora allo Studio di preparare figure professionalmente ben definite e intellettuali capaci di poter legittimamente aspirare anche a grandi carriere negli stati vicini. Questi ultimi erano, a volte, una prima tappa di passaggio per ascendere a corti più importanti, altre volte erano invece punto d’arrivo di esistenze intense e drammatiche.
Il provenzale Gaufrido fruì al meglio delle risorse offerte allora dall’Alma Mater e dal mondo del sapere che la circondava e investì il tutto in una carriera politica tanto sfolgorante quanto terribile.

Note

  1. La biografia del Gaufrido non pare esser stata oggetto di particolare interesse: a prescindere dalle fonti coeve o dalla trattatistica sulla storia del Ducato farnesiano ed in particolare di Piacenza si deve rinviare a G. TOCCI, Il Ducato di Parma e Piacenza, in Storia d’Italia , XVII, I Ducati padani, Trento e Trieste, Torino 1979, pp. 267, 269, 278-280; E. NASALLI ROCCA, I Farnese, Varese 1969, pp. 164 s., 171, 187, 189-191; Disgrazia e morte del marchese G. G… Frammento di storia inedita da G. Rinalducci esistente nella Magliabechiana di Firenze, a cura di S. TOMANI AMIANI, Fassa 1866 nonché I. COTTA – L. SPERA, Dizionario Biografico degli Italiani, 52 (1999), s. v.
  2. Accenni ad alcuni titoli dispersi in una lettera del 24 marzo del 1637 in Opere del conte Bernardo Morando nobile genovese, I, Piacenza 1662, pp. 183-185 ( Bernardo Morando compose tra l’altro un Epitalamio per il Gaufrido ), ma il rinvenimento dei lacerti più rilevanti è editato in S. FERMI. Di un presunto carme di Iacopo Gaufrido in ode di Odoardo Farnese, in “Bollettino Storico Piacentino”, III (1908), pp. 139 ss.; ID., Due amicizie letterarie di Giacomo Gaufrido (G. Galilei e C. Achillini), in “Bollettino Storico Piacentino”, II 1(907), pp. 97-106; ID., Romanzieri piacentini della decadenza, in “Bollettino Storico Piacentino”, II (1907), pp. 157-159, saggio rilevante soprattutto per aver dato notizia del recupero di 19 cc. circa del Filogenes. Il testo delle Lettere a diversi (di datazione del tutto incerta) contiene le sole note di medicina del Nostro. Delle poche opere a stampa pervenute si darà conto nelle pagine successive.
  3. L’unica biografia completa dell’Achillini è costituita dal vecchio, ma ancora classico B. Malatesta, Claudio Achillini, Modena 1884.
  4. Apologia pro philautia naturae, Bononiae 1632; Epistula ad illustriss. Et reverendiss. Claudium Fliscum, studio critico sul Ratto d’Elena di Guido Reno (una lettera sul medesimo argomento in S. Fermi, 1907, pp. 98 ss.). Decas amoenissimarum epistolarum…, Parmae 1635 indirizzata allo Scotti ed in cui i due autori dibattono di teologia. Si veda inoltre Della pietà crudele, di cui sono pervenuti solo alcuni atti e che è la sola opera teatrale del Nostro pervenutaci, anche se tale forma letteraria risulta presente nei suoi interessi.
  5. Galilaeo Galilaeo, Lynceorum duci, philosophorum primo Iacobus Gaufridus salutem, Bononiae 1631 in Opere di G. Galiei, XIV, pp. 313 – 316.
  6. G. CAMPORI (cur.), Carteggio Galileiano inedito con note ed appendici, Modena, 1881, pp. 310-314, 317-320, 328, 323-324. G. GALILEI, Opere, XIV, pp. 317, 324-325, 341-342.
  7. Il carattere imprevedibile e spesso irrazionale di Odoardo ed il clima della sua corte sono ben lumeggiati dalle relazioni di Giovanni Nani (ASVe, DAS, Roma 115, specialmente il n. 108 del 19 novembre 1631) e di Ottaviano Raggi, quest’ultimo al Senato genovese, ASG, AS, 1986-1987 specialmente quelli del 12, 19 e 25 novembre 1639, si veda anche V. SIRI, Il soldato politico monferrino e le critiche rivoltegli dai farnesiani L’istorico politico indifferente, e poi con le Osservazioni sopra l’istorico politico indifferente e ed inoltre Lo scudo e l’asta del soldato monferrino impugnati alla difesa del suo sistema politico contro l’istorico politico indifferente, Cifalù (ma Venezia) 1641.
  8. G. FIORI, Odoardo Farnese. e la rovina del Ducato (1622-1646), in Storia di Piacenza, IV, 1, Piacenza 1999, pp. 49-62.
  9. Non si dimentichi che Castro fu una prima volta assediata, presa e distrutta proprio dai Farnese che ne rivendicarono il possesso, in occasione del Sacco del 1527 e che poi dovettero temporaneamente restituire il territorio al Papato per volere dello stesso Clemente VII.
  10. A. CAVOLI, La Cartagine della Maremma, Roma 1990. G. CONTRUCCI, Le monete del Ducato di Castro, Comune Ischia di Castro 2012. E. DEL VECCHIO, I Farnese, Roma 1972. R. GALEOTTI, Il Ducato di Castro e le sue milizie, Viterbo 1972. F. GIURLEO, La famiglia Farnese – Il Ducato di Castro fra storia e leggenda, Viterbo 2012. R. LUZI, «Giornale» dell’assedio, presa e demolizione di Castro (1649) dopo l’assassinio del vescovo barnabita Mons. Cristoforo Giarda, in “Barnabiti Studi”, Congregazione dei Barnabiti, Roma 1985, ID., Storia di Castro e della sua distruzione, ed. Santuario del SS.mo Crocifisso di Castro, Ischia di Castro 1987.
  11. Mi permetto di rinviare al mio F. MARTELLI, Le armi, le Leggi e il Principe. Studi sul pensiero politico di Raimondo Montecuccoli, Bologna 1991, I , pp. 136 ss.
  12. Sulle trame che condussero alla nomina d’imperio del Giarda da parte pontificia senza consultare il Farnese cfr. V. SIRI, Del Mercurio, XII, 1672, pp. 873 ss. S. ORTOLANI, S. Carlo a’ Catinari, Roma s.d., pp. 20 – 45. Dict. d’hist. et de géogr. ecclésiastiques, XX, s.v.
  13. D. BUSOLINI, in Dizionario Biografico degli Italiani, s.v.
  14. M. CARFORA, L’assassinio di mons. C. G. ultimo vescovo di Castro, in “Pagine di cultura”, I (1934), 3, pp. 160-183; G. DONNA D’OLDENICO, C. G. da Vespolate ultimo vescovo di Castro, in “Rivista araldica”, XLVI (1948), 1, pp. 11-13; Id., Nel terzo centenario della morte di C. G. da Vespolate, in “Boll. stor. della provincia di Novara”, XLI (1950), pp. 18-26.
  15. A. VALVASSORI, Compendio ed Epilogo della vita e morte di Monsig. Cristoforo Giarda, ultimo Vescovo della Città di Castro, pp. 73-78. I molti fattori di dubbio sul processo nascono da recenti ricerche negli archivi del territorio del Ducato che paiono mettere in crisi la narrazione del Compendio, fonte primaria sino ad oggi; ad esempio cfr. Archivio di Stato di Viterbo, d’ora in avanti indicato come A.S.Vt, archivio notarile di Gradoli, Bernardino Pomponio prot. 74 (1638-1652), c. 104v. 29 Ivi, Leonoro Corsetti prot. 78 (1657-1661), c. 11. 30 Ivi, archivio notarile di Gradoli, Girolamo Blasi prot. 80 (1654-1676), c. 9v e 10. 31 Ivi, Leonoro Corsetti prot. 78 (1657-1661), c. 18v e segg. 32 Ivi, Girolamo Blasi prot. 80 (1654-1676), c. 176. 33 A.S.Vt, archivio notarile di Valentano, Giovan Domenico Cocchi prot. 43 (1639-1645), c. 176.
  16. MEMORIE STORICHE di PIACENZA COMPILATE DAL PROPOSTO CRISTOFORO POGGIALI BIBLIOTECARIO DI S.A.R., Piacenza 1765. A. NICOLETTI, BAV, Barb. lat. 4738, cc. 113r-116r. Per le carte del Morone cfr. MORONE, ARSI, Rom. 58 CT, 1642-1645, 1642 1, c. 15; ivi, 1645, 1, c. 45, n. 3.
  17. Di fatto tutti i resoconti sono quasi sovrapponibili e presentano gli stessi dettagli: di questi autori e della loro comune lettura offre una completa silloge C. POGGIALI, Memorie istoriche cit, pp. 360 ss. A parte il Siri, solo l’Aprosio mostra una certa bizzarra originalità proponendo la damnatio memoriae del presunto reo a cominciare dalla censura del Filogenes, proposta che par aver trovato riscontro nella tradizione dei testi del Gaufrido.
  18. G. GUALDO PRIORATO, Historia delle rivolutioni di Francia, Colonia 1670, pp. 322 ss.; si noti poi la acrimonia dello stesso Brusoni verso un personaggio eminente nell’Accademia degli Incogniti di cui anche lo scrittore era membro cfr. G. BRUSONI, Dell’Historia d’Italia, Venezia 1661, pp. 730 ss.
  19. V. SIRI, Del Mercurio cit., XIV, Firenze 1682, pp. 163 ss.
  20. Ibid., pp.164 ss.

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