Bibliomanie

La navicella degli occhi
di , numero 1, aprile/giugno 2005, Poetando,

Come citare questo articolo:
Elisabetta Venturi, La navicella degli occhi, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 01, no. 21, aprile/giugno 2005

Bologna, maggio 2004

A tutti i miei compagni di giochi, quelli di oggi e quelli di… oggi

Quasi un soffio…

Non ho mai capito il perché,
delle divisioni e delle moltiplicazioni,
degli addendi e delle somme,
dei conti che devono
sempre tornare. L’unica cosa
che doveva tornare
era lì:
quel senso di Amore
e di Uguaglianza,
impresso nel cuore,
come un sasso nel mare.

Mi sono sempre chiesta il perché
d’innumerevoli cose:
forse ora solo
so la risposta
a quei molti perché.

“Vi arriva il poeta”,
lungo lo “sciame dei tuoi pensieri”.

Così si arriva
nel mezzo della vita,
un cammino lungo un’ora,
breve come un secondo
e lieve come un soffio,
al mare sulla sabbia
d’inverno.

Quando ero bambina,
pensavo a come
sarebbe stato un giorno,
ma ora il mondo
è racchiuso in uno schermo,
di vetro o di cristallo:
lo sento intorno
e lo guardo e lo osservo,
ma spesso non riesco
a riflettere.
E penso di essere stupida
perché non amo la razionalità,
che tanto serve
a non soffrire
mentre,
con infantile ingenuità
e severa maturità,
ancora non mi aiuta l’età
a comprendere le persone,
i loro infiniti
controlli emotivi,
le mancanze d’amore,
le carenze del cuore,
in nome di una più forte
sensibilità:
quella della praticità!
Mi domando che mondo
ho mai avuto.
Non so quando è successo,
ma ancora me lo chiedo.
Questo mondo così bello e così acuto
e incerto
e come un trovatello.
mi guardo intorno
e madre non ho.
E cosa chiedo,
uno sguardo ancora?
Ma no
È solo un pensiero d’amore
per tutti noi e per tutti voi.
E madre non ho.
Ho avuto solo un padre,
e la madre nel cuore.
Eppure, lontana da tutti,
a tutti io voglio tornare.
E mi sento come
un scilp videvitt
di pascoliana memoria
È dialogo quello che cerco
Ma io non lo so regalare
Perché la parola esce fuori di me
e madre non ho.
Un uomo morde il cielo,
una donna non fa nulla
e tace: meglio così
se non le piace
null’altro
che stare intorno
a guardare
aspettando la
pace.
Pace del cuore.
Mio tenero amore,
qui pace non c’è.
C’è solo una bambina,
un embrione di gelatina,
ma tutti abbiamo
lo stesso Amore.
Non lo sentiamo però
con lo stesso fervore
In realtà è nel bene
del forte braccio
che il vuoto riempie
la solitudine.
Non abbiamo paura –
dice il cuore.
La storia ci può aiutare,
ma i sistemi si sono confusi.
Ricordate le madri, quante madri
nella poesia dei nostri padri,
embrioni saltati
e poi
finalmente nati
Quelli da cui voglio sentire
anch’io
la mia appartenenza.


Ora siamo in attesa delle elezioni. La città, come ad ogni appuntamento elettorale, si rianima e torna al lavoro usato : manda a chiamare le proprie tradizioni popolari e comunali. Il paese è chiamato a raccolta, come ai tempi del capo e dei suoi guerrieri: questa piccola comunità emiliana, aristocratica e popolare, cattolica e comunista; qualcuno dice che siamo una città moderna, ma non è vero: è una facciata di modernità, una finestra e una speranza sul futuro, ma la città non riesce a scrollarsi di dosso l’antico costume ghibellino; nella piazza s’incontrano persone, le solite – da sempre – di questo paese di cultura, di un’Università, di un tempo.

Cerchiamo tutti un perché,
per chi votare per che cosa,
ma la nostra città era bella, un tempo,
Bologna.

Ogni mattina ascolto la città,
che si risveglia;
m’incontro con lei,
oltre che con me stessa,
con pochi esseri umani
che lungo la strada compiono
le azioni mattutine:
autobus, quotidiano, caffè.
Alcuni vivono
col sorriso a brandelli:
dopo le delusioni,
siamo tutti sciocchi,
nessuno escluso;
qualcuno, certo,
è più furbo
di altri
siamo tutti
tanto ignoranti.
Quando si andava al cinema,
da ragazzi,
il mondo doveva ancora arrivare;
adesso siamo tutti qui.
La speranza era riposta
in quelle poche, monotone
immagini
del cinematografo.

Abbiamo qualcosa
da imitare:
nel fango, qualcuno direbbe,
il mondo si è fermato;
per molti invece va
avanti.
Quella speranza è nella
Vita,
ma la vita non sempre
chiama
a raccolta i suoi
figli,
alcuni li disperde.

Un tempo eravamo
tutti là,
in fila, ad aspettare
la nostra razione
di vita.

Ora siamo qui,
con il tempo che sta
e per qualcuno non è più.

Le farfalle non le vediamo più,
le speranze sono vuote
e immature;
non abbiamo
occasioni,
dobbiamo
cercare tra noi.

Ci siamo sposati
e ci siamo separati,
dagli amori e dalle idee,
dalle mogli e dalle ideologie,
inseguendo chimere
che per noi son come i figli,
quelli sani,
che ringiovaniscono il mondo.
Qualche figlio l’abbiamo preso
all’abbandono del mondo.
A volte nessuno prende noi.
C’è sempre una madre,
un padre quasi mai.
È meglio essere orfani,
forse,
che passare dei guai.
La vita scorre uguale
in un abbraccio ideale.

Muor giovane colui che al cielo è caro.


Primo stasimo

Ma quando questa nostra
sensibilità
ci dirà che non possiamo
raggiungere la felicità?
Siamo andati un giorno
lungo il corso del fiume;
siamo andati un giorno
sulla riva del mare.
Nella battigia,
sulla scia delle onde,
acqua marina
dalle sabbie profonde.
C’erano bambini
come di mercatini,
ma ingenui burattini
si sono accoccolati
con tanti nastri colorati
per prender nella mano
un volo di gabbiano.
Allora un giorno –
non sappiamo
quale sarà per noi –
che per la nostra mente,
un barlume di intelligenza,
senza la paura
ci illuminerà
di Sapienza.
Ma la Sapienza non è per noi,
che abbiamo l’anima ferita
e
come cosa sgradita,
ci facciamo del male .
Perché non comprendiamo:
stiamo ancora lontano
dalle strade della bontà.
Ho cercato tante volte di comprendere
quanto si potesse vivere
senza…
Ma dopo questo intoppo
non c’era
nessun qualcosa
per riempire lo spazio
lasciato dal timore
di una schiavitù.
Andando su e giù
per la strada,
mi chiedevo
ma è questa la vita
e dove è lei
per me?
faccio finta di nulla
e dentro mi frantumo.
Andiamo in cortile,
ma non sappiamo giocare
entriamo nella vita
e non sappiamo amare.

Raggiungiamoci,
siamo più coraggiosi:
ma la parola non è per noi,
che siamo anime ferite .

Secondo stasimo

Arrivano i moschettieri:
che orrore!
Non è realtà
questo spadacciare
per le strade
di un falso eroismo.
Avvicinatevi,
signore e signori,
inchinatevi
alle sorprese della vita
e
ascoltate
qualche suono qua e là come di
rime sparse
e di
spiagge riarse
or qui
or lì.
Ci siamo quasi:
alla rinfusa
vien fuori
la Poesia.
Cosa ne pensi,
mia piccola Amica?
Mi sento come
quel personaggio di Esopo:
non sono mai all’altezza
di quell’uva fiorente.

Ti ho evocato,
Amica del cuore.
Ma è solo un ricordo
e non so
se vi sia.

Perché esistono le fanciulle?

Ma sarà vero
che s’aprono fiori rari,
o forse troppo frequenti
per essere chiari.
Finiscono tutti per “i”:
quindi non li distinguo.


Un giorno andavano le ragazzette,
vestite a scacchi,
sembravano ranocchiette:
non c’è più religione,
il mondo sembra finto,
impazzito dietro rumori,
non suoni.
Io non so come
mi par di rivedere
le antiche primavere,
quelle del tempo andato:
un ritorno al passato
che mi rimanda
al fato.

Eccomi là, giù in fondo:
son sempre di lontano
nuvole a tutto spiano.

Ma che dici, stai forse rimpiangendo
qualcosa del tuo mondo,
quello falso o quello vero,
quello del cimitero.

Un canto di ninne nanne:
non le conosco affatto,
non mi ricordo nulla,
sembrava quasi un soffio:

il canto di una
culla.


Ci siamo radunati
tutti quanti.
Eravamo tanti.
Sento un tranquillo
eremo
dentro il mio cuore.
Ma pace non ho.
Non sento la mia voce.
Il segno della croce
io non lo riconosco:
sarà per via
del fosco
pensiero che m’insegue .
Io provo,
ma non esce
la voce
del sentiero
di mille rovi torti.
Aiutami tu,
Mammina.

Avevo una sorellina:
sarà falsa,
sarà vera,
o solo una chimera?
Ma ancora siamo insieme
sul pensiero del mare..


Alto

Andiamo,
non disturbare
questa seria tranquillità.


Vita

Indomito pensier,
dolce ricordo
di mille aneliti.


Il rimpianto

Sempre ti cerco,
Anima del mio cuore
Sei forse tu,
Signore,
che mi parli da un
dentro
che non conosco.

Siamo più atti noi
a fare che cosa ?
Guardare una rosa,
cercare un limone,
vivere nel pensiero
delle persone.

Mille passi son passati
tra i mille anni
che ci hanno guardato.
Cambiare la nostra
umida storia.


La mia città

La mia città è serena.
La mia città è in pena?
Ma no,
non è il suo genere
piangere
di dolore.
Piuttosto è battagliera:
nella sua fibra
di condottiera;
quando c’è il Re alle porte
s’aprono i levatoi:
entra con i fedeli,
suonano i trombettieri,
tornano ai lavatoi
le donne dei cimieri,
che i loro baldi uomini
dall’elmo hanno rimosso
per scavalcare un fosso
più facile a saltar.

Bologna

Ecco la mia città:
è forse un po’ pesante,
greve nell’ansimare
di tante azioni.


Idea

Ma lo sai che non si pensa mai
da soli,
che le nostre parole
e i nostri pensieri
sono un quadro di idee,
un’immagine a priori
del nostro cielo
e del nostro orizzonte
occidentale.
Non pensar d’essere
originale:
sei sempre stato
già pensato
solo la differenza
sta nella
normalità,
nella vita delle azioni
quotidiane
nel vivere vissuto,
e non nel vivere
pensato.


Aderenza

Paesaggio, non ci sei
più?
Sei sempre lo stesso.
Nella piazza di rivedo
intanto.
Vorrei vedere il mare.
Non riesco a ripartire
da dove son venuta.
M’immagino
lontana.
Da allora
una molecola
dell’universo,
un brandello
di anima
persa nell’avvenire
di tutti noi.
Ci sarà mai
una particella
di originalità?
In fondo
che differenza c’è
tra stare soli
e stare in compagnia,
Grande in realtà
la sofferenza
nella fragilità
immensa
di un’anima non capìta.


Allegria morta e viva

Una parola sola:
Allegria.
Ti cerco
perché ti voglio.
Non ti conosco.
Non mi conosco.
Invece forse sei sempre in me,
ma non ho la Parola
per comunicare
col mondo
La stupida debolezza del mio
corpo
la forza della mia
mente.


La navicella degli occhi

Un giorno ho incontrato due occhi
Loro hanno incontrato me
Ridevano e io non capivo,
sorridevano
E io speravo,
poi non ho più capito.
Mi hanno preso
dal centro dell’universo
azzurro
nel quale mi trovavo
e mi hanno detto:
“Sei forse qui per noi?”
Allora mi uscì una sola parola:
Amore.


Ma
lo sai che proprio non ci siamo?

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