Bibliomanie

Livia Chandra Candiani, Bevendo il tè con i morti
di , numero 43, gennaio/giugno 2017, Letture e Recensioni,

Livia Chandra Candiani, <em>Bevendo il tè con i morti</em>
Come citare questo articolo:
Magda Indiveri, Livia Chandra Candiani, Bevendo il tè con i morti, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 43, no. 11, gennaio/giugno 2017

Se la parola poetica condivide con la magia il potere del fare, la poietica, i versi di Livia Chandra Candiani sono qui a dimostrarlo. I morti che mai vediamo e che affidiamo normalmente all’invisibilità, al non luogo, all’inscritto (bara, cimitero, urna), nei versi di questa raccolta riedita da poco stanno sugli alberi, hanno la gonna rossa, siedono sui fili della luce, hanno risme di fogli.
I morti che vivono.
Basta questa affermazione e li vediamo, come inserti, tra le cose del mondo.
Ma non è più il tempo dell’epifania, del miracolo. I morti non appaiono, stanno semplicemente, fanno azioni, rassettano la terra, hanno paura di vivere ma vivono. La noncuranza è la loro caratteristica, come se i loro occhi fossero rivolti all’interno. Come oggetti di cui condividono la vita, forse meno effimera di quella dei vivi.
I vivi, attraverso la finestra della poesia, li vedono. Posano accanto, come gli angeli nel film berlinese di Wim Wenders. Il verso è pulito, asciutto, esso stesso si posa – come la luna leopardiana. È questo understatement che pervade la poesia di Livia, questo freddo, questa lettura parallela che apre lo sguardo alla nuova realtà. Senza canto né lirica. Le cose sono. I morti sono. Livia condivide lo sguardo di Anna Maria Ortese, sicura dell’incerto.
La loro voce è aria. Con Pascoli abbiamo scoperto la scatola sonora della poesia, il diaframma che rende le voci dell’Altro. Ma nel tempo le voci si sono zittite, il pigolio si è placato.
I morti dei versi di Livia fanno azioni, ma non dicono. Chiedono silenzio ed eventualmente si fanno tradurre dalle parole degli uccelli. Senza progetti, se non quelli di attendere alle loro azioni; si infilano nelle pieghe del silenzio, perché la misura della lingua è vedere il silenzio. Per questo “tacciamo insieme”.
A differenza di quelli di Vittorio Sereni, sanno d’essere morti, i morti di Livia; più che mai “toppe” sì, ma di esistenza.
L’inverno si addice ai morti; la neve è il loro alfabeto. “A finestre di neve/si affacciano i morti”. Alberi conficcati nella neve come vide forse in un lucido sogno Franz Kafka e come concluse i suoi racconti in preghiera Joyce il dublinese.
I morti sono inserti nelle vite, sono le immagini dell’angolo dell’occhio. Beviamo il tè con loro, comprendendo finalmente il viaggio di Alice nel regno dei morti, il suo sostare alla tavola del Cappellaio dove il tempo non scorre. Bevendo il tè con i morti entriamo nel loro narrare interdetto.

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