Bibliomanie

Étienne de la Boétie, Discorso sulla servitù volontaria
di , numero 29, aprile/giugno 2012, Letture e Recensioni,

Come citare questo articolo:
Giada Margiotto, Étienne de la Boétie, Discorso sulla servitù volontaria, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 29, no. 11, aprile/giugno 2012



No, non è un bene il comando di molti;
uno sia il capo, uno il re.


Il Discorso sulla Servitù Volontaria di Étienne de La Boètie (1530-1563) si apre con questa citazione omerica: l’Autore si riferisce in questo modo direttamente alla Politica di Aristotele, che nelle analisi delle diverse forme di governo utilizza tale verso; tuttavia egli rimanda alla tradizione non tanto al fine di allacciarsene bensì di discostarsene: il suo interesse, afferma poco sotto, non è quello di «discutere la questione tanto dibattuta se altre forme di regime politico siano preferibili alla monarchia». Vi è perciò una indiretta presa di distanza anche dal contemporaneo Principe di Machiavelli1.
Gli obiettivi che si vogliono raggiungere nel corso di questa lettura del Discorso sono, oltre quello di indicarne i temi principali, di mostrare come tale opera non può a rigore essere considerata antitetica o complementare all’opera del fiorentino, in quanto si muove su un livello differente, prettamente fondante, ed è proprio in virtù del suo specifico piano d’indagine che non può essere ridotta semplicemente all’uso storico e alle interpretazioni più comuni che di essa si sono fatti.
L’analisi di La Boètie parte da un fatto: la condizione di migliaia di uomini che sopportano

talvolta un tiranno solo, che ha il potere di danneggiarli unicamente in quanto essi vogliono sopportarlo, che non potrebbe far loro alcun male se essi non preferissero subirlo invece di contrastarlo 2.

Lo stupore di fronte a questa situazione, seppur tanto comune, è grande ed è dovuto al fatto che sono gli stessi sudditi che si fanno dominare, perché se solo smettessero di servire, sarebbero liberi.
Siamo dunque in presenza di una servitù volontaria ed il compito che si prefigge l’Autore è quello di indagarne le condizioni di possibilità, le sue radici profonde nell’animo umano; il suo è dunque un lavoro di metateoria, di critica del potere.
Già tenendo per fermo questo punto si può capire come la riduzione del Discorso a testo militante o a semplice esercizio retorico è tanto illegittima quanto ingiusta. Sarà opportuno soffermarsi brevemente su alcune delle vicende storiche ed ermeneutiche che hanno segnato il destino dell’opera (interpretata ora nel primo modo ora nell’altro) per circoscrivere meglio il problema.
Poco prima della morte3, La Boétie affida all’amico Montaigne4 tutta la sua opera che verrà pubblicata nel 1571, con la sola esclusione del Discorso sulla servitù volontaria. Montaigne voleva fare di esso «il quadro ricco, infinito, composto a regola d’arte a cui tutto il resto fa da contorno» dei suoi Essais. Ma il Discorso era stato pubblicato, parzialmente e anonimo nel 1574 – e integralmente e con il nome dell’autore nel 1576, in pamphlet ugonotti contro la monarchia francese con il titolo Contr’un e infine condannato ad un pubblico rogo nel 1579. Di fronte a questa situazione Montaigne decide di non collocare più al centro della sua monumentale opera (pubblicata definitamente nel 1588) il Discorso, e al suo posto collocare invece ventinove sonetti dell’amico. Non solo: motiva la sua scelta disconoscendo la legittimità dell’uso politico del libretto, ricordando dell’amico perduto l’obbedienza alle leggi e l’inimicizia verso ogni forma di sovvertimento del potere costituito, riducendone l’opera a semplice esercitazione retorica «sfuggitagli dalla penna» quand’ancora era dedito agli studi umanistici5.
Il destino dell’opera è ormai segnato: mentre, alla luce della sua ricomparsa ogni volta che si sente il bisogno di rivoluzione e lotta contro il potere (prendiamo a mo’ di esempio lo scritto di Marat, Chaînes de l’esclavage, che colloca in appendice il Contr’un), alcuni critici mirano a sottolinearne il carattere politico e polemico, accusando Montaigne di aver mascherato le vere intenzioni di La Boétie; altri lo considerano invece «un capolavoro del secondo anno di retorica… uno di quei mille classici delitti compiuti uscendo dalla tutela di Tito Livio o di Plutarco, prima di conoscere il mondo moderno o di aver approfondito la conoscenza della società antica».6
Su una cosa si può dare ragione a Montaigne: La Boétie con questo scritto non propone alcun sovvertimento politico, alcun contro-potere. Infatti considera con disprezzo le

congiure di ambiziosi,che non vanno certo compianti per gl’inconvenienti che gli son capitati, giacché è evidente che non desideravano abolire la corona ma appropriarsene, avendo la pretesa di cacciare il tiranno e perpetuare la tirannia 7,

d è proprio a questa categoria che appartiene il gruppo che per primo fece pubblicare l’opera (basti pensare che una volta che la fazione ugonotta dei nobili capeggiati da Enrico di Borbone conquistò la monarchia, anche i cattolici della Lega Santa usarono il Discorso contro il governo costituitosi).
Appena l’Autore sembra abbandonarsi ad una esortazione verso tutti i popoli soppressi

siate risoluti a non servire più, ed eccovi liberi; non voglio che vi scontriate con lui o che lo facciate crollare, limitatevi a non sostenerlo più, e lo vedrete come un grande colosso cui sia sottratta la base, cadere d’un pezzo e rompersi8.

subito si corregge, riconoscendo che forse ormai è troppo tardi, dal momento che il popolo «da gran tempo sembra non aver più coscienza del male che l’affligge, e in ciò mostra che la sua malattia è mortale».
È lo stesso Machiavelli semmai, nel momento in cui ricostruisce le dinamiche del principato, a suggerire un contro-potere, come dimostra la lettura che nel Risorgimento fu fatta del Principe, visto come l’opera che per prima smascherò tutti gli stratagemmi del potere9, indicando quindi come contrastarlo. La Boétie vuole piuttosto far riflettere sulla misera condizione cui i sudditi sono soggetti; non propone alcuna rivoluzione ma cerca per congettura le modalità con cui si è radicata così profondamente nell’animo umano «questa testarda volontà di servire, tanto che ora lo stesso amore della libertà sembra non essere poi così naturale».
Il punto di partenza, senz’altro innovativo, del suo lavoro di metariflessione è l’attività-passività del popolo sottomesso. Per La Boétie il potere non è legittimato né da Dio10 né dalla legge naturale della supremazia del più forte (auspicata da molti pensatori fin dall’antichità).11 Sono gli stessi sudditi che costituiscono la base di tale servitù, a renderla possibile e ad acconsentirla: è sempre il popolo sciocco che si autoinganna e crea le menzogne per poi credervi. Ma una volta che il dominio si è affermato, gli asserviti sembrano ormai impotenti nei confronti del loro parto, latore di ogni male, nonostante volere la libertà equivalga ad ottenerla, in quanto condizione naturale propria dell’uomo.
L’Autore individua nel coustume la prima ragione della servitù volontaria: è l’abitudine infatti ad insegnarci la servitù e ci plasma sempre a suo modo, malgrado l’inclinazione naturale alla libertà. Il tiranno, per mantenere e rafforzare questa disposizione a servire, distrae il popolo minuto e volgare con passatempi ed elargizioni, mantenendolo in uno stato di viltà, ottundimento intellettuale e accettazione di ogni ingiuria.
Il concetto di coustume svolge un ruolo centrale anche negli Essais in cui, nel capitolo XXIII del libro I, Montaigne caratterizza l’abitudine come «potentissima signora di tutte le cose» (citando Plinio il Vecchio), che assuefà l’uomo e allo stesso tempo gli fa apparire le abitudini di altre culture come stranezze. Interessante notare come Montaigne giunge a conclusioni analoghe a La Boétie quando scrive:

I popoli allevati nella libertà e nell’autogoverno considerano ogni altra forma di governo mostruosa e contro natura. Quelli che sono abituati alla monarchia fanno lo stesso. E qualsiasi possibilità di cambiamento la fortuna offra loro, perfino quando si siano liberati con gran difficoltà dal fastidio d’un padrone, si precipitano a ristabilirne uno nuovo con altrettante difficoltà, perché non possono risolversi a prendere in odio l’autorità 12.

Si intende quindi come nelle due opere (che hanno entrambe per oggetto la natura dell’uomo) e negli spiriti dei due autori siano presenti riflessioni affini, che spiegano come Montaigne abbia preferito definire il Discorso una semplice esercitazione retorica per allontanarlo dal piano dei contrasti politici della sua epoca.
Ritornando ora al testo, introduciamo ciò che l’autore definisce «la molla e il segreto della dominazione, il sostegno e il fondamento della tirannide»: una catena di favori e protezioni che lega al tiranno milioni di persone, «anime perse che sono ben liete di sopportare il male per farne a loro volta non già a chi gliene fa, ma a chi come loro sopporta senza reagire»13. Tra i membri della catena non può esservi amicizia ma solo complotto: essi infatti non si amano e non si fidano reciprocamente, ma hanno ciascuno paura dell’altro e sono privi di quella condizione di eguaglianza che per definizione caratterizza l’amicizia.
È questo senz’altro uno dei punti più rilevanti dell’analisi dell’Autore, che mostra tra l’altro come l’accusa che gli è stata mossa da alcuni critici, cioè di non aver sviluppato un’acuta osservazione della società moderna così come di quella antica, è certamente falsa14: La Boétie coglie tendenze sociali presenti nelle varie epoche (compresa pure l’età attuale, il nostro tempo) in svariate forme, riconducendole ad un’unica molla che rende gli uni sudditi degli altri. Prova quasi pena per coloro che strisciano ai piedi del tiranno, perché più ad esso si avvicinano, più si allontanano dalla propria libertà. Non solo infatti devono sempre obbedirgli ma anche pensare come lui e precederlo nei sui pensieri; adularlo, abbandonare i propri gusti per quelli del tiranno e, al fine di compiacerlo, stare «sempre in agguato per spiare i suoi desideri e scoprire i suoi pensieri». I favoriti per giunta devono temere più di ogni altro proprio colui di cui hanno ottenuto dopo tanta fatica i benefici15, essere in apparenza amici di tutti e tuttavia sospettosi di ciascuno, leggere nel cuore degli altri e scovare trame e imboscate, addossandosi pure gli insulti e le maledizioni del popolo che del suo male non accusa il tiranno ma solo i propri governanti.
Queste ultime pagine del Discorso, distinte da una più che attenta analisi psicologica e sociologica, rievocano quasi per magia l’atmosfera della vita di corte che si respirava ai tempi dell’autore e anche in epoche successive la sua morte; si consideri a proposito come la descrizione che La Boétie offre dei protetti del tiranno sia molto simile a quella proposta dal barone d’Holbach nel suo quanto mai delizioso e irriverente Saggio sull’arte di strisciare (posto in appendice a questa edizione del Discorso):

Un buon cortigiano non deve mai avere un’opinione propria, ma sempre quella del suo padrone o del suo ministro, e deve avere la sagacia per intuirlo. […] Il vero cortigiano è tenuto a essere amico di tutti come Arlecchino, senza però avere la debolezza di attaccarsi ad alcuno. Costretto a governare perfino l’amicizia e la sincerità […]. È indispensabile detestare senza esitazione chiunque abbia fatto torto al signore o al favorito di turno.

Ma se, nell’indagare i segreti meccanismi della servitù volontaria, l’Autore ha senz’altro preso in considerazione anche il suo tempo, come mai gli esempi che egli utilizza fanno parte del mondo greco-romano? Tali modelli non sono certo dei semplici loci da adottare per sorreggere un qualsivoglia tipo di argomentazione retorica o un semplice sfoggio di eruditio, ma hanno un significato più profondo e filosofico. Nel Rinascimento l’età classica ha assunto il ruolo di ideale, di mito, e ciò permette a La Boètie (insieme ad altri autori tra cui Montaigne) di conferire al suo discorso quella universalità che non gli sarebbe riuscito di ottenere se avesse inserito l’opera nella concretezza della sua epoca.
Come un grande classico, il Discorso sulla servitù volontaria ha il potere di parlare a tutti attraversando i diversi periodi, è un testo che non ha uno spazio e un tempo determinati proprio in quanto ha come oggetto le inclinazioni più intime e contrastanti dell’Uomo individuale e sociale. È proprio perché ad esso compete questo livello indeterminato e generale, che (come abbiamo già rilevato) non può essere definito un testo militante ma può essere utilizzato allo stesso tempo come tale: ognuno, leggendo il Discorso, non può fare a meno di pensare come la disamina dell’Autore si attagli perfettamente alla sua propria età, inserendo quindi il testo all’interno di una precomprensione e rileggendolo alla luce dei propri interessi ed esigenze attuali.

Note

  1. «Tutti li stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati. E’ principati sono o ereditarii… o e’ sono nuovi». [Machiavelli, Il Principe, Einaudi, Torino 1961, cap. 1, p. 5]
  2. Discorso sulla servitù volontaria, p.4. È importante assumere da principio che il tiranno di La Boétie non si riferisce solo a quella forma deteriorata della monarchia che costituisce appunto il significato specifico del termine a partire, per quanto riguarda la trattatistica, dalla Politica di Aristotele; ma simboleggia universalmente ogni forma di potere contrapposto all’eguaglianza e libertà di tutti i popoli e individui. Per l’autore infatti «è un’estrema disgrazia essere soggetti a un padrone della cui bontà non si può mai esser sicuri […] e avere parecchi padroni significa essere parecchie volte vittime di una tale disgrazia».
  3. Avvenuta il 18 agosto del 1563 per pestilenza nei pressi di Bordeaux, dove gli era stato affidato il comando di una divisione per difendere la città, caduta nelle mani dei protestanti della vicina Bergerac. Per ironia della sorte, come vedremo, saranno proprio gli ugonotti ad impossessarsi per primi della nostra opera.
  4. La profonda amicizia tra i due è stata resa senz’altro celebre dal capitolo XXVIII degli Essais intitolato Dell’amicizia. Il rapporto tra i due ha inizio in quanto entrambi membri del parlamento di Bordeaux e Montaigne afferma proprio negli Essais di aver conosciuto e iniziato a stimare l’amico proprio a partire dal Discorso.
  5. «Poiché ho visto che quest’opera è stata poi pubblicata e a cattivo fine da quelli che cercano di turbare e cambiare il nostro regime di governo senza preoccuparsi di sapere se lo miglioreranno, e che l’hanno mescolata ad altra farina del loro sacco, recedo dal mio proposito di metterla qui. E affinché la memoria dell’autore non abbia a soffrirne presso quelli che non hanno potuto conoscere da vicino le sue opinioni e le sue azioni, li avverto che questo argomento fu da lui trattato quando era ragazzo, a mo’ di esercitazione soltanto, come argomento volgare, fritto e rifritto mille volte nei libri. Non metto in dubbio che credesse in quello che scriveva, poiché era abbastanza coscienzioso da non mentire nemmeno per gioco. E so inoltre che se avesse dovuto scegliere avrebbe preferito esser nato a Venezia anziché a Sarlat; e a ragione. Ma aveva un’altra massima sovranamente scolpita nella sua anima, cioè di obbedire e sottomettersi molto scrupolosamente alle leggi sotto le quali era nato. Non ci fu mai cittadino migliore, né più attaccato alla tranquillità del suo paese, né più nemico degli sconvolgimenti e delle innovazioni del suo tempo; egli si sarebbe servito delle proprie capacità piuttosto per estinguerli che per fornir materiale di che maggiormente fomentarli. Aveva lo spirito forgiato sul modello di altri secoli, e non di questo». [M. De Montaigne, Essais 1, 1, cap. 28; tr. it. Saggi, Adelphi, Milano 1966, p. 259; cfr. anche p. 243]
  6. C.A. De Sainte-Beuve, Causeries du Lundi, Paris 1857, vol. 9, p. 112
  7. Discorso, p. 32.
  8. Ibidem, p. 14.
  9. Lo spirito con cui venne accolto Il Principe in questo periodo è esemplificato ante litteram dai versi de I Sepolcri foscoliani:
    «Io quando il monumento
    vidi ove posa il corpo di quel grande
    che temprando lo scettro a’ regnatori
    gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela
    di che lagrime grondi e di che sangue».
  10. A p. 42, parlando dei re di Francia, La Boétie afferma che «sembrano scelti prima di nascere da Dio onnipotente in vista del governo e della conservazione di questo regno», ma prima sottolinea: «benchè siano nati re, non somigliano affatto ai re per natura».
  11. Anzi afferma che molto spesso colui che mantiene asserviti un così numero infinito di uomini è «un qualche omuncolo che spesso è il più vigliacco e il più effeminato della nazione». [p. 6]
  12. M. De Montaigne, op. cit.; pp. 150-151; cfr. anche La Boétie pp. 24-28.
  13. Discorso; p. 47.
  14. Cfr. nota 5.
  15. Perché «il più delle volte, arricchitisi delle spoglie altrui grazie alla sua protezione, alla fine essi stessi l’hanno arricchito delle spoglie proprie». [Discorso; p. 50]

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