Bibliomanie

Rimeditando Sostiene Pereira
di , numero 29, aprile/giugno 2012, Note e Riflessioni,

Come citare questo articolo:
Giovanni Ghiselli, Rimeditando Sostiene Pereira, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 29, no. 5, aprile/giugno 2012

Antonio Tabucchi nel suo libro più noto, Sostiene Pereira (Feltrinelli, 1994), ci insegna che l’intellettuale, lo scrittore, l’artista non possono sottrarsi all’impegno politico che è anche impegno morale. Roberto Faenza ne ha tratto un film con lo stesso titolo del romanzo: è davvero un bel film, che Rai Tre ha riproposto a ragione pochi giorni or sono, subito dopo la prematura scomparsa dell’apprezzato homme de lettres toscano.
Il romanzo e la sua trasposizione cinematografica dovrebbero rammentare a tutti noi – e, anzitutto, a quanti studiano, insegnano, scrivono – che la cultura non può essere neutrale e che l’uomo portatore di cultura e di paideia, che è educazione degli uomini, deve schierarsi, e non da una parte qualunque, ma da quella dei deboli oppressi dal potere. Leggo in una lettera di Tabucchi a Paolo di Paolo: «Essere scrittore non vuol dire solo maneggiare le parole. Significa soprattutto stare attenti alla realtà circostante, alle persone, agli altri».
Tanti scarabocchiatori libreschi, avidamente chini sul becchime delle loro gabbie, discettano intorno al proprio ombelico, quasi fosse il centro del mondo. Se esprimono un dissenso, questo è solo retorico, mai veramente scomodo verso chi riempie di cibo le loro gabbie, greppie, pance. Schopenhauer definiva “boschēmata” simili intellettuali e professori. Una parola greca, non tedesca, e significa bestiame, bestiame che si pasce.
Un breve excursus su altri autori che hanno trattato il problema. Tucidide, che ha identificato la storia con la politica e ha indicato per primo, coraggiosamente, “la verità effettuale” di uomini e cose, aprendo così la strada a Polibio, Tacito e Machiavelli, ha ricordato un discorso pubblico di Pericle, il famoso lógos epitáfios, nel quale il grande statista disse che gli Ateniesi consideravano non pacifico, bensì inutile il cittadino che non si occupa di politica, ossia della vita della polis. E, fra i moderni, Thomas Mann afferma che l’artista vive una vita simbolica, di rappresentanza, come il principe regnante. Lo scrittore, come il re, deve negare a se stesso la banalità del comune borghese per esprimersi solo in maniera simbolica.
Come mostra efficacemente il romanzo di Tabucchi, chi scrive ha il dovere di rischiare, di dare un esempio, di mettere in gioco perfino la propria vita. Del resto Pereira, mettendo a rischio la vita fiacca e dimidiata che viveva, vince la posta e ritrova intera la propria forza vitale: quella di scrittore, di uomo, di intellettuale. Il Pasolini degli Scritti corsari ha previsto la propria morte violenta, quando ha affermato che «il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi – proprio per il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere prove e indizi».
Nello stesso articolo, uscito sul “Corriere della Sera” del 14 novembre 1974, soggiungeva: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina anche fatti lontani, che mette insieme pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia, il mistero». Certamente la sua morte obbedisce a una logica, una logica perversa e criminale, ma pur sempre una logica.
Pasolini fa parte del gruppo degli scrittori martiri, eliminati dal potere. Pereira invece riesce a cavarsela, e senza demerito. Il film di Faenza, nelle ultime, memorabili inquadrature, mostra lo scrittore di Lisbona che, rianimato e vivificato dalla scelta etico-civile e politica compiuta, si allontana dal suo paese oppresso dalla dittatura di Salazar. Continuerà a scrivere politicamente altrove. Quanto a Pier Paolo Pasolini, sappiamo tutti come è andata a finire e perché. Nondimeno, egli continua a esser letto, e molto più dei pennivendoli che pascolano, foraggiati dal regime.
Il potere tollera il dissenso solo se questo è retorico, o ambiguo, o comunque non troppo scomodo: in certi casi, anzi, tale fronda è perfino indirettamente funzionale a chi comanda davvero.
Ma desidero, a questo punto, evocare taluni storiografi martiri, schiacciati dal potere imperiale di Roma per il loro dissenso radicale. Ha scritto Santo Mazzarino ne Il pensiero storico classico: «Del senatore Cremuzio Cordo furono bruciati i libri, per ordine di Seiano, il celebre prefetto del pretorio di Tiberio; ed egli, accusato, s’era lasciato morire di fame. (La sua autodifesa fu un’esaltazione della libertà di pensiero storico.) […] Sotto Nerone, il padovano Trasea Peto – “la virtù in persona”, come lo definì Tacito – si uccise accusato di lesa maestà: aveva scritto una monografia su Catone Uticense. Questi storici capaci di eroismo sapevano benissimo che le loro opere, seppur con varie gradazioni, non solo difendevano l’antico regime, ma in realtà ponevano in questione lo stesso principato».
Ovidio subì un trattamento meno pesante: fu mandato a morire di crepacuore sulle rive remote e desolate del Mar Nero. Eppure lui non aveva messo in discussione il potere di Augusto: si era limitato a una polemica contro il moralismo ufficiale del regime e dei suoi cantori, compreso il pur grande Virgilio. Tale dissenso, limitato peraltro a un aspetto del costume, fu comunque sufficiente per metterlo al bando.

Torniamo ora, doverosamente, al bel libro di Tabucchi, partendo dal cognome del protagonista eponimo. In una nota finale l’autore chiarisce che «In portoghese Pereira significa albero del pero, e come tutti i nomi degli alberi da frutto, è un cognome di origine ebraica, così come in Italia i cognomi di origine ebraica sono nomi di città». E aggiunge: «Con questo volli rendere omaggio a un popolo che ha lasciato una grande traccia nella civiltà portoghese e che ha subito le grandi ingiustizie della Storia». La lettura del libro, in effetti, suscita simpatia per tutti i perseguitati, per ogni uomo che subisce ingiustizia, e insegna ad ogni cittadino davvero responsabile il dovere dell’impegno in loro favore.
Ma vediamo alcuni punti cruciali del romanzo. All’inizio, siamo nell’estate del 1938; il dottor Pereira è un letterato senescente, grasso, stanco, malato di cuore e di spirito. Dirige la pagina culturale di un piccolo giornale del pomeriggio, traduce romanzi francesi, e vive di ricordi – soprattutto di quello della moglie amatissima, morta di tisi.
Ma poi fa degli incontri, con due ragazzi che gli curano l’anima, come facevano i bambini con l’Idiota di Dostoevskij. Più tardi, conosce un dottore d’intelligenza e saggezza rare, che lo incoraggia a seguire una dieta e, soprattutto, lo aiuta a prendere coscienza di se stesso, a diventare quello che è: un uomo buono, intelligente e coraggioso, capace di staccarsi da quel suo vivere nel passato, ossia da un vivere di fatto ozioso, inutile, impolitico. E lo esorta a non trascurare quelle ragioni del cuore che i due giovani, dissidenti e oppositori del regime filofascista di Salazar, hanno messo in moto chiedendogli aiuto.
La stessa letteratura, se è buona, ci dà stimoli verso una vita attiva, impegnata e impiegata per il prossimo. Più della filosofia, suggerisce Tabucchi: a Pereira, mentre dialogava con il giovane Monteiro Rossi, che «di solito parlava di filosofia… venne in mente una frase che gli diceva sempre suo zio, che era un letterato fallito, e la pronunciò. Disse: la filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità». È un’espressione di quella antica ruggine tra filosofi e poeti ricordata, fra gli altri, dal Socrate di Platone e dall’Ulrich di Musil.
Pereira fa un altro incontro che lo spinge verso il disseppellimento della propria identità, inumata sotto ricordi e rimpianti, e coperta dalla vegetazione di questi vani pascoli degli spiriti disoccupati. Si tratta di una signora con una gamba di legno, una ebrea-tedesca di origine portoghese – una cosmopolita, dunque – conosciuta in treno, che lo mette di fronte ai suoi doveri: «lei è un intellettuale, dica quello che sta succedendo in Europa, esprima il suo libero pensiero, insomma faccia qualcosa». Pereira replica che lui non è Thomas Mann, ma la donna lo incalza: «Capisco, ma forse tutto si può fare, basta averne la volontà». La volontà di Pereira si rafforza negli incontri con i giovani Monteiro e Martha. Pure la visione della ragazza – della sua «bella silhouette che si stagliava nel sole» – contribuisce alla salute psicologica e fisica del letterato senescente.
Segue l’incontro decisivo col dottore di cui dicevo prima, donde scaturirà via via un’intesa profonda e una vera amicizia. Cardoso è un medico che lavora presso la clinica talassoterapica in cui Pereira va a curarsi. Giovane, colto e curioso, si diletta di letteratura francese e di psicologia, e gli parla, fra l’altro, dell’evento, ossia di un avvenimento imprevisto «che si produce nella vita reale e sconvolge la vita psichica». Tali fenomeni sembrano analoghi agli avvenimenti accidentali di cui ragiona Lucrezio. Non si tratta di qualità congiunte ai corpi (coniuncta) – come il rosso del sangue, per esempio –, bensì di accidenti che, certo, influiscono assai sulla nostra vita. Lucrezio enumera alcuni di questi eventa: la schiavitù, la povertà, la ricchezza, la libertà, la guerra la concordia. Gli eventi di Pereira sono questi incontri con persone significative, che lo colpiscono, cui presta attenzione. Il dottore gli insegna altresì che dentro di noi c’è «una confederazione di anime e che ogni tanto c’è un io egemone che prende la guida della confederazione».
Pereira un poco alla volta perde peso e prende coscienza del suo nuovo io egemone. Intanto il regime di Salazar diventa sempre più spudorato e feroce. Manda in Spagna, a combattere per Franco, un battaglione, detto Viriato, usurpando così il nome del capo dei Lusitani ribelli ai Romani, poco dopo la metà del II secolo a.C.
Il fatto risolutivo, però, è l’assassinio del ragazzo Monteiro Rossi, nel quale Pereira vedeva quasi il figlio mancato suo e della moglie morta, con la foto della quale parlava mentre lei lo guardava «con un sorriso lontano». Se avessero avuto un figlio, il vecchio letterato – l’umbraticus doctor – si sarebbe sentito meno solo e meno desolato. Tre tangheri dunque irrompono in casa di Pereira dove si era rifugiato Monteiro e lo ammazzano di botte. Quindi intimano al giornalista di non parlare, minacciandolo di morte.
È una sera di fine estate: il vecchio dimentica la sua prudenza, le paure, la sua impoliticità e concede il potere al nuovo io egemone, coraggioso e battagliero, denunciando l’orribile crimine dei sicari del regime con un articolo di fuoco, che riesce a far stampare e pubblicare con uno stratagemma e l’aiuto dell’amico Cardoso. Le ragioni del cuore e quelle della testa si erano finalmente riconosciute a vicenda, e avevano stretto un’alleanza davvero santa. Così, nella scena finale del film di Faenza, Mastroianni-Pereira si avvia, rianimato e ringiovanito, verso la libertà, probabilmente in Francia.
Sono grato a Tabucchi e a Faenza poiché, con questi lavori, hanno contribuito ad accrescere la mia vita. I ganascioni del regime, invece, non li leggo e non li ascolto.

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