Bibliomanie

La parola: bene comune e simbolo
di , numero 30, luglio/settembre 2012, Note e Riflessioni,

Come citare questo articolo:
Massimo Angelini, La parola: bene comune e simbolo, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 30, no. 3, luglio/settembre 2012

Che succede quando si parla di un argomento che riguarda tutti con parole e con frasi che possono capire solo pochi?1
Succede che chi ne parla così, afferma indirettamente che quell’argomento “non è per tutti” e che “solo pochi possono capirlo”, e intanto fa anche passare il messaggio che lui, che ne parla, è fra questi pochi; succede che pochi si “appropriano” di quell’argomento, pur sostenendo che riguarda, o dovrebbe riguardare, tutti; succede che, nei fatti e al di là delle intenzioni dichiarate, tutti sono espropriati da ciò che li riguarda, a vantaggio di pochi.
Capisco che questo pensiero, così costruito, possa apparire contorto, e allora – per non cadere subito in contraddizione con quello che desidero comunicare – conviene che lo spieghi con un esempio.
Ci sono molti argomenti che riguardano molte persone, ma ci sono alcuni argomenti che riguardano tutti. In particolare, non c’è nulla come la condizione umana che riguardi tutti: è così per definizione. E, parlando di condizione umana, mi riferisco – esempio nell’esempio – anche a quel misto di incertezza e sofferenza che scaturisce dall’incontro con l’abbandono, la malattia, la vecchiaia e la morte: e nel corso della vita, tolta la scorciatoia della morte, da questo incontro non sfugge nessuno. Eppure non è facile trovare chi su questi argomenti scriva in modo approfondito in una forma che chiunque sia anche appena capace di leggere, ma proprio chiunque, possa comprendere senza fatica e magari si senta incoraggiato a esprimersi.
Pensare che tutti dovrebbero essere messi in grado di capire ciò che riguarda tutti e che chiunque dovrebbe essere messo in grado di capire ciò che lo riguarda ha a che fare con il rispetto e con la partecipazione; qualcuno potrebbe anche aggiungere: con la democrazia.
Di fronte ai testi oscuri, ermetici, a volte sibillini come indovinelli, a volte solo involuti su di sé e contorti o popolati di sottintesi, provo disagio, se non fastidio, e mi domando se siano frutto di una fragile confidenza con la scrittura o piuttosto espressioni di autocompiacimento e narcisismo e, aggiungerei, anche di scarso rispetto verso chi legge. C’è anche chi, cosi facendo, si pensa colto e crede di parlare eletto fra gli eletti, e forse è solo confuso e rischia di alimentare in sé nuova confusione – come sostiene chi afferma che il linguaggio che si usa può influire sul proprio pensiero e che normalmente si può pensare quello che si riesce a dire.2 D’altra parte, non c’è solo chi si esprime con incuria o in malafede, ma anche chi è sedotto dalla complessità e pure chi vuole dire troppe cose in poco spazio; poi, per i testi scritti in un’altra lingua, lontane dalle responsabilità dell’autore, a volte ci sono… le cattive traduzioni.
Un discorso chiaro è per sua natura attraversato dalla luce e “chiarisce” ciò che sta nella penombra; porta luce in chi ascolta; spiega quello che è piegato; apre. Un discorso oscuro getta ombre su cosa è detto; complica quello che è semplice e accompagna chi ascolta in territori ambigui. Delle cose vere e importanti, ci si dovrebbe sforzare di parlare chiaramente e in modo semplice, un po’ perché la verità delle cose è nella luce che le animano (e la luce ha a che fare, per intima ragione, con la chiarezza, non con l’oscurità), un po’ perché chiunque dovrebbe potere provare ad accedere a ciò che è vero e importante, semplicemente perché le cose vere e importanti della vita riguardano tutti. Poi sappiamo che esiste l’indicibile e che talvolta le parole non bastano per dire cosa si vorrebbe dire e cosa si sente, ma l’indicibile non può essere il pretesto per mascherare i pensieri confusi o approssimativi.

Assecondando un pregiudizio diffuso, c’è chi sostiene che agli argomenti più impegnativi, quelli che richiedono lunga riflessione e approfondimento, benché comuni a tutti gli uomini, non si addice un linguaggio semplice; quasi come se l’uso di parole ricercate e poco conosciute e di forme di testo complesse fosse già di per sé testimonianza e garanzia di profondità. Capovolgiamo questo pregiudizio: la semplicità di espressione non è solo un imperativo morale verso chi ascolta o chi legge, ma – penso proprio a quegli argomenti così impegnativi – ha a che fare con una ragione legata alla radice intima delle cose e all’essenza della loro natura (nel linguaggio filosofico diremmo: una ragione “ontologica”), e la ragione – lo dico in buona compagnia di una lunga tradizione che da Parmenide attraverso Occam arriva fino a Gandhi – è che la semplicità avvicina alla verità che è complessa, fino a dire che il massimo di semplicità è la via maestra per accedere al massimo di complessità. Ma semplice non vuole davvero dire facile.
Semplice e complesso sono collegati al modo di essere di una cosa, ne sono una caratteristica; facile e difficile sono collegati al modo di fare qualcosa o di rapportarsi con quella cosa. Sono piani di significato differenti.
Per questo non è contraddittorio – anzi è piuttosto sensato – affermare che parlare semplice è difficile, mentre per chi ha a disposizione un ricco vocabolario e abbia voglia di non farsi capire (o abbia un po’ di confusione nella testa) è certamente facile parlare in modo barocco e usare le parole come fumo per nascondere, e nascondersi.

I trucchi sono comuni: normalmente ne sono assai esperti i diplomatici, i venditori, i sollevatori di popolo e chi confonde la cultura con l’intrattenimento. Sono trucchi di diversa natura, come, per esempio:
– l’uso di parole diverse come fossero sinonimi; ma i sinonimi non esistono, ogni parola, per origine ed evoluzione avuta nel tempo e guadagnata con l’uso, ha un proprio significato e sfumature particolari; e neppure le parole tradotte sono sinonimi: l’inglese the Sun indica qualcosa che è assai più piccolo e freddo del napoletano ’o Sole;
– esprimere relazioni speculari oltre il quarto grado (“Franco pensa a Maria che pensa a Franco che pensa a Maria che pensa a Franco”, e qui forse non ce la può fare nessuno): il quarto grado permette di sottrarsi alla comprensione;
– usare un linguaggio aleatorio e confuso dove i sostantivi astratti e gli aggettivi sostantivati si possono incrociare e invertire liberamente: e così via, senza inizio e senza fine per una lunghezza indeterminata e prolungabile a piacere.3 E in ciò è davvero facile riconoscere il modello di tanta parte del parlare vuoto che in questi decenni ha inquinato la comunicazione pubblica, soprattutto nel campo della politica, anche se oggi, in politica, il girare in tondo di parole senza corpo sempre più è sostituito da uno stile diffamatorio e ingiurioso, prossimo all’aggressione verbale. Ancora di recente, tra il 2009 e il 2010, sono stati prodotti due generatori casuali di testi – si chiamano Politichese per tutti e Politichese – ironicamente indirizzati ad aspiranti ministro o primo-ministro, per dire qualsiasi cosa su qualsiasi cosa senza mai dire niente, e coniare frasi come:

Un approccio strutturato su una pluralità di competenze delinea la sfida che ci attende in Europa, nel primario interesse della popolazione, avviando infine in compimento, nel momento in cui la congiuntura lo consenta, la sfida del nuovo millennio…

e, così facendo, comporre altre 268 milioni di combinazioni differenti di ampio uso e nessun significato.
Si potrebbero aggiungere a questo breve elenco altri trucchi, come: fare slittare ripetutamente il soggetto nella stessa frase; usare doppie negazioni (non vorrei che tu non pensassi…); generare catene di proposizioni subordinate all’interno dello stesso periodo…
Quando leggiamo una frase e, giunti al punto, dobbiamo tornare daccapo e rileggerla perché nel frattempo, di subordinata in subordinata, abbiamo smarrito il soggetto o il significato che all’inizio avevamo creduto di cogliere, ecco: forse non siamo stati attenti o forse non conosciamo a sufficienza l’argomento. Oppure… è probabile che siamo di fronte ad un uso complesso o confuso del linguaggio, dove l’autore, fatta salva la sua scarsa perizia o l’ovvia impossibilità di esporre in forma comprensibile un pensiero confuso, più che desiderio di comunicare esprime quello di comunicarsi per mostrarsi erudito o capace di scrivere cose ineffabili che quasi non si possono dire e appena capire.

Parole per specialisti

Qualche volta ho sentito dire che non è bene che alcuni argomenti siano resi accessibili a tutti: commento questa affermazione vaga con un altrettanto vago “può darsi …”. Ma qui non sto parlando di tutti gli argomenti, in senso vago e indifferenziato, né suggerisco di divulgare la ricetta per fabbricare la bomba atomica in cucina. Parlo di quelle cose che riguardano una pluralità di persone e sostengo che ciascuno che faccia parte di quella pluralità (sia una famiglia, una comunità o l’umanità intera) deve potere semplicemente capire ciò che lo riguarda. Per quanto qualcosa che è di interesse comune sia difficile da comprendere, deve esistere un modo semplice per renderlo accessibile a chi partecipa a quel comune interesse, altrimenti a qualcuno è sottratto l’accesso a qualcosa che lo riguarda e quindi siamo di fronte a una forma di “espropriazione”. È un aspetto particolare di quello stesso processo di espropriazione di saperi e abilità che passa attraverso il culto della specializzazione e nega l’accesso a chi specialista non sia; così potremmo dire, riflettendo sulla professionalizzazione delle competenze comuni (oggi per nascere occorre la levatrice e il neonatologo, per allevare figli occorre il pediatra e il pedagogo – ché una madre e un padre evidentemente non bastano più – … così, per morire, a volte serve l’assenso del medico e suppongo che presto servirà la consulenza del tanatologo); e così potremmo dire, riflettendo sulla progressiva istituzionalizzazione dei servizi che, mentre ci proclama titolari di un crescente numero di diritti individuali, di fatto ci dichiara tutti inabili e bisognosi.4
Gli argomenti che riguardano quanto è comune a tutti gli uomini – e che hanno a che fare con il ciclo della vita, con la forma del mondo, con la salute, con le scelte collettive, con l’uso delle risorse, con il benessere e con il disagio, con la bellezza e l’abbrutimento, con la quiete e la confusione … – sono “comunanze” (commons), ovvero luoghi e beni comunitari pregni di diritti di accesso e di uso inalienabili, imprescrittibili, inappropriabili. E le comunanze, in quanto hanno a che fare con la sussistenza comunitaria e individuale, appartengono a un ambito pregiuridico che logicamente precede e fonda ogni legge, perché una legge che neghi i diritti legati alla sussistenza è, o dovrebbe essere, impensabile e in sé contraddittoria.5

Comunanze

Nel corso dell’Età moderna, le comunanze sono state, e tutt’ora sono, un immenso “territorio di caccia” per la parte predatrice dell’umanità, e proprio la progressiva liquidazione e appropriazione degli spazi comuni e delle risorse collettive ha accompagnato gli ultimi secoli della storia europea e gli ultimi decenni di quella mondiale.6 E dall’erosione delle comunanze nasce la costruzione sociale della miseria: quella raccontata a partire dal Capitale, dove si traccia la storia dell’accumulazione originaria;7 quella che ha contribuito a segnare il passaggio tra XVI e XVIII secolo attraverso le recinzioni (enclousers) e l’espropriazione violenta – prima individuale, poi legale – delle terre arabili soggette a uso comune per farne pascolo destinato ai grandi proprietari terrieri. Questo processo storico è stato contemporaneo al passaggio da una scienza intesa come espressione di sapere unitario, guidato dalla tradizione e fondato sull’esperienza, a una scienza progressivamente frammentata in mille specialismi, guidata dall’innovazione, confinata nel laboratorio e fondata sulla ripetibilità dell’esperimento per spiegare la vita dove, nella realtà delle cose, nulla si ripete per davvero: anche l’estrema specializzazione del sapere e il suo confinamento nel laboratorio, possono essere lette come un esempio di enclouser. Ed è stato pure contemporaneo all’affermarsi di un modello cosmologico (sistema eliocentrico), fondato sull’estraniazione dall’evidenza e dall’osservazione diretta che, nel sistema geocentrico, facevano coincidere ciò che era alla portata dello sguardo di chiunque con la percezione della realtà: anche l’affermazione di questo modello, in quanto dichiara il cosmo separato dall’orizzonte sensoriale, può essere letta come un esempio di enclouser.8
Le recinzioni delle terre comuni nell’Inghilterra elisabettiana hanno provocato un’espulsione di massa dei contadini dalle campagne, riducendoli, nelle periferie urbane, a una massa di mendicanti destinati al carcere, al patibolo o all’albergo dei poveri (che non era una struttura assistenziale, ma un luogo di reclusione e di lavoro coatto e che, da una parte, anticipava il campo di concentramento e, dall’altra, la fabbrica). Allo stesso modo, si potrebbe osservare che l’espulsione delle persone dal discorso sugli argomenti comuni, sostenuta dall’acuirsi dello specialismo in ogni campo del sapere e della vita sociale, genera un’ulteriore forma di emarginazione, in alcuni paesi mascherata dalla demagogia della partecipazione apparente e in realtà fondata sulla delega indifferenziata (ma considerata “democrazia”), peraltro oggi in gran parte telediretta.
Le parole sono commons, beni comuni e comunitari, così come si potrebbe, per esempio, dire delle risorse naturali, dell’ambiente, della pace, del silenzio.
Appropriarsene è compiere un’espropriazione, separarsi dall’umanità sostanzialmente è separarsi da noi stessi che dell’umanità facciamo parte ed essa di noi inestricabilmente.

La negazione del senso comune

L’estrema specializzazione passa attraverso la negazione del senso comune e legittima la supremazia del gergo specialistico sulla lingua di uso quotidiano, nella quale la realtà delle cose non è mai troppo distante dalla loro apparenza. E su questo punto – riprendo l’esergo di un capitolo precedente – Florenskij aveva assunto una posizione limpida, capace di fare tremare buona parte dei castelli metafisici che danno forma alla storia accademica del pensiero.

La coscienza comune a tutti gli uomini mi conferma che appare ciò che è nella realtà; la maggior parte dei rappresentanti della filosofia e della scienza cercano con ogni sforzo di smascherare questo “appare” come concetto vuoto e ingannevole: sembra ciò che non è. Per me non è assolutamente indifferente il fatto di pensare e sentire con il genere umano oppure con chi è incline alla negazione, vale a dire all’eresia di ciò che è comune a tutti gli uomini, al pensiero di cerchie isolate, di circoli e di singoli 9.

Il sapere che ha frammentato l’unità della conoscenza nel particolarismo e nell’iperspecializzazione separa, pone recinzioni lessicali ed esclude dalla comprensione chi non appartenga alla corporazione che lo detiene in forma di monopolio. Ed è quando questo sapere si esprime su ciò che è di interesse comune a tutti, che si possono manifestare conseguenze come quelle prima accennate: una appropriazione violenta di titolarità e una conseguente espropriazione a danno di chi per destinazione ne sia naturale titolare.
Non vorrei essere frainteso: può essere utile e agile usare un linguaggio gergale, chiuso, interno, quando si parla di tecniche legate ai microprocessori, agli investimenti azionari, alla chirurgia vascolare, ma non quando ci si riferisce alle tematiche oggi ricondotte all’ambito della bioetica o a quelle che riguardano l’uso erosivo delle risorse non rinnovabili o le manipolazioni genetiche in agricoltura. Diciamo così: che quando si parla di cose importanti per qualcuno non dovrebbe essere ammesso farlo in modo che quel qualcuno non possa capirlo e ne sia escluso, altrimenti quel discorso è intimamente illegittimo e sarebbe auspicabile tacere. Se parlo di tecniche di costruzione dei pacemaker e mi rivolgo a chi li costruisce va bene che usi un linguaggio interno comprensibile in quel contesto, e ancora per questo non sarei giustificato se il mio discorso fosse oscuro o contorto; ma se parlo di uso dei pacemaker è necessario che, indipendentemente dall’uditorio, lo faccia in modo comprensibile a tutti quelli che ne fanno o potrebbero farne uso. Perché il trattare un argomento di interesse, di importanza o di ricaduta generale, attraverso un linguaggio interno, significa negarne proprio il valore generale, mostrare la non consapevolezza di quel valore, oppure indirettamente esprimere un misto di superbia e disinteresse, altri potrebbero dire una “vena antidemocratica”.
E qui di esempi se potrebbero proporre molti. Penso, tra gli altri ambiti, a quello della legge, e la legge “per definizione” riguarda tutti i cittadini: ma una grande parte dei cittadini è esclusa dalla chiara comprensione delle norme che li vincolano. Forse il linguaggio rozzo e faticoso utilizzato per scrivere le norme potrebbe dipendere da una scarsa familiarità dei tecnici del diritto nei confronti della lingua scritta, certamente è funzionale al loro interesse corporativo, mal potendo le persone districarsi nel mondo del diritto senza il loro aiuto, e certamente è espressione di una pratica antipopolare, perché sottrae al controllo degli interessati – cioè, tutti i cittadini – qualcosa che li riguarda direttamente. Ancora una volta, siamo di fronte a una forma di espropriazione. Insomma: quando una norma non è chiaramente compresa dai suoi destinatari o è scritta in modo da prestarsi a interpretazioni discordanti, bisognerebbe considerarla inefficace e, solo per questo, abrogarla.
Torno ad affermare che ciò che riguarda tutti dovrebbe essere espresso in modo semplice e chiaro, vorrei dire “popolare” – e non per questo prolisso e perciò all’opposto poco rispettoso per l’intelligenza di chi ascolta – quasi immaginando di parlare a un bambino, restando dentro o poco oltre i limite del vocabolario di base10 e introducendo con cautela le parole meno conosciute, perché nessuno si senta inadeguato o escluso da ciò che lo riguarda e vive ogni giorno, senza per questo banalizzare, volgarizzare quello che si desidera comunicare! E questo mi pare un buon compito per chi scrive; ma vorrei suggerirne uno anche per chi legge: quando una frase non si capisce, se non si hanno fondati motivi di credere che valga la pena di rileggerla (penso alla stima che si può avere nei confronti dell’autore o di chi l’abbia trovata significativa), merita di essere cancellata o sorpassata nella lettura. Se poi è l’intero libro a risultare poco comprensibile, se non si deve mettere rimedio a un tavolo zoppo, allora di quel libro si può serenamente fare a meno.
Non sto incoraggiando ad appiattire il linguaggio né ad “abbassare” il piano della comunicazione, ché proprio questa è l’arte nera di chi fa demagogia e se ne alimenta, ma a pulirlo da ciò che è superfluo e ostentativo oppure oscuro e ambiguo, rendendolo antipopolare e intimamente esclusivo in entrambi i casi.
La parola non può essere usata con leggerezza, deve essere usata con responsabilità, perché ogni limite alla comprensione porta con sé conseguenze di espropriazione ed espulsione sociale; e qui, da dove è partito, il discorso approda, e il ragionamento potrebbe essere considerato concluso. Ma mi sia permesso di riprendere ancora un poco il largo e affidare alla deriva un’ultima riflessione che accompagna tutto quanto finora abbiamo detto.

L’arte marziale della parola

La parola non dovrebbe essere usata con leggerezza anche per un altro motivo che mi ricollega a un lungo capitolo della storia del pensiero, dove, in forme e sfumature differenti, intorno alla parola sono fiorite numerose idee divergenti, in grande parte riconducibili a due posizioni. C’è, infatti, chi ha considerato la parola veicolo neutro di significati, traccia sonora o scritta del tutto convenzionale, puro involucro: questa posizione, che rinvia al nominalismo, è quella accolta da grande parte del pensiero moderno e contemporaneo; c’è, invece, chi nella parola ha riconosciuto una manifestazione della realtà significata, fino a fare coincidere la parola con quella stessa realtà:11 questa posizione appartiene alla tradizione sapienziale ed è la stessa che – testimone la ricerca etnografica – vive nel corredo culturale delle popolazioni indigene e, tra noi, ancora possiamo leggere nel sistema di credenze che in filigrana anima il nostro mondo rurale.
Secondo questa prospettiva, la responsabilità nell’uso della parola non è solo sociale, ma anche metafisica, perché manipolare la parola è manipolare la stessa realtà e questo impone la massima attenzione e precisione, come avviene, o dovrebbe avvenire, nelle celebrazioni liturgiche e nei cerimoniali di iniziazione e guarigione. Qui la parola non è neutra, non è puro suono, né puro veicolo di contenuti, ma manifestazione sostanziale e dinamica della realtà. Il suo valore è allo stesso tempo magico, perché permette di agire sul mondo, e mistico, perché è essa stessa la realtà significata:12 ed è così che si spiega il potere dell’incantesimo, dell’ordine, dell’evocazione, e si spiega come la parola – sostiene chi lo crede – possa ammalare o guarire, benedire o maledire, creare o distruggere, evocare mondi e generarli, così come è conosciuto in ogni più profondo deposito mitologico e sapienziale dell’umanità.
Ma alla parola appartiene anche un valore simbolico, nel triplice senso che il significato profondo di questo termine (dal greco syn-ballein: “mettere insieme”, “unire”) comunica: l’unione tra i mondi, l’unione con le cose di questo mondo, e l’unione tra le persone.
La parola sacra unisce i mondi, quello visibile e quello invisibile, e li rende compresenti; come ogni suono sacro – in forma di preghiera, musica, canto, tocco della campana – la parola sale e unisce la terra al cielo, così come la luce increata e senza tramonto scende e unisce il cielo alla terra.
Il secondo senso simbolico della parola è quello dell’unione con il mondo, forse il più difficile da comprendere per la nostra cultura (ma non lo sarebbe per alcuna cultura indigena)13 che non capisce il parlare a cosa appare animato e a cosa non appare animato, ma soprattutto non capisce la risposta che tutto ciò ci rimanda quando gli rivolgiamo un canto, un richiamo, una musica, una benedizione, una parola.
E questa è simbolica in un terzo senso perché unisce le persone, le mette in contatto, le mette in comunicazione, cioè di due o più di due fa uno. Distante dal suo valore simbolico – quello di unire e rendere compresenti – la parola perde la sua dimensione ontologica, degrada, diventa prossima al rumore, al borbottio organico, è poco diversa da un gesticolare compulsivo, da ciò che fa chi guarda senza vedere o ascolta senza sentire. Questo con sé cosa porta? Porta con sé che, nel rispetto dell’ordine delle cose, quando si parla si può solo comunicare, ci si può (e deve) fare capire, o quantomeno bisogna provarci per quanto sa e può farlo chi partecipa alla comunicazione. Chi parla per non farsi capire, chi inutilmente complica ciò che è semplice (ma anche chi banalizza ciò che è complesso), chi astrae ciò che è concreto, chi consapevolmente usa le proprie conoscenze e le parole per segnare le distanze, per distinguersi, per sottomettere, invece che per condividere e comunicare, contraddice il valore profondo, ontologico, della parola, usandola per separare invece che per unire rende diabolico cosa è simbolico,14 prende le distanze dall’umanità (e da se stesso che non può non farne parte), se ne distacca, e distaccandosi scivola nell’eresia verso il canone di ciò che è comune all’umanità e dall’umanità è condiviso.15
Marius Schneider, dopo avere affermato che

La frase biblica “All’inizio fu la Parola” non è un prodotto della cultura avanzata, bensì appartiene al patrimonio concettuale più arcaico dell’umanità. Perfino gli uitoto, che vivono in orde selvagge nella foresta vergine sudamericana hanno una tradizione che afferma “All’inizio la Parola diede origine al Padre” 16.

fa ancora un passo più in là e osserva che la parola è riconducibile al suono primordiale, forse alla vibrazione, che ha dato inizio a ogni cosa: ogni canto e ogni musica, ogni rumore e ogni parola non sono che eco di quel suono, eco tanto più potenti quanto più ne ripetono l’archetipo e gli si avvicinano.
Che si concordi o no con questa posizione che potrebbe apparire inattuale, la parola, o per quello che veicola o per quello che essa stessa è, è potente come un’arma, e come un’arma bisogna usarla con attenzione e consapevolezza. Di più: penso che bisognerebbe praticare l’uso della parola così come si pratica un’arte marziale, con concentrazione, autocontrollo, disciplina, severo esercizio17 e sforzo personale, perfino con senso del rito, e di quella presenza mentale che chiunque può coltivare nel compiere ogni gesto quotidiano, anche il più semplice come, per esempio, camminare o lavare i piatti.18 Praticare la parola proprio come si pratica un’arte marziale può essere un sentiero efficace per contenerne il grande potere e controllare i nostri automatismi verbali: per semplificarla all’orecchio di chi ascolta o legge e nello stesso tempo per riempirla di senso.
Ma la pratica di un’arte marziale impone anche un senso di continenza, vorrei forse dire di castità, che, riguardo alla parola, è rispetto per la misura e gusto per il silenzio.
Nelle scritture sapienziali la misura della parola è richiamata quanto la consapevolezza del suo potere e della sua sacralità, ed è il rispetto per la misura che nei comandamenti biblici vieta di pronunciare invano il Nome e dire il falso, e nel racconto evangelico ammonisce Sia il vostro parlare: “Sì, sì”; “No, no”; il di più viene dal Maligno.19 Quanto al silenzio, mi soffermo a osservare che questo è un tempo profondamente suggestionato dai ritmi televisivi che non ammettono il vuoto e malsopportano lo spazio della riflessione o dell’ascolto reciproco; ne risulta un rumore o un suono continuo, come nei ritrovi e nelle discoteche si fa con il mixer usato perché la musica non s’interrompa mai; ed è lo stesso rumore continuo che genera chi parla ininterrottamente con legature fatte di troppe interiezioni, trascinamenti di vocali e nasalizzazioni prolungate.
Nel tempo dove si dice più di quanto si conosce e si sottovaluta il valore comunicativo del silenzio, bisognerebbe riuscire a dire qualche parola in meno di quanto si potrebbe fare. Un po’ come si fa con la pratica quotidiana del digiuno, quando, per buona igiene interiore, ma anche per mantenere il corpo in salute, va bene alzarsi da tavola prima di raggiungere la sazietà.

Abbiamo una responsabilità [noi scrittori], finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno. Del resto, parlare al prossimo in una lingua che egli non può capire può essere un malvezzo di alcuni rivoluzionari, ma non è affatto uno strumento rivoluzionario: è invece un antico artificio repressivo, noto in tutte le chiese, vizio tipico della nostra classe politica, fondamento di tutti gli imperi coloniali. È un modo sottile di imporre il proprio rango. […] Finché viviamo, e qualunque sia la sorte che ci è toccata o che ci siamo scelta, è indubbio che saremo tanto più utili e graditi agli altri e a noi stessi, e tanto più a lungo verremo ricordati, quanto migliore sarà la qualità della nostra comunicazione. Chi non sa comunicare, o comunica male, in un codice che è solo suo o di pochi, è infelice, e spande infelicità intorno a sé. Se comunica male deliberatamente è un malvagio, o almeno una persona scortese, perché obbliga i suoi fruitori alla fatica, all’angoscia o alla noia 20.

Note

  1. Rivisitazione dell’articolo La recinzione degli spazi comuni della parola, «Anthropos e Iatria», XIV (2010), 3, pp. 65-71, presentata, in versione inglese, per la pubblicazione sulla rivista «Mediterranea Wratislaviensia» (Wrocław).
  2. Ne parla diffusamente Alexander R. Lurija (1974).
  3. Nel 1971 Elémire Zolla segnalava l’esistenza di un sacro “testo occulto” che con queste modalità dà spunto e forma alla retorica contemporanea: Zolla, 1971: 12.
  4. «Le società moderne si vantano della loro capacità di pauperizzare la maggior parte dei cittadini definendoli beneficiari di qualche servizio che non sanno più procurarsi da soli». Illich, 1982 / 1984: 88.
  5. Il valore pregiuridico di quello che riguarda la sussistenza e i beni comunitari è al centro di una mia recente riflessione: Angelini, 2010a.
  6. La letteratura sulla privatizzazione delle risorse comuni è vasta. Per un inquadramento generale del fenomeno su scala mondiale, rilanciato nella seconda metà dello scorso secolo da Garrett Hardin (1968), rinvio alla rassegna di articoli pubblicati in Questions of the Commons, 1987.
  7. Marx, 1867 / 1989: 780 e ss.
  8. Vedi, sopra, Il sole, la Terra e il ritorno all’evidenza.
  9. Florenskij, 1922 / 2003: 22.
  10. Del vocabolario di base, presenta un ottimo esempio il Dizionario di base della Lingua Italiana [DIB], a cura di Tullio De Mauro e Giuseppe Moroni, Paravia, Torino 1996.
  11. Ne offre un chiaro esempio la disputa sorta all’interno della Chiesa ortodossa nel 1912 e chiusa con la condanna dei monaci di monte Athos che affermavano di sperimentare l’essenza di Dio solo pronunciandone il nome.
  12. Florenskij, 1922 / 2003: 51 e ss.
  13. Mathews, 2005 / 2012.
  14. Vedi, sotto, La sacralità del corpo e la sua dimenticanza.
  15. Il rapporto fra canone ed eresia, così come la riflessione sulla dimensione ontologica del simbolo, è ampiamente trattato in Florenskij, 1922a.
  16. Schneider, 1951 / 2007: 14.
  17. Esercizio è il significato della parola greca àskēsis, che dà origine ad “ascesi”.
  18. Sull’arte di ogni gesto quotidiano e sullo stato di presenza mentale utile per vivere ogni gesto come un rito vedi gli scritti di Tich Nhat Hanh, in particolare Il miracolo della presenza mentale[1975].
  19. Mt 5, 33-37.
  20. Levi, 2006: 55. Ringrazio Alessandro Marenco per la citazione.

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