Bibliomanie

Su Roberto Roversi
di , numero 31, ottobre/dicembre 2012, Saggi e Studi,

Come citare questo articolo:
Salvatore Jemma, Su Roberto Roversi, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 31, no. 6, ottobre/dicembre 2012

Che cosa si può dire, oggi, di Roberto Roversi riferendosi all’odierna poesia? Intanto del silenzio steso sulla sua opera da molti anni, oramai, da parte della critica e non solo, salvo alcuni – e qui vorrei citare due persone su tutte: Fabio Moliterni che con il suo Roberto Roversi. Un’idea di letteratura I (Edizioni dal Sud, 2003), ha tracciato un quadro ampio e informato; e Arnaldo Picchi, che ne sta curando il lavoro teatrale, facendolo rappresentare e ripubblicandolo. Alcuni, dicevo, che continuano a seguire il suo lavoro, a promuoverlo (nel senso di farlo conoscere, farne oggetto di discussione, riflessione, connessione con quanto ci circonda). Salvo questi pochi, attorno alla sua opera c’è un assordante silenzio, e direi anche desolante per la nostra poesia e la nostra letteratura. Intanto questo (che non è poco, direi); poi si può dire della sua attività, che continua appartata ma non solitaria: appartata perché distante dalle luci, dalle scene illuminate, dalle telecamere e dalle varie ribalte (dove tutto viene ribaltato), lontano dalle istituzioni, ma non ritirato a vita privata; non solitaria perché Roversi da sempre è presente sia per le persone che per le vicende.
Roversi ha usato e usa tuttora la parola scritta sotto molteplici aspetti: ha pubblicato importanti libri di poesia e lavori per il teatro; come spettatore attento alle vicende politiche ha scritto e scrive su quotidiani, riviste, piccoli samiztad, fogli volanti e autoprodotti; e ha scritto di calcio, di corse automobilistiche, di ciclismo; e in ultimo, ma naturalmente non ultime, indimenticabili canzoni cantate da Lucio Dalla, ma anche per gli Stadio.
Ha condotto con altri riviste che fanno parte della nostra storia della letteratura, ma anche riviste molto sotterranee, provvisorie, quasi clandestine; ha fatto della libreria Palmaverde, suo luogo di lavoro, un punto di incontro per migliaia di giovani, per centinaia di iniziative. Legato profondamente a Bologna, città dalla quale non si è mai trasferito, qui ha incontrato tutte le fasi storiche e letterarie del nostro Paese dall’ultimo dopoguerra, ma anche e quasi quotidianamente le cose e le persone; e da qui ha agito e reagito.
Un autore, quindi, che ha cercato e cerca di costruire una comunicazione allargata, profonda e continuata, non ristretta alla sola poesia. Ma nonostante tutto questo, la sua parola resta fondamentalmente quella di un poeta. Non inizierò parlando della sua poesia (cercherò di farlo in seguito), ora vorrei molto sommariamente dirne le ragioni, precisando che per Roversi la poesia non sta né sopra né sotto né, direi, affianco alle vicende che la realtà ci fornisce, ma con queste si mescola.
Un aneddoto può spiegare quanto sto dicendo. È lo stesso Roversi che lo riporta in un suo scritto apparso su il manifesto del 6 giugno 1981, dal titolo Pasolini nella memoria (ma prima ancora, era apparso sul periodico friulano Macchie, a pochi giorni dalla morte dello stesso Pasolini).
Dice Roversi: «arrivo a un ricordo che ho sempre tenuto vivo.
Siamo ai Giardini Margherita, seduti su un prato appena tagliato; fra lo splendore giallo s’alza un profumo compatto, molto padano, del fieno falciato, a cumuli, che si sta asciugando. Poca gente, solo presenze colorate di donne e ragazze che camminano qua e là. Noi tre seduti (Leonetti, Pasolini, io) parliamo di una rivista che vogliamo fare, che “dobbiamo fare”. Il nome già proposto è Eredi. Parliamo con una leggerezza che è felicità, per una cosa finalmente importante; per una decisione nostra che dovremo realizzare impegnandoci. Ci sentiamo infervorati. Passa un uomo in bicicletta, è in borghese; adagio, cerca con la testa; ha bisogno di parlare? Ci vede, si avvicina, non si ferma; dice a voce bassa: “Hitler ha invaso la Russia”.
È il 22 giugno del ’41 e noi eravamo fuori dal mondo».
In questo momento rievocato credo stia il modo tipicamente roversiano di concepire la scrittura in rapporto alle vicende del mondo, scrittura che è sempre connessa a ciò che ci strappa dal nostro più o meno pigro “chiuso” personale, e non perché quest’ultimo sia senza valore, ma perché se ci si vuole esporre con un’opera (sia essa artistica o meno) che si propone di aggirarsi per le strade, quel privatissimo valore è in sé nullo se contiene solo il “proprio mondo” e se non regge (non vuole o non sa reggere) la spinta prepotente della storia pubblica; cosicché la storia privata ha dignità in quanto ha il coraggio di farsi imbrattare dagli schizzi di mota che la strada offre, in modo da non essere davvero «fuori dal mondo».
Nessuno, pare dirci Roversi, può estraniarsi dalle vicende del mondo e poi pretendere di mostrare a questo il prodotto della propria creatività quale pietra di paragone (positiva o negativa che sia), non oggi almeno, sempre che ieri o l’altro ieri fosse possibile farlo. Se lo fa, compie un’operazione di mascheramento della realtà, non costruzione ma distruzione della possibilità di capire il tempo che si vive e, in quello, di agire conseguentemente. Poiché la creazione di un’opera non può consumarsi nell’appagamento narcisistico, cercando di riconciliare il proprio sé col mondo o tentando di ricostituire una sorta di integrità psichica; deve, al contrario, costruire una nuova realtà (o, almeno, dovrebbe tendere a questo).
Come farlo? Ognuno naturalmente vive il proprio tempo e fa le proprie esperienze. A grandi linee, e senza la minima pretesa di compiutezza storica, segnalo quelli che a mio parere possono essere stati alcuni momenti attraverso i quali Roversi ha cercato di definire un modo di intervento sulla comunicazione contemporanea, con l’intento di capirla e carpirla, di usarla e forzarla secondo un progetto che ha sempre tenuto ben fermo sullo sfondo e che, in altre occasioni, ho definito come la politicità del sentimento.
Tra la fine degli anni cinquanta e i sessanta, in Italia, lo sviluppo culturale scopre il mercato capitalistico, sulla scia dello sviluppo economico e di una specie di benessere allargato, con tutto quello che ne consegue in termini di nascita di nuovi bisogni, nuovi consumi, nuovi valori (o disvalori), nuova assimilazione linguistica, nuova coesione sociale.
Non siamo ancora, per quegli anni, presso il mercato dei beni simbolici, come lo definisce Flavio Manieri in un suo lavoro stilato verso la fine degli anni ottanta – un’antologia dal titolo Verde verticale, la cui lettura, sia del saggio che dei testi riportati, rende bene il senso e il segno di ciò che si è mosso nella tornata tra gli anni sessanta e gli ottanta. Non siamo, dicevo, ancora presso quella virtualità che oggi caratterizza in modo banalmente scontato la nostra quotidianità, ma tale virtualità del mercato e delle sue merci che caratterizza la nostra realtà attuale, ha il suo corrispettivo nell’addensarsi culturale di quegli anni e, nello specifico, questo lo possiamo rilevare dalla saturazione medio-verbale della lingua parlata, la quale si scopre d’un tratto calata nei meandri dello sperimentalismo e che, oramai è assodato, siamo autorizzati a pensare aggettivi sia il lavoro, per esempio, di Arbasino, Sanguineti o Pagliarani, sia quello di Pasolini e Roversi e, in generale, di Officina. E, personalmente, mi sento di dire che i termini delle questioni che caratterizzeranno un certo approccio alla realtà nei decenni seguenti (perlomeno, le questioni che ritengo rilevanti), sono poste su Officina segnatamente da Fortini e Roversi, e queste stanno in un pugno di interventi da loro svolti nei due numeri della Nuova serie.
Roversi, nella Nuova Serie, indica temi che successivamente gli faranno da battistrada per le scelte future. Si possono leggere, per esempio, Lo scrittore in questa società e Il linguaggio della destra quali dichiarazioni di poetica. Sottolineo anche come il nome della sezione che raccoglie tali interventi si chiami Il nostro impegno, mentre in precedenza una sezione raggruppava tali lavori sotto il titolo La nostra storia (come sopra detto, inizialmente alcuni di loro pensavano a una rivista chiamata Eredi).
In seguito Roversi farà Rendiconti, una rivista che ha riaperto qualche anno fa, ma che ora sembra definitivamente chiusa, e che ha tentato di affondare la lama della riflessione politica e sociale attraverso la scrittura e la comunicazione culturale. Non è stata una rivista culturale di impegno civile, piuttosto il tentativo di considerare la cultura non come uno strumento “al servizio di”, ma come un modo di costituire una “politica” e una “realtà”.
E poi c’è il vero atto di rottura con la prassi culturale, come si diceva un po’ di anni fa, e questo risale alla stampa-pubblicazione-diffusione de Le descrizioni in atto, nel 1969. Un’auto-pubblicazione non certo per mancanza o assenza dei riferimenti classici dell’editoria (certo, non c’era più Vittorini, ma un autore come Roversi quei riferimenti li avrebbe potuti trovare in qualsiasi momento); si tratta invece dello scavalcamento di quei meccanismi, di quei riferimenti, l’uscita dalle istituzioni culturali per un ragionamento estremamente lucido su quanto dentro e fuori di esse stava succedendo, in termini di nuova comunicazione e conseguente mercificazione – una scelta estrema e dirompente, nonostante sia stata allora (e tuttora venga) considerata velleitaria. Questo fare e questa metodologia erano e sono tuttora sostenuti da un ragionamento che, per Roversi, ribalta i tradizionali parametri di valutazione della poesia e della sua funzione. La poesia, nel sottrarsi al mercato culturale, diventa ciò per cui vale la pena di pensare il mondo e la realtà. Per lui, questo significa acquisire fino in fondo la contraddizione tra l’essere della realtà (della politica, della società) e l’essere della cultura. Certo, il ragionamento su quella contraddizione in atto non è patrimonio solo roversiano, ma Roversi non si ferma a un puro atto dimostrativo. Se in altri tale acquisizione si risolve attraverso una denuncia della malattia sociale, il cui possibile rimedio si risolve nella prescrizione di dosi massicce di medicamenti sotto forma di stile o rifiuto di questo, in Roversi lo stile è dato da ciò che socialmente perseguita e schiaccia la comunità reale delle persone; la forma è già lì, nelle cose e nelle vicende: tutto sta nel cercarle, nel saperle vedere, nel saperle descrivere, nel volerle descrivere.
Non per questo, però, direi la poesia di Roversi “civile”; non perché questo aspetto sia assente, piuttosto perché mi pare diverso il suo obiettivo. Cerco di spiegarmi. Credo si possa dire per Roversi quello che un critico, poco tempo fa, ha scritto riferendosi a Walt Whitman, il quale «dispiegò la propria voce in un canto sostenuto e solenne, lontano le mille miglia dai singulti e dagli urli di protesta (…). Il primo istinto di Whitman (…) fu sempre quello di affermare, non di negare. Di includere, non di escludere; e di trascendere, non di trasgredire. Di legare il dettaglio al tutto e di cercare la sintonia con la realtà profonda delle cose, non di dominarla opponendo resistenza al fluire della sua energia».1
E ancora, per restare alle citazioni, quanto Pound dice in una delle tante affermazioni a proposito della traduzione (poiché credo che tutta la poesia forte, in definitiva, traduca il mondo ricostruendolo in un testo “altro”); dice Pound che le buone traduzioni «mettono in evidenza il sonno, i punti grigi nella lingua» e, aggiungo io, la destano agitandola. Ecco, mi pare che Roversi proponga un’etica inclusiva, proprio perché dichiara di «scrivere non per qualcuno, ma contro qualcuno»; e che faccia questo attraverso una poetica che desta e agita la lingua, facendola trascendere in una nuova visione della realtà, così chiarendo quale sia per lui la dipendenza (meglio, la dichiarata non autonomia) che la sua poesia denuncia, non come fatto deprecabile, ma come oggettiva presa di coscienza di una situazione che impone alla poesia stessa di leggere il mondo. Una “lettura” che tenti di costruire perlomeno le premesse (comunicative) per un cambiamento, e non soltanto le promesse di quello, attraverso l’introduzione di un pensiero radicalmente differente sia nella forma che nel contenuto poetico – del “fare” e del “dire” poetico. Un “fare” e un “dire” che spiego, sintetizzandolo, come la necessità di modificare un’estetica del testo poetico per valorizzare al massimo un’etica del fare poetico. Proprio a quest’ultimo aspetto, ci dice Roversi, bisogna cominciare a guardare, per comprendere quale necessaria acutezza deve riconquistare la poesia nell’interpretare il mondo; concretamente, possiamo intanto esemplificare dicendo che uno degli aspetti importanti di questa acutezza da riconquistare in poesia è la relazione tra “fare” artistico e “luogo” dove quello si esplica – ciò che l’attuale comunicazione dominante ha spazzato via – e che secondo la poesia di Roversi non solo è materia possibile, ma è necessaria. Per lui, l’assoluta autonomia del testo non è di alcun interesse; l’irresponsabilità del poeta non entra per lui in considerazione. Sono queste le premesse di un pensiero e di una novità estetica che ci permettono, a nostra volta, di comprendere e ricostituire i compiti diversi della poesia per il tempo non solo presente.
La deresponsabilizzazione dell’artista in generale, e in particolare del poeta (ma, genericamente, dell’individuo sociale), nasce anche dalla volontà di negare la zona d’ombra che, tuttora, nasconde il mondo alla poesia; questa può assumere la forma di un io frantumato, che cerca di ricomporsi attraverso il linguaggio; oppure che tenta di frantumare il proprio linguaggio per denunciarne la pochezza o la miseria comunicativa; può essere questo e altro, ma l’ombra sulla realtà e sul tempo di quella realtà non si attenua; un tempo che diviene immemore, che cancella (o tenta di cancellare) con larghe pennellate di “novissimi” linguaggi (e non di una nuova lingua della comunicazione), una memoria che avrebbe bisogno di trovare ancora le parole per essere detta – e questo in nome di una modernità da saldi al supermercato. Viene in mente quanto Roversi scriveva, parecchi anni fa, nella nota al suo Dopo Campoformio, a proposito appunto dei “Novissimi”, sottolineando come il loro linguaggio rischiasse di assomigliare a un «neo futurismo che s’affaccia a un plurilinguismo da crociera turistica», avendo definito all’inizio della stessa nota, il proprio libro «un libro utile per qualche lettore non frettoloso».2 Ritraendo un attimo lo sguardo dalle urgenze di rappresentazione che quel gruppo ebbe, presentandosi sulla scena comunicativa di quegli anni, ci si può soffermare sull’aspetto di induzione verso una certa forma di sviluppo sociale nell’iniziale sua fioritura che, certamente, gli stessi “Novissimi” seppero cogliere ed esprimere. Ma direi che essendosi ritagliati il ruolo di descrittori del puro “nascente”, successivamente venuto a mancare questo per la maturazione degli eventi, il loro linguaggio pare disfarsi e sparpagliarsi. Quel mondo (e modo) e quel linguaggio (e cultura), certamente li ritroviamo oggi tra di noi, nel nostro vivere; ma ciò che allora era detto e letto come eversivo, ora è diventato sostanzialmente la sigla della nostra contemporaneità. Sono il mondo e il linguaggio che rappresentano una contemporaneità la quale si alimenta di tutto ciò che gli passa attraverso e accanto. Ma ciò che quei linguaggi “novissimi” non sanno più cogliere della nostra contemporaneità è il fatto che quest’ultima permette sì di costruire spazi e forme magari anche autonome, nell’ambito del consumo mercificato, ma lo fa divorando ogni “discorso” che tenti la conquista di una comprensione, di una coscienza in opposizione (o, almeno, non in totale dedizione) alla mercificazione collettiva e all’individualismo esasperato. Direi che il discorso culturale odierno (e massime quello poetico) fatica a prendere forma reale, a ricostruire i proprî contenuti di comunicazione intensa, in difetto di un attento sguardo che sia capace di cogliere più che la decadenza dei tempi, l’interezza del proprio tempo (che è veramente da riconoscere), e così cercare di ricondurre il proprio “fare” in quella trama. Mi sembra incontestabile dire che il “discorso” culturale oggi si realizza secondo un ben conosciuto narcisismo estetico, e che tale appare più soddisfatto di “esistere” che di “costruire”, non trovando più le ragioni (il bandolo) del “tempo” che ci vive accanto. Non credo, dicendo questo, di allontanarmi molto dal vero se, un po’ di tempo fa, in un articolo a firma di Angelo Guglielmi a proposito di un libro di Rossana Campo, ho letto il seguente pensiero: «Così non si è esaurita la creatività degli scrittori (che continuano, con risultati alterni, a far poesia e romanzi), si è esaurita la creatività del tempo che dopo l’impennata degli anni sessanta (si trattò di una vera e propria rivoluzione antropologica) ora attraversa una fase di assoluta stagnazione lasciandoci sperduti e incapaci di figurarci una nuova strumentazione culturale con cui fare andare avanti il mondo».3 Pur essendo d’accordo con le finalità della strumentazione culturale, rilevo che per Guglielmi non è più lo scrittore a mancare della capacità di lettura del mondo, ma è il maledetto mondo a non essere più in grado di fornire materia per la creazione. La risposta a tale concezione del rapporto fra mondo e cultura mi viene da quanto Roversi ha utilizzato, a mo’ di esergo, per L’Italia sepolta sotto la neve – Premessa4. Si tratta di una citazione tratta da Robert Capa che così recita: «Se la foto non è buona, vuol dire che tu non eri abbastanza vicino». Questo solo per dire che le scelte, in poesia – come, naturalmente, in qualsiasi altra attività, non sono mai neutrali né indipendenti e neppure, semmai fosse possibile, spensierate.
Direi allora questo: Roversi ha coltivato questa consapevolezza che è la scelta di riconsiderare, in rapporto costante con il mondo e le sue implicazioni, il linguaggio della poesia quale strumento di emozione “politica” – usando questo aggettivo nel senso più lato.
L’emozione “politica”, in questo senso, è ciò che appresta a implicarsi attraverso il proprio fare, con anima e corpo, neel mondo reale. È come se la possibilità di fare qualche cosa in un modo particolarmente speciale, accumulasse invece di alleggerire la responsabilità etica verso il mondo. E per Roversi è in poesia che si esprime la percezione di uno stravolgimento della comunicazione, in atto di rappresentare la sua propria potenza anche devastatrice; e di delineare una soglia di attenzione, di percezione e valutazione delle modificazioni sulle quali comporre il proprio discorso; un discorso coltivato e sviluppato avendo ben presente la comunità reale delle persone, luogo di sentimenti e di trasformazioni; sintesi degli animi che le coscienze delle persone sanno esprimere.
Quel discorso, a mio parere, nella poesia di Roversi si rivela in una visione dalla quale cerca di estrarre una qualche possibilità di contingenza etica. Cosicché realismo e civismo, per Roversi, credo risiedano nella attenta valutazione che la sua poesia compie sulla realtà, e le persone che la compongono. Una poesia che tratteggia, come si può leggere ancora ne L’Italia sepolta sotto la neve, non tanto una denuncia, ma piuttosto l’analisi di un sentimento e che esprime un’altra idea di bellezza; la quale non risiede solo in scampoli di perfezione stilistica, di sapienza contenutistica, di fluidità del testo. Tutti questi elementi hanno fatto, e ancora in parte fanno, della poesia solo “una bella poesia” e, dell’arte in generale come della poesia in particolare, una mostra degli autori che si rimirano mentre esibiscono quello che stanno facendo. Per l’appunto, un narcisismo estetico che già conosciamo.
Tutto questo ragionamento è (vuole essere) poeticamente pregnante soprattutto in una visione di ricostituzione di una certa prospettiva sociale, di ricostruzione di valori secondo un modello che non ha in sé, come ho già detto, l’impegno civile quale cifra stilistica, piuttosto ne possiede le caratteristiche genetiche sì che, per intenderci, possa diventare un discorso poetico che non parla di una perdita, ma di ciò che si dovrà acquistare: costruendolo.
Chiudo con un brevissimo accenno sull’esperienza di Dispacci.
Tra la fine degli anni settanta e i primissimi ottanta, la situazione della poesia, almeno in Italia, si stava evolvendo rapidamente. Soprattutto la nuova comunicazione, aveva permesso alla poesia di creare un rapporto tra sé e il lettore che, nel suo aspetto più appariscente, si mostrò con il fiorire di manifestazioni pubbliche di lettura, le quali ebbero lo spazio di qualche settimana su quotidiani e settimanali, che sembrò creare una situazione in quel momento più aperta ma che, per i tempi che sarebbero trascorsi, sarebbe apparsa pure più problematica.
A Bologna, anche sull’onda di un evento tragicamente importante, l’attentato dell’agosto 1980 alla Stazione, ricordato un anno dopo con una serie di manifestazioni, la poesia aveva riscoperto la sua dimensione pubblica, caratterizzata da un atto di adesione politica agli eventi del mondo.
Attorno a quella esperienza e a quella riscoperta nacque, per volontà dello stesso Roversi, la Cooperativa culturale ‘Dispacci’, come segno non effimero di un impegno verso l’intensificazione della comunicazione, tra le persone, per mezzo della scrittura poetica.
Di Dispacci bisogna dire che aveva dentro di sé una specie di meccanismo a tempo per lo scioglimento. Per Roversi era necessario, come già aveva teorizzato, costruire un piccolo gruppo che specializzasse i proprî strumenti all’interno della nuova comunicazione, la quale si stava imponendo con forza nel Paese; per affrontarla e non farsene inconsapevoli complici; per capirla e non esserne schiacciati, cercando di modificarla. E questa specializzazione doveva avvenire in un periodo di “formazione” ben definito. Dopo ci si sarebbe lasciati, si sperava senza perdersi di vista – e per alcuni questo è ancora vero.

Note

  1. Luigi Sampietro, Araldo dell’indipendence, in Il Sole-24 Ore – inserto domenicale , 3 luglio 2005.
  2. Roberto Roversi, Dopo Campoformio, Milano, Feltrinelli, 1958.
  3. Angelo Guglielmi, Il Gruppo 63 aspetta che il nuovo secolo si riveli, in “tuttoLibritempoLibero”, inserto del sabato de “La Stampa” del 14 giugno 2003.
  4. Roberto Roversi, L’Italia sepolta sotto la neve — Premessa 1–81, Roma, Nord-see, 1984; poi, in edizione riveduta e corretta, Bologna, Quaderni del Masaorita, 1995.

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