Bibliomanie

Corrado Ricci e l’arte dei bambini
di , numero 33, maggio/agosto 2013, Note e Riflessioni,

Come citare questo articolo:
Antonio Castronuovo, Corrado Ricci e l’arte dei bambini, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 33, no. 9, maggio/agosto 2013

Alle origini di ogni studioso, di quel genere di scrittore che pensiamo rediga solo pagine inerti – o peggio, glaciali – stanno sogni e passioni giovanili. Ammiratore di Carducci, la prima passione del ravennate Corrado Ricci (classe 1858) fu la poesia, al punto che aveva anche pensato d’intraprendere la carriera poetica. Scrisse infatti versi, stampandone una raccolta a sedici anni, ma alla laurea in legge, nel 1882, decise di abbandonare quel sogno. Quando molti anni dopo l’Accademia dei Lincei chiese ai propri soci una personale bibliografia, Ricci escluse dalla propria quel libretto di versi e ne ricordò i fatti così: «Il primo mio “stampato” è del 1874, ossia di cinquantasette anni or sono e, come è facile indovinare, data la mia età di allora, contiene versi! I poeti debbono essere poeti, o nulla. E se proprio non possono fare a meno di stender in carta e in rima le proprie debolezze, abbiano almeno il pudore di rimpiattarle o, meglio, la saggezza di bruciarle».
Abbandonata la poesia volle dedicarsi alla storia dell’arte e allo studio dell’archeologia, campi nei quali aveva già curiosato in giovane età, e nel 1878 diede una prima prova di questo rinnovato talento con una Guida di Ravenna. Da li prese il via la solare carriera di Ricci, che diresse musei, fu Diretto Generale delle Antichità e Belle Arti (1906-1919) e storico dell’arte. e tuttavia, tra i primi suoi scritti si colloca un saggio che sembra provare come, accantonate le poesie, non era però in lui scomparsa la volontà di indagare le cose con tenore poetico. È L’Arte dei bambini, primo scritto che in Italia sia stato dedicato al disegno infantile.
Tutto era accaduto un giorno nel quale Ricci si era ritagliato il tempo di fare una passeggiata. Ce lo facciamo raccontare da lui direttamente: «Un giorno dell’inverno 1882-83, tornando dalla Certosa di Bologna, fui costretto da una pioggia dirotta a riparare sotto il portico che conduce al Meloncello» (uno dei portici del sistema di via Saragozza, quello percorso da chi vuole andare a piedi fino a San Luca). E cosa si fa quando piove forte e si resta bloccati dentro un portone o sotto un portico? Ci si guarda attorno tentando di trasformare quell’intoppo in un momento di scoperta. E Ricci fu fortunato: sulla parte bassa del muro del portico erano tracciati alcuni elementari disegni infantili. Di colpo, come accade all’occhio di chi ama l’arte, si avvide che quei disegni avevano dei caratteri, sembravano seguire delle norme non scritte. Fu colto dal desiderio di indagare quella specifica attività dei bambini: «La tristezza del giorno, del luogo e dell’anima mi conciliò con l’arte ingenua dei bambini e mi suggerì l’idea di questo studio».
Non perse tempo: si rivolse ad amici e a maestri di scuola per procurarsi disegni infantili. In pochi mesi ne raccolse un migliaio, e prodotti da bambini di età diverse. Aveva tutto ciò che gli serviva per un’indagine oggettiva, che portò a termine ed espose in una conferenza tenuta al Circolo Artistico di Bologna il 2 febbraio 1885. Il testo della conferenza, riveduto e arricchito di disegni, fu presentato alla Casa Editrice Zanichelli, che alla fine del 1886 ne trasse un libretto (uscito però con la data del 1887). Si sollevò una certa attenzione critica, anche fuori dai confini nazionali, tale per cui Ricci, nel 1894, accolse l’operetta nel suo Santi ed artisti. La seconda edizione apparve nel 1919, con una premessa in cui l’autore dichiarava: «Ripubblico L’Arte dei bambini tal quale apparve nella prima edizione, perché se cambiassi il testo con la pretesa di aggiornarlo, gli leverei quel sapore di primizia che forse è il maggiore, se non il solo, suo pregio».
Quel libretto, come abbiamo detto, fu tra i primi, se non il primo studio in assoluto sul disegno infantile. L’arte dei bambini non aveva infatti destato tanta attenzione nel corso dei secoli, e Ricci giungeva a svelarne l’essenza, a descriverne l’autentico significato. Ma non era questo il solo pregio del saggio: dopo quasi centotrenta anni, le osservazioni dell’autore sono ancora valide, il suo stile tale da farne una limpida e deliziosa lettura. Delizioso è infatti muoversi nel mondo dei primi disegni infantili, che i bambini cominciano a tracciare verso i tre anni. È quella l’età in cui essi cominciano a stendere sulla carta fregi e sfregi, senza l’intenzione di raffigurare qualche cosa. Quando tale intenzione si desta, il bambino smette di tracciare con la matita segni astratti e tenta di illustrare una figura umana, tratteggiata mediante una primitiva forma geometrica che simboleggia la testa, dalla quale al massimo fuoriescono delle linee che incarnano le gambe, ma senza articolazioni.
La progressione del bambino è lenta, altri stadi devono essere attraversati prima che appaiano un busto e delle braccia, attaccate alla testa, al collo o all’inguine. Le articolazioni, quando appaiono, sono semplici angolature delle righe che rappresentano gli arti.
Una volta che la figura è diventata intera, il bambino che disegna non ne nasconde più nulla, anche se si frappongono degli ostacoli. Se vuole disegnare una figura in barca o a cavallo, segna anche le parti del corpo celate alla vista, ad esempio la gamba che nell’uomo a cavallo dovrebbe restare nascosta, come se il cavallo fosse trasparente: «Tutti sanno che dell’uomo a cavallo, visto di profilo, una parte rimane nascosta all’occhio. I bimbi invece pensano che l’uomo quando è a cavallo è perfettamente e, come sempre, intero».
Insomma, i bambini descrivono una figura invece di darne una interpretazione artistica; cercano «di riprodurre le cose nella loro complessione assoluta e non nella risultanza ottica. Fanno insomma coi segni la descrizione che né più né meno farebbero con le parole». L’arte sembra ignota al piccolo disegnatore, che non riproduce la realtà mediante una idea estetica, ma la tratteggia così come la memoria gli suggerisce che debba essere.
È la ragione per cui, se il bambino disegna un viso di profilo, molto spesso traccia i due occhi come se li vedesse di prospetto. Non basta, perché i bambini, sapendo «che l’uomo ha due occhi e che quindi se ne debbono disegnar due, ricordano che fra i due occhi pende sempre un naso. Che cosa fanno allora? Disegnato il volto con il suo naso di profilo e messi i due occhi di prospetto, dopo essere stati un po’ in pensiero, aggiungono fra questi un secondo naso che si può chiamare il naso soprannumerario». E proprio perché la loro tecnica è quella di descrivere e non di riprodurre ciò che si vede, quando disegnano una casa non di rado si vedranno «trasparire dai muri gli uomini che passeggiano per le stanze, si vedranno per entro i campanili i sacrestani che suonano le campane e le persone che popolano il treno. Tutto ciò insomma che i bambini sanno o, meglio, pensano che ci sia, si deve vedere, nonostante gli ostacoli naturali e artificiali!».
Nel cominciare a disegnare i dettagli – che colpiscono la mente infantile più di un fenomeno sublime – i bambini esprimono ciò che desiderano; e all’epoca di Ricci oggetti prodigiosi erano la pipa o il cappello a cilindro. Nelle centinaia di campioni da lui raccolti, la pipa appare con grande frequenza: la figura può anche mancare di busto o di braccia, ma una pipa fuoriesce ben salda dall’elementare geometria del volto. E se la pipa è interesse dei maschi, le bambine porranno ogni cura a disegnare vasi e mazzi di fiori, manicotti, ventagli, ombrellini e ogni particolare che le introduca all’eleganza femminile.
Tutto ciò non è senza conseguenza, perché Ricci trae delle conclusioni dalle proprie osservazioni: i bambini che a scuola fanno i migliori disegni sono gli scolari migliori, «quelli che, più esattamente guardando e ricordando, sono in caso di completare meglio un inventario di cose da loro imparato come hanno imparata la lezione. Più tardi al contrario si rivelerà artista forte e originale colui che nella scuola faceva la più magra figura!». Senza dimenticare che ci sono le eccezioni, e che è dunque «impossibile noverare le schiere infinite dei piccoli geni che crescendo si convertirono e si convertono tuttora nella più bella specie d’imbecilli e di vanitosi». Regola, quest’ultima, che dà vita al dolore delle mamme quando assistono alla trasformazione dei loro piccoli geni liceali in perfetti citrulli universitari.
Con questo libretto di fine Ottocento, Ricci anticipava in certo modo un tema che di lì a poco – con l’arrivo del Novecento – avrebbe tenuto banco: l’interesse verso il primitivismo, con un Picasso che avrebbe dipinto quadri raffiguranti teste viste di profilo ma con i due occhi disegnati di faccia (come la famosa Donna seduta con libro del 1936). Fu a molti chiaro che quell’inclinazione andava cercata, prima ancora che nell’arte africana, nelle tecniche dei bambini. La spiegazione, come si suol dire, era dietro l’angolo di casa.

Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2013 Antonio Castronuovo