Bibliomanie

Considerazioni sul senso della cultura nel terzo millennio. Davide Monda intervista Roberto Roversi
di , numero 33, maggio/agosto 2013, Note e Riflessioni,

Come citare questo articolo:
Davide Monda, Considerazioni sul senso della cultura nel terzo millennio. Davide Monda intervista Roberto Roversi, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 33, no. 6, maggio/agosto 2013

Monda: è con Lei, attento, esigente osservatore del mondo contemporaneo, che vorremmo trovare le parole meno inadeguate per parlare di cultura. Cercare (adagio) una definizione, vedere i luoghi in cui oggi si realizza meglio, e i suoi protagonisti, e quali rapporti realmente mantiene con la realtà che ci circonda. Come ancora si può attraversarla. Tentiamo perciò di capire cos’è e i vari livelli in cui si esprime.

Roversi: Direi semplicemente, ma con molta convinzione, che cultura è cercare ciò che non si sa in ogni direzione: nei libri, nella lettura dei giornali, nella ricerca dei rapporti con le persone, nei viaggi. è il bisogno dell’uomo, anche di quello apparentemente incolto, di riempire dei vuoti della conoscenza. Un bisogno non codificato nelle istituzioni, una sollecitazione comune a tutti.

M.: Mi viene da pensare che in epoca di consumismo anche la cultura abbia soggiaciuto agli stessi meccanismi e, mentre il livello medio si è alzato, il livello alto è precipitato o è alla macchia. Per livelli alti intendo lì dove il pensiero subisce una elaborazione, tenta un azzardo, sperimenta un rischio, organizza un progetto nuovo. Cosa è successo di tutto questo? Un eccesso di silenzi, di compromessi, di giochi “politici”, di parole snaturate ha seppellito sotto cumuli di cenere quasi ogni tensione progettuale della cultura.

R.: Certo esiste innegabilmente una omologazione al basso anche nella cultura, perché la cultura a livello istituzionale, a livello ufficiale è monopolio del potere che la gestisce e la condizione, la manipola e la distribuisce. Naturalmente questa operazione, che è ormai generalizzata nell’ambito della nostra società, condiziona anche il grado di raffinatezza linguistica, modificando l’idea della cultura che avevamo in passato, che è un idea molto elitaria, selettiva e ha prodotto una sostanziale diversificazione fra la cultura più ampia che è degradata a un parlato normalizzato e la cultura cosiddetta alta che a mio parere si è dovuta rintanare, in un certo senso defilare. La cultura alta, quella sostanzialmente indipendente, quella che non vuole concedersi, bisogna andarla a cercare, perché la cultura che apparentemente “sembra alta” è una cultura in pompa magna ma nella sua struttura di fondo è quella normale che il potere vuole distribuire.

M.: Possiamo allora dire che la cultura alta è costretta ad una sorta di clandestinità, ha dovuto modificare la sua “esistenza” in una “resistenza”, pagando il prezzo di una quasi totale disattenzione.

R.: Parlerei non di clandestinità, ma di una sorta di riservatezza che è consapevole autodifesa dei propri limiti gestionali ed operativi.
Se un intellettuale non si difende ma intende partecipare completamente al gioco alto, interessante della gestione del potere, secondo me non riesce a difendere la propria autonomia di fondo nonostante creda di poterlo fare. Qualsiasi partecipazione all’interno delle istituzioni, secondo il mio punto di vista, conclude sicuramente alla cessione del proprio potere comunicativo e all’accettazione diretta o indiretta del potere comunicativo dell’altro. Per “potere alto” io intendo un potere che è consapevole del campo di battaglia in cui si trova, di ciò che può concedere, di ciò che gli viene sottratto, di ciò che può difendere. “Potere alto” non in senso petrarchesco di “incoronato dagli dèi”, ma in quello che opera rigorosamente volendo gestire la propria comunicazione integralmente e nella maniera più responsabile all’interno di una situazione così complessa come questa, e avendo la responsabile convinzione delle difficoltà nelle quali si trova.

M.: Credo che questo avvenga in un rapporto di contiguità con il potere, ma si possano ancora ritagliare degli spazi di autonomia pagandola duramente, accontentandosi di brevi sortite, di rapide operazioni.

R.: Certo, ma avendo alla base una precisa scelta di campo e questa si può fare molto netta e precisa. Così la vita è meno dura, ci si può muovere come un pesce nell’acqua senza morirne di crepacuore. In questa situazione la gestione della cultura alta costringe a fare continuamente delle scelte. Questo è un dramma ma anche uno stimolo, una provocazione continua, anche perché in passato gli intellettuali spesso più che tendere a una progettualità collettiva, si sono occupati di piccole beghe personali. Direi tutto va bene, tutto può essere accettato, in un certo senso anche le contraddizioni, anche gli errori, purché alla base sottostia una responsabile lettura della situazione culturale. C’è questa sorta di inquietudine nelle conclusioni e impossibilità delle conclusioni che non consentono di avere all’interno dei singoli problemi delle minime certezze, quindi l’operare abbastanza incerto, un po’ ambiguo, alle volte contorto, di persone operanti nella cultura può essere determinato non da immoralità o da interesse smaccato, ma proprio da questa sorta di impossibilità di decidere in quanto la situazione non consente delle minime conclusioni. La situazione generale in questo momento è estremamente contorta, leggerla porta a delle conclusioni che sono drammaticamente angoscianti ma allo stesso tempo drammaticamente sollecitanti e ad una precisa scelta di campo in cui ognuno di noi ha deciso di operare. Senza questa scelta di campo ben precisa io penso che non si possa fare se non della cultura di partecipazione alle istituzioni, quindi è un altro genere di discorso.

M.: Parliamo adesso dei luoghi dove la cultura dovrebbe operare. Cominciamo dalle case editrici. Sono i luoghi, oggi, dove meno si legge. Quasi sempre a determinare le scelte non è una attenta lettura che inserisca ogni libro in un progetto culturale complessivo. Le motivazioni bisogna cercarle altrove. Scelte mediocri vengono immesse nella macchina che comunque porta al successo. Infatti quasi tutte le case editrici sono diventate oramai delle istituzioni finanziarie sempre più soggette alle leggi del mercato. E quanto più si cavalca questa tigre tanto più si finisce con l’esserne divorati. La distribuzione condiziona sempre di più la produzione e finisce con il dettare legge. Piccole case editrici arrivate al collo di bottiglia della distribuzione e della promozione finiscono con l’avere un’esistenza asfittica fino ad essere inglobate e assorbite da quelle più grandi. Se il libro per le case editrici è sempre più merce, come è possibile che le librerie sfuggano almeno in parte a questo meccanismo? E ancora, se in mancanza di una politica di investimento che presuppone tempi lunghi si punta esclusivamente sul guadagno da realizzare in tempi sempre più brevi, la cultura non ha più un valore di scambio?

R.: Certamente il mondo dell’editoria, della comunicazione, della cultura è completamente modificato rispetto ad un recentissimo passato, e debbono prenderne atto quelli che vogliono restare fuori delle istituzioni ufficiali. Produrre economicamente costa e questo costo deve essere in qualche maniera retribuito. Nell’editoria alternativa, stiamo attraversando un momento estremamente riduttivo nella sua problematicità. Certo il grande problema da risolvere è la distribuzione. La distribuzione è il respiro dell’editoria. Come poter respirare senza partecipare al grande gioco delle istituzioni ufficiali? Questo il problema centrale. è questo un momento acuto e doloroso di passaggio. Oggi anche le librerie non grandi, una volta centri di cultura, stanno trasformandosi in distributori di merce. Senza questo cambiamento, non credo che potranno durare ulteriormente. Vi è un’alternativa? L’estrema specializzazione. Ma questo esige la collocazione in centri importanti, non in piccoli centri. Quindi una modificazione sostanziale dovrà avvenire anche nelle librerie medie con la concentrazione di molte librerie che, pur restando a gestione indipendente, abbiano un unico centro di distribuzione, di conduzione amministrativa, una sorta di cooperazione con servizi unificati. Questa, a mio avviso, potrebbe diventare l’unica alternativa alle librerie gestite direttamente dai grandi editori e dai grandi distributori.

M.: Ritorniamo ai luoghi e ai protagonisti della cultura. La figura del mecenate è scomparsa. Dobbiamo essere i mecenati di noi stessi. La borghesia illuminata è stata sostituita dagli sponsor?

R.: Forse i mecenati esistono ancora, ma io li vedo piuttosto che come singoli individui come una qualche istituzione pubblica locale particolarmente attenta, che dà qualche contributo.

M.: Per salvarsi l’anima…

R.: Sono sempre piccole ossa date al cane che, se non ringhia, comunque è lì in attesa. Oggi gli sponsor sono distolti da interessi molto più ampi: sono interessati a fare i mecenati dentro le istituzioni con grandi personaggi che danno loro riscontro, e che consentono loro certe soddisfazioni particolari.

M.: Parliamo adesso di un altro luogo di cultura: l’università.

R.: L’università è deputata a fare i conti prevalentemente con tutto ciò che è già codificato, con tutto ciò che è già stato fatto e detto, ha bisogno di certezze. L’università molto autorevolmente fa il suo lavoro, fa le sue ricerche, arriva alle sue conclusioni, ma noi dobbiamo starne un po’ fuori della porta, relegati in ambiti più ristretti.

M.: Non crede che anche il cinema e il teatro nelle costanti soggiacciano agli stessi meccanismi, con (naturalmente) delle variabili determinate dalle singole specificità?

R.: Certamente, come diceva Saba, una poesia può essere scritta sul retro di un pacchetto di sigarette con una matita. Produrre film e spettacoli comporta dei capitali spesso ingenti, quindi a un certo punto i problemi si diversificano enormemente; però il problema di fondo della distribuzione resta anche qui imponente, costante.

M.: è vero, ma sia il cinema sia il teatro, nel momento in cui raggiungono il pubblico, debbono fare i conti con un reale che credo sia attraversato dagli stessi meccanismi. Lei ha individuato nelle piccole riviste delle isole dove si cerca di costruire, di individuare dei percorsi.

R.: Mi riferisco alle riviste e, in modo particolare, alle piccole riviste. Sono il sale della terra, il sale della cultura, senza di esse la cultura non procede. Sembrerebbe una contraddizione perché, imbucate come sono, sembra che nessuno le segua, nessuno le legga. Ma anche se nessuno le segue, nessuno le legge – cosa che non è vera –, ci sono i molti che le fanno e quindi questo fare è già un organizzare la cultura in un certo modo. Nasce da provocazioni culturali, da sollecitazioni personali, dal bisogno di partecipare culturalmente, di masticare la cultura, di masticare i linguaggi della cultura. Tutto questo si riversa proprio dentro queste piccole riviste che non possono, non debbono, non diventano mai merce, non possono avere un valore d’uso, un valore di vendita.
Una volta, le grandi case editrici gestivano queste riviste in perdita, ma la perdita economica veniva compensata, nella loro progettualità culturalmente avanzata, dalla convinzione che avevano un valore importante di ricerca di sollecitazione di scavo nella realtà culturale del momento, di anticipazione sulle problematiche. Adesso questo interesse non c’è più, permane solo nei piccoli ambiti. C’è un proliferare amplissimo di piccole riviste, tutte, dai singoli punti di vista, egualmente interessanti. Si hanno delle sorprese perché queste riviste periferiche annidate in piccole cittadine hanno delle proposte di estrema raffinatezza culturale e soprattutto di informazione come novità, come partecipazione, come anticipazione.

M.: Secondo me, queste presenze sono anche il frutto di una logica stringente: il macrocosmo con le sue leggi totalizzanti produce di necessità un microcosmo. Il grande business culturale produce piccole intraprese come riviste, piccole case editrici, molte iniziative di singole persone che cercano di continuare a lavorare in qualche maniera.

R.: Non vedo in opposizione le une alle altre ma le vedo distaccate, la loro caratteristica determinante è una rabbiosa indifferenza, una sorta di insofferenza un po’ acrimoniosa nei riguardi dei grandi riferimenti, perché sembrano non dico inaccessibili ma sembrano alle volte diventare inaccettabili.

M.: Il rapporto che c’è oggi fra il mondo della cultura e quello della comunicazione è assai problematico, perché quando si entra nell’industria della comunicazione si entra in un processo biologico che coincide con la rapidità del consumo.

R.: La nuova organizzazione della comunicazione con questo accentramento dei gangli del potere, del vero potere che è finanziario, economico e quindi gestionale in assoluto, come una sorta di grandiosa violenza ha portato all’annichilimento in tutte le direzioni delle avanguardie, perché l’avanguardia era ciò che nasceva libero, che ancora non si conosceva, che procedeva indifferente e indipendente e che poteva esplodere o poteva concludersi ed esaurirsi. Adesso la necessità di alimentare incessantemente la catena di montaggio della comunicazione ufficiale comporta che appena uno mette il naso fuori e non lo abbia corroso dalla lebbra viene agguantato e immediatamente spremuto e triturato.

M.: C’è mancanza di tempo nella crescita. C’è un’accelerazione che rende i ritmi trituranti.

R.: Sì, è esatto, trituranti. Questo è il mondo della comunicazione, il villaggio globale ha bisogno di essere alimentato continuamente di novità, di facce, di suoni, di parole, di provocazioni.

M.: Inventa notizie per poterle smentire il giorno dopo. Viene fuori una realtà che ha poco a che fare con il reale. Senza voler essere catastrofali, ben presto coloro che entrano in questo meccanismo entrano paradossalmente in un processo di autodistruzione. E, autodistruggendosi, ci liberano. Bisognerebbe riuscire a rimettere un po’ di tempo nelle cose.

R.: A questo malanno non si può porre rimedio se non standone fuori. La necessità di rinnovare completamente il bagaglio della comunicazione comporta di bruciare rapidamente anche le scorie.
Il problema è sicuramente molto importante, a cominciare dall’industria, che è la prima ad aver bisogno proprio di questo ritmo continuato, frenetico di promozione. Questa forma di accelerazione, di inquietudine che noi abbiamo rispetto alle situazioni è però legata solamente al piccolo mondo occidentale, che è solo una parte minima del mondo.

M.: Certamente, ma tutto il terzo mondo è e sarà facilmente corruttibile e omologabile a questa realtà.

R.: Il potere appunto fa leva su questa corruttibilità del terzo mondo, del quarto, del quinto. Noi dell’occidente siamo ormai soddisfatti di tutto, siamo ormai saturi e vorremmo ridurci ad una deliziosa povertà, ma non ci è più consentito nemmeno questo.
A meno che appunto non ci sottraiamo. Sarà molto difficile ma non impossibile, questo il futuro delle prossime generazioni che potranno e dovranno scegliere dove stare.

M.: Non sarà facile per loro, visto i modelli che gli vengono proposti.

R.: Anche la nostra generazione ha avuto come modelli Hitler e Mussolini, ma a questi modelli ci siamo sottratti.

M.: Non li ho mai subiti perché ho avuto un padre antifascista.

R.: Per Lei è stata una fortuna. Quelli che non sono riusciti ad arrivare a queste rapide conclusioni prima hanno dovuto, per ignoranza, adattarsi, e poi liberarsene con fatica. Penso che succederà in altra forma lo stesso anche a queste nuove generazioni passando dal nazismo al neoliberismo berlusconiano, che naturalmente è una forma di vincolo molto diversificato: non ci sono ancora le camere a gas o che altro, ma è una forma di vincolo molto faticoso ugualmente, al livello della cattura delle proprie convinzioni e della propria progettualità. Liberarsi da questa cattura in questo momento è estremamente difficile. Lo si può fare solo se si decide di non essere catturati in toto, se ci si butta nei boschi. Perché prima o dopo stando sulle strade consentite si è invischiati da qualche inghippo. La penso così, forse da vecchio matto…

M.: No, è un grande (e famoso) saggio. Ma come continuare a fare? Vediamo di creare una prospettiva per il futuro.

R.: Come poter fare se vogliamo continuare a fare? Come gestirci in un mondo che non sia ottocentesco, ma con un minimo di vitalità contemporanea, senza essere patetici ma vitali dentro la nostra limitatezza? Questi sono problemi sui quali ci affanniamo ma che ancora non abbiamo risolto. E non li abbiamo risolti non per nostra debolezza – che anche se fosse, non sarebbe da vergognarsene – ma perché sono problemi molto gravi che in questo momento non si possono ancora risolvere completamente, però vanno continuamente proposti.

M. : Anche se i molti ignorano questi problemi e fanno finta di niente, non parlerei di sconfitta.

R.: Certamente no, anche se ci sono difficoltà obiettive. Difficoltà che io chiamo dinamiche, perché spingono a perseverare nella riflessione.

M.: Io parto dal presupposto che il dolore, e guardandosi intorno non si può non provare dolore, si debba trasformare in qualche altra cosa.

R.: Io parlo di rabbia, di rabbia infuriata: la rabbia furiosa, la rabbia provocante è uno stimolo continuo. La rabbia è per ciò che noi non abbiamo ancora – e quindi facciamo i conti con noi stessi – e ci costringe a riflettere sulle nostre dolorose e terrificanti magagne, manchevolezze.

M.: Di dolore Lei non vuol parlare? Secondo me la rabbia viene dopo il dolore.

R.: Il dolore è una parola così terribilmente importante che si riferisce ad una ampiezza di situazioni esistenziali, totali, là dove c’è il fuoco, non solo la pagina scritta. Questo di cui parliamo non è ancora il dolore del mondo.

M.: Certo, ma ci sono vari livelli anche nel dolore.

R.: è solo una parte del dolore del mondo. Ho grande inquietudine in questo momento, perché vivo nell’incertezza, ma sono convinto che è una incertezza elaborante, una incertezza necessaria che produce perché è una incertezza comune ad altri. Non è una incertezza esistenziale, è una incertezza sociale. Ed è molto interessante, poiché credo, nonostante tutto, che anche nel mondo futuro non verranno cancellate le minoranze dei poveri, che non verranno cancellate come riferimento politico. I poveri attivi, non lagnosi, non questuanti, ma quelli che chiedono alla società e alla vita di lasciarsi identificare.

M.: I black power.

R. : Ma questa identificazione bisogna inseguirla, bisogna programmarla, volerla appunto con rabbia, ma con rabbia fruttuosa…

Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2013 Davide Monda