Bibliomanie

Qui dira les torts de l’irréalisme… Sul realismo ontologico di Maurizio Ferraris
di , numero 33, maggio/agosto 2013, Note e Riflessioni,

Come citare questo articolo:
Elisabetta Brizio, Qui dira les torts de l’irréalisme… Sul realismo ontologico di Maurizio Ferraris, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 33, no. 11, maggio/agosto 2013

«Esistere è resistere» è la paronimia che fa da titolo all’intervento di Maurizio Ferraris in Bentornata realtà1, il recente volume che riunisce angolature diversificate ma tese a integrarsi e a ridefinire in ottica nuovorealista un campo di ricerca a lungo termine. La «discussione» coinvolge dieci autori e si articola a partire da alcune affermazioni preliminari: il nuovo realismo è dottrina critica al pari della decostruzione, con la differenza che le affianca una ricostruzione; esiste una ontologia sociale che, diversamente da quella naturale, va avvicinata con criterio ermeneutico; la filosofia non è in conflitto con la scienza, cui, al contrario, deve rimettersi quando si tratta di argomenti che le competono; il nuovo realismo è una «filosofia globalizzata», e dovendosi aprire a questioni multiverse inerenti all’uomo, è tenuta a temperare il suo specialismo in vista di una ricezione più ampia.
«Esistere è resistere» è l’assioma di Ferraris evòlto a marcare il nodo, ovvero la coimplicazione che si istituisce tra i due paronimi, tale da stabilire una equivalenza carica di conseguenze, chiamando in causa la necessità di tenere distinti àmbiti talora inassimilabili come essere e sapere, e con essa lo scarto da quel postmoderno filosofico che trent’anni prima è stato anche di Ferraris. Esistenza e resistenza fanno rima: in metrica si direbbe un caso di rima paronomastica, se si vuole derivata, quasi equivoca. E seguitando: esistere e resistere fanno rima, cioè le due nozioni – avrebbe detto Nietzsche – «collimano», ma «non semplicemente collimano»2. Si corrispondono, si chiarificano reciprocamente, coincidono, e la loro consonanza è ontologica. Nel passare dal livello dell’identità fonica a quello dei vincoli semantici (passaggio peraltro perentoriamente neutralizzato da Ferraris tramite la forma copulativa che sigla l’identificazione dei due termini) qui il valore della simbiosi rimale è tematico nella misura in cui effigia uno status. E se resistere può anche alludere al trarsi da una tendenza speculativa che ha screditato l’oggettività, la realtà e la verità, resistenza designa in senso eminente l’attributo di una frazione estesa di esistenza inattaccabile dal sapere (che è poi il vincolo tematico nonché profondo dell’accordo “esistenza:resistenza”), dato di fatto che esige un impegno rimotivato alla ricostruzione attraverso un riscontro puntuale delle caratteristiche di ciascun oggetto prima di catalogarlo nella propria sfera di competenza.
Viene tuttavia da chiedersi se questo metodo abbia davvero segnato una «svolta», costituisca insomma un sovversivo passaggio-chiave, o abbia determinato la radicalizzazione di una tendenza già in atto. Si avrebbe tutto il diritto di credere alla prima delle due ipotesi, se, come Ferraris afferma nel prologo a Manifesto del nuovo realismo3, «l’elaborazione del realismo è […] stata il filo conduttore del mio lavoro filosofico dopo la svolta che, all’inizio degli anni Novanta dello scorso secolo, mi ha portato ad abbandonare l’ermeneutica, per proporre una estetica come teoria della sensibilità, una ontologia naturale come teoria della inemendabilità e infine una ontologia sociale come teoria della documentalità»4. Tuttavia, rileggendo alcuni suoi lavori risalenti alla temperie postmoderna5, vi domina la sensazione che l’attenzione all’oggettività e alla fondatezza, al referente e alla referenza, e, correlativamente, alla non labilità degli enunciati, fosse la sua preoccupazione preminente almeno da quando, nel suo contributo a Il pensiero debole6, non esitava a mostrare «i limiti dello smascheramento», primo su tutti quello dell’ermeneutica rifrazione di significati «che non si appoggiano su alcun referente stabile, e che non conducono a verità definitive».7 Fin dai primissimi anni Ottanta veniva insomma fatta notare l’eventualità, non così remota, che il protrarsi eccessivo dell’esercizio del dubitare avrebbe potuto finire per estendere il dubbio fino alla stessa verità in una misura tale da sortire l’omologazione di significati proposizionali opposti.
Piuttosto che un ravvedimento o una drastica inversione di prospettiva, la virata asserita nel Manifesto dà allora più l’impressione di risolversi nella conversione di una consuetudine mai dismessa alla diffidenza nei confronti di proposizioni antirealiste – postume alla più feconda stagione postmoderna – in convinzione motivatissima di una predicabilità giustificata. O di consistere in elemento di chiarificazione, o, come Ferraris stesso ha dichiarato, in «un modo di precisare una medesima istanza che personalmente ho sempre avvertito come prioritaria: non ricevere le filosofie come dogmi, ma confrontarle con la realtà»8. Una realtà massimamente decostruita che intanto ha smarrito caratteri e contorni in seguito all’inclinare del pensiero verso un irrealismo che ha avuto il nichilismo speculativo come esito, non solo nella circostanza di aver disfatto la funzione dell’interpretare rovesciandola da mezzo a scopo, ma nell’orizzonte, inoltre, del finalizzarsi enfatico dell’attività speculativa nel valore filosofico della domanda a scapito della risposta.
Quello della fedeltà al proprio metodo di ricerca (nella fattispecie: confrontare gli enunciati e i contro-enunciati con la realtà) – ossia al realismo come parametro discriminante – sembra costituire il persistente principio-guida del lavoro di Ferraris, tanto che anche – se non particolarmente – nella desinenza nuovorealista la filosofia necessita degli strumenti critici dell’ermeneutica, benché all’esercizio dell’interpretare venga ora chiesto di progredire in principio selettivo e canalizzato, teso a demarcare ciò che possiede un’esistenza fuori della nostra mente da ciò che è socialmente costruito e da ciò che è soggettivamente costruito. E questa decisiva distinzione di campi può verificarsi purché si intenda e si pratichi l’interpretazione come strumento conoscitivo disciplinare e classificativo anziché quale sinonimo di discrezionale, o di totalizzante, o alla stregua di un flusso verbale non vigilato: mutando insomma radicalmente i termini rispetto a quanto talora accadeva con l’ontologia ermeneutica. Come strumento – ribadisce Ferraris nella sua prefazione al libro dell’iperrealista Markus Gabriel9 – in grado di esibire «il nesso essenziale che l’interpretazione ha con la verità e la realtà»10. Perché l’esistente ha la facoltà di resistere.
La diade di esistenza e resistenza è contigua alla cognizione – delineata in Il mondo esterno11, lavoro dov’è emblematico che lungamente si fosse insistito sulla dimensione del percepire – di una «inemendabilità» della realtà quale prova basilare dell’autonomia e della inalterabilità del cosiddetto “contenuto non concettuale”, dell’«incontrato» che esiste non vicariamente. Ora, per quanto il paradigma dell’ inemendabilità possa rivelarsi un fattore limitante (e di questo ostacolo dà significativamente conto la percezione), esso ci rende tuttavia, dice Ferraris, la possibilità di distinguere tra percepito e rappresentato, tra realtà e sogno o immaginazione, tra asserto scientifico e costruzione soggettiva. Solo e soltanto in virtù delle vincolanti limitazioni imposte dall’inemendabile abbiamo la piena misura di ciò che siamo o di quello che al contrario credevamo di essere: argomento, questo, che nelle implicanze nuovorealiste è ben lungi dal connotare una teoria che rassicuri sul mondo, proprio in quanto afferisce al mondo reale e non a illusorie proiezioni individuali o ad atti di rappresentazione.
In particolare, il rilevamento di un larghissimo segmento di mondo che non si piega alle nostre inquisizioni coglie la condizione necessaria dell’etica12, il cui sussistere non può prescindere da un fuori testo che, comunque, promuove e orienta le nostre azioni, dal momento che l’agente fa riferimento all’oggettività dei fatti: come concepire altrimenti la giustizia – che all’etica è strettamente correlata – in una prospettiva irrealistica? Ed è fondamentale come il riscontro della proprietà del resistere quale corrispettivo etico del nesso causale della non emendabilità mostri quanto il tratto risolutivo del realismo – che è principio teoretico – sia essenzialmente morale. Etica del resto sarà la reazione del rovesciamento del modello Geist in modello .doc postulato nel capitale Documentalità13: se quello che correntemente chiamiamo spirito si desume da una lettera che lo antecede, gli accadimenti umani sia minimi che epocali suppongono responsabilità individuali o collettive precise e tracciabili.
Ferraris osserva, in «Esistere è resistere»: «Il modo migliore per qualificare “reale” in un discorso è sempre negativo»14. È negativo anzitutto in virtù dell’ inemendabilità, per la cui rilevanza i sensi ci inducono spesso ad affermare che qualcosa o non è, o è falso. L’essere è ciò che differisce, inidentità. Vanta attributi mutuamente elidentisi e contaminantisi: è «un noumeno concreto» dove certezza e intrasparenza non si divaricano, è «opacità, resistenza, inintelligibilità, non-senso»15, qualcosa di inconfutabile e di recondito, che – per dirla sinteticamente con Paolo Ruffilli – «per quanto rivelato / in molti luoghi e / aspetti, tanto / più [è] nascosto»16. Ma proprio a partire da questi fattori di indistinzione si edifica il senso, senza con questo poter definitivamente rimuovere l’eventualità del riemergere del nebuloso e dell’insensato che all’essere si sottendono.
La differenza – dice Ferraris – si riferisce a una dimensione incompromessa dell’esistere, vale a dire che non sia incorporata e schematizzata dal sapere, ed è essenzialmente questa elusività dell’essere che conferisce verità ai predicati nominali a esso inerenti. Sono le osservazioni conclusive del suo contributo a Bentornata realtà, che vengono condotte sul filo di una compatibilità tutt’altro che paradossale tra nuovo realismo e gli argomenti di punta del postmoderno delle origini17. Quei princìpi dottrinali trovano anzi la loro consecuzione e risignificazione in questa forma di negatività che si arresta di fronte a un limite atto a svincolarli da esiti nichilisti (perché la realtà resta comunque cosa certa), solo qualora li si trasferisca dalla sfera del sapere a quella preriflessiva dell’essere e purché si riconosca di quest’ultimo l’ampio margine di impermeabilità alle invasioni del sapere. Diversamente detto, è l’epistemologia che discende dall’ontologia e non viceversa, le condizioni di verità sono successive all’attribuzione di realtà: è qui il primo principio della ricostruzione.
Sulla linea della decostruzione classica, allora, i predicati nuovorealisti si attengono alla intrinseca ermeticità dell’essere e al fattore di differenza quali suoi caratteri resistenziali che per la loro indeterminatezza non escludono l’evenienza della controdeterminazione, dell’interferire del coefficiente di inatteso che introduce – forzando i termini del noto emistichio montaliano in chiave neo realista – «ciò che non vogliamo», l’insospettabile che orienta le cose in senso inverso o quanto meno non conforme alle nostre previsioni. Viene contemplata, in altre parole, la non autonomia del volere nella prospettiva in cui il deliberare di frequente incontra l’opposizione inibitoria della realtà – per altro verso, ancora, la realtà non costituisce qualcosa dietro cui schermarsi, perché in molti casi incognita essa stessa. Così stando le cose, il celebre verso di Montale riferito in prefazione a Bentornata realtà («il nuovo realismo dice anzitutto “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”»18) emblematizza esemplarmente, al di là di ogni scollamento dei due àmbiti teoretico e morale, la pronuncia cauta e critica della dottrina neo realista. Lontanissima dall’enunciare la dimensione nullificante di una non-vita, o di un’esistenza negata che possa darsi solo in sillabe “storte” od oblique – come, e soprattutto, è lontana dal metaforizzare tanto un’insufficienza teoretica che una crisi della nozione di realtà –, essa si declina sostanzialmente in due modi: se da un lato problematizza, e pone sistematicamente in questione, prendendo atto delle possibilità del non – configurando la potenza del non come facoltà del designare per esclusione, ossia del porre in predicato certezze o pertinenze in negativo –, dall’altro diviene lo strumento per circoscrivere gli argomenti del dire a una pronuncia minima, al «codesto solo», cioè unicamente a predicati nominali coerentemente formulabili. Ancora più flessibile sembra il riferimento montaliano così come figura in una svista19 di parecchi anni or sono, dove il «ciò che non vogliamo» trasmutava in «ciò che non sappiamo», che tradotto in termini neo realisti altro non sarebbe l’accreditare ciò che per sua specificità si oppone a ogni forma di schematismo, a quel costruzionismo ontologico che non fa differenza di natura tra essere e sapere.

Note

  1. Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione (a cura di Mario De Caro e Maurizio Ferraris), Einaudi, Torino 2012.
  2. Nietzsche diceva, alludendo all’identità non solo desinenziale stabilita dai due termini dell’accostamento rimale “nihilistisch:christlich”: «Nichilista e cristiano: sono cose che collimano e non semplicemente collimano…», in L’anticristo, tr. it. di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 1982, p. 90.
  3. Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Roma-Bari 2012, p. X.
  4. Ivi, pp. X-XI.
  5. Penso anche al libro di Ferraris su Proust (Ermeneutica di Proust, Guerini e Associati, Milano 1987), dove l’oggetto si sarebbe prestato come pochissimi altri a un rapsodismo interpretativo che avrebbe perso di vista le coordinate per un giudizio unitario.
  6. «Invecchiamento della “Scuola del sospetto”», in Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983, pp. 120-136.
  7. Ivi, p. 122.
  8. In «Bibliomanie», aprile-giugno 2012
  9. «Sistema dell’iper-realismo trascendentale», presentazione a Markus Gabriel, Il senso dell’esistenza. Per un nuovo realismo ontologico, tr. it. di Simone L. Maestrone, Carocci, Roma 2012.
  10. Ivi, p. 10.
  11. Il mondo esterno, Bompiani, Milano 2001.
  12. L’interdefinibilità di ontologia ed etica è uno dei temi centrali presi in esame nei testi confluiti in Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Jacques Derrida, Bompiani, Milano 2010. In uno dei quali («Una recensione vera») si dimostra come l’irrealismo possa minare i presupposti dell’etica. In forma chiastica Ferraris chiude qui il suo discorso: «un’etica senza mondo è la migliore premessa per un mondo senza etica». (Ivi, p. 78).
  13. Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari 2009.
  14. «Esistere è resistere», cit., p. 155.
  15. Ivi, p. 164.
  16. In Camera oscura, Garzanti, Milano 1992, p. 71. Benché qui Paolo Ruffilli si riferisca a se stesso, in versi comunque assumibili a esemplificare la sua più pregnante accezione di “realtà”.
  17. Il rimando in nota – nelle righe conclusive di «Esistere è resistere» – al suo primo lavoro (Differenze. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, Multhipla, Milano 1981. Nuova edizione, Albo Versorio, Milano 2007), ci riconduce all’inizio, alla serrata riflessione qui condotta da Ferraris sulla concezione derridiana dell’essere come «scarto» e come «differire», come qualcosa che – diversamente da quanto supposto dalla filosofia lacaniana – eccede, e che pertanto «non manca di nulla» (Differenze, p. 36). Successivamente, com’è noto, la tesi di Derrida secondo cui «nulla esiste al di fuori del testo» avrà una funzione determinante nella costruzione dell’ontologia sociale di Ferraris, fino a promuovere la rifondante correctio in senso ricostruttivo per cui «nulla di sociale esiste al di fuori del testo»: questo, in virtù di registrazioni che sottendono una vita sociale che rammenta, cataloga e archivia. L’iscrizione è la condizione della possibilità degli oggetti sociali di fronte all’evanescenza di una comunicazione costitutivamente scevra di memoria. Ma soprattutto precedono l’intenzionalità. Se si assume la dimensione della différance, dove la différence al gerundio comporta l’immissione del tempo in cui l’atto del rimandare – e con esso il relazionarsi differenziale delle registrazioni – ha luogo, la documentalizzazione della vita acquisisce tutte le caratteristiche per non esaurirsi con noi: il nesso tra scrittura e tempo è la registrazione, la cui peculiarità, appunto il differire, è in relazione al futuro, alla condizione postuma.
  18. «Nuovo realismo e vecchia realtà» (di Mario De Caro e Maurizio Ferraris), in Bentornata realtà, cit. p. XI. L’epifonema montaliano – è superfluo ricordarlo – ha come antefatto l’onnicomprensiva negazione crepuscolare, il cui archetipo è in Emilio Praga («Tanta vergogna mi mordeva il cuore / d’esser poeta», Rivolta, in Poesie, Treves, Milano 1922, p. 225). Tuttavia, il crepuscolare, litotico (in quanto si afferma ciò che si sta negando) «io non sono un poeta» doveva attendere vent’anni almeno affinché il rilievo della negazione conseguisse consapevolezza critica e quindi una plausibilità ontologica. La negazione nuovorealista, in qualità di reazione forte a una tabe filosofica che ha talora lambito l’irrisolutezza del pensiero, è al contrario una premessa già ampiamente accreditata per poter tornare a dire: “sono un filosofo”.
  19. Che ha più la connotazione di una glossa retrospettiva, nella misura in cui per gli ermetici la poesia – e per l’ermetismo critico l’interpretazione della poesia – sarà proprio “quello che non sappiamo”. Secondo i paradigmi dell’ermetismo critico l’atto interpretativo è tensione a una verità che resta inaccessibile agli strumenti umani, ed è sintomatico come esso finisca spesso con il risolversi in scritture in margine, in riscritture.

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