Bibliomanie

Ricordi di un amore
di , numero 35, gennaio/aprile2014, Letture e Recensioni,

Come citare questo articolo:
Veronica Morgera, Ricordi di un amore, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 35, no. 13, gennaio/aprile2014

«Papà, mi racconti ancora la tua storia?»
«Ancora? Ma sarà la decima volta che la ascolti!» mia figlia mi tira per la manica della giacca invitandomi a sedere sul divano accanto a lei.
«Ti prego, mi piace tanto» continua con la sua vocina e quegli occhi da cerbiatta che ogni volta m’impediscono di dirle di no.
«E va bene! Però questa volta comincerò da quella famosa estate…»

Erano le due del pomeriggio di quel caldo ventitré giugno che aspettavo con ansia, e finalmente era arrivato il momento di partire.
Quello era il giorno in cui avrei lasciato a casa i miei problemi e mi sarei portato dietro uno zaino pieno di allegria.
Mi guardai allo specchio e cercai di sistemare i miei capelli ricci in modo che andassero tutti nella stessa direzione, anche se sapevo per certo che in ogni caso, per quanto avessi potuto provarci, non sarebbero mai stati fermi nel modo in cui li volevo io.
Non c’era niente che mi piacesse di me. A partire dal mio nome. Per non parlare del il mio fisico, dei miei occhi castani, del mio sorriso fin troppo ampio per i miei gusti, delle terribili fossette che mi si formavano sulle guance quando sorridevo. Mia sorella Sara invece le adorava, ed io mi chiedevo sempre come facesse.
«Gabriele, scendi! Dobbiamo andare!» sentii urlare da mia madre dal piano inferiore.
Non risposi. Guardai per l’ultima volta la persona riflessa sulla superficie cristallina di fronte a me, poi mi voltai e uscii dalla stanza, consapevole del fatto che più mi guardavo per cercare di eliminare ciò che odiavo, più avrei trovato difetti e non ci sarei riuscito.
«Oh, eccoti. Sei sempre l’ultimo! Hai preso tutto?» mi domandò mia madre indaffarata a sistemare le ultime cose prima della partenza.
«Sì, mamma» risposi usando il mio solito tono di voce piatto e privo di emozioni.
L’unico motivo per cui, a diciassette anni, continuavo ad andare in vacanza con i miei genitori, tra l’altro sempre nello stesso posto, era Arianna.
L’avevo conosciuta al Sant’Angelo Village quattro anni prima.
Io andavo lì già da due estati e mi ero fatto parecchi amici. Poi, un giorno, appena mi vide arrivare, Andrea mi corse incontro e mi disse che Martina, una delle ragazze del gruppo, si era portata con sé un’amica: Arianna.
Lei non ebbe problemi. Era bella, divertente e con un sorriso mozzafiato.
Ma non uno di quelli comuni, di quelli facili da immaginare. Lei aveva quell’infinità di sfumature particolari dietro al suo sorriso di cui tutti scrivono ma che nessuno ha mai visto davvero. Nessuno tranne me, ovviamente.
Aveva i capelli castani e due occhi che mi ricordavano tanto la primavera: verdi, come le foglie che crescono dopo un lungo inverno.
Ecco, forse era così che potevo definirla. Arianna era la primavera del mondo.
Passai un periodo terribile quell’anno. Persi completamente la voglia di studiare e fui bocciato. I miei genitori s’infuriarono e mi portarono in vacanza con loro solo perché non avevano nessun altro a cui affidarmi e di certo non mi avrebbero lasciato a casa da solo. In più, come se non bastasse, la ragazza con cui stavo da poche settimane, Margherita, mi lasciò per un altro, che in seguito scoprii essere il mio migliore amico. Persi due persone a cui volevo bene in un colpo solo. Quando conobbi Arianna, mi dimenticai di tutti i miei problemi, e da quel momento, ogni volta che era vicina a me, fu sempre così. Quando ero con lei e con gli altri del gruppo, al Sant’Angelo, io ero un’altra persona. Non quella che si guardava allo specchio e si faceva mille paranoie, ma quella spensierata e felice che si godeva l’estate con i suoi amici.
Sentii il clacson dell’Alfa Romeo di mio padre e mi affrettai a salire in macchina accanto a Sara sui sedili posteriori.
Per fortuna il viaggio da Milano a Cavallino Treporti, in provincia di Venezia, non era tanto lungo. Avrei dovuto combattere contro la noia per circa tre ore e mezzo, ma sarei stato aiutato dal mio fedele compagno: l’iPod.
La macchina partì, io m’infilai le cuffie nelle orecchie e cominciai già ad immaginare come sarebbe stato rivedere il mio gruppo di matti.
Lì avevano tutti la mia stessa età. Solo mia sorella e due sue amiche erano di tre anni più grandi.
Arianna ed io eravamo migliori amici da sempre; io la adoravo.
Una volta mi confessò di esserle sembrato da subito il più simpatico di tutti. Infatti, quando eravamo lì, stava sempre con me.
Ero ansioso di rivederla. L’estate era l’unico momento in cui ciò era possibile, perché durante il resto dell’anno non ci riuscivamo: lei abitava a Venezia.
Il viaggio trascorse tranquillo finché il mio iPod non si scaricò – ero stato uno stupido a non metterlo a caricare durante la mattinata – e cominciai a tartassare tutti quanti chiedendo in continuazione dove fossimo e quanto mancasse.
«Abbiamo già superato Venezia, per fortuna» rispose dopo un po’ mia sorella con tono seccato.
La ringraziai e tornai a guardare fuori dal finestrino.
Passò ancora un po’ di tempo prima che scorgessi l’insegna del Sant’Angelo Village e sul mio viso comparve immediatamente un enorme sorriso.
Raggiungemmo il nostro solito appartamento passando di fianco alla meravigliosa piscina caratteristica di quel luogo, assieme al verde che si estendeva tutt’intorno a essa.
Il posto in cui alloggiavamo non era male. Non era grande quanto la casa di Milano, ma perlomeno avevo sempre una camera tutta per me.
Aiutai i miei genitori a scaricare la macchina, portai le mie cose in camera e corsi fuori dopo aver detto frettolosamente a mia madre che sarei andato da Giacomo e che sarei tornato per cena.
Arrivai all’appartamento di Giacomo e bussai alla porta che, dopo poco, si aprì, lasciando spazio al ragazzo alto, moro e con gli occhi azzurri che non appena mi vide sembrò illuminarsi di gioia.
«Gabri!» esclamò per poi abbracciarmi forte.
«Ehi, Jack!» ricambiai il saluto.
«Cavolo, ma non mi avevi detto che saresti arrivato così presto! Come stai?» domandò dandomi un colpo con la mano sul braccio sinistro.
«Me la cavo. Tu?»
«Alla grande» rispose entusiasta. «Entri?»
«Volentieri» dissi per poi accomodarmi nella casa che, ormai, ricordavo fin troppo bene.
Lui era stato il primo che conobbi quando cominciai ad andare al Sant’Angelo, sei anni prima.
Purtroppo era di Roma e durante l’anno non lo vedevo mai, ma quando eravamo lì, non c’era un giorno in cui stavamo lontani. Era il mio migliore amico, se così si poteva dire.
Sua madre, Laura, mi salutò con un bacio sulla guancia, ed io le sorrisi.
Ho spesso creduto di volere più bene a lei che alla mia.
Jack ed io ci buttammo sul letto in camera sua e cominciammo a parlare di tutto quello che ci era successo durante quell’anno e lui mi disse di essersi fidanzato con una certa Alice. Lo avrebbe raggiunto la settimana successiva perché per quella aveva trovato da lavorare in un centro estivo. Mi fece anche vedere alcune foto in cui erano insieme e dovevo ammettere che erano davvero carini.
Ci facemmo parecchie risate; mi era mancato moltissimo.
Ad un tratto gli suonò il telefono e dovette rispondere a un messaggio, così io ne approfittai per chiedere: «Ma Arianna?»
Lui aspettò di finire di scrivere e poi mi rispose. «È arrivata l’altro ieri. Ci sono già tutti, mancavi solo tu! Comunque stamattina l’ho incontrata in piscina e mi ha chiesto di te. Le ho detto che non sapevo a che ora saresti arrivato, perciò forse dovresti andare a trovarla…!» disse sorridendo e poi mi diede un pugno sul braccio.
«Sì, forse sì. A quando il ritrovo con gli altri?» domandai alzandomi dal letto.
«Domani mattina alla zona del bar, sotto il tendone.»
«Perfetto, ci sarò. Ora vado, Jack. Ci vediamo domani!» si alzò dal letto anche lui e mi salutò battendomi il cinque e poi il pugno come nostro solito fare.
«Alle nove! Non tardare! A domani.»
Annuii e uscii da casa dirigendomi verso quella di Arianna, che era un po’ più lontana rispetto alle nostre, ma non ebbi bisogno di arrivare fino lì poiché la vidi seduta al tavolino della gelateria che parlava e rideva con Martina e un’altra ragazza che non conoscevo.
Mi dava le spalle, ma ero comunque certo che fosse lei. La sua risata era inconfondibile, come il suo modo strano di stare seduta sulla sedia e la tipica treccia di lato che si faceva quando non le andava né di tenere i lunghi capelli sciolti né di fare la coda di cavallo.
Così, mi avvicinai cautamente, senza fare rumore.
Martina mi vide, ma io le feci segno di stare zitta, e non appena fui dietro ad Arianna, le coprii gli occhi con le mani.
Sobbalzò quando sentì il mio tocco e a me venne da ridere, ma cercai di contenermi.
«Ma che…? Chi sei?» domandò confusa cercando di liberarsi dalla mia presa.
Sorrisi, ma non risposi subito. Mi piegai sulle ginocchia per arrivare alla sua altezza e mi avvicinai al suo orecchio.
«Avanti, mi dici chi diavolo sei?» continuò.
«Uno sconosciuto che desidera terribilmente un tuo abbraccio» le sussurrai.
Capii che aveva indovinato chi fossi perché emise un gridolino di gioia, così le tolsi le mani dagli occhi e lei si girò di scatto verso di me con il suo solito sorriso meraviglioso, che sembrava essere così bello solo quando era rivolto a me.
«Gabri!» quasi urlò per la felicità.
Mi alzai in piedi e lei mi saltò in braccio stringendomi fortissimo.
Mi sentii… Strano. Non capivo esattamente cosa mi stesse succedendo. Accadde tutto in fretta; il suo sorriso, il mio nome pronunciato dalle sue labbra e la voce già da donna, il contatto del suo corpo col mio, le sue braccia che mi stringevano. Provai una sensazione strana allo stomaco e mi sentii terribilmente bene.
La strinsi forte anch’io e chiusi gli occhi inspirando a fondo il suo solito delizioso profumo di menta.
«Ari» sussurrai. Mi aveva tolto il respiro; facevo quasi fatica anche a parlare.
Avrei dovuto essere abituato a quella sensazione, mi era capitato spesso di abbracciarla, ma, chissà perché, ogni volta che ci rivedevamo era come se fosse sempre la prima.
«Oddio Gabri non ci credo, sei qui! Mi sei mancato da morire» disse lei scendendo dalle mie braccia ma tenendo comunque le sue ben salde dietro al mio collo.
Portai le mie dietro la sua schiena e le strinsi con altrettanta forza.
«Anche tu Ari, non immagini quanto» dissi senza riuscire a smettere di sorridere.
Lei era leggermente più bassa di me e col viso arrivava all’incavo del mio collo.
Sentii che mi diede un bacio lì, e poi uno sulla guancia.
Lei si allontanò leggermente e mi guardò dall’alto in basso.
«Ma è possibile che tu sia diventato ancora più alto?!» disse sbuffando e incrociando le braccia al petto.
Io scoppiai a ridere. Effettivamente avevo guadagnato ancora qualche centimetro.
«Possibile che i tuoi capelli siano sempre più lunghi?!» chiesi io, imitando la sua domanda.
Lei sorrise e annuì. «Sì, quello sì» disse poi.
Vidi Martina venirmi incontro con molto meno entusiasmo di Arianna e salutarmi dandomi un bacio sulla guancia, che ricambiai affettuosamente.
Mi presentò anche la sua amica, Caterina. O Cristina. O forse era Claudia?
Scrollai le spalle e, poiché non mi ricordavo già più, mi resi conto di non aver prestato per niente attenzione.
«Be’ ragazzi, Chiara ed io dobbiamo andare, tra poco sarà pronta la cena» intervenne Martina spezzando quel momento di silenzio imbarazzante nel quale mi persi a guardare Arianna che continuava a sorridermi.
Ah, ecco, era Chiara. Be’, sì, almeno con l’iniziale ci avevo preso.
Ringraziai mentalmente Martina mentre la salutavo con un abbraccio.
«A domani!» ci salutarono lei e la sua amica, e noi ricambiammo allo stesso modo.
Non appena voltarono l’angolo, mi girai e guardai Arianna.
La squadrai per bene e notai solo in quel momento quanto fosse cambiata dall’ultima volta che l’avevo vista.
Indossava una canottiera aderente e un paio di pantaloncini molto corti che facevano risaltare le sue gambe magre e slanciate.
Aveva un corpo da donna ed era ancora più bella di come la ricordavo.
«Hai fatto palestra?» mi chiese lei d’un tratto avvicinandosi a me e poggiando una mano sul mio braccio, poi sul mio petto e poi mi tirò un leggero pugno all’altezza degli addominali, probabilmente per controllare se li avessi sviluppati o no.
«Sì, ma purtroppo non ho ottenuto il risultato che desideravo» ammisi passandomi una mano sul punto che aveva appena colpito.
«A me sembra che tu stia molto bene così» disse sorridendomi.
Ricambiai il sorriso senza sapere esattamente cosa rispondere.
«Ci sei domani mattina?» domandai per cambiare discorso.
«Come potrei mancare?!» disse piegando la testa verso destra.
«Giusto, giusto!» commentai annuendo.
Mi offrii di accompagnarla a casa e lei accettò volentieri. Mentre camminavamo, chiacchierammo ancora un po’ e quando arrivammo, lei mi ringraziò e mi salutò con un forte bacio sulla guancia per poi sparire oltre la porta d’ingresso lasciando il posto a sua madre, Manuela.
Erano quasi le otto, ma il sole stava appena tramontando.
Mi piaceva l’estate, il caldo, e tutto quello che comportava. Il villaggio era animato fino a tarda sera e c’era sempre aria di festa in quel posto.
Quando arrivai al mio alloggio, mia madre stava appena servendo la cena.
Mi sedetti a tavola, mangiai, e poi andai in camera mia.
Puntai la sveglia sulle otto e mi misi subito a dormire.

La mattina seguente i ripetuti squilli della sveglia m’imposero di aprire gli occhi e di alzarmi.
Mi preparai in fretta. Faceva caldo, e il bar era vicino alla piscina, quindi decisi di mettermi solo i pantaloncini del costume, così se gli altri avessero voluto fare qualche tuffo, io non avrei avuto problemi.
Infilai le infradito, scossi i capelli con una mano come mio solito e uscii di casa.
Quando arrivai al bar, erano già tutti lì che ridevano e scherzavano insieme, e appena mi videro arrivare mi corsero incontro.
«Gabri sei qui!»
«Gabri che bello rivederti!»
«Ciao vecchio!»
«Sei arrivato!» sentii dire, ma ero così frastornato da tutte quelle persone che non riuscii a riconoscere le voci.
Avevo una decina di persone addosso: c’era chi mi abbracciava, chi mi scompigliava i capelli, e chi mi dava delle pacche sulle spalle.
«Ciao anche a voi, ragazzi!» urlai quando fui meno sommerso di gente e riuscii a parlare.
Uno ad uno si staccarono e li riconobbi tutti: Andrea, Jack, Alessia, Nicolò, Greta, Vanessa, Stefano, Lorenzo, Leonardo, Martina, e naturalmente Arianna.
Li salutai uno per volta e poi demmo inizio a quella giornata con un drink analcolico che ci offrì Virginia.
La situazione era ancora poco movimentata, così mi venne un’idea: guardai i ragazzi del gruppo assicurandomi di avere la loro attenzione, poi voltai lo sguardo verso le ragazze, e poi alla piscina. Ci scambiammo un’occhiata d’intesa, e a un mio cenno della testa, ognuno prese in braccio una ragazza e le buttammo tutte in acqua, per poi tuffarci anche noi.
Io avevo preso Arianna e quando fui in acqua anch’io, mi accorsi che aveva assunto la sua tipica espressione da finta offesa, così la raggiunsi, ma non appena lo feci, lei con un gesto veloce mi spinse la testa sott’acqua e per qualche secondo m’impedì di tornare in superficie, poi lasciò la presa ed io riemersi.
La guardai assottigliando gli occhi e lei sorrise beffarda.
«Dovevo vendicarmi» disse come scusa. Io scossi la testa ed entrambi scoppiammo a ridere.
La giornata passò così, tra scherzi e risate, ed io mi sentivo incredibilmente bene.
Non mi allontanai da Arianna neanche per un secondo, o quando involontariamente lo feci, fu lei poi a raggiungermi.
Credevo di non essere mai stato così contento.
Dopo aver passato un paio d’ore in acqua, uscimmo e ci prendemmo del tempo per rilassarci e asciugarci sulle sedie a sdraio, poi andammo nell’area verde dietro la piscina e improvvisammo un campo da calcetto delimitando le due porte con le nostre maglie e gli zaini.
Parteciparono anche le ragazze e dovevo ammettere che erano brave.
Io ero il capitano di una squadra e Leo dell’altra. Arianna l’aveva scelta lui, e ad un certo punto mi trovai a doverla scartare, ma mi guardò e mi sorrise in quel modo ammaliante che solo lei conosceva e mi lasciai fregare la palla.
In ogni caso, vincemmo noi.

Ero al Sant’Angelo da una settimana, ormai, e non c’era stato un giorno in cui io mi fossi annoiato.
Ero stato sempre con i ragazzi e quando veniva sera, che loro andavano via, Arianna tutte le volte restava un altro po’ con me.
Non sapevo dire perché, ma quella era la parte migliore di ogni giornata, anche se magari restavamo in silenzio a guardare le stelle sdraiati sui lettini della piscina.
Anche se non faceva niente, lei riusciva comunque a farmi sentire felice.
Una sera, quando tornai a casa, Sara mi guardò mi disse: «O sei ubriaco, o sei innamorato.»
Sosteneva che il tipico “sorriso da ebete” compariva solo in uno dei due casi, e poiché non puzzavo d’alcol, era molto più probabile la seconda opzione.
Da quella sera cominciai a rifletterci ma non riuscii ad arrivare a nessuna conclusione.
Ero così abituato a vedere Arianna solo come un’amica e a volerle bene appunto per quello, che non mi ero mai posto il problema che il mio cercarla in continuazione e sentirmi al settimo cielo quando stavo con lei, potesse significare che provavo qualcosa in più di una semplice amicizia.
Anche se non volevo dare ragione a mia sorella, quei pensieri continuarono a frullarmi in testa per parecchio e quando lei era vicina a me, non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso e pensare alle parole di Sara.
Mi trovavo sul mio letto con gli occhi chiusi e le cuffie nelle orecchie quando qualcuno mi scosse bruscamente.
Fui costretto ad abbandonare il mio stato di dormiveglia e aprii gli occhi di scatto trovandomi di fronte la figura del mio migliore amico.
«Cosa diavolo vuoi Jack?» domandai scorbutico tirandogli un cuscino per avermi disturbato.
Lui parve non fare caso al mio gesto e si sedette sul letto.
«Allora, mentre tu riposavi, sono successe alcune cose» cominciò a dire, e non seppi se allarmarmi o meno, così mi limitai a stare in silenzio e ascoltare. «Alice è finalmente arrivata e te la devo fare conoscere, Andrea e Vanessa si sono appena fidanzati, ho scoperto che Nico ha una cotta segreta per tua sorella, domani all’ora di cena c’è il falò in spiaggia e subito dopo la serata cabaret» disse tutto d’un fiato.
Mi ci vollero un paio di minuti per rielaborare quello che mi aveva appena detto.
«Non so se essere più preoccupato per la storia di Nicolò o per il cabaret di domani» affermai mentre guardavo Jack, ancora intontito dalle varie informazioni ricevute.
«Oh ma smettila, non devi preoccuparti per nessuno dei due!» mi disse lui dandomi un colpo sul braccio. «Comunque gli altri hanno intenzione di esibirsi per il cabaret. Stanno già provando una scenetta e ci servi anche tu» continuò.
«Te l’ho detto che dovevo preoccuparmi!» dissi alzandomi da letto e lasciando cadere su di esso l’iPod e le cuffie.
«Dai, vieni a vedere le prove almeno» cercò di convincermi lui.
«Vengo solo a vedere» sbuffai guardandolo male.
Lui sorrise e mi trascinò fuori da casa.
Arrivammo alla piscina che a quell’ora era deserta, e vidi tutti intenti a recitare.
Poi scorsi una figura minuta seduta su una sedia e quando la riconobbi, la raggiunsi.
«E tu perché non sei lì a recitare?» chiesi sedendomi a terra accanto ad Arianna.
«Oh, per carità, tu conosci le mie doti da attrice, se mi mettessi a recitare sarei imbarazzante e loro finirebbero per fare una figuraccia» rispose stringendosi nelle spalle.
Risi e scossi la testa, senza aggiungere altro.
La nostra conversazione finì lì e continuammo a guardare gli altri concentrati a immedesimarsi ognuno nella propria parte.
Dovevo ammettere, però, che erano davvero buffi. Almeno avrebbero fatto ridere di sicuro!
Alla fine riuscirono a coinvolgere anche Arianna e me, ma per fortuna eravamo solo comparse.
Verso sera andai a casa di Jack, come mi aveva chiesto, e mi presentò Alice, una ragazza davvero carina e con la testa sulle spalle.
Lui sembrava un altro con lei. La guardava con gli occhi di chi è nel bel mezzo del deserto e dopo interminabili giorni di cammino scorge finalmente l’acqua.
Di chi si è perso in un tunnel buio e uno spiraglio di luce gli indica la via corretta da seguire, quella che porta alla salvezza.
Ero molto contento per lui.
Dopo un’oretta di chiacchiere decisi che era meglio tornare a casa, in modo da lasciarli soli e non fare il terzo incomodo.
Il giorno dopo arrivò fin troppo in fretta ed io mi sentii spaesato per il sogno che avevo fatto quella notte.
Sognai Arianna. Fu la prima volta, non mi era mai capitato.
Non riuscii a ricordarmi esattamente cosa fosse successo, ma quello che non avrei potuto dimenticare era che a un certo punto la baciavo, e avrei potuto giurare di aver sentito il profumo di menta piperita del suo bagnoschiuma in quell’esatto momento. Un profumo dolce ma intenso, che la caratterizzava e non poteva essere di nessun altro tranne che suo.
Ero confuso. Non sapevo cosa potesse stare a significare. Forse niente, forse tutto.
Una volta lessi da qualche parte che nei sogni spesso viene fuori ciò che quando siamo svegli rimane dentro il nostro inconscio, cose che magari vogliamo ma che abbiamo paura di ammettere per via delle conseguenze che potrebbero avere, o cose che nemmeno sappiamo di desiderare, di pensare, di credere, di volere. In altri sogni invece sono presenti cose assurde che non hanno un senso.
E Arianna cos’era? Una meta irraggiungibile o un sogno consolatorio?
Un mio desiderio nascosto o un’immagine lì per caso?
Scossi la testa. Non sapevo darmi una risposta a nessuna delle domande, così optai per lasciar perdere e credere che fosse stato solo uno dei tanti sogni che avrei potuto fare.
Quella mattina ci saremmo dovuti incontrare tutti quanti in una saletta del bar che Virginia ci aveva lasciato libera per fare le prove dello spettacolo.
Non avevo nessuna intenzione di recitare e non lo avrei fatto, anche se loro ancora non lo sapevano, ma volevo accontentarli comunque almeno nel partecipare alle prove.
Arrivai puntuale, alle undici, e c’erano tutti tranne Arianna.
Mi stavo guardando attorno per capire se non l’avessi vista o se proprio non ci fosse, quando Stefano mi passò di fianco dicendomi: «Tranquillo, arriva, è solo un po’ in ritardo perché stamattina doveva fare da babysitter a sua sorella.»
Gli sorrisi in segno di gratitudine, lui mi strizzò l’occhio e passò avanti.
Mi sedetti su una sedia e cominciai a giocare al cellulare, mentre gli altri provavano e riprovavano.
Quando toccava a me, mi alzavo, facevo la mia parte, e me ne tornavo a sedere.
Ad un tratto vidi entrare Arianna che era affannata probabilmente da una corsa e mi sentii sollevato. Il mio atteggiamento cambiò e divenne tutto più divertente con lei vicino.
Le ore passarono senza che neanche me ne accorgessi e quando fu pomeriggio inoltrato, arrivò il momento dei preparativi.
Vidi Arianna accanto a me che si contorceva le dita delle mani e che quasi tremava.
«Tutto bene Ari?» le chiesi.
«No, per niente. Non voglio fare questa cosa, mi sento a disagio, e sono certa che farei fare brutta figura a tutti» mi rispose.
«Scappiamo» dissi dopo un attimo di silenzio in cui cercai di riflettere ma, come al solito, agii d’istinto. Lei girò di scatto la testa verso di me con sguardo perplesso e confuso.
«Cosa?!» domandò corrugando le sopracciglia.
«Scappiamo! A te non va di fare questa cosa, a me neanche, e poi siamo abbastanza inutili nella scenetta, quindi se anche andiamo via nessuno se ne accorge!»
«Ma gli altri ci ammazzano se glielo diciamo.»
«E chi ha detto che lo devono sapere?»
«Tu sei pazzo» disse sorridendomi.
Senza pensarci due volte le afferrai il polso e cominciai a correre trascinandola con me.
Quando fummo abbastanza lontani da tutta quella confusione rallentammo fino a fermarci.
Rimanemmo qualche secondo in silenzio e poi ci guardammo negli occhi e scoppiammo in una sonora risata.
Mi lasciai cadere sulla sabbia poco prima del bagnasciuga, dove le onde s’infrangevano producendo quel soave suono che cullava i miei pensieri confusi.
Arianna si sedette a gambe incrociate accanto a me e si mise a fissare il mare proprio come facevo io.
«Quanto ancora resterai qui?» mi domandò dopo un po’.
Avrei tanto voluto evitare di rispondere. Mancava poco, troppo poco.
«Due settimane.»
«Due settimane?! Perché così poco?» chiese confusa voltandosi verso di me.
«Perché sono stato rimandato in letteratura e mia madre vuole che torni a casa prima per studiare» ammisi.
«In letteratura? Ma come si fa ad essere rimandati in letteratura? È meravigliosa!»
«Non per me.»
«Perché?»
«La mia professoressa, la Venturelli, non la sa spiegare, e poi perché letteratura non mi piace. Ci sono troppe persone che impazziscono, muoiono o dedicano la loro vita a…» non riuscii a continuare la frase.
«A…?» mi sollecitò.
«All’amore.»
«Oh. E… e tu cosa ne pensi?» mi domandò.
“Cosa le dico?” Pensai. Io e lei non paravamo mai di queste cose.
«Io in realtà ho paura» confessai.
«Paura? Di cosa?»
«Di diventare pazzo, di non riuscire a sopravvivere. Tutti parlando dell’amore come un sentimento che ti fa scoppiare il cuore, ma se mi scoppia il cuore io muoio. Come si fa?»
Arianna si mise a ridere, e io non capivo cosa avessi detto di così buffo.
«Vedi che lo interpreti male? L’amore non ti uccide. Ti aiuta a vivere meglio.»
«E come?»
«Beh, quando hai vicino la persona che ti piace, stai bene e sei sempre felice, ad esempio.»
«A me non sembra così» le dissi.
«Perché?»
«Perché quando le sto vicino, mi fa male lo stomaco e mi viene la nausea.»
«Queste cose dovresti sapere perché succedono: hai già fatto l’amore con altre ragazze» mi disse. Non mi guardava più negli occhi.
«Sì…- non credevo alle mie orecchie, Arianna aveva detto spudoratamente “fare l’amore” – ma le conseguenze non sono mai state il sentimento che sto provando adesso…»
«Allora deve piacerti proprio tanto…questa ragazza…» disse. Sembrava delusa, mentre a me divenne tutto più chiaro.
Era come se per tanto tempo avessi avuto la nebbia davanti agli occhi, e improvvisamente si fosse dissolta tutta d’un tratto.
In quel momento capii le parole di Sara e mi resi conto che aveva sempre avuto ragione.
Mi resi conto che il motivo per cui cambiavo quando Arianna era nei paraggi, era proprio lei.
Il motivo per cui stavo bene era lei.
«Sì… tanto» ammisi per la prima volta, più a me stesso che a lei.
Ma non potevo dirle che lei la causa di ciò. Avrei rovinato tutto.
Arianna mi guardò. Sembrava che stesse aspettando che io dicessi qualcos’altro, ma io davvero non sapevo da dove cominciare un altro argomento.
L’unica cosa che avrei voluto chiederle era se anche lei provasse le stesse cose quando stava con me. Ma non volevo, perché se avesse detto di no il nostro rapporto sarebbe cambiato e io non potevo sopportare l’idea di perderla.
«Tu di cosa hai paura?» le chiesi quasi senza rendermene conto.
Era un’altra delle domande che mi frullavano per la testa da tempo, perché ai miei occhi lei era sempre stata quella invincibile, forte, e non capivo come facesse.
Lei ci pensò un po’ poi rispose: «Di tante cose.»
Mi sorprese.
«Per esempio?»
«Per esempio… di rimanere sola.»
«Ma tu non rimarrai mai sola. Hai tua sorella, la tua famiglia, hai tantissimi amici» feci una pausa «E poi hai me.»
Lei sorrise, ma continuò a non guardarmi.
«Mi prometti una cosa?» mi chiese.
«Quello che vuoi» dissi ancor prima di pensarci veramente e senza tener conto che avrebbe potuto chiedermi qualsiasi cosa, ed io l’avrei dovuta mantenere.
«Non sono perfetta, lo so. Sbaglio in continuazione, spesso sono un’amica terribile, me ne rendo conto. Sì, ho molti amici, è vero, ma a me la loro amicizia interessa relativamente. A me importa che tu ci sia sempre. Anche quando meno me lo merito. Soprattutto quando meno me lo merito. Quindi,» fece un respiro profondo e mi guardò negli occhi «quello che ti chiedo è di restare con me. Per sempre. Per favore.»
Rimasi senza parole.
Non immaginavo che si sentisse così.
Non credevo di essere così importante e fondamentale per lei.
«Sarò sempre al tuo fianco, sarò con te ogni volta che vorrai. Promesso.» Ero sincero. Mi era così facile prometterle ciò, perché io ci sarei stato davvero per sempre per lei. Le parole mi uscivano dalla bocca spontaneamente, ma quando volevo dirle quello che provavo, mi si bloccavano in gola.
«Grazie, Gabri. Sei unico» mi disse, e io avrei voluto piangere.
Mi abbracciò, e io la strinsi a me più che potei.
“Sei unico” ripetei tra me e me. “Allora perché non mi ami?”
Decisi che non potevo più sopportare l’idea di tenermi ancora dentro quella domanda così raccolsi quel po’ di coraggio che avevo e le parlai.
«Ari, hai presente quello che ti ho detto prima? Ecco, vorrei parlarti di quella ragazza, se a te va di ascoltare» le dissi.
«Ma certo.»
«Sai, è bellissima. Posso sembrare banale ma è l’unico aggettivo che trovo per descriverla almeno un pochino; uno adatto a lei ancora non lo hanno inventato. Ha i capelli castani, gli occhi verdi, un viso adorabile e il sorriso più bello che abbia mai visto. Io e lei ci conosciamo benissimo. Saranno quattro anni tra due giorni. Credo sia stato il destino, se mai esiste, a farmela incontrare. Canottiera e pantaloncini, capelli sciolti, un po’ di timidezza e una buona quantità di simpatia: è così che mi si è presentata la prima volta. È così che è entrata nella mia testa e da lì non ne è più uscita» mi fermai un attimo e mi voltai verso di lei.
Mi accorsi che aveva gli occhi lucidi e intuii che avesse capito.
«Ci eri già arrivata, vero? Molto prima di me, molto prima di chiunque altro. Tu lo sapevi da subito. Non l’ho nascosto di proposito, non me ne rendevo conto, ma ora che l’ho capito non potevo tenermelo dentro ancora. Insomma, io credo di amarti Arianna. Anzi, togli il “credo”. Io ti amo Arianna.»
Lei non disse niente. Non parlò e non si mosse per qualche momento che a me sembrò infinito senza staccare gli occhi dai miei. Quella situazione era terribile: morivo dalla voglia di sapere se stesse facendo così perché ricambiava o perché le dispiaceva dirmi di no, e allo stesso tempo ero terrorizzato dalla risposta.
Ad un certo punto, senza che io me lo aspettassi, gettò le braccia attorno al mio collo e mi baciò.
Fu il bacio più bello che ricevetti in tutta la mia vita. Fu così spontaneo, desiderato, come se entrambi non avessimo aspettato altro che il momento in cui ci saremmo mostrati liberamente che cosa realmente eravamo l’uno per l’altra.
Non mi servivano altre parole, aveva già detto tutto, ma nonostante ciò aggiunse qualcosa che iniettò ancora più emozione nel mio corpo già in fibrillazione: «Ti amo anche io Gabriele.»
Tornò a baciarmi e si fermò solo un altro momento per dire: «È buffo, sai? Perché anche per me è così da sempre.»
Mi sentii uno stupido. Mi maledissi per non aver avuto il coraggio di farlo prima, per non essermi reso conto che il fatto che fosse palese a tutti tranne che a me era molto strano e che non potevano essere gli altri quelli a prendermi in giro, ma io stesso a negarmi una cosa tanto bella per paura di non meritarla.
Invece lei da quel momento era mia e lo sapevo, ma ne volevo la conferma un’altra volta.
«Quindi, insomma… ti andrebbe di essere la mia ragazza?» domandai ad un certo punto guardandola dritto negli occhi.
«Ma davvero? Ma si usa ancora questo modo dire? Ma come parli? Sembri tuo padre! Okay, solo perché lo traduco mentalmente con l’espressione: vuoi una storia con me?»
Mi sentivo un troglodita.
Restammo lì sulla spiaggia a parlare ancora per un po’, fin quando non fummo interrotti dagli altri ragazzi del nostro gruppo che ce ne dissero di tutti i colori per essere scappati via e averli fatti correre in lungo e in largo per trovarci. Quando però gli demmo la notizia ne furono entusiasti e lasciarono perdere i rimproveri.

Da quel giorno tutto cambiò, io compreso. Non ero più lo stesso di quando avevo messo piede lì, quel ventitré giugno. Ero un ragazzo nuovo, uno migliore, e tutto grazie a lei.
Ma le due settimane stavano per giungere al termine e il pensiero di doverla lasciare e non poterla rivedere per un anno intero mi uccideva.
Passammo i giorni restanti sempre insieme e mai mi divertii così tanto. Anche lei era diversa: era ancora più bella sia dentro che fuori. La vedevo più a suo agio, più tranquilla e felice.
La vedevo sempre più mia.
Il penultimo giorno eravamo appena usciti da un bagno in piscina con gli altri e ci stendemmo su una sdraio uno accanto all’altra.
«Devi davvero andare via domani?» mi chiese ad un certo punto.
«Sì, Ari, mi dispiace tanto…»
«Promettimi che studierai e passerai quell’esame.»
«Te lo prometto.»
«E anche che studierai di più durante l’anno in modo da non essere rimandato e da stare di più qui.»
«Te lo prometto. Ma io non posso aspettare l’estate prossima per rivederti» dissi in tono triste.
«Devi. Dobbiamo. Lo sai che non c’è altro modo.»
«Ora però sei tu a dovermi promettere una cosa.»
«Quello che vuoi.»
«Che non ti dimenticherai di me, che continueremo a stare insieme nonostante la distanza e che quando ci rivedremo qui, l’estate prossima, saremo esattamente gli stessi di adesso.»
«Te lo prometto. Ho già il meglio, non potrei innamorarmi di nessun altro».
Mi bastava. «Nemmeno io. Non potrei desiderare altro» risposi sorridendo.
Dopo pranzo ci trovammo con gli altri per passare tutti insieme gli ultimi momenti.
Ci furono scherzi e risate, ma anche tristezza e lacrime.
Succedeva così tutti gli anni, ma nessuno di noi ci aveva ancora fatto l’abitudine e forse mai nessuno ci sarebbe riuscito.

Il giorno dopo arrivò troppo in fretta.
Fui costretto ad alzarmi presto, a fare sia la mia valigia che quella di Sara, perché lei era con Giada e Virginia a bere l’ultimo caffè insieme.
Ecco, l’unica cosa che non mi sarebbe mai mancata del Sant’Angelo, era proprio Giada.
Finiti i miei compiti chiesi a mia madre un’ora per salutare Arianna.
Andai a prenderla a casa sua e poi la portai sulla spiaggia, dove l’avevo baciata per la prima volta.
Stesi un telo da mare che mi ero appositamente portato e ci sedemmo sopra.
Entrami fissammo il mare.
«Perché viviamo lontani?» mi domandò.
Scossi la testa. «Non lo so.»
«Non è giusto.»
«Cosa?»
«Che due persone che si amano non possano stare vicine.»
«L’anno prossimo avrò diciotto anni e potrò prendere la patente. Verrò da te tutti i fine settimana.»
«Non è giusto comunque. Io voglio stare con te. Voglio starti vicina come adesso. Voglio telefonarti e dirti che mi manchi e sentirmi rispondere che tra cinque minuti sei da me» il suo tono di voce era triste e quando girò la testa verso di me, mi accorsi che anche i suoi occhi lo erano.
«Un giorno sarà così» fu l’unica cosa che riuscii a rispondere. Mi faceva male sentirle dire quelle cose e non poter far niente. Mi sentivo impotente davanti al tempo e lo spazio che ci avrebbero diviso tra solo un’ora. Avrei voluto accorciarli, ma io ero soltanto un essere umano, e come tale l’unica cosa che potevo fare era continuare ad amarla e aspettare. Anche tutta la vita, se fosse stato necessario.
Lei non disse più niente e mi abbracciò.
Restammo così per un po’ e intanto sentivo il mio collo bagnarsi delle lacrime che lei piangeva in silenzio. Non avevo mai pianto per una ragazza, ma quel giorno toccò anche a me.
La strinsi più forte quando sentii la mia vista offuscarsi e i miei occhi inumidirsi.
La strinsi forte come se non ci sarebbe stato un domani.
E poi la baciai. Aveva le labbra salate e il sapore di nostalgia, la stessa che già provavo anche io.
Sentii la sveglia del mio telefono suonare a ricordarmi che il nostro tempo era finito.
La baciai ancora più forte, un’ultima volta, poi presi il suo viso tra le mani e cercai di asciugarle le lacrime con i polpastrelli dei pollici.
Non l’avevo mai vista così, e mi dispiaceva esserne la causa.
«Ti amo» sussurrai.
«Ti amo.»
Ci alzammo in piedi, presi il telo da mare e afferrai la sua mano, così piccola e delicata in confronto alla mia.
Cominciammo a camminare e decisi di prendere una scorciatoia per fare prima e non dover correre.
Passeggiammo sul marciapiede e Arianna, forse per sdrammatizzare un po’, si mise a fare l’equilibrista sul bordo, un po’ come i funamboli al circo.
Andai più avanti rispetto a lei e cominciai ad imitarla ridendo.
Il rumore di una macchina in lontananza mi fece voltare la testa e persi l’equilibrio, ma riuscii a non cadere e scesi semplicemente dal gradino.
Continuai a camminare ancora per un po’, poi uno stridore come se qualcuno avesse scorticato la strada con le ruote. Mi girai verso Arianna e feci appena in tempo a vedere il suo sorriso spegnersi e i suoi occhi improvvisamente impauriti spostarsi da me al rumore alle sue spalle, che la macchina sbandò e ci venne contro.
Svenni.

Quando, a fatica, riaprii gli occhi, sentii un dolore atroce alla gamba destra e la testa che martellava.
Ero sdraiato a terra. Non capivo.
Cercai di mettermi seduto facendo forza sulle braccia che, però, tremavano, e non mi reggevano.
Avevo la nausea, la testa mi girava e vedevo tutto sfocato.
Mi voltai verso sinistra e riconobbi i contorni, anche se poco chiari, di un corpo riverso sull’asfalto a qualche metro da me.
Poi vidi la macchina nera e mi ricordai tutto.
Spalancai gli occhi spaventato e cercai di alzarmi, ma non ci riuscii, così mi trascinai a fatica verso di lei.
No. Non potevo crederci. Non era possibile. No.
Girai Arianna verso di me, e poggiai la sua testa sulle mie gambe.
Il suo viso angelico era pieno di tagli e di sangue del quale mi sporcai.
Mi guardai le mani. Mi sentii male.
Le misi due dita sul collo per capire se il suo cuore battesse ancora.
Sì, sì! Lo sentivo. Era lievissimo, ma c’era battito.
Avrei voluto sorridere, ma non ci riuscii, perché il labbro inferiore mi bruciava da morire.
Cercai il mio telefono, che, per fortuna, era ancora intatto.
Chiamai velocemente l’ambulanza, dissi loro dove fossimo e le nostre condizioni facendo uno sforzo immenso, poiché tutte le parole mi si bloccavano in gola e non riuscivo a parlare bene.
Loro capirono ugualmente e mi dissero che sarebbero arrivati immediatamente.
Chiusi la chiamata e continuai a guardare Arianna, anche se faceva sempre più male.
«Ti prego apri gli occhi. Io ho bisogno di te» sussurrai.
Stavo singhiozzando.
La sua mano fece una leggera pressione sulla mia, e dalla sua bocca uscii un lievissimo lamento.
Era ancora viva.
«Sono qui, Arianna, sono qui. Sono Gabriele. Sono qui con te, proprio come ti ho promesso. Non ti lascio, Ari, sono qui.»
Piansi per la seconda volta nella stessa giornata, ma ora il dolore era immensamente più grande. Le mie lacrime le bagnarono il viso e un rivolo di sangue le scivolò via.
«Stanno venendo a prenderci, resisti. Manca poco, ce la fai.»
Fu davvero così. Nel giro di quello che a me sembrò un’eternità, ma che in realtà fu soltanto un minuto, l’ambulanza arrivò.
Si precipitarono tutti prima su Arianna.
Quando ci alzarono da terra e ci misero su due barelle, vidi che dalla macchina nera stavano tirando fuori un tizio con una brutta faccia. La macchina era finita contro un albero dopo aver colpito noi.
Era messo male anche lui, ma non m’importava. Avrei voluto alzarmi e finirlo con le mie stesse mani, ma dovevo restare vicino ad Arianna, e poi non riuscivo a muovermi: mi avevano bloccato.
Qualcuno mi toccò la gamba destra e provai di nuovo un dolore allucinante. Un urlo mi partì dall’osso rotto – o ossa, non ne ero cosciente – e mi percorse tutta la schiena fino ad arrivarmi in gola, e bloccarsi lì.
Non emisi nessun suono. Svenni di nuovo.
Quando ripresi conoscenza, l’unico rumore che sentivo era quello di un “bip” a intervalli regolari.
Mi sforzai di aprire gli occhi, uno alla volta, e la luce mi accecò.
Ero sempre steso ma stavolta ero circondato dal bianco.
Quando mossi il braccio sentii che c’era qualcosa che mi faceva male.
Lo guardai: era l’ago di una flebo, collegato a una sacca con un liquido trasparente, forse un antidolorifico.
Alzai leggermente la testa e guardai davanti a me.
In quel momento capii cosa fosse quel “bip”: l’elettrocardiogramma che segnava i battiti cardiaci di Arianna.
Mi misi a sedere. Avevo un camice bianco, le mie ferite erano tutte ricoperte da cerotti e medicazioni e la mia gamba aveva il gesso.
Faceva malissimo e mi prudeva, ma non potevo grattarmi.
In quel momento una dottoressa entrò nella stanza e nel vedermi seduto si avvicinò a me.
«Ti sei svegliato, finalmente» mi disse. Sul cartellino attaccato al suo petto lessi velocemente “Dot.ssa Caroli”.
«Come sta?» chiesi immediatamente, cercando di parlare il meglio possibile.
«La ragazza, dici?»
Annuii.
«Non posso darti buone notizie, Gabriele, non voglio mentirti: ha un trauma cerebrale parecchio grave, e varie ossa rotte. Non sta bene, ragazzo» rispose sincera la dottoressa. Preferii così, piuttosto che sentirmi dire cose non vere solo per non ferirmi troppo, ma sentii ugualmente il mondo crollarmi addosso e la terra sbriciolarsi sotto i miei piedi.
«Ma lei respira.»
Cercai di autoconvincermi che sarebbe stata bene.
«Sì, ma sai perché?»
Feci segno di “no” con la testa, ma non ero veramente sicuro di voler sapere la risposta.
«Vedi quella?» indicò il macchinario accanto al letto di Arianna «Lei respira grazie a quella, e il suo cuore è debolissimo. C’è una possibilità che sopravviva, ma devo essere sincera, è abbastanza remota.»
Volevo svenire ancora, invece no, ero più sveglio che mai.
«No!» ero fuori di me, arrabbiato con lei e con il mondo «Lei non morirà! Lei starà bene, e staremo insieme per sempre!» le urlai contro.
Lei si limitò a dire: «Mi dispiace.»
Quando mi calmai mi spiegò che l’uomo che ci era venuto addosso era ubriaco, e aveva perso completamente il controllo della macchina. Lui era meno grave di Arianna, ce l’avrebbe fatta, e io mi chiesi perché quel mostro avesse più possibilità di vita di una ragazza innocente.
Le dissi che non m’importava, che in quel momento l’unica cosa che volevo era andare da lei e rimanere solo.
La dottoressa Caroli allora mi aiutò ad alzarmi e mi fece sedere accanto al letto di Arianna, poi se ne andò, come gli avevo chiesto.
Prima di cominciare a parlare mi soffermai un attimo a osservarla, come mi piaceva fare quando si appoggiava sulle mie gambe mentre le accarezzavo i capelli.
Il suo viso adesso era pulito ma pieno di fasce e cerotti, come gran parte del suo corpo.
Anche lei aveva il camice come il mio.
Era bellissima anche così, ma faceva male da morire guardarla in quello stato. Era così spenta. Da verde e rigogliosa primavera si era trasformata in un autunno spento, freddo e… no. Scossi la testa. Non volevo dire quella parola. Non volevo dire “morto”.
Era tutto così sbagliato. Non mi sarei mai dovuto innamorare di lei, non saremmo mai dovuti stare insieme, non avrei dovuto portarla sulla spiaggia per salutarla, non avremmo dovuto prendere quella scorciatoia, quella macchina non avrebbe dovuto colpire lei e lasciare quasi illeso me.
Era tutto così tremendamente ingiusto.
Avrei potuto sopportare la sua lontananza, ma no, non la sua morte.
«Ciao Ari, – cominciai a parlare nonostante il nodo in gola – sono Gabriele, mi senti? Spero di sì. Sai, siamo in ospedale. L’ambulanza è arrivata subito. La dottoressa mi ha detto che l’uomo che ti ha fatto questo era ubriaco, e non riusciva più a controllare la macchina. Hai un trauma cerebrale molto grave e non so quante ossa rotte. Io ho solo una gamba rotta e qualche taglio, ma per il resto sto bene, e starai bene anche tu, vedrai. Sono arrabbiato, Ari. Odio quell’uomo, odio quello che ti ha fatto, odio tutto. Perché proprio te? Perché? Mi sento in colpa. Io ho bisogno di te, Ari, non puoi andare via, okay? Ti ho promesso che resterò per sempre al tuo fianco, e lo farò. E tu mi hai promesso che qualunque cosa succeda non mi lascerai. Mi hai detto che sarai mia per sempre, e io voglio che tu mantenga la parola. – gli occhi mi si inumidirono e dovetti aspettare un attimo prima di ricominciare a parlare – Ti ricordi la prima volta che ci siamo incontrati? Io sì. Tu eri con Martina, io con gli altri ragazzi del gruppo e quando ti sei girata posso giurare di non aver sentito il mio cuore battere per un secondo. Martina ti ha presentata a noi, tu mi hai guardato, hai sorriso e mi hai stretto la mano dicendo: “Arianna, piacere”. Fu il piacere più grande, te l’assicuro. E adesso che stiamo insieme e che la tua mano posso stringerla sempre, non voglio smettere di farlo. Io ti amo da quel giorno, e mi dispiace di non avertelo detto prima. Scusa, ma non ero forte come te, e non lo sono neanche adesso. Avevo paura. Paura di perderti, dico. Perché se anche tu non avessi provato le stesse cose avrei rovinato tutto. E non volevo. Non potevo. In realtà non so neanche come ho fatto a dirtelo, due settimane fa. Ero terrorizzato, ma io ti amavo così tanto che non potevo tenermelo dentro ancora. E adesso, ti prego di svegliarti perché ho bisogno di te. Ora ho ancora più paura Ari. Io voglio stare con te per sempre, come ci siamo promessi. Io voglio viverti davvero. Voglio potermi svegliare al tuo fianco, voglio uscire di casa e tornare dopo poco solo per salutarti di nuovo e poi correre al lavoro. Voglio aspettare con ansia di tornare a casa, di trovarti in cucina a cucinare e da dietro abbracciarti forte. Voglio trascorrere pomeriggi interi con te e serate davanti alla nostra tv a guardare i film strappalacrime che tanto ti piacciono con la tua testa poggiata sul mio petto. Voglio addormentarmi con te col tuo profumo che mi culla e pensare che sarai lì per sempre, per sempre al mio fianco. Io voglio tutto questo, Arianna, perciò non andartene, ti prego. Dammi un segno, fai qualcosa, qualsiasi cosa, ma fammi capire che mi hai sentito. Che sei viva, e che starai bene. Che non continui a respirare solo grazie a quella macchina, ma che sei in grado di farlo da sola. Ti prego.»
Piansi ancora, piansi senza interruzione.
Non ricordavo nemmeno che le lacrime fossero così salate e facessero così male.
Non mi scivolavano semplicemente sulle guance, ma le rigavano, le tagliavano, le laceravano, e poi era come se, al loro passaggio, ci spremessero sopra succo di limone.
Erano peggio di pioggia acida.
Bruciava da morire.
Arianna emise un lamento, uno simile a quello che aveva fatto in strada.
Mi aveva sentito! Mi aveva sentito!
Mi alzai di scatto dalla sedia non curante del dolore alla gamba e mi piegai su di lei, avvicinando l’orecchio alle sue labbra.
In quel momento piansi di felicità.
«G-Gabri…» sussurrò.
«Sì, sì, sì! Sono io, Ari, sono io!» dissi.
Le accarezzai il viso.
Ero sicuro che per un istante, un brevissimo istante, gli angoli della sua bocca si fossero sollevati.
Non me lo ero immaginato, lo sapevo. Mi avevo sorriso davvero.
«T-ti… a-amo…»
Il suo torno di voce era bassissimo, la sua voce spezzata, mentre il mio cuore, invece, batteva all’impazzata.
Non solo mi aveva sentito, non solo mi aveva riconosciuto, mi aveva anche risposto.
Sorrisi, poi la baciai, poggiando delicatamente le mie labbra sulle sue, come se avessi paura che a una pressione un po’ più forte potesse sbriciolarsi.
Mi staccai, e la guardai.
Non sentii più il suo respiro.
A quel punto la cosa strana è che non successe niente, oppure successe tutto.
Il “bip” si interruppe e venne sostituito da un suono piatto, e le linee dell’elettrocardiogramma non andarono più su e giù.
Vari medici fecero irruzione in camera e uno mi sollevò di peso e mi riportò sul mio letto. Io non protestai perché non riuscii a muovere un muscolo.
Si precipitarono su di lei.
Non capivo niente, non vedevo niente, sentivo solo una serie di: “Uno, due, tre, libera! Uno, due, tre, libera!”, e poi anche loro si fermarono.
Si girarono, mi guardarono e dispiaciuti scossero la testa.
Il loro sguardo era basso e triste, ed io capii solo allora.
Non ce l’aveva fatta. La dottoressa aveva ragione.
Lei era già morta ancora prima che arrivasse l’ambulanza.
C’era voluto un secondo. Un solo secondo di distrazione che lei già non c’era più.
Se solo non l’avessi portata sulla spiaggia.
Se solo non avessimo preso quella scorciatoia.
Se solo fossi stato al suo fianco, al suo posto.
Se solo quell’uomo non fosse stato ubriaco.
Se solo… se solo niente, perché ormai era finita.
Perché lei ormai se n’era andata.
Per sempre.

Non volli guardare. Non ci riuscii. Avevo la testa che mi scoppiava, gli occhi che mi bruciavano e un dolore allucinante al petto.
“Magari adesso mi viene un infarto e la raggiungo nell’al di là” pensai.
Invece no. Io respiravo, io ero vivo.
Il dolore che sentii non precedeva un infarto: era solo il mio cuore che, lentamente, si frantumava in migliaia di pezzi.
Era come se fossi morto anch’io con lei.
In realtà avrei preferito che fosse davvero successo così.
Dove avrei trovato il coraggio di andare avanti?
Io non ero forte. Non lo ero mai stato.
La mia forza era lei, e lei non c’era più.
Non avevo più niente.
Sentii un mormorio attorno a me, ma non riuscii a capire cosa fosse.
Qualcuno mi scosse le spalle.
«Svegliati, Gabriele. È ora che tu vada a casa» mi disse qualcuno.
Sollevai lo sguardo: era la dottoressa di prima.
Mi guardai attorno. Non c’era nessuno, neanche Arianna.
«Cos’è successo?» chiesi spaesato.
«La ragazza non ce l’ha fatta. Tu hai cominciato a piangere poi ti sei bloccato di colpo. Sei caduto in una specie di stato comatoso. È come se ti fossi addormentato per tre ore, ma, come vedi, sei rimasto seduto, e avevi gli occhi aperti» mi spiegò.
Io annuii semplicemente, poi lei aggiunse che potevo tornare a casa, che mia madre e mia sorella erano in sala d’attesa ad aspettarmi già da un po’ assieme ad altri ragazzi.
Mi aiutò ad alzarmi dal letto, a vestirmi e ad arrivare nell’altra sala, dandomi poi due stampelle.

Passò un po’ di tempo dall’ultima volta che ero stato al Sant’Angelo Village.
Smisi di andarci quando morì Arianna.
A vent’anni cominciai ad andare all’università e decisi di volermi laureare in letteratura solo per lei, anche se non lo avrebbe mai saputo.
Studiando i vari autori più importanti mi resi conto di capire perfettamente quello che provava Petrarca alla morte di Laura: i colori, gli odori, i suoni, qualsiasi aspetto della primavera non mi trasmettevano più le stesse sensazioni poiché la mia era Arianna, ma lei non c’era più.
Mi sentivo vicino e simile a lui, condividevo le sue sofferenze, con la differenza che anziché piangere disperatamente come facevo io, lui scriveva poesie meravigliose.
Quando non studiavo, lavoravo nel bar che c’era vicino casa mia.
Erano tutti molto carini, specialmente la figlia del proprietario, Eleonora, un anno più piccola di me, che sembrava apprezzare particolarmente la mia compagnia.
Anche a me faceva piacere stare con lei, dovevo ammetterlo.
Una mattina le chiesi di uscire e lei mi rispose di sì senza esitare, come se non stesse aspettando altro.
«Sabato sera?» le domandai.
«Va benissimo.»
«Ti passo a prendere alle otto?»
«Perfetto» mi rispose sorridendo e mi diede un bacio sulla guancia per poi sparire dietro al bancone.
Il mio turno era appena finito, così ripiegai il grembiule, lo riposi nell’apposito spazio e tornai a casa.
Smisi di abitare con i miei genitori l’anno precedente. Mi trasferii a Venezia.
Sara però volle venire con me. Diceva che senza una figura femminile non ce l’avrei potuta fare, specialmente senza di lei. Egocentrica. Però le volevo bene e mi era stata davvero molto vicina nel periodo seguente la morte di Arianna e anche dopo.
Il nostro rapporto migliorò molto, il che mi faceva piacere.
Quel giorno, quando tornai a casa la trovai ai fornelli che cucinava qualcosa, e non appena mi vide entrare mi chiese sorridendo: «Che è successo?»
“Possibile che non le sfugga mai niente?” pensai.
Risi e scossi la testa. «Ho chiesto ad Eleonora di uscire» ammisi rassegnato, sapendo per certo che se anche non lo avessi fatto, lo avrebbe capito ugualmente.
Lei mi guardò, sgranò gli occhi e lasciò quello che aveva in mano sul piano del lavandino per precipitarsi ad abbracciarmi emettendo stridolii di gioia.
«Sei contenta, ho capito» dissi ridendo.
«Moltissimo» rispose per poi tornare ai fornelli.
I giorni che precedevano l’uscita di sabato furono un’agonia, e quando quella sera arrivò, il mio corpo era un fascio di nervi.
La cosa buffa era che non capivo perché.
Fui sotto casa di Eleonora alle otto in punto, e quando suonai il campanello venne ad aprirmi sua madre, che si complimentò con me per il mio abbigliamento elegante.
Quando vidi arrivare Eleonora rimasi di sasso. Strizzai gli occhi per capire se stessi sognando o meno, ma quando mi sfiorò il braccio mi resi conto che era proprio la realtà.
Era bellissima, con i capelli quasi biondi e ricci raccolti da una parte e una ciocca lasciata libera che le ricadeva delicatamente su un lato della fronte.
Gli occhi verdi risaltavano col trucco non eccessivo che si era messa, e il suo corpo era coperto da un vestito celeste stretto attorno al busto e più morbido sui fianchi, fino a metà coscia. Indossava anche i tacchi, neri come i braccialetti, la collana e la piccola pochette che teneva tra le mani.
Non era di certo così che la vedevo tutti i giorni al bar.
«Sei bellissima» le sussurrai sorridendo.
«Anche tu» mi rispose, e salimmo nella mia macchina.
Non ero granché certo di quello che stavo facendo, ma lei mi infondeva sicurezza e tranquillità.
Stavo finalmente bene dopo tanto tempo in cui non avevo fatto altro che soffrire.
Sapeva già da prima di Arianna. Le avevo raccontato tutto e ogni tanto era perfino lei, a lavoro, durante la pausa pranzo, a chiedermi qualche notizia in più.
Sapeva quanto ero stato male ed ero certo che lei non me ne avrebbe mai fatto.
Quella sera fu fantastica e, dopo averla baciata, ci tenni a precisare una cosa.
«Eleonora, tu mi piaci veramente tanto e sono felice di averti incontrata e di essere qui con te stasera, ma se davvero mi vuoi, credo tu debba convivere col fatto che non dimenticherò mai Arianna e il mio cuore, in parte, apparterrà sempre a lei. Credo tu abbia scelto la persona sbagliata con cui cercare di essere felice» le dissi sincero.
«No. Arianna ci è riuscita. Lascia provare anche a me» mi rispose.
E così feci. Riuscii ad innamorarmi anch’io, ma il mio cuore sapeva che per quanto potessi amarla, non sarebbe mai riuscita a sostituire Arianna.
Lei era il ricordo di un amore senza fine.

Dopo tre anni di convivenza decidemmo di sposarci.
Alcuni mesi dopo il matrimonio lei scoprì di essere incinta.
Eravamo giovani ma ci sentivamo pronti a costruire una famiglia insieme.
Diventare padre fu la cosa più bella ed emozionante della mia vita.
Nacque una femmina, il ventuno aprile, in piena primavera.
Ora la nostra bambina ha cinque anni. Ha un viso dolce contornato da mossi capelli castani e gli occhi verdi come quelli della madre, mentre molti dicono che abbia la mia stessa bocca.
È solare, allegra e bellissima.
Il suo nome è Arianna.

«Ma dov’è l’altra Arianna, papà?»
«Queste sono cose che nessuno sa, piccola mia. Ma credo che sia un po’ dentro di me e anche dentro di te» le rispondo.
«Davvero?» mi domanda ancora alzando la testa e guardandomi.
«Sì.»
«Ma io ti ricordo lei almeno un po’?»
Annuisco. «Perché me lo chiedi?»
«Perché così se anche lei non c’è più ci sono io al suo posto e io sono qui, quindi anche lei lo è. Non piangere papà» dice con quell’innocenza che solo i bambini sono in grado di avere, e io non posso far altro che stringere forte mia figlia ed amarla ancora di più perché lei è la forza e la primavera che mi erano state portate via e che credevo di aver perso per sempre.

Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2014 Veronica Morgera