Bibliomanie

L’amore è un trauma che mi aiuta a correre. Riflessioni su Caravaggio, assente di Gabriele Via
di , numero 35, gennaio/aprile2014, Letture e Recensioni,

Come citare questo articolo:
Italo Moscati, L’amore è un trauma che mi aiuta a correre. Riflessioni su Caravaggio, assente di Gabriele Via, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 35, no. 12, gennaio/aprile2014

Se proprio tenete a sapere perché questo libro di Gabriele Via s’intitola Caravaggio, assente non ve lo dico. Dovete leggere il libro. Non farete fatica e anzi ne trarrete giovamento. Fisico. Non solo letterario.
Così, il libro lo porterete con voi, dentro, setoso, in mente. Non avrete alcun bisogno di mettervi la cuffia per ascoltare musica, mentre fate lo jogging sotto i portici o su, su verso San Luca. L’avrete già in testa.
Gabriele è un uomo forte, vola sul colle, fin su alla Basilica, come un uomo innamorato che non sente peso nelle gambe e ha la forza del cuore. È attento alla musica particolare, fatta di trame di parole, storie, evocazioni che ha messo sulla carta. Tutti i muscoli gli partono insieme, armoniosi. Vorrei anch’io. Mi allenerò, come lui.
Da molti anni vivo a Roma, lontano da Bologna, dove sono arrivato da Milano negli anni della guerra. Ma la città è la mia città. Sono stato sotto i bombardamenti in una casa della periferia, al Ponte Vecchio, nei rifugi; correvo a raccogliere schegge tra i prati della Lunetta Gamberini, e morivo di gioia se trovavo le più grandi, ancora bollenti di scoppio.
Gabriele, uno scrittore di fantasie e utopie intense, mi ha travolto con la sua Bologna e la sua storia d’amore. Una storia dentro tante altre storie, quella della sua famiglia e delle toponomastiche puntualmente indicate. Per lui la città è una grande geografia: nel centro storico e dovunque, da piazza a strade, monumenti, chiese, folate di memorie che scivolano nel tempo.
Non so perché, anzi lo so bene, Gabriele mi ha portato con le sue pagine ad altre pagine, le molte scritte da un grande studioso a cui devo certe rivelazioni sconosciute su Bologna.
Si chiama Piero Camporesi, filologo, docente di università, che ha scritto numerosi libri dedicati alla cultura e all’arte dei cibi. Quello che mi è rimasto impresso e a cui ripenso quando rimetto piede sotto i portici è Pane selvaggio.
Bologna colta. Vi si parla della fame e del ghiaccio nell’antica città. Un vuoto dentro, circondato dal bianco duro della neve, che la povera gente riempiva come poteva, persino con la cruda autofagia, per quel poco rimasto dall’estate. Una cascina ambulante.
La Bologna intirizzita, la Bologna grassa incontra l’anoressia per la fame vera. Quando passo davanti alla magnificenza di un negozio di pepite, e leggo la targa che ricorda Padre Marella, il questuante (Gabriele ne parla), ecco che mi torna la tragica immagine evocata da Camporesi.
Ma nel libro di Gabriele, non c’è anoressia, per contrasto c’è appetito solenne non tanto di cibo quanto di identità.
Identità da definire ogni qual volta che se ne incontra un’altra di identità: quattro mani che si cercano lo fanno nel buio di giorno e di notte come in ogni altra città del mondo che è sempre molto freddo, di ghiaccio, anche quando fa molto caldo. Il pasto della conoscenza, e ancor più dell’amore che la contiene e la riveste, svaligia ogni tavola, ogni tavolata, procedendo veloce da una portata all’altra, senza posa, senza riposo. Luca, il protagonista del libro, costruisce correndo un intero condominio degli affetti. Qui abitano informazioni assunte nel cammino degli anni, sensazioni, sogni, desideri e soprattutto le cotte d’amore che esistono ancora, nel tempo in cui il menù dei libri di consumo prevede sfumature di colori senza sapore, standard: disgraziate serie d’emozioni clonate di eros da stuzzicadenti spuntati.
Nel condominio la cosa, la coabitazione si fa stretta, ma non perché ci sono molti inquilini che affollano i pianerottoli o la riunione malmostosa di bilanci che non quadrano mai.
Luca è, o meglio, vuol essere, spera di essere, nel condominio tutt’uno con una ragazza di nome Maria che vive, anzi tenta di sopravvivere, al dolore di una perdita; una perdita che non rivelo, e non perché non sia decisiva ma perché il filo del romanzo ne è aggrovigliato, dalla gola al cuore, dal cuore alla gola.
Non è un unico filo, troppo poco, inservibile a uno scambio profondo; ma sono tanti fili, intrecciati, che si allentano e tornano ad imbrogliarsi di delizie, attese, sorprese, narrazioni, desideri, voglie alte e basse che si alternano come la corrente elettrica benefica di cui Luca e Maria hanno voglia, tanta voglia, e paura. E se si resta fulminati?
Luca è fulminato nel profondo, nella ricerca di affetti che vadano al di là delle esperienze compiute, fallite, indimenticate, possibili, frastornate, incasinate, lui che a casino non c’è mai stato.
Bologna di casini ne aveva a decine nelle strade del centro, poi nel 1958 li hanno chiusi, sono stati trasformati in alberghi o in case di lusso (dove hanno trovato domicilio alcuni docenti del Dams).
Luca non può amare, anzi rimpiangere quei luoghi di sfoghi e di passioni (molti carabinieri pare vi trovassero fedeli compagne per la vita). Luca si sarebbe comunque fermato sulla soglia delle case chiuse e non avrebbe mai aperto all’amore, quello fisico, chiaro e disinfettato, cominciando da lì, in stanze calde e soffocate di quadri di veli e forme che sbucano dai muri, da ogni parte.
Luca sogna e si fa accompagnare dalle canzoni di Lucio Dalla che vagano da via d’Azeglio alle Due Torri, passando per trattorie buone non alla buona. “Com’è profondo il mare…”
Com’è profonda la dolce Maria con la sua storia, il dolore che non molla, la febbre della sincerità reciproca, della libertà e della curiosità di sapere chi è quel Luca con cui si bacia davanti alla statua del Nettuno; la statua che non nasconde niente di un corpo di bronzo abituato a proteggere i baci e le foto degli innamorati.
Nel libro, mi correggo, nel romanzo, Bologna è una città di venti deboli da riposo e da mal di testa; fuori, nelle strade, invece, venti forti, respiri, arie da melodramma, inni, jazz.
Il jazz che vi adagiava con la voce e la tromba delicate di Chet Baker, mentre i sassofoni di Gerry Mulligan invano tentavano di coprirlo. Il jazz che ho azzannato con la voglia di scoppiare, prima di lasciare Bologna.
Il jazz è soffio e irruenza, lo si è perduto tra le colonne, rispetto ai tempi in cui faceva a gara con l’Internazionale nei comizi dei rossi.
Luca e Maria stanno nel mare-romanzo solido, liquido, cantato da Lucio: “Come è profondo il mare”, e lo è sicuramente, più grande della vasca di Nettuno in piazza Maggiore.
Un mare di storie che per i due personaggi epici del romanzo viaggiano dal passato remoto a quello prossimo, e al passato che stanno e stiamo preparando.
La delicatezza di Luca che vive in un effluvio di profumi d’amore, sogni e incubi che riscaldano altri sogni, impedisce di pensare, insistere su oggi e sul futuro, anche se con Maria sono immersi e nuotano, tenendosi per mano e sospiri; del resto, come noi.
L’amore così non è più, non è mai stato per Luca e Maria, una parola vuota, masticata e mandata giù per digerirla, e liberarsene.
È una parola sempre nuova, di pura zecca, fatta di tante parole; una dopo l’altra in fila, ordinate, verso qualcosa, verso un finale su cui si vola, o si sorvola, perché attenzione non lo si deve sciupare, degradare, un banale farne chiacchiericcio.
Parole ordinate per puntiglio e gusto di proteggerle, dal disordine dei sentimenti, parole che sfuggono gli echi che decollano, vivono, nelle luci delle seducenti vetrine disponibili sotto il Pavaglione; rimuovono frasi fatte, segnalano la necessità di chiedere l’ausilio della poesia che sappia ritrovare il senso perduto. “Com’è profondo il mare…”.
La voce di Lucio è solo un sussurro oggi, che “viene dal cosmo” (come scriveva Pasolini alla Callas che si era innamorata di lui). Eppure pare incollata alle pareti delle case, del centro e dei quartieri, fino e oltre la Lunetta Gamberini, dove cadevano le bombe.
Con questo romanzo, intenso e veloce, scritto con foga, sulla spinta del trauma dei richiami e dei bisogni intimi d’amore, Gabriele Via propone un impatto diretto, senza consolazioni, però fiducioso, con e contro una realtà che quasi non ci stupisce più tra insensatezze e miserie. Cerca le parole, i suoni, l’amore che non stanno nel cosmo. Corre.
Corre impetuoso tra ciò che la sua sensibilità e fantasia gli suggeriscono. In cuffia, porta solo canzoni e pensieri d’amore. Nuovi, lucidati dalla tensione di vederli crescere come i fiori dei campi, in primavera, quando corre.

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