Bibliomanie

Dalì, il tempo e i quadri infranti
di , numero 39, maggio/agosto 2015, Note e Riflessioni,

Come citare questo articolo:
Pierpaolo Lauria, Dalì, il tempo e i quadri infranti, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 39, no. 12, maggio/agosto 2015

Un classico mito scientista che all’inizio del XX secolo va in frantumi è la visione della natura come un preciso e gigantesco orologio. Newton parlava di dio come un grande orologiaio. Per Keplero la macchina dell’universo era simile a un orologio. Cartesio considerava i corpi, – di uomini o di animali non faceva differenza – automi, per Hobbes il cuore era una molla e per Harvey una pompa. L’enorme meccanismo automatico (l’orologio-natura), che si muove secondo movimenti determinati e ripetitivi svanisce dissolto dagli schizzi imprevedibili e frenetici del tempo.
Il più bizzarro tra i surrealisti, perché stravagante ed estroverso anche nello stile di vita che si fa tutt’uno con l’arte, Salvador Dalì, lo ha raffigurato in modo mirabile in uno dei suoi capolavori più celebrati: La persistenza della memoria1. Il dipinto mostra, in un’atmosfera crepuscolare, il naufragio degli orologi sopra una spiaggia desolata, dominata da una scogliera – è quella della baia di Port Ligat che spesso l’artista usava come sfondo delle sue opere. Gli orologi, da sempre simbolo di solidità e stabilità, sono invece nel quadro ridotti a miseri relitti deformi e molli, rappresentati in uno stato di graduale inesorabile disfacimento, di progressivo e irrimediabile scioglimento: il tempo incontrastabile fa il suo corso inarrestabile. In questo modo l’eccentrico artista introduce un radicale ribaltamento nella prospettiva e nella considerazione del tempo. Il suo scorrere nel quadro non è scandito dal movimento progressivo delle lancette degli oggetti con cui lo si misura, nel loro delirio insensato di onnipotenza, ma dal liquefarsi degli stessi superbi marchingegni, non più dominanti, ma dominati, inevitabilmente sconfitti e soverchiati dallo spadroneggiare di un tempo rivoltoso, che inclemente li oltraggia e li strazia orribilmente. È la rivincita di un tempo imperioso che non dà scampo ai suoi carcerieri. Cronos, il tempo tiranno e distruttore, paranoico, affetto allo stesso tempo dal complesso del figlio, Edipo, e da quella del padre, Urano, divorava i figli, frutto del suo seme; tutti gli esseri, nel corso del tempo, sono generati e distrutti per mano del tempo, memore della triste sorte toccata ad Urano, da lui stesso evirato e detronizzato. Il tentativo di imprigionare il tempo nella cella dei quadranti, ostaggio delle sbarre delle lancette, è vana illusione: il tempo è fuggiasco.
Dispettoso, qual è, si diverte a mandare frequentemente fuori tempo i maliziosi congegni fabbricati da artigiani d’ingegno. Il suggestivo quadro produce un effetto sconcertante in chi lo guarda, perché mette in crisi comode convinzioni e incrollabili certezze, tranquilli e sicuri luoghi comuni su un tempo marmoreo, armonico e uniforme, reversibile e cadenzato regolarmente. Giocando un po’ con le parole, si potrebbe dire che il buon tempo antico ha fatto letteralmente il suo tempo, una volta spezzato il cerchio in cui era rinchiuso (il tempo circolare). Il tempo d’oggi, (che è uno dei modi del tempo, quello convenzionale, che lo suddivide e l’organizza per le nostre esigenze di vita sociale) è caratterizzato dall’irreversibilità, che comporta una continua trasformazione in avanti. In considerazione di ciò, mentre l’immagine del solido orologio, legata all’idea della ciclicità e della ripetitività, è al tramonto, nostalgia di antiquari e collezionisti, ritorna prepotentemente in auge la fluidità della clessidra, che sembrava oggetto desueto, obsoleto, definitivamente deposto nel baule delle anticaglie, i cui granuli di sabbia scivolano via a cascata nell’imbuto dell’oblio. In quest’immagine dal fascino antico il tempo fa il vuoto e non ritorna sui suoi passi: è irreversibile. Le si associano gli echi tradizionali della caducità e dello scorrere della vita, dove tutto ha un inizio e una fine, in cui ogni cosa deperisce e si trasforma. Nel momento in cui la clessidra si capovolge, si perde tempo, si realizza un ritardo, si compie una pausa, una cesura; in definitiva s’interrompe il corso circolare e uniforme del tempo. La discontinuità genera un nuovo tempo; il ricominciare non è lo stesso, ma un tempo diverso. Il non essere sempre uguale a se stesso apre una grave crisi d’identità – rispetto agli attimi tutti identici di quando il tempo era in girotondo – risolta con la sua declinazione plurale (le temporalità differenti), come hanno mostrato la teoria della termodinamica, l’entropia e, fra gli altri, due scienziati-epistemologi: I. Prigogine, che definisce il tempo creativo laddove esso era stato solo ripetitivo e al massimo ricreativo a scuola e al dopo lavoro ferroviario, e R. Thom con la teoria delle catastrofi , che studia i fenomeni di disordine, di squilibrio e di energie dissipative e altri fenomeni non classici delle scienze, normalmente scartati perché non aggredibili con metodi ortodossi, ossia con le equazioni lineari. In questa concezione il tempo si sfrangia, si presenta inconfigurabile a priori e multiforme, un’incognita che di volta in volta acquista contenuti sempre diversi a secondo dei contesti.
Si riscopre così la storicità del tempo (breve-medio-lungo), la sua qualità (sociale – individuale), la sua mutevolezza, variabilità e incertezza (sereno-variabile, bello-brutto -inquieto-incerto). Il big bang del tempo unico ha prodotto una miriade di tempi differenti, dal tempo senza qualità, quantitativo e misurabile, si è passati, dalla partenza del gemello di Einstein per lo spazio, a tempi con qualità insospettabili, innumerabili. Non solo, in quest’epoca è cambiata la considerazione del tempo, che è stato concettualmente ripensato, quando è la stessa scienza ad essere ricondotta nelle acque di Clio; immersa da capo a piedi nel plasma della storia, da cui trae nutrimento essenziale per svilupparsi e vivere: senza storia diventa uno squallido e rinsecchito cadavere in lenta e inesorabile putrefazione. Lo specchio magico, che doveva riflettere il reale sempiterno, s’infrange in mille spicchi, allo stesso modo il vecchio ritratto di Dorian Gray si squarcia, irrimediabilmente rovinato, mentre il sempreverde viso di Dorian (l’immagine scientista della scienza) d’incanto si cosparge di rughe e cicatrici: sono i solchi del tempo liberi dall’inganno del quadro. L’età dell’innocenza per la scienza è ormai un pallido e vacuo ricordo di una lontana ed effimera stagione. Le tavole della legge universale sono spezzate, stavolta, irreparabilmente: l’odiato politeismo del vero, recluso fino ad allora sotto chiave nella prigione del pantheon, si aggira libero e senza catene come il vento per il mondo. In una strofa del più mistico dei cantautori italiani, F. Battiato, è splendidamente espresso il desiderio di un punto fermo, di qualcosa di stabile e di assoluto: “Cerco un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente”.
Peccato, però, che nella scienza, in cui la ricerca è senza fine e senza centro, la speranza di trovarlo è del tutto vana.

Note

  1. Come di consuetudine tra i surrealisti, il titolo dell’opera è, rispetto al contenuto, volutamente paradossale, diametralmente opposto al messaggio che il quadro ci consegna, al fine di ampliare ancor di più il disorientamento che l’immagine produce. Non c’è, infatti, persistenza allo scorrere del tempo, nulla resiste, ogni cosa dal moto è travolta.

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