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PANOPTICON. La sorveglianza tra quotidianità e immaginario. Reclusioni, confinamenti, ossessione e illusione del controllo.
di , , numero 59, giugno 2025, Editoriale,

PANOPTICON. La sorveglianza tra quotidianità e immaginario. Reclusioni, confinamenti, ossessione e illusione del controllo.
Come citare questo articolo:
Alessandra Mantovani, PANOPTICON. La sorveglianza tra quotidianità e immaginario. Reclusioni, confinamenti, ossessione e illusione del controllo., «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 59, giugno 2025

L’architettura, in quanto parte costitutiva del regime totalitario -luogo in
cui si dispiega la sua “arché”, l’origine della sua autorità -, fonda uno spazio
che non ha niente di pubblico né di politico. Lungi dal consentire la
coesistenza degli uomini per mezzo dell’istituzione di uno spazio agonistico
della parola e dell’azione, uno spazio differenziato in cui apparire, nel quale si
realizzi l’azione, questo tipo di regime mira piuttosto a costituire e mobilitare
una massa che sia sottomessa, in tutti i significati del termine, a un’esperienza
multipla: l’esperienza della “scarica”, nel senso di Canetti, l’esperienza
dell’indistinzione fusionale, sia per coincidenza con le leggi della storia, sia
per comunione con il movimento della razza e il suo legame biologico, infine
l’esperienza del rapporto comando-sudditanza.
Poiché viene qui chiamata in causa la questione dello spazio per come è
stata trattata da Hannah Arendt, non si dovrà dimenticare che quest’ultima ha
magistralmente descritto quello che accade in una società di massa dove, in
qualche maniera, si è pressati gli uni sugli altri.

Miguel Abensour, Della compattezza. Architetture e totalitarismi1


Panopticon è una parola dotta, nata agli albori della scienza moderna, e a quest’ultima subordinata nei suoi intenti significanti. Analizziamone i componenti.
Il prefisso greco opto-, derivato da optós (“visibile”) e strettamente correlato a ópsis (“vista”, “aspetto”, “spettacolo”), ci introduce a una dimensione fondamentale dell’esperienza umana: la percezione visiva. Ma questa radice etimologica, che evoca l’atto del vedere e dell’apparire, si estende ben oltre la mera fisiologia dell’occhio, penetrando nel cuore delle dinamiche di potere e controllo che hanno plasmato le società attraverso i millenni. L’origine di optós e óps può essere ulteriormente ricondotta alla radice Proto-Indo-Europea (PIE) *okw-, che significa “vedere”. Questa ascendenza linguistica sottolinea la profonda antichità e l’ampia diffusione di questo concetto attraverso le lingue indoeuropee. Da questa stessa radice derivano anche parole in altre lingue antiche, come il sanscrito akshi (“occhio”), il latino oculus (“occhio”) e il lituano akis (“occhio”).
optikós è un aggettivo: significa “della vista” o “per la vista”. È la base per il termine inglese “optic” e italiano “ottico”, indicando una relazione diretta con il senso della vista o con gli strumenti ad essa correlati.
Nel caso del neologismo moderno Panopticon, l’elemento – opticon venne risemantizzato e usato come suffissoide di una parola composta. Concepita per suggerire l’idea di una “globalità visiva”, ma con direzionalità univoca: uno squilibrio pensato per favorire l’osservatore ponendo in totale subordinazione e isolamento l’oggetto di “studio”, osservato mediante una lente amplificata.
Il processo di reificazione avrebbe potuto così compiersi senza “sorprese”: sottoposto a questo “macroscopio”, un riflettore perennemente acceso, l’essere umano sarebbe stato legalmente deprivato della propria individualità e condizione soggettiva, divenendo un oggetto senza voce.

Il Panopticon come edificio e mezzo di contenzione è una delle architetture sviluppate, ma non l’unica.
Il concetto di Panopticon, ideato da Jeremy Bentham nel XVIII secolo, rappresentava un modello architettonico e filosofico emblematico della sorveglianza e del controllo sociale. La sua struttura circolare, con celle disposte a raggiera attorno a una torre di osservazione centrale, permetteva a un singolo ispettore (un individuo qualunque, un “funzionario” e non un leader) di osservare un gran numero di detenuti senza che questi potessero conoscere il “quando” e il “come” dell’azione imposta. Questa incertezza avrebbe indotto nei reclusi uno stato di “visibilità cosciente e permanente”, assicurando il “funzionamento automatico del potere”.
Jeremy Bentham scrisse il Panopticon nel 1786, mentre era in Russia in visita al fratello Samuel, direttore di una manifattura nella parte meridionale del paese. Dunque, esso non nasce come modello di prigione, bensì come un progetto che doveva fungere da proposta per tutte le istituzioni di educazione, assistenza e lavoro dell’epoca: una soluzione economica ai problemi dell’organizzazione e controllo di una società razionale. Ma il Panopticon divenne in seguito per il filosofo inglese il progetto di una vita, una sorta di utopia, quella di realizzare una soluzione universale al problema delle carceri. E tuttavia l’ispettore generale preconizzato era molto più di un guardiano della prigione, giungendo a rappresentare l’emblema stesso del potere, fondato sulla convinzione del ruolo dell’educazione e della disciplina sulla società.
Il panottico avrebbe dovuto trasformarsi in un sistema che, se applicato alle manifatture, agli asili, agli ospedali, alle scuole, avrebbe contribuito a risolvere i problemi che attanagliavano la società della fine del XVIII secolo, ossessionata dal tema della povertà e dell’ozio improduttivo. Il Panopticon per Bentham finì dunque per trasformarsi in una vera e propria ossessione, lo scopo di una vita, che alla fine però si tradusse in un vero e proprio progetto di prigione e di controllo sociale, nonché politico.
Il dibattito sul tema, avviato negli ultimi anni del XVIII secolo, all’alba delle rivoluzioni moderne, proseguì per tutto il XIX secolo, quando fu recuperato, e al tempo stesso rinnovato, da un pensiero politico e dai principali governi liberali, che lo inserirono nel più ampio dibattito sulla riforma della giustizia e del sistema penitenziario, rinnovando rispetto a una trattazione essenzialmente filosofica introdotta nella stagione dei Lumi.
Il rapporto di Alexis de Tocqueville e Gustave de Beaumont sulle prigioni americane divenne ad esempio un testo di riferimento con il quale si poneva di fatto la distinzione tra punizione e rigenerazione morale. Molti, e molte, furono allora le figure che intervennero in un dibattito che riguardò la riforma sociale e la distinzione tra punizione e rigenerazione morale.
Ma come si passò allora dall’utopia alla distopia?
In Sorvegliare e punire Michel Foucalt fa del Panopticon la “figura archetipica” del nuovo regime disciplinare che nasce con l’età dell’Illuminismo e delle rivoluzioni, e al tempo stesso un “laboratorio” dove si inventato le nuove tecniche della biopolitica.

Esiste un legame tra potere, architetture e controllo disciplinare? Quale ruolo hanno le scritture contabili, le annotazioni, le schedature di individui nel sistema panottico?
Questi e altri quesiti sono sono stati posti nella call for paper del numero 59 di “Bibliomanie”, che ha portato alla selezione dei saggi qui raccolti: essi dimostrano quanto il “panottismo”, termine coniato da Foucault e ispirato all’opera di Jeremy Bentham, sia un concetto tutt’altro che superato.
Non soltanto per le molteplici implicazioni di rilettura che questa parola chiave offre rispetto ad altri fenomeni culturali, soprattutto a partire – come si vedrà – dall’età moderna, e segnatamente da quella industriale del XVIII e XIX secolo.
Per Foucault, il Panopticon diventa un “diagramma di un meccanismo di potere ridotto alla sua forma ideale”, una “tecnologia politica” che mira a massimizzare la docilità e l’utilità degli individui. L’obiettivo è il “controllo della mente piuttosto che solo del corpo”, portando a un’autodisciplina interiorizzata.
La lettura che Foucault fa del Panottico si avvicina agli immaginari della “macchina di sorveglianza” della seconda metà del XX secolo, descritta anche nella letteratura distopica, un’epoca in cui i contemporanei possono contare su tecnologie sempre più perfezionate ma che finiscono per essere assimilabili a sistemi di controllo. Si pensi agli algoritmi che orientano implacabilmente le nostre scelte: nascono come architetture software, e vengono “allenati” affinando progressivamente le analisi di miliardi di dati. Potremmo dunque leggere questo concetto in un periodo “lunghissimo” della modernità e della contemporaneità.
Un concetto, peraltro, che consente di intrecciare piani e discipline differenti, come dimostrano i saggi raccolti in questo numero della rivista.

La visibilità costante, che è il cuore del Panopticon, porta a un’interiorizzazione dello sguardo di controllo, trasformando l’individuo in un agente della propria disciplina, ovvero inducendo un’autodisciplina permanente. In questa configurazione, chi osserva detiene il potere di “produzione di verità”, definendo e classificando l’osservato, la cui prospettiva viene sistematicamente silenziata. Questa dinamica genera una “logica dualistica di inclusione ed esclusione”, che definisce come “residuo” o “scarto” ciò che non può essere inglobato nella norma.

La psichiatria, fin dalle sue origini, (si veda il contributo di Carlotta Rodighiero) è stata un campo emblematico di questa “produzione di verità” asimmetrica, dove il “monologo della ragione sulla follia” si è potuto istituire solo a partire dal silenzio imposto a quest’ultima.
Il caso di Torquato Tasso (Annarita Magri), con la sua “malattia degli scrupoli” e la “dissociazione” come risposta a un controllo sociale pervasivo e anticipatore del “grand enfermement” di conio faucaultiano, illustra come la sofferenza individuale possa essere il prodotto di pressioni esterne e della tendenza a rinchiudere i marginali.
Il contributo su Aldo Palazzeschi (Luca Marzolla) e la sua raccolta L’incendiario, si focalizza invece su come il poeta abbia esplorato i temi della prigionia e dell’isolamento, e come la sua ricerca dell'”ombra” e del “rifugio imperscrutabile” rappresenti un atto di dissidenza contro la “trappola della visibilità totale” e lo sguardo delle masse. Nel contesto italiano del secondo dopoguerra, come evidenziato in uno dei contributi (Davide Paparcone), si è assistito alla creazione di un vero e proprio “Panopticon di Stato”, in cui gli apparati di sicurezza, ereditando metodi dal regime fascista, hanno sistematicamente schedato e monitorato l’opposizione politica, estendendo la sorveglianza ben oltre la prevenzione dei crimini comuni. Questo sistema di “schede informative” e “casellario politico centrale” mirava a limitare gli spazi politici e a mantenere un controllo pressoché assoluto sul paese. Il contributo di Daniele Curci, Discipline e Guerra Fredda: per uno studio dei documenti strategici statunitensi in chiave foucaultiana, analizza le strategie statunitensi durante la Guerra Fredda attraverso la lente delle discipline foucaultiane. L’obiettivo degli Stati Uniti non era la scomparsa dell’URSS, ma il suo “disciplinamento”, ovvero renderla compartecipe dell’ordine globale attraverso un “equilibrio competitivo” e pressioni su Mosca. Questo approccio si manifestava nel “policing the military“, una concezione dell’impiego dell’esercito non per la conquista territoriale, ma per ristabilire e mantenere l’ordine internazionale, simile al ruolo della polizia. La strategia mirava a “modellare” l’ambiente internazionale per indurre un mutamento comportamentale nel nemico, agendo sulla sfera delle mentalità e delle idee, anche attraverso il “soft power” e la propaganda. La sorveglianza permanente – difficilmente verificabile – insieme alla creazione di un ambiente globale sfavorevole all’avversario, erano strumenti chiave per erodere la legittimità del regime nemico e indurre un cambiamento interno.
Il saggio di Idalgo Cantelli, Il paradigma della sorveglianza nell’istituzione militare. Una ricerca sul fondo del Tribunale militare di Bologna (1943-1948) prende in esame l’istituzione militare come un’applicazione del paradigma della sorveglianza, basandosi sull’analisi di circa ottomila fascicoli processuali del Tribunale militare di Bologna tra il 1943 e il 1948.
L’esercito, fin dalla coscrizione obbligatoria, ha sviluppato una “burocrazia delle risorse umane” per la schedatura e il controllo dei soldati, raccogliendo informazioni dettagliate sulla loro condotta militare, condizioni sociali, abitudini private, relazioni affettive, orientamenti politici e persino abitudini sessuali.
Questi “rapporti informativi” e “specchi punizioni” costituivano una “rete di scritturazioni” foucaultiana, trasformando la descrizione in un mezzo di controllo e dominazione, un “documento per una eventuale utilizzazione”. Il contributo evidenzia l’asimmetria e la natura classista della giustizia militare, con un controllo minuzioso sulla vita privata dei soldati e una percezione del matrimonio come rischio per la coesione dell’esercito.

Conclusioni

Molteplici percorsi si intrecciano intorno al Panopticon: sorto nel momento in cui la società occidentale era “sconvolta” dai primi effetti della rivoluzione industriale, esso fu certo un progetto penitenziario che si situò al cuore del più grande dibattito sulla pena: quale è la migliore maniera per punire? Quale la prigione migliore? Assolutamente contrario alla deportazione, Bentham predilige la reclusione; fermo oppositore del confinamento solitario, sceglie i vantaggi del lavoro in comune e al contempo di un controllo continuo: in ogni momento, dell’intero corpo e, di fatto, della psiche… Un progetto “pedagogico”, che nasce nel contesto della filosofia inglese della seconda metà del secolo e va poi evolvendo con la società liberale.

C’erano poi in Bentham differenti “panottici”, tutti volti a unire controllo e protezione in dispositivi architetturali o procedurali. Alla fine del 1790 il filosofo immagina un “Panopticon dei poveri”, ma anche il “Sotimion”, che avrebbe dovuto fungere da rifugio per donne sole incinte, per proteggere la loro reputazione e assicurare loro un avvenire.
Occorreva dunque “disciplinare la società”, ma il confine tra disciplinamento e controllo restava molto sottile, lo è stato in passato e lo sarà, forse, anche in futuro. Il Panopticon di Jeremy Bentham ha rappresentato il culmine di questa tendenza, teorizzando un controllo pervasivo e interiorizzato attraverso la visibilità.
La sua evoluzione riflette la continua ricerca umana di ordine e dominio, trasformando gli spazi in strumenti attivi di influenza sociale e politica. Le sfide future risiedono nel bilanciare l’efficienza e la sicurezza offerte da queste tecnologie con la salvaguardia della libertà individuale e della diversità culturale, garantendo che l’architettura serva il benessere umano piuttosto che diventare uno strumento di controllo incondizionato.

Bibliografia di riferimento

Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, Venezia, Marsilio, 2001.

Gustave de Beaumont, Alexis de Tocqueville, Système pénitentiaire aux Etats-Unis et de son application en France, Paris, Gosselin, 1845.

Hans Magnus Enzensberger, Panopticon. Venti saggi da leggere in dieci minuti, Torino, Einaudi, 2019.

Michel Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975.

David Lyon, The Culture of Surveillance. Watching as a Way of Life, Cambridge, Polity Press, 2018.

Michelle Perrot (a cura di), L’impossible prison, Paris, Seuil, 1980.

Michelle Perrot, Les ombres de l’Histoire. Crimes et châtiment au XIXe siècle, Paris, Flammarion, 2003.

Questo è il primo numero che esce dopo la scomparsa di Pierre Sorlin e Francesco Benozzo, che hanno fatto parte della redazione di Bibliomanie con passione e affetto. Ed è per questo interamente dedicato con gratitudine alla loro memoria.

Note

  1. Abensour, M. Della compattezza. Architetture e totalitarismi, Jaca Book, Milano, 2012.

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