Bibliomanie

Luigi Stefano Giarda: una sonrisa espontanea, buena, incantador
di , numero 59, giugno 2025, Note e Riflessioni, DOI

Luigi Stefano Giarda: <em>una sonrisa espontanea, buena, incantador</em>
Come citare questo articolo:
Giovanni Greco, Luigi Stefano Giarda: una sonrisa espontanea, buena, incantador, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 59, no. 11, giugno 2025, doi:10.48276/issn.2280-8833.12825



Il supremo atto della Ragione […] è un atto estetico, e Verità e Bontà sono intimamente fuse soltanto nella Bellezza. Il filosofo deve dunque possedere un’attitudine estetica pari a quella del poeta, del pittore e del musicista. […] Non si può assolutamente essere ricchi di spirito […] se non si è dotati di senso estetico.

F. Hölderlin, Scritti di estetica


A dieci anni dirige la banda municipale

Luigi Stefano Giarda (1868-1952) fu violoncellista, pianista e compositore di fama internazionale. Nato a Cassolnuovo, in provincia di Pavia, il padre suonava l’organo e glielo insegnò talmente bene che già all’età di quattro-cinque anni il bambino si esibiva regolarmente nelle festività della chiesa parrocchiale di San Bartolomeo. Il magnanimo quanto occhiuto genitore lo spinse quindi verso lo studio sistematico delle arti musicali: fu allievo di Giuseppe Magrini – violoncellista di prim’ordine – a Milano, a sua volta potentemente influenzato dalla gloriosa “scola napolitana” di Gaetano Ciandelli, che riuscì a stregare persino l’incontentabile, atrabiliare Paganini. A dirla giusta, il mefistofelico genio genovese – come rammentano, fra gli altri, biografi del calibro di Pietro Berri (1982) o Danilo Prefumo (2020) – lo stimava il suo unico vero allievo, il più talentuoso e temerario, l’unico, in una parola, che si poteva fregiare del titolo di allievo di Paganini! A ogni modo, il “maestro di color che sanno” nell’arte dell’arco s’impegnò con rara costanza nell’imporgli quasi ossessivamente il raffinamento senza fine della tecnica esecutiva e, contemporaneamente, lo studio davvero metodico dell’armonia e del contrappunto – tutte cose che, a quanto mi consta, mai e poi mai fece per nessun altro reale o presunto discepolo.
Di Magrini venivano apprezzate particolarmente “la bella cavata e la felice intonazione”, mentre Ciandelli (1801-1865) fu, di là da qualsivoglia agiografia d’occasione, un artista di punta delle scuole violoncellistiche; la sua base nobilissima, indubbiamente, fu una Napoli ancora indubbiamente europea (una base, dunque, Parte-nopea e parte napoletana… per dirla con l’immenso Totò!), ma per gemmazione, attraverso i suoi migliori allievi, la sua adamantina e, nel contempo, innovativa metodologia esecutiva si manifestò vivissima in diverse altre città italiane e, in special modo, all’estero.
Giarda perfezionò gli studi a Milano col maestro palermitano Michele Saladino, ma ormai da tempo era considerato un giovane talentuoso d’indubbia, pressoché inespugnabile qualità: a tre anni cantava romanze, a dieci anni diresse la banda municipale in occasione della festa del santo patrono, a undici anni scrisse la sua prima opera musicale Mazurka à la Chopin op. 1, a tredici anni Liszt, Wagner e Puccini lo pretendevano come violoncellista nell’esecuzione orchestrale delle loro opere: insomma, un prodigio tout court.
Su Puccini che aveva conosciuto, molti anni dopo, nel 1926 fece un’apprezzata conferenza a Santiago a Casa Zamorano. Già giovanissimo, a ogni modo, fu membro dell’orchestra della Scala di Milano in qualità di primo violoncello e successivamente primo violoncello al teatro Regio di Torino e al teatro La Fenice di Venezia. Nel 1898 compose Il reietto – un’opera di qualche successo – e successivamente una prima stesura di Lord Byron; d’interesse non meramente “archeologico”, con buona probabilità, è altresì la sonata in La maggiore per pianoforte e violoncello op. 23.
Al Conservatorio di Napoli subentrò a Domenico Laboccetta sulla cattedra – evidenttemente – di violoncello; nell’area napoletana, ancora, sviluppò consistentemente relazioni feconde con intellettuali, studiosi e mecenati fra cui spiccano i coniugi Benedetto Maglione e Teresa Oneto, che lo apprezzarono senza risparmio e lo sostennero in ogni modo possibile.
S’impegnò di vivo cuore, in estrema sintesi, per potenziare, intensificare ed espandere la vita culturale di Napoli, di quella Napoli che tanto gli aveva dato disinteressatamente. Un solo esempio. Giarda organizzò ponderatamente il primo quartetto di vaglia della città, insieme con Angelo Ferni, Ignazio Pascarella e Salvatore Cajati. Ma c’è di più: a loro si unì, in qualche occasione, il grande Martucci al pianoforte. Crearono così dunque un quintetto prestigioso e, sicuramente, di altissima qualità complessiva. Introduco il prossimo paragrafo ricordando che Giuseppe Martucci sarà fra coloro che musicheranno diversi capolavori carducciani.

La musica per Giosue Carducci: me inspira un prufundo respeto y una intensa emocion

Dall’ottima biografia di Ivan Barrientos Garrido (cfr. la Rivista musical chilena del 1996), si evince che Giarda fu grande ammiratore di Giosue Carducci, recandosi appositamente a Bologna, fra il resto, per conoscerlo di persona e presenziare a sue conferenze. In quei fortunati incontri, Giarda ebbe l’impressione che al futuro Nobel la musica non fosse proprio in capo ai suoi pensieri. Anni dopo Giarda, oramai espatriato, ma memore degli antichi incontri, si permise con molto garbo di chiederglielo. La risposta fu: “No, amo a quello que es vulgar, no puedo veschuchar la musica de organillo, pero quando la musica se eleva a la dignidad de arte, y aùn cuando no pueda penetrar su esencia intima, me infunde, me inspira un profundo respeto y una intensa emocion”.
Di rimando chiese ed ottenne il permesso di musicargli Notte d’inverno, Inno a Satana, Serenata e Pianto antico. E Carducci in diverse occasioni ebbe a ribadire: “La vostra musicazione mi onora”. E i ringraziamenti davvero molto avvertiti andarono in tempi diversi a vari altri musicisti assetati di versi carducciani: Arnaldo Galliera, Giovanni Pagella, Mario Montico, Francesco Balilla Pratella, Domenico Alaleona, Mezio Agostini, Emilia Gubitosi, Giuseppe Mulè, il sullodato Martucci, Caggiano, Gandino, Longo, Casella et alii.
Del resto, non è forse vero che “la poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve”?! Così il Mario Ruoppolo naturaliter sapiente, ermeneuticamente impeccabile e pressoché visionario – mirabilmente interpretato, si sa, da un Troisi oramai in fin di vita – de Il postino (1994).
In una deliziosa occasione d’incontro, si narra che Carducci evocasse a Giarda e ad altri fraterni amici un episodio decisivo della sua lunga, variegata parabola esistenziale e poietica. Alludo, naturalmente, all’amore per Lidia, la celeberrima Lidia delle Odi barbare, la Lidia moglie inappagata di un alto ufficiale; riferì, con ogni probabilità, di quella volta che volle stare con Lidia sino all’ultimo, sino ad accompagnarla alla stazione, sino alla partenza del treno: “Già il mostro, conscio di sua metallica anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei occhi sbarra; immane pel buio gitta il fischio che sfida lo spazio”.
Il poeta aveva accompagnato alla stazione la donna amata, in un mattino d’autunno, sotto la pioggia, fra un crepitio di freni e il rumore secco degli sportelli sbattuti del treno, mentre il “mostro”, il treno, il ladro di affetti, gli rapiva il volto di Lidia, che lo salutava con fervido, fremente trasporto e, al tempo stesso, con un pallido rossore imbarazzato.
Lui, il poeta, piano piano, con accurata lentezza, ritorna a casa, ove non ha voglia di tornare, fra la nebbia con cui vorrebbe confondersi, barcollando come un ubriaco, avendo oramai smarrito il senso della sua vita e della sua persona, immerso in un tedio infinito, in un dolore acuto, lancinante, che prende forte il petto e lo squassa senza remissione: “Voglio crogiolarmi in questa mia dolorosa stanchezza che mi pare debba essere eterna”.

Un lavoratore infaticabile

Luigi Stefano Giarda ebbe anche un fratello, Francesco (1854-1907), pianista, compositore, direttore d’orchestra e insegnante che, nel 1895, ebbe la gran soddisfazione di veder diretta da Toscanini al teatro La Fenice di Venezia la sua Sinfonia in Mi maggiore. Colto da una profonda crisi depressiva, si tolse la vita nel 1907. E fu proprio in quegli anni, esattamente due anni prima della morte del fratello, che il Nostro decise di emigrare in Cile. Stefano Landini, nell’elegante, sottile articolo Era il Verdi del Cile, scrive al riguardo: “Lasciò l’Italia per il Cile. Si tratta di una scelta radicale e in un certo senso controcorrente che si rivela decisamente giusta, visto il successo che incontrerà dall’altra parte dell’oceano. Sono gli anni in cui molti connazionali lasciano la penisola e cercano fortuna altrove. L’America latina era una meta privilegiata per i migranti italiani: anche per chi vuol portare alta la bandiera della nostra nazione, quale patria del bel canto. Così è per Giarda”.
Eppure in Italia nessuna orchestra gli era preclusa, nessun Conservatorio si sarebbe rifiutato di averlo come docente (in primis quelli di Padova e di Napoli), per non dire di una sua presumibile, forse auspicata collaborazione a Milano con Verdi. Ciò nondimeno, Giarda desiderava altro e, con ogni probabilità, bramava più che tutto continuare a creare altrove…
Sia come sia, molto di ciò a cui ambiva l’ottenne in Cile grazie a un cambiamento di vita radicale. Non casualmente, di là dell’oceano, in un altro paese dell’America latina, ci sarà un’altra poliedrica artista argentina, Mercedes Sosa, simbolo mirabile dei diritti della sua terra, che per decenni sarà apprezzata – direi pressoché osannata – anzitutto per la sua splendida Todo cambia (1984): “Cambia il superficiale, cambia anche il profondo, cambia il nido l’uccellino, cambia meta il camminante, cambia, tutto cambia”, e tutto cambiò anche per il nostro ardimentoso musicista.
A onor del vero, in Cile suscitò fin da subito un’ammirazione profonda, che rasentò l’adorazione: era considerato un vero e proprio mago, un lavoratore infaticabile, un musicista “con una sonrisa expontanea, buena, incantadora, que atrae y conquista”. E in Argentina un altro musicista esule, sempre discepolo prestigioso della scuola napoletana di Giuseppe Ciandelli, che si chiamava Luigi Forino (1868-1936), romano, diresse a Buenos Aires il Conservatorio nazionale e fu autore del fortunato manuale Il violoncello, il violoncellista ed i violoncellisti del 1905.
A dirla giusta, all’inizio vi era stata – ma solo per pochissimo tempo – qualche perplessità sul Nostro, venuto da tanto lontano e che già a dieci anni era considerato un prodigio italiano.
Si sa, d’altronde, come ragiona da millenni la “plebaglia dell’anima” – per dirla col vecchio Schopenhauer. Chiacchiere da serve di questo livello: “Ma se è davvero un genio perché non se lo son tenuto stretto nella sua patria d’origine?”
Poi però, conoscendolo a fondo, convennero tutti quanti che possedeva una “naturaleza privilegiada, un talento extraordinario” al punto tale che, in occasione di alcuni concerti in cui ebbe a dirigere anche sue composizioni, non mancò un entusiasta presidente del Cile, don Arturo Alessandri, oriundo italiano soprannominato il Lèon de Tarapacà per l’energia della sua oratoria, accompagnato da membri del suo governo.
In quegli anni, solo una volta Giarda poté fare un viaggio in Italia: nel 1909 per assistere alla morte della madre di 88 anni; dava tuttavia alle stampe, parallelamente, il suo saggio lato sensu metodologico di maggior impegno (Del capotasto. Studi per violoncello) che aveva dedicato a Giuseppe Magrini, già suo insegnante al Conservatorio, ma poi tornò rapidamente al suo nuovo incarico di vice direttore del Conservatorio di Santiago.
Nel 1923 diresse un’orchestra di settanta professori al teatro Union Central per Màs allà de la muerte, una sua opera molto apprezzata, portando ai migliori livelli la scuola napoletana violoncellistica di Gaetano Ciandelli a cui sostanzialmente si rifaceva.

Pablo Neruda e il Canto general: a te volgo il mio sangue…

Proprio negli anni in cui Giarda decide di partire per il Cile, nasce Pablo Neruda (1904-1973), che ebbe a scrivere “la poesia venne a cercarmi”: “Non so da dove sia uscita, da inverno o fiume. Non so come né quando, no, non erano voci, non erano parole, né silenzio, ma da una strada mi chiamava, dai rami della notte, bruscamente fra gli altri, fra violente fiamme o ritornando solo, era lì senza volto e mi toccava. […] Ed io minimo essere, ebbro del grande vuoto costellato, a somiglianza, a immagine del mistero, mi sentii parte pura dell’abisso, ruotai con le stelle, il mio cuore si sparpagliò nel vento”. E così il suo monumentale Canto general fu cantato da migliaia di uomini in tutto il mondo, fu cantato da Mikis Theodorakis, da Maria Farantouri, negli oratori per mezzo-soprano e baritano-basso; anche l’Università di Ferrara ha voluto di recente dedicare un delizioso studio teatrale all’opera di Neruda: “Patria, mia patria, a te volgo il mio sangue. Ma t’invoco, come fa con la madre il bambino pieno di pianto. Accogli questa chitarra cieca e questa fronte perduta”. Neruda peraltro adorava la bella musica e si entusiasmava allorquando veniva musicata a regola d’arte qualche sua poesia, cogliendo magari spunti ed intuizioni non immaginate nemmeno da lui: “Questa bellezza è morbida come la musica”.
Quando, nel 1952, Giarda passa ad altra vita, Neruda è esule in Italia, prima a Capri e poi a Sant’Angelo di Ischia, dove vive momenti felici con l’amata Matilde Urrutia, anche se la nostalgia della sua patria è sempre profonda: “Oh Chile, largo petalo de mar y vino y nieves”. Ad Ischia Matilde ricorda: “Il nostro modesto alberghetto era come incuneato in un monticello roccioso, sulla riva del mare. Il giorno stesso che arrivammo abbiamo cominciato a conoscere la vita dei pescatori”. Nell’Ode del mare, Neruda scriveva: “Qui nell’isola il mare/ e quanto mare/ esce da sé stesso/ in ogni momento/ dice di sì, di no/ di no, di no, di no/ dice di sì nell’azzurro/ nella schiuma nel galoppo/ dice di sì, di no”.
E lì si scoprì che il cantore degli oceani (“Oh compagno oceano”) non sapeva nuotare, come il poeta e giornalista-giullare del Giro d’Italia, Alfonso Gatto, che non sapeva andare in bicicletta – neanche Fausto Coppi riuscì ad insegnargli ad andarci! Invece Matilde riuscì a far nuotare il corpulento Pablo “in una spiaggetta che sembrava una laguna, vicino a delle sorgenti termali, e fu lì che Pablo ha imparato a nuotare”. La casa ischitana certo fu meno prestigiosa e accogliente delle tre case abitate da Neruda in Cile, nel quartiere più poetico di Bellavista a Santiago, ma non meno amata. Fu nella meraviglia di quella dolce terra campana che Massimo Troisi diede il meglio della sua arte, quindi morì stremato dodici ore dopo il termine delle riprese de Il postino. Memorabile la frase che Mario Ruoppolo-Troisi disse a un don Pablo magistralmente interpretato da Philippe Noiret: “Voi volete dire allora che il mondo intero è la metafora di qualcosa?”. E fu così che Neruda insegnò al postino – e ricordò a noi tutti – il valore altissimo della parola. Paradigmatico il giudizio di Antonio Skarmeta (1940-2024), un homme de lettres davvero di razza, scomparso pochi mesi fa: “Le parole bisogna assaporarle. Bisogna che si sciolgano in bocca”.
Fra Capri e Ischia, Neruda scrisse L’uomo invisibile, L’uva e il vento, e varie liriche dedicate all’Italia e agli italiani, “il prodotto più fine della terra”. E così mentre il cileno Neruda onorava il popolo italiano, l’italiano Giarda onorava il popolo cileno.

Somos masones y combatimos por la Verdad

Giarda era stato iniziato in Italia nel 1902 nella loggia Losanna n. 3136 di Napoli. Giunto in Cile, si affiliò nella massoneria cilena col grado di maestro. Fu tra i fondatori della loggia Giordano Bruno n. 17, di cui fu anche M.V. dal 1921 al 1923, mentre nel 1930 fu Grand Second Surveillant de la Grand Loge du Chile.
Nel 1912 compose un Himno masonico chileno che, a distanza di oltre cent’anni, è ancora assai apprezzato dalla massoneria cilena: “Somos hermanos, somos masones y combatimos por la Verdad, de la Justicia somos campeones… Al mundo entero librar aspira el que ha jurado un buen mason”. E qui è già inequivocabile il senso della sua volontà di creare logge d’ispirazione italiana nel territorio cileno (attualmente ne risultano quattro): basti por mente alla Giordano Bruno, fondata insieme con altri esuli italiani, come dimostrano, inter alia, le minuziose, recentissime (2023) ricerche di Enrica Donisi.
Ancora oggi, in onore degli esuli italiani massoni, una parte del rituale della loggia viene recitato in italiano. Sulla scia della Giordano Bruno cilena, pure in Italia venne creata a Ferrara, nel 1973, un’officina intitolata al grande pensatore nolano, la quale nel 2018 volle quindi gemellarsi – certo non casualmente – con l’omonima loggia americana. Fu proprio l’11 settembre del 1973 che Salvador Allende, “maestro massone, esce dalla storia per entrare nella leggenda imperitura di coloro che hanno consacrato la loro vita al bene e al progresso dell’umanità” (Stefano Bisi). Aveva proprio ragione Pablo Neruda, anche lui ucciso dai suoi nemici politici, per sacrar la cresta (come si usa dire in Cile), quando affermava che “potranno recidere tutti i fiori, ma non potranno fermare la primavera”.
Era sempre il 1973 allorquando il gruppo musicale degli Inti-Illimani, esponenti della “Nueva Cancion Chilena”, era in Italia, e suonarono anche a Salerno, la mia città d’origine, in un teatro Augusteo traboccante di entusiasmo, cantando a migliaia “El pueblo unido”, composto da Sergio Ortega. Horacio Duran, leader anziano del gruppo e i suoi dovettero così attendere, dopo l’uccisione di Allende, almeno quindici anni prima di rientrare nel loro paese.
Ma non furono solo massoni italiani ad aprire logge cilene: vi furono anche cileni che contribuirono ad aprire officine italiane come, a esempio, il cileno Benjamin Teplitzky, già ministro di Allende, che fece parte della loggia Montesion di Roma e contribuì a fondare la loggia Prometeo. Non per caso, forse, un proverbio cileno recita più o meno: “Siamo viandanti e andiamo per la stessa strada: saremmo stupidi se non ci aiutassimo”.
Anche a Valparaíso, Giarda si fece onore nella città e nei teatri, seguendo così le orme di un altro italiano vieppiù famoso, Giuseppe Garibaldi, già Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, che nel 1870, vent’anni dopo che aveva lasciato l’America latina, ricevette dall’Unione italiana di Valparaíso, appena costituita, l’onore del conferimento della prima presidenza onoraria; Garibaldi col consueto garbo rispose: “Accetto con gratitudine il titolo, ricordando con affetto la gentile accoglienza dei concittadini di Valparaíso”. E infatti proprio a Valparaíso la Massoneria aveva ricevuto nuovo slancio da esuli francesi che, inter alia, crearono diverse nuove logge sotto la “gestione” della Gran Loggia di Francia. Non casualmente anche Pablo Neruda scrisse “Amo Valparaíso, cuanto encierras”.
Certo è che la massoneria cilena con una Gran loggia femminile che opera dal 1970, con una prestigiosa loggia Condor 9, fra l’altro venne anche magistralmente onorata da Neruda con L’ode del muratore tranquillo: “Il muratore dispose i mattoni, mescolò la calce, lavorò con la sabbia. Senza fretta, senza parole, fece i suoi movimenti erigendo la scala, livellando il cemento. Spalle rotonde, sopracciglia su due occhi severi, lento andava e veniva nel suo lavoro e dalla sua mano la materia cresceva. La calce coprì i muri, un pilastro levò in alto la sua nobiltà, e il tetto frenò la furia del sole esasperato. Da un punto all’altro andava con mani tranquille il muratore rimuovendo materiali. E alla fine della settimana i pilastri, l’arco, i figli della calce, della sabbia, della saggezza e delle mani, inaugurarono la semplice saldezza e la frescura”.

Non crediate che muoia: sto per vivere!

Giarda fu anche un librettista di pregio e ricordo almeno Me gustas cuando callas, Para que tu me oigas, La rame robada, Sonato de la noche, Si tu me olvidas, con Elvino Ventura, tenore, col soprano Amedea Santarelli e il baritono Aristide Anceschi (1866-1938), modenese, compagno di studi di Giuseppe Borgatti e allievo del maestro Alessandro Busi, che cantarono da par loro nell’opera Lord Byron, forse la migliore composizione di Giarda.
Nel prestigioso museo massonico de la Gran Logia del Chile, fondato nel 1919, grazie alle prime donazioni di Roberto Orirhuela Salase e di Ramon Gonzalez de la Gandara, sono conservati cimeli di rilievo che riguardano le logge con membri italiani, oltre a decine di cimeli di Allende e del ministro della Difesa Juvenal Hernandez Jacque (1899-1979), massone, che fu determinante anche per la creazione del teatro Experimental de la Universitad e di una conseguente orchestra sinfonica. Il museo contiene attualmente oltre ottomila pezzi, collezioni di paramenti, oggetti, libri. Dopo che un terribile terremoto ne distrusse la sede a Valparaíso, il museo venne trasferito a Santiago e la Massoneria cilena, dopo la dittatura, riprese la sua attività arrivando alle attuali 250 logge: “la fratellanza cilena si dimostra una realtà dinamica, aperta al pubblico, disposta a far conoscere le sue attività e la sua storia” (Pietro Dalle Nogare).
Le recensioni, le opinioni e persino gli accenni relativi al Nostro furono dunque, nei lunghi quanto fruttuosi anni cileni, straordinariamente positivi: “Nel colto e intelligente gruppo di artisti italiani residenti in Cile, il Maestro Giarda si è distinto brillantemente”.
Morì a Viña del Mar il 31 gennaio 1952 e, quasi come avvenne per Neruda, potremmo dire anche per lui: “Non crediate che muoia: accade che sto per vivere”.

Nota del titolo: Qui si offre – in forma beninteso rielaborata ad hoc, ossia, in termini forse meno oscuri, temperata adagio per il numero lato sensu distopico della “nostra” rivista – un saggio che sarà fra breve ospitato in un volume già in corso di stampa: Giovanni Greco e Davide Monda (a cura di), Nei labirinti delle armonie. Una storia massonica della musica e dei musicisti, Milano, Mimesis, 2025, 1000 pp. ca.

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