Bibliomanie

Un amore davvero incorruttibile. Due secoli senza Vincenzo Cuoco
di , numero 56, dicembre 2023, Didactica, DOI

Un amore davvero incorruttibile. Due secoli senza Vincenzo Cuoco
Come citare questo articolo:
Davide Monda, Un amore davvero incorruttibile. Due secoli senza Vincenzo Cuoco, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 56, no. 20, dicembre 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.11163

La letteratura è una specie di laboratorio che ci permette di elaborare e d’interrogarci su dilemmi morali, talvolta in modo estremo, esagerato. […] Se si suicidasse un nostro amico, saremmo molto turbati e cercheremmo di capire le ragioni del suo atto, e benché molti ritengano che in letteratura lo stesso gesto possa essere affrontato alla leggera, io lo considero con la gravità che avrebbe nella vita reale. […] Vorrei incoraggiare a prendere i personaggi con la massima serietà, proprio come si farebbe con una persona in carne ed ossa. I personaggi di un romanzo non sono burattini, hanno diritto di essere rispettati.


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A. B. Yehoshua, Il lettore allo specchio. Sul romanzo e la scrittura, 2003

La sicurezza che Platone aveva era proprio quella di possedere quella sapienza che, sulla base della verità, poteva esprimersi nella dimensione del comico e in quella del tragico […]. Platone dunque era convinto che la vera arte fosse quella che stava realizzando, ossia l’arte della poesia filosofica fondata sul vero. È, questa, come una firma d’autore, che Platone appone con arte squisita al suo capolavoro, che, forse, meglio di ogni altro suo scritto dimostra la verità di questo suo asserto.
G. Reale, Eros dèmone mediatore. Il gioco delle maschere nel Simposio di Platone, 2005


Joubert, spirito solitamente così percettivo e delicato, osserva che «il platonismo senza Platone è insopportabile», ma in questo caso si sbaglia: è vero invece che perfino negli epigoni più opachi si conserva, per forza propria, qualcosa dello charme della sua visione. Tra i fondatori di filosofie e religioni, pochi sono quelli che, come Platone, non devono arrossire della tradizione cui hanno dato origine.
M. A. Rigoni, Variazioni sull’Impossibile, 2006


1. Alcune premesse comparatistiche in didattica delle lettere e delle idee moderne
Il “vecchio” Vincenzo Cuoco (1770-1823), tutto sommato, cosa mai può offrire ancora al lettore non specialista? Perché mai dirigersi, ancora, verso questo pensatore originale quanto discusso, verso questo militante di genio naufragato nel pelago crudele della follia, verso questo autore che, a parlar schietto, oggigiorno può interessare, e magari avvincere, quasi soltanto addetti ai lavori? E infine, in un ambiente didattico che oramai si può realisticamente immaginare soltanto accademico o post-accademico, come si potrebbe far apprezzare ai più giovani un itinerario che, considerata la tematica qui prescelta e i diversi campi del sapere (in primis et ante omnia la filosofia morale) che essa non può non implicare, sarà perlopiù centrato sul Platone in Italia, un’opera de facto emarginata? Non per caso finanche solidi e affermati studiosi, nonostante gli evidenti progressi scientifici compiuti nel Terzo millennio1, seguitano a reputarla bizzarra e, comunque, difficilmente proponibile e godibile, a maggior ragione in universi didattici sempre più complessi, demotivati, fragili.
Sono tutte domande prevedibili e indubbiamente legittime, che verranno pressoché spontanee non solo ai lettori più informati e disincantati, ma pure a quanti, magari per esperienze personali, sono divenuti consapevoli del fatto che – al di là dei numerosissimi problemi di vario ordine che la professione dell’insegnante tout court, oggi forse più che mai, comporta – introdurre percorsi interdisciplinari basati su testi che i ragazzi avvertono (quasi epidermicamente, forse scioccamente ma, salvo eccezioni, fatalmente…) lontanissimi dal loro microcosmo intellettivo e affettivo rappresenta una scommessa ardita, una mossa paideutica affatto priva di garanzie e, qualora fallisca, di giustificazioni.
Sia come sia, molte sono le ragioni che mi hanno spinto a optare per una discussione non priva di precise ricadute didattiche su questo protagonista della cultura europea fra Sette e Ottocento, il cui pensiero assorbe e insieme trascende, supera nettamente le posizioni di quel pur memorabile Illuminismo a un tempo partenopeo ed europeo ove si era formato. Reputo, in primis, che proporre testi sì poco noti e per lungo tempo fraintesi del patrimonio letterario italiano, ma nel contempo ricchi di temi, spunti e idee importanti, possa interessare e forse coinvolgere non pochi colleghi, stanchi di un canone lato sensu scolastico per più versi statico, sclerotizzato, sconfitto.
Quanto al Platone in Italia, sorgente prima di questa proposta, se da un lato bisogna ammettere che presenta numerosi (e talora vistosi) elementi di vario tipo che non ne agevolano la lettura, non si può negare a cuor leggero, dall’altro, ch’esso consente tanto di rischiarare ed esplorare milieux culturali decisivi per l’Italia, quanto d’introdurre, nel libero dialogo con gli studenti, talune di quelle valenze squisitamente etiche, assiologiche e, in qualche modo, “curative” cui ho fatto cenno or ora. Invero, sono convinto che l’alto messaggio morale presente nel libro – quel suo idealismo fervido e vissuto, che non può ridursi sic et simpliciter a raffinata maniera, a moda galante, e che rispecchia fedelmente, invece, una nobile tradizione di pensiero consacrata all’amore e all’amicizia – possa illuminare idee e valori ancor degni di premurosa meditazione, e possa altresì giovare al caos affettivo, al disorientamento emozionale che contraddistingue i soggetti educativi che ci sono affidati.
In primo luogo, tuttavia, mi pare indispensabile delineare il contesto storico-politico in cui lo scrittore molisano è vissuto e ha operato, magari avvalendosi, oltre che della migliore e più aggiornata manualistica disponibile, degli studi di Fulvio Tessitore, di Antonino De Francesco, di Maurizio Martirano, di Domenico Conte e di altri apprezzati “maestri di color che sanno” di ieri e di oggi che ho indicato in bibliografia. Sarebbe opportuno, quindi, esporre sinteticamente le principali correnti ideologiche che, dal tramonto dell’Illuminismo alla Restaurazione, hanno circolato e prevalso in Europa e in Italia, per soffermarsi poi sul pensiero politico cuochiano, ovverosia – soprattutto – su quel Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli di cui si dovrebbero mostrare le fonti e le idee fondamentali, sottolineandone con energia sia l’originalità sia la fortuna italiana e internazionale.
Inoltre, per iniziare i più giovani al contesto di vita, di passioni e di riflessioni che questo scritto fondamentale descrive, discute e critica, sarebbe a mio parere di qualche utilità proiettare in aula un film della compianta Wertmüller, Ferdinando e Carolina (1999), egregiamente coadiuvata, per la sceneggiatura, da un non meno compianto Raffaele La Capria, che qui si mostra a un tempo dottissimo e divertito. Sebbene attenta in special modo alle avventurose vicende e alle personalità stravaganti del Borbone e della sua consorte austriaca, sebbene non priva di approssimazioni, omissioni e cadute di tono non sempre veniali, questa pellicola mi sembra, infatti, un mezzo valido per introdurli alle idee e ai fermenti politici e culturali che animavano la Napoli del tardo Settecento, ovverosia a quelle atmosfere partenopee prima serene e poi, d’improvviso, violente, tragiche e gloriose a un tempo, che Cuoco ha vissuto, sofferto e poi genialmente ricostruito e giudicato nei suoi due grandi libri. In verità, a prescindere dal valore specifico di questo film, nessun insegnante può ignorare o trascurare che nella nostra epoca, legata a filo doppio all’immagine e ai suoi infiniti usi, i linguaggi del cinema sono capaci di compiere veri e propri prodigi, creando o risvegliando curiosità, riflessioni ed emozioni insospettate o insperate. Solo dopo aver compiuto questo tragitto didattico, si potrebbe passare a un’analisi meno vaga ed estemporanea dell’amore nella non vastissima, ma assai varia produzione del Nostro: se ne potrebbero così verificare e valutare, a esempio, l’effettiva presenza, il “peso specifico”, le maniere in cui lo esprime, le ragioni (personali e non) che lo indussero a compiere certe scelte civili, morali ed artistiche piuttosto che altre. Seguendo una pista del genere, si potrebbe fornire anche ai più giovani un capitolo in storia delle idee e delle lettere, delle mentalità e della cultura tanto sottovalutato e negletto quanto inedito e forse ancora avvincente; un percorso così impostato consentirebbe loro, fra le altre cose, di misurare la cospicua distanza sussistente fra gli ideali e gli stili dell’amore sette-ottocentesco e quelli prevalenti nel terzo millennio.
Giulio Bollati, non certo indulgente e forse un po’ ingiusto nei confronti del pensiero politico e sociale del Nostro, ha tuttavia affermato con giusta ragione che il Platone è «uno dei libri meno letti della letteratura italiana, anche perché diventato oscurissimo a partire da una data in cui se ne sono perse, o nascoste, le chiavi» (1972, p. 978).
Per parte mia, di là da certi ideali nazionalistici e militaristici che appaiono ictu oculi inquietanti, e che debbono essere opportunamente storicizzati, ritrovo in questo romanzo d’indubbio, sincero impegno pedagogico e civile una densità vissuta di temi e motivi, di pensieri e sentimenti decisamente non comune, nonché una particolarissima bellezza, prossima ai migliori esiti del neoclassicismo europeo, ma al tempo stesso a tensioni, ansie e fervori squisitamente romantici.
Un’immagine unitaria, incisiva e fulminante dell’intero romanzo ce la diede lo stesso Cuoco, mentre si sforzava di difenderne l’unità d’azione («un’azione continuata ed unica ed un disegno regolarissimo»): «Un ateniese – scrive in effetti il poligrafo civitese nella premessa al suo opus magnum – vien dalla sua patria per conoscere i pitagorici e l’Italia; osserva tutto ciò che gli piace di osservare, scrive tutto ciò che gli piace di scrivere; giunge, viaggiando, fin dove vuol giugnere, e ritorna nella sua patria per quella strada che gli sembra la più comoda» (I, p. 10)2. Anche per far comprendere agli studenti l’importanza del sentiero testuale che sono in procinto di percorrere, si potrebbe considerare insieme con loro, a questo punto, un paio di testimonianze storico-critiche che, sebbene per motivi affatto diversi, mi sembrano entrambe assai significative.
Ambrogio Levati, nel suo pur utile e interessante Saggio sulla storia della letteratura italiana nei primi venticinque anni del secolo XIX (1831), equipara (apparentemente) senza esitazioni, mette su un piedistallo egualmente alto e venerando l’ineguale, talora frettoloso e oggi de facto emarginato Platone cuochiano e il capolavoro di Manzoni: si tratta di un giudizio che – voglio supporre – apparirà ictu oculi, se non blasfemo, quanto meno arbitrario e discutibile anche agli studenti del Duemila:

Di diverso genere sono i due immortali romanzi italiani della nostra età, cioè il Platone in Italia di Vincenzo Cuoco, ed i Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Il primo spira tutto filosofia, ed allude alle vicende dei tempi in cui scriveva l’Autore, il quale dice apertamente nella Dedica a Bernardino Telesio: “L’Italia ha veduto ai tempi nostri gli stessi cangiamenti politici che videro l’una e l’altra Grecia, lo stesso lottar di partiti, lo stesso ondeggiar di opinioni, gli stessi funesti effetti che tutte le opinioni producono quando sono spinte agli estremi”. L’allusione si scopre ancor più manifesta allorquando egli vuol dipingere i suoi contemporanei nei Tarentini.

Memore, chissà, dei giudizi positivi sul Platone di Berchet, di Borsieri e di altri contemporanei tutt’altro che provinciali, il nostro poligrafo ne offre poi una presentazione che ha il fascino sfuggente e, per più versi, aspro di tanti dagherrotipi, e che non sarebbe sterile, forse, offrire a studia humanitatis accademici che, un giorno dopo l’altro, andrebbero ponderati con una coscienza critica davvero onesta: si tratta pur sempre di un’immagine d’autore, che risulta ammirevole sia per la pur datata competenza delle valutazioni, sia soprattutto per la loro sostanziale equanimità:

Finge l’Autore che il manoscritto greco ch’egli traduce sia stato scoperto dal suo avo nell’anno 1774, mentre faceva scavare le fondamenta di una casa di campagna che voleva costruire nel suolo medesimo ove già fu Eraclea. Egli prova che Platone è stato in Italia, e fissa l’epoca del suo viaggio all’anno di Roma 406. La scena si apre nel momento in cui Cleobolo e Platone, oltrepassato il promontorio Iapigio, si dirigono colla loro nave verso il fondo del golfo di Taranto. Seguendo Platone, noi visitiamo questa città, indi Eraclea, Turio, Sibari, Crotone, Locri, e conversiamo coi più distinti personaggi, che ora favellano dello stato della filosofia greca, or della poesia, or della musica, ora dei governi e delle vicende di essi, or delle leggi di Zaleuco e di Caronda; e della costituzione politica dei Sanniti, e dei progressi di Roma, e del lusso e delle voluttà di Capua; e degli antichi abitatori dell’Italia, e dei massicci monumenti degli Etruschi, delle loro costumanze, degli augurii, e principalmente di quelli che si traevano dal fulmine. Né uniforme è il modo con cui si parla di tante e sì svariate materie; ma ora un dialogo, ora una lettera, ora la relazione di un viaggio, ora un confronto rompono la monotonia delle relazioni e delle dispute.

L’autore di questo singolare disegno storico – così vicino, peraltro, nel tempo e nello spazio sia a quei libri illustri, sia ai contesti di vita e d’idee donde erano scaturiti, da riuscire a far breccia nella nostra curiosità – non manca, infine, di fornire condivisibili osservazioni stilistiche e preziose indicazioni sulla prima ricezione del romanzo:

Una maestosa eloquenza qual si conviene al nostro idioma, una fluidità che sbandisce ogni contorta frase ed ogni abbindolato periodo, una vastissima erudizione non inceppata dalla pedanteria, formano i principali pregi di quest’opera. Quand’essa vide la luce era forse più importante per le allusioni che vi si scoprirono: esse sono sparite, ovvero non si ravvisarono col volgere degli anni; ma rimangono i maestosi fondamenti dell’edificio basato sulla storica verità e sulla più solida filosofia (1831, pp. 301-304).

Anche Luigi Settembrini – il patriota animoso, il fervente massone e l’intellettuale engagé familiare a qualsivoglia homme de lettres europeo d’oggi – dedica a Vincenzo Cuoco, nelle famose quanto dibattute Lezioni di letteratura italiana (1866-1872), annotazioni che, per più motivi, appaiono degne di una paziente rilettura. Non si tarda a percepirvi una stima e un affetto alieni da ogni “rettorica” di circostanza, dai toni genericamente encomiastici e lacrimosi di tanta eloquenza coeva. Vi ritroviamo, infatti, sentimenti franchi e virili d’ammirazione che, in certi punti, s’esprimono con accenti di pur misurata commozione: invero, ritengo che all’ardente studioso meridionale stesse alquanto a cuore quel pensatore molisano che aveva militato per l’affermazione d’ideali analoghi a quelli in cui egli stesso credeva, e che inoltre aveva nutrito, probabilmente, una fede viva nei più alti valori morali, civili e politici diffusi e difesi dalla Massoneria3 .
Tratteggiata la turbinosa avventura esistenziale di Vincenzo Cuoco ed esposti i contenuti principali del Saggio storico, Settembrini sottolinea – a mio avviso con acutezza non comune – gl’intenti reali, le ragioni profonde che spinsero lo scrittore a comporre la sua opera più impegnativa ed impegnata:

Il Platone… è libro nazionale, è fatto per consigliare gl’Italiani a smettere la imitazione degli stranieri, a restaurare il sapere e la virtù dei loro maggiori, proponendo non il facile e il conosciuto e non sempre imitabile esempio dei Romani, ma degl’Italioti già civili quando Roma era ancora barbara: insomma è un libro politico e morale. Chi rimprovera il Cuoco, che non ha attinto alle fonti greche, che si è giovato principalmente della storia della filosofia del Brukero, ed ha lavorato di seconda mano, non intende lo scopo che egli si propose, il quale non è l’erudizione, non è svelare e chiarire agli eruditi molti punti di filosofia e di storia, nossignore, ma presentare alla fantasia, all’intelligenza, al cuore degl’Italiani la vita gloriosa dei loro maggiori, e destarli dal sonno presente e spronarli ad opera generosa. Per ottener questo scopo, nuove ricerche filosofiche e storiche non erano necessarie, anzi avrebbero nociuto raffreddando il cuore (1927, III, p. 263).

Più avanti, l’indomabile anticlericale esorta la gioventù italiana, con un vigore pedagogico ribollente di pathos, a leggere da cima a fondo questo «gran libro», giacché lo ritiene eccellente ai fini di una crescita globale:

A voi, o giovani, io consiglio di leggere il Platone che è un gran libro, il quale vi arricchirà di sapienza, vi ornerà di modestia, vi spingerà a qualche bello ardire nell’arte: e se tra voi è qualche sannita, perché egli non pensa a scrivere degnamente di Vincenzo Cuoco mostrandone il sapere e gl’intendimenti? Questa opera è stata tradotta in tutte le lingue colte d’Europa, ed è stata dimenticata dagl’Italiani occupati ad ammirare astruserie straniere, cronichette e leggende del Medio Evo. E se a queste mie parole voi vedrete scrollare qualche testa grigia, ditegli così: ora che taluno lo ha detto un gran libro, rileggilo, e poi ne giudicherai. Finora i nostri giudizi li abbiamo fatti sempre con licenza de’ superiori, dell’Indice, e della Polizia: ora è tempo di farli col capo nostro (1927, III, p. 265).

Letto questo passo in aula, mi parrrebbe consigliabile – specie di questi tempi – storicizzare con sollecitudine e con tutte le cautele del caso il suo pur comprensibile e “sano” nazionalismo. Dalla discussione di tali posizioni settembriniane, d’altra parte, potrebbe prender le mosse una breve digressione sulla generale predilezione dei giovani d’oggi per le letterature straniere, dovuta sostanzialmente, come ognun vede, alla loro maggiore accessibilità. Si potrebbe indicare che, a tali nette preferenze, corrisponde regolarmente – fatti salvi alcuni libri freschi di stampa e comunque soltanto novecenteschi – un’ingiusta, epidermica e acritica sottovalutazione della civiltà letteraria italiana, che rende di fatto tanti suoi “classici” buoni (quasi) solo per riempire scaffali di biblioteche private e pubbliche, sui quali via via si accumulano, inesorabili, strati di polvere sempre più spessi, sempre più neri.
Piuttosto che soffermarsi sui singoli momenti o sui particolari della vicenda, reputo conveniente, in questa fase, concentrare l’attenzione degli studenti sulle idee cardine che il Cuoco – pensatore militante, infiammato dalle proprie idee etico-politiche e dalla loro concreta attuabilità, e non certo esigente, incontentabile cultore dello stile – intendeva diffondere e difendere mediante questa sua fatica di taglio insieme saggistico e narrativo.
Già il vecchio, ma non invecchiato, Fausto Nicolini, in un’ampia e ricca Nota posta in conclusione alla sua rispettabile edizione del testo, le enucleò tutte con chiarezza e precisione ammirevoli: 1. Il municipalismo, teso a elogiare non senza rimpianti le mitiche (e mitizzate) glorie degli antichi Sanniti; 2. Il nazionalismo, in base al quale non già i Greci, ma gli antichi italici furono gli autentici fondatori della filosofia, e, più in generale, «gl’inventori di quasi tutte le cognizioni che adornano lo spirito umano»; 3. L’impegno pedagogico, che mirava a instillare negli italiani valori positivi, quali lo “spirito d’unione”, l’ “amor di patria” e l’ “amor di milizia”, attraverso una formazione adeguata e responsabile; 4. L’antigiacobinismo, presente di fatto in tutta l’opera del molisano, fautore d’un liberalismo moderato ed alieno da ogni eccesso, per quanto eroico e glorioso potesse apparire; 5. L’aspirazione all’indipendenza e all’unità d’Italia, temi che, come si sa, stavano assai a cuore a Cuoco, e che si possono agevolmente riconoscere in più passi decisivi del libro, ove egli allude in maniera perspicua e trasparente a quelle che, a parer suo, erano le condizioni e le esigenze materiali e morali dell’Italia nel primissimo Ottocento, nonché a quelle che avrebbero dovuto essere le sue fervide e virtuose aspirazioni, le sue generose speranze.
Solo dopo aver imbastito una premessa storico-politica e storico-letteraria di questo genere, non sarebbe azzardato intraprendere l’itinerario tematico dentro la produzione cuochiana di cui andavo dicendo sopra.

2. Due dediche preziose
Il periodo che va dal primo aprile del 1800 al novembre (o dicembre) dello stesso anno fu uno dei più duri nel tragitto esistenziale non certo senza nubi e ombre di Vincenzo Cuoco: «Doveva esser ucciso – scriverà da Milano in una tristissima lettera a Diodato Corbo del 7 gennaio 1802, nella quale, fra le tante miserie, evoca pure quei funesti momenti – dai briganti di Provenza, poi dai barbetti del Piemonte, poi dovea morir di disagi, di incomodi, di fame, di peste, di guerra… non sono morto ancora» (1924, II, p. 300; 2007, p. 54). Su questo annus terribilis sappiamo nondimeno assai poco: condannato a vent’anni d’esilio e alla confisca dei beni dal governo borbonico, il nostro giurisperito molisano s’era imbarcato per Marsiglia, ove era giunto il 5 maggio; da lì si era recato in Savoia, quindi in Piemonte, poi a Parigi e, infine, a Milano.
I documenti più rilevanti relativi a questo lasso di tempo sono, con ogni probabilità, le due dediche indirizzate, rispettivamente, a «un amico» e ad una non meglio precisata «T. C.». Ma dediche a che? Bisogna sapere che, durante l’esilio, Vincenzo Cuoco aveva trovato la concentrazione e le energie per riscrivere ab imis un trattatello intitolato Sulla natura del piacere e sui caratteri del bello, la cui prima stesura era andata dispersa. Pure questa redazione, d’altronde, non avrà sorte migliore: ce ne rimangono solamente il proemio e, per l’appunto, le due dediche. Vista l’importanza e l’efficacia di tali testi che, oltre a fornirci diverse notizie non certo marginali, possiedono la forza inimitabile di un Erlebnis perlopiù doloroso, conviene trascriverle quasi nella loro interezza: della prima ho omesso, infatti, la conclusione (inedita fino al 2007), perché appare di natura strettamente estetologica e, dunque, piuttosto lontana dal senso fondo del presente contributo.

A un amico. [Savoia, tra il maggio e il dicembre 1800].
Questo libro, che io ti offro, si deve a te, perché tu ridestasti dall’oblio quelle idee che ne formano la principale parte, e delle quali io mi era occupato in tempi molto più felici. Sulle deliziose colline di Mergellina, su quelle colline che l’uomo trova tanto belle ne’ carmi di Sannazzaro e di Pontano, ma che trova poi col fatto superiori agli stessi loro bei carmi, io ragionai lungamente sulla natura del piacere e sui caratteri del bello: avea allora più metafisica nella mente, più vita nel cuore, ed era con me tal donna che poteva disputar con molti sui precetti e dare a tutti, in moltissime cose, modelli di bello. La natura non le avea negato nessuno di quei doni onde suol render care e pericolose le sue simili, ed una bene istituita educazione non avea trascurato nessuno dei beni della natura. Ella non si credeva filosofa, ed in verità non professava filosofia, se per filosofia s’intende l’arte di persuadere se stesso che si sappia tutto e di dispensarsi da ulteriori dubbi e ricerche; ma ella s’interrogava, e le interrogazioni sue erano più istrutte di ogni decisione. Ella non era erudita, perché non credeva essere un merito l’aver letto molto; ma, per uno che voleva ragionar di bello, ella valeva una biblioteca intera, perché te ne presentava ad ogni momento le più grandi osservazioni. Conosceva il disegno, il ballo, la poesia, e, sopra tutte le altre belle arti, amava e coltivava la musica, e le sue osservazioni eran figlie delle arti sue. Con questa donna, dunque, io ragionai quasi un mese sul piacere e sul bello. La disputa, incominciata un giorno, come per caso, ad occasione della lettura di un libro [il Discorso sull’indole del piacere e del dolore di Pietro Verri, la cui editio princeps livornese uscì, con altro titolo, nel 1773], ci parve tanto importante che risolvemmo di consacrarci due ore in ogni giorno. Ed in quelle due ore noi due sembravamo trasformati in due dialettici del Portico o dell’Accademia antica; talché a chi allora ci avesse veduti, più delle materie delle quali ragionavamo, sarebbe apparso singolare il nostro contegno. Ed era veramente tale, e più d’uno ci diceva: Ma non avete a che altro pensare? Alle donne sembrava strano come si passassero due ore senza parlar di mode, senza dir male, senza fare all’amore. Agli uomini giovani, stranissimo che non si facesse all’amore, non si parlasse di cavalli, non si giuocasse. Ai vecchi, che si parlasse di queste frivolezze e non della rivoluzione di Francia, che allora bolliva forse più forte, e turbava le menti de’ democratici con false speranze, degli aristocratici con falsi timori, degl’indifferenti colla curiosità di sapere come sarebbe andato il mondo dopo una rivoluzione. Noi non facevamo all’amore; credevamo inutile parlar di mode e di cavalli; noioso passar due ore a ripeter sempre “re, fante, donna”; inutile dir male, poiché il mondo non si sarebbe corretto; superfluo parlar della rivoluzione, perché, in ogni caso, tutto, poi, senza l’opera nostra, si sarebbe accomodato per la meglio. Dunque parlavamo di filosofia. Ed io la sera, ritiratomi nella mia stanza, metteva in iscritto il ragionamento del giorno; e questo mio scritto era sempre il primo a leggersi nella seduta del giorno seguente, come le nostre assemblee legislative incomincian sempre le loro discussioni dalla lettura del processo verbale del giorno antecedente. Io era molto contento di quel lavoro e non l’avrei creduto indegno del pubblico, non per la parte che vi avea messo io, ma bensì per quella che veniva dalla mia contradittrice. Ma allora, che l’opera sarebbe stata meno indegna del pubblico, non era mia idea stamparla; oggi la stampo e non la credo tale. Quell’opera non esiste più; ed il singolare è che lo stesso avvenimento, il quale ha fatto perdere a me quell’opera, mi ha spinto ad essere autore. Non avendo più che fare privo di patria e di famiglia, ho incominciato a scriver per non aver altro di meglio che fare; e, per conservar la memoria de’ bei giorni, io i discorsi allora tenuti a te narrerò, come meglio si potrà in tanta distanza di luogo e di tempo, ma coll’ordine istesso col quale furon ragionati (1924, II, pp. 296-297; 2007, pp. 37-39).


Vincenzo Cuoco delinea qui, beninteso, un ammirevole sodalizio essenzialmente culturale, nel quale si fondevano rispetto profondo, stima sincera, vivaci affinità intellettuali e sorvegliati affetti. Stando alle sue espressioni, intrise di nostalgia e non scevre di quei rimpianti amari che si provano allorché si ripensa a un bene irrimediabilmente perduto, fra questa “donna di qualità” e lui s’era instaurata una relazione autenticamente platonica: una di quelle nobili, superbe, adamantine amicizie platoniche in senso forte che nulla hanno a che spartire con certi legami tortuosi, ambigui e, talora, torbidi che – ieri come oggi – non sono certo fenomeni sporadici.
L’altra dedica è indirizzata direttamente alla diletta amica, denominata con avveduta prudenza «T. C.». «Nella dama napoletana qui celata sotto le iniziali ‘T. C.’ – ha scritto l’eruditissimo Nicolini –, […] taluno ha voluto vedere Olimpia Frangipani, che sposò Francesco Cardone, e la cui figlia, Matilde, fu presa in moglie dal fratello del Cuoco, Michele, che ebbe da lei una Luisa, sposata all’avvocato Luigi de Conciliis» (in Cuoco, Scritti vari, II, p. 363). Come che sia, il pensatore civitese riprende, in questo testo, parecchie idee già espresse nella pagina testé esaminata, ma aggiunge altresì elementi nuovi, alcuni dei quali sono, a mio modo di vedere, degni di nota, anche in considerazione del cammino che dobbiamo ancora compiere.

A T. C. [Savoia, tra il maggio e il dicembre 1800]
Quest’operetta si deve a te, perché tue furono le prime idee donde ha avuto origine, e, divenendo mie, altro non han fatto che perdere quell’estensione, quella facilità e quella grazia che avrebbero potuto ricever da te. – Io mi sono occupato delle medesime in preferenza di tutte le altre, perché esse rammentano al mio spirito ed al mio cuore i giorni più belli della mia vita, quando sulle deliziose colline di Posillipo, in quei siti tanto cari a Virgilio ed a Sannazzaro e tanto illustri per le loro tombe e pei versi loro, io obliava talora ed i siti più pittoreschi e le più belle e limpide mattine e tutte le pompe della natura, per ascoltar te, che o versavi col suono e col canto nell’animo mio tutt’i sentimenti ond’eran mossi o l’imperioso genio di Iommelli o il tenero cuore di Pergolesi o la versatile fantasia di Piccinni e di Paisiello; o, sollevandoti alle teorie della più potente delle belle arti, spargevi precetti, i quali, per esser più sublimi, non cessavano però di esser graziosi. Quei bei giorni non torneranno più; a noi non ne rimangono che le memorie: procuriamo di raccoglierle e di conservarle.
Io avea pensato di scriver le tue idee colle stesse tue parole, ed il primo mio disegno fu quello di scrivere in dialoghi i nostri trattenimenti, quali essi eran passati. Ma chi potea ripetere degnamente le parole di Minerva? E poi qual differenza tra i colli di Posillipo e le nude montagne della Savoia, tra le quali io mi ritrovo! Io allora era felice: avea una patria, avea un’onesta fortuna, avea degli amici e te, che tra gli amici ottenevi il primo luogo nel mio cuore. Oggi, la mia sorte rassomiglia le deserte orribili montagne che mi circondano, e le mie idee, le parole mie son dure come la mia sorte.
Forsi, se un avvenimento, che non si potea né prevenire né evitare, non avesse rotto quel corso che io avea segnato ai miei giorni, forsi io non avrei scritto, non sarei stato autore, ma sarei stato felice. E non sarebbe stato meglio godere della vita che dissertarvi? Si è detto che l’agio e l’ozio han fatto nascere i primi filosofi. Io non lo so; ma so bene che le sole disgrazie possono spingere un uomo a divenire autore (1924, II, pp. 297-298; 2007, pp. 40-41).


Nicolini, Cortese, Saitta e altri esimi studiosi hanno riconosciuto nello splendido personaggio di Mnesilla – «très belle de corps et d’âme bellissime», per dirla col maggior poeta neoplatonico-cristiano della Lione rinascimentale, Maurice Scève – una trasfigurazione letteraria di questa donna di cuore gentile e piena di grazie, e dunque, con ogni probabilità, di Olimpia Frangipani.
Pure a me l’ipotesi sembra più che plausibile; desidero tuttavia anticipare che, nel romanzo, la relazione fra il giovane ateniese e la bella fanciulla tarantina, i quali pur coltivano con vivo trasporto la filosofia, le lettere e altre arti, si differenzia nettamente da questa, giacché, sebbene per l’appunto basata sulla condivisione d’idee e passioni simili a quelle che abbiamo individuato nelle epistole, diviene ben presto, dopo una repentina metamorfosi peraltro prevedibile, amore tout court, un sentimento tanto intenso e dispotico quanto onesto, candido, virtuoso.

3. L’amore nel “Platone in Italia”
Anche se calata nello scenario di una Magna Grecia non sempre verosimile e convincente, Mnesilla è – come ha scritto Piero De Tommaso una cinquantina d’anni or sono – una “divina fanciulla” che «prelude al cliché della donna-angelo ritornante in tanta letteratura romantica, dalla Teresa foscoliana alla protagonista del nieviano Angelo di bontà (1856), per non fuoriuscire dall’ambito della nostra narrativa» (1974, p. 394).
A dirla giusta, questa jeune tarentine – per riprendere il titolo d’una celeberrima, superba poesia di André Chénier che il Nostro poteva aver letto e prossima, comunque, al suo gusto e alla sua poetica – possiede numerosi caratteri tipici dell’eroina romantica, di quelle “donne ideali” che, come noto, hanno un ruolo di primissimo piano nella produzione letteraria europea che va dalla seconda metà del Settecento sino, grosso modo, all’uscita di Madame Bovary. Tra i personaggi indimenticabili che animano grandi libri stesi oltre i confini del nostro paese – pur non avaro di riuscite figure femminili di vera nobiltà – mi limito qui a ricordare la Lotte, la Gretchen e l’Ottilie goethiane e la Diotima di Hölderlin, la Julie di Rousseau e la Virginie di Bernardin de Saint-Pierre, la Corinne di Madame de Staël e la Graziella di Lamartine, la Kitty Bell o l’Eve di Vigny e le enigmatiche e talora perturbanti Filles du feu nervaliane – per non dire di tante protagoniste chateaubriandiane, balzachiane e hugoliane.
In quest’epoca, molti letterati abbracciano e diffondono una concezione elevata e drammatica dell’amore, che non è più concepito e sentito né come raffinato e talora piccante divertissement mondano (si rammentino tanti romanzi francesi composti nel Sei e nel Settecento), né come lieve, sottile esercizio galante (si pensi a tanta “rimeria” arcadica, e segnatamente a poeti come Zappi, Frugoni, Ludovico Savioli Fontana o anche il Casti lirico), né tantomeno come compromissione col danaro e con altri commerci (alludo beninteso al romanzo “borghese” che, da Defoe a Fielding, è fiorito soprattutto in Gran Bretagna), bensì come un’esperienza cruciale e totalizzante, capace di conferire un senso autentico all’esistenza di ogni animo “di forte sentire”. Non deve meravigliare, allora, che il suo mancato coronamento, il fallimento delle sue generose e struggenti aspirazioni dia luogo non di rado a soluzioni affatto tragiche, e che si rinvenga così sovente nei testi il topos Amore-Morte, un binomio fatidico e, chissà, sempiterno.
Fra le protagoniste di romanzi italiani riconducibili alla sensibilità romantica, quella oggi più nota è, probabilmente, la Teresa dell’Ortis, una figura delicata, pura e virtuosa, prossima, per alcuni aspetti decisivi, alla Mnesilla cuochiana. Si rammenti, inoltre, che Ugo Foscolo, nel 1802, dà alle stampe un’importante edizione del suo celebre romanzo epistolare a Milano, la stessa città in cui, fra il 1804 e il 1806, esce in tre volumi anche il Platone in Italia. Sarebbe dunque interessante – e forse pure divertente – tentare in aula una comparazione fra questi due personaggi femminili: si scoprirebbero, per quanto ho potuto osservare, molte convergenze di rilievo.
Ma vediamo ora come l’ateniese Cleobolo – l’intelligente ed animoso protagonista della vicenda, il giovane amico e discepolo di Platone nel quale il nostro scrittore mise molto di sé – presenta la «virtuosa filosofessa Mnesilla» (G. Marchesi). Tra le donne che si occupano di filosofia, scrive dunque il nostro greco, «ve n’è, tra le altre, una il di cui nome è Mnesilla… Che vuoi tu che io ti dica? Se potesse avvenire, come desiderava Socrate, che la virtù si mostrasse sotto forme mortali, essa sarebbe bella come Mnesilla» (I, p. 16). Nella quinta epistola del romanzo, poi, Cleobolo seguita a decantare con accenti ugualmente entusiasti sia la bellezza interiore sia quella esteriore della fanciulla, due mirabilia che si uniscono in lei con indicibile armonia:

Io vado ogni giorno da Mnesilla; e la ritrovo ogni giorno più ammirabile. Talvolta vado da lei, pensando che è bella; e nelle tre ore che con lei mi trattengo, ella non mi permette di sentir altro se non che è savia. Talvolta son tutto occupato della sua saviezza: la vedo, e non penso più che alla sua beltà.
Divina creatura! Come è mai possibile apparir al tempo istesso e tanto savia e tanto bella? Mi si dice che ella si abbia proposti per modelli e Mia e Teano. Ma queste quando ottennero tanta fama di saviezza, avean come ella 24 anni? In casa sua si ragunano molte altre donne pittagoriche. Se Mnesilla non vi fosse, sarebbe incerto a chi si debba la palma: ella vi è, ed ogni dubbio sparisce. Ella ha l’arte, che io credo la più difficile nella saviezza, cioè di mostrare la sua senza togliere il luogo a quella delle altre…
Non so perché noto con maggior attenzione ciò che dice Mnesilla che ciò che dicono le altre. Sarà, perché la stimo più di tutte. Ma perché poi noto più particolarmente taluni discorsi, che riguardano talune cose, e su queste desidero più ardentemente sapere come ella pensi? (I, p. 24; 2006, p. 24)


Bellezza e sapienza, virtù e modestia si fondono dunque meravigliosamente in questa divina creatura! Un “miracolo” di natura analoga lo possiamo tuttavia ritrovare, come accennavo, nella Teresa foscoliana, ma pure nella Ginevra dell’Ettore Fieramosca (1833) di Massimo d’Azeglio, nella Morosina Valiner di Angelo di bontà (1856) d’Ippolito Nievo e in altre eroine romantiche italiane ed europee.
Attraverso un incisivo escamotage letterario, Cuoco ci fa poi conoscere, in una sua nota al testo, alcuni degli alti princìpi morali in materia d’amore e di matrimonio che Mnesilla ha fatto propri:

Non il piacere dei sensi ma la probità doversi ricercar nell’amante e nel marito; la sola virtù poter formar un nodo durevole; finir ben presto tutti gli amori meretricii, i quali non sono che errori de’ quali l’uomo ben presto si ricrede, se la moglie non avvilisce se stessa fino al segno di voler contendere con una meretrice (I, p. 25; 2006, p. 25).

Cleobolo confessa quindi – non senza pur veniale ingenuità – a Platone che, quantunque ad Atene non gli siano certo mancate esperienze sentimentali che gli hanno svelato, fra l’altro, i modi e i ritmi tipici del cuore femminile, questa volta prova una passione affatto nuova e di ben altra portata, che gl’impedisce di dichiararsi a Mnesilla.
Non diversamente da quanto ci attendevamo, la risposta di Platone racchiude la durezza fulgida e severa del diamante; vi riconosciamo, inoltre, talune iridescenze agostiniane, ficiniane, feneloniane e, va da sé, di un certo Rousseau:

Tu incominci a credere alla virtù. La modestia è la prima sua figlia; e l’amore ne è il più dotto maestro. Quando la virtù di una donna non le fosse utile per altro, l’è utilissima per avvezzar gli uomini a non desiderare, a non sperare, a non pretendere nulla da loro senza averlo prima meritato.
Tu finora non hai conosciuto l’amore. Esso non è desiderio di cosa mortale, ma bensì di un bello eterno, di cui le menti umane travedono appena un raggio ed a cui si avvicinano pratticando la virtù e ricercando il vero. Tutte le nostre virtù tendono ad alimentare l’amore; e l’amore alimenta e rinforza a vicenda tutte le virtù (pp. 26-27; 2006, p. 26).


a. Amore amaro
Nella lettera XLVI, sempre diretta a Platone, Cleobolo, di ritorno a Taranto dopo circa un mese, si autoesamina non senza concitazione, cercando di ripercorrere i diversi momenti del proprio rapporto con Mnesilla. Desidera essenzialmente far luce sulle metamorfosi interiori che lo hanno via via portato a nutrire per la giovane un sentimento assai differente da quell’amicizia frammista a venerazione che provava all’inizio:

Ove sono, o mio amico, i primi giorni nei quali io conobbi ed amai Mnesilla? Come in un punto tutto è cangiato! Prima il mio cuore era contento di vederla, di udirla; ed io dimandava a me stesso: «Che altro mai posson gl’Iddii aggiungere alla felicità di un mortale?» La sua immagine era sempre presente a me, ma come l’immagine di una dea che io temeva di offendere con qualunque affetto, il quale fosse altro che ammirazione. E se avveniva che nei silenzi della notte sorgesse desiata tra i più cari pensieri de’ miei sogni, mi porgeva la mano, non come amante, ma come amica, ed io sentiva il suo respiro fresco quanto l’aura della mattina che ravviva il fiore languente e molto più puro (II, p. 59; 2006, p. 330).

L’amicizia si è dunque tramutata in amore, e la “dea” è divenuta una donna da cui Cleobolo desidera essere corrisposto. Il giovane filosofo, d’altronde, prende coscienza di tutto ciò con malinconie e rimpianti squisitamente platonici, con un’evidente insoddisfazione verso un’umana condizione imprigionata nel corpo, nella sua lenta, sconcertante fragilità:

Quante volte io mi son lagnato di quella pietosa e crudele natura che ci ha dati i sensi per istrumenti di piaceri, e ci ha imposto il bisogno indispensabile de’ sensi per toglierci de’ piaceri la parte più pura e migliore! Quante volte ho detto a me stesso: «Perché abbiam bisogno della lingua, degli occhi? L’anima mia e quella di Mnesilla perché non potrebbero intendersi, amarsi, riunirsi per sempre, compenetrarsi, formarne una sola?»
Deliziose illusioni, come siete mai svanite! Io ho incominciato a provare un nuovo bisogno: quello di essere amato da Mnesilla. Che cos’è mai l’amore? E quanto è vero ch’egli assorbe tutte le passioni dell’anima! Tutt’i bisogni in colui che ama diventano amore! (II, pp. 59-60; 2006, pp. 330-331)


Da quando ha inteso l’amore di Cleobolo, la fanciulla si mostra fredda e distaccata. Ondeggiando fra diverse passioni ugualmente aspre e cupe, il giovane ateniese non trova peraltro il coraggio di dichiararsi apertis verbis. Soltanto a Platone, amico sicuro e maestro senza eguale, egli può esprimere in forma di parole, può almeno in parte rivelare quel pensiero dominante che lo strugge. È torturato da dubbi e timori crudeli, ma non osa farne cenno a Mnesilla, con la quale pur parla lungamente, ma giammai di ciò che più l’accora…

O Platone! Platone! non è possibile che i nostri cuori non si sieno ancora intesi. Se lo potessi credere, che ne sarebbe a quest’ora del tuo amico? Ma io ho bisogno di dirle che l’amo, di udirmi dire che mi ama, di darne e di riceverne delle prove, di esserne convinto, sicuro… bisogno urgente, insuperabile di parlarle, non con altri, né anche con Nearco, ma con lei, solamente con lei, sempre con lei! (II, p. 61; 2006, p. 332)

Finalmente trova il coraggio, nel cuore pressoché ineffabile di uno splendido paesaggio mediterraneo, di dirle ore rotundo che l’ama:

«Oh! – le dissi – Oh! tu, che sei luce, vita, tutto per me, tu sola mancavi a compir quest’immenso quadro di bellezze che la natura spiega ai miei occhi!…»

Ma la reazione di Mnesilla lo lascia di sasso, lo delude, lo amareggia:

Ella sorrise, mi rialzò, e cangiò in un istante di aspetto. Un istante prima io avea creduto veder scintillare nei suoi occhi la pietà; non avea pronunziate che poche parole, e la pietà era passata (II, p. 62; 2006, p. 333).

Gli accenti che questa donna impeccabilmente virtuosa poi proferisce – espressioni davvero degne della “severa” Beatrice del Purgatorio – in risposta ai tremanti entusiasmi di Cleobolo lo lasciano attonito, esterrefatto, sbigottito…

«Tu credi che tutto nella natura sia messo per dilettare i sensi. Questa mattina, che tragge gran parte delle sue bellezze dalla tempesta che l’ha preceduta, questa mattina non ti rammenta qualche infelice a cui essa possa costar qualche lagrima, e che possa aver bisogno del nostro soccorso? Ogni piacere che la natura offre ai nostri sensi, spesso non è che un ricordo di nuovi doveri al nostro cuore; compiamoli, ed il cuore otterrà un nuovo piacere e maggiore» (II, p. 62; 2006, p. 333).

Mostra quindi all’amico, distratto da ben altre riflessioni e passioni, lo spettacolo del dolore altrui e la necessità di soccorrere gl’infelici:

E qui mi parlò de’ pescatori che nella scorsa notte avean dovuto molto soffrire, e mi dipinse il loro misero stato esposto alli capricci del mare ed a quelli degli uomini più insensibili del mare4, e mi disse che essa avrebbe desiderato soccorrerne taluno che… Ed io son volato al suo soccorso.
Oh! virtù! virtù! E qual forza di destino fa sì che nella bocca della più bella tra le creature tu sii nemica del più soave tra gli affetti umani? (pp. 62-63; 2006, p. 333)


Non sarebbe a parer mio fuori luogo far leggere, dopo queste pagine, qualche passo significativo di Jacques-Henri Bernardin de Saint-Pierre, singolare discepolo di Jean-Jacques Rousseau e homme de lettres per molti aspetti apprezzabile, la cui fortunata produzione prelude indubbiamente al Romanticismo. Oltre che per sensibilità e gusto, Cuoco era vicino a Bernardin de Saint-Pierre pure a livello ideologico: i riferimenti a riti e simboli massonici, infatti, sono evidenti in buona parte della produzione di entrambi.
Inoltre lo scrittore molisano aveva potuto consultare, assai probabilmente, l’opera maggiore del letterato francese, ossia le Etudes de la Nature: sta di fatto, comunque, che la cita in una lunga nota (la prima del venticinquesimo capitolo) del Saggio storico. Dalla fondamentale edizione del 1788 in avanti, le Etudes si concludono con un breve quanto denso romanzo “filosofico”, Paul et Virginie, ambientato sull’Isola Mauritius. È una storia d’amore e di morte i cui protagonisti, due giovani d’origine europea di purezza e bontà quasi sovrumane, verranno turbati, afflitti e infine strappati alla vita terrena da un destino inesorabile. Soprattutto la nobile Virginie, comunque, non perde occasione per manifestare nei confronti di tutti, ma specialmente dei più deboli e poveri, un amore schietto e affatto disinteressato prossimo a quello di Mnesilla:

Vi erano giorni, nel corso dell’anno, che per Paul e Virginie erano di grandissima allegria: i compleanni delle loro madri. La sera prima, Virginie non mancava mai d’impastare e cuocere alcune focacce di farina di grano, che inviava poi a certe povere famiglie di bianchi nativi dell’isola, i quali non avevano mai mangiato pane europeo e, privi dell’aiuto dei neri e ridotti a vivere di manioca in mezzo ai boschi, mancavano, per sopportare la povertà, tanto della stupidità che accompagna la schiavitù, quanto del coraggio derivante dall’educazione. Quelle focacce erano i soli doni concessi a Virginie dal raccolto della piantagione; ma ella vi univa la gentilezza che li rendeva preziosi. Paul era incaricato di portarli personalmente a quelle povere famiglie che, nel riceverli, promettevano di recarsi l’indomani a passare la giornata presso la Signora de la Tour e Marguerite. Si vedeva allora arrivare una madre accompagnata da due o tre misere ragazze, gialle, magre, e così timide da non osare nemmeno alzare gli occhi (1996, pp. 61-62).

A questo punto Virginie – questa splendida incarnazione dell’amore donativo, di quell’amore agàpe che, come ha rammentato in più riprese e con sentita energia Giovanni Reale (1995, pp. 113-115 e 137-145), costituisce l’essenza morale di ogni forma di Cristianesimo – agisce con una generosità sollecita, piena di tatto e delicatezza:

Virginie non ci metteva molto a toglierle d’imbarazzo, servendo loro rinfreschi di cui faceva risaltare la bontà, ricordando qualche particolare circostanza che doveva renderli, secondo lei, più graditi: quel liquore era stato preparato da Marguerite, quest’altro da sua madre, e suo fratello in persona aveva colto il frutto dall’albero. Invitava Paul a farle ballare e non le lasciava sole finché non le vedeva soddisfatte e contente, perché voleva che condividessero la gioia della sua famiglia. “Non si fa la propria felicità”, diceva, “se non occupandosi di quella altrui”. Quando se ne andavano, le invitava a portare via quanto sembrava averle rallegrate di più, dicendo che erano cose nuove e strane per giustificare la necessità di accettarle. Se notava molti strappi nei loro vestiti, con il beneplacito di sua madre ne sceglieva alcuni dei suoi, e incaricava Paul di andarli a deporre di nascosto alla porta delle loro capanne. Così, Virginie faceva il bene secondo l’esempio divino, nascondendo la benefattrice e mostrando il beneficio (1996, p. 62).

In una Taranto decisamente “filosofica” che, a dirla giusta, mi appare ben più vicina alle atmosfere profumate, preziose e un po’ frivole di tanti salotti settecenteschi europei che non alle immagini filologicamente più attendibili della Magna Grecia, Cleobolo ha modo di rivedere l’amata: ella ha orchestrato un convito, ove si ragiona – guarda caso – d’amore. Stancato dal tenore basso di taluni discorsi effimeri e irritanti e, specialmente, dall’indifferenza sospetta di Mnesilla nei suoi confronti («La furba non li fissava mai verso di me, ma li girava or verso l’uno or verso l’altro, e quasi compiacendosi delle dispute altrui e delle mie perplessità.»), il giovane abbandona la raffinata compagnia per meditare sui propri mali ed aprire, ancora una volta, il suo cuore al maestro. Appare agitato da mille pensieri funesti, che lo portano finanche a dubitare della virtù dell’amata che, di fatto, lo sta confondendo e sconfortando inopinatamente:

Il mio cuore non poteva più soffrire. Ho lasciati tutti gli altri che ancora disputavano; ho lasciato lei, per trattenermi con te. Toglimi, per Giove! questo peso di cento libbre che mi sta sul petto. Dimmi, questa donna potrebbe non aver altro che l’ippocrisia della virtù? Una veste di tarantinidia […] simile a quella della sua cugina, e poi un’anima di creta? (II, p. 66; 2006, p. 336)

La brevissima epistola successiva di Cleobolo a Platone, traboccante di amarezza e rimpianti, ha un ruolo decisivo nell’economia di questo vero e proprio “romanzo nel romanzo”, di questa storia d’amore che si sviluppa parallelamente ai tanti altri temi e motivi storici, politici, morali, estetici e religiosi che campeggiano nell’opera:

Addio Platone. Ella lo ha voluto, ed il sole di dimani mi vedrà fuori delle mura di Taranto. Ben altro che un comando di partire io mi aspettava da lei la prima volta che mi avrebbe permesso di parlare dell’amor mio! Ma ella lo vuole: tra otto giorni ti scriverò dal Sannio. Addio (II, p. 67; 2006, p. 337).

Questa lettera (ed altre successive) possono ben ricordare un celebre episodio della Nouvelle Héloïse di Rousseau. Pur fra laceranti sofferenze interiori, nella lettera XV della prima parte del romanzo, Julie ordina al diletto Saint-Preux di partire senza indugio, di restar lontano per un certo tempo dalla sua dimora: la giovane aristocratica avverte in effetti che, seppur dolorosa, questa rappresenta una via di scampo necessaria per sfuggire alla passione travolgente e funesta cui entrambi stanno, un passo dopo l’altro, cedendo:

È necessario, amico, che ci separiamo per un poco, questa è la prima prova dell’ubbidienza che m’avete promesso. Se l’esigo in questa occasione, credete che ne ho fortissime ragioni: bisogna, e lo sapete anche troppo bene, che ne abbia per decidermi a tanto; quanto a voi, deve bastarvi la mia sola volontà.
È un pezzo che dovete fare un viaggio nel Vallese. Vorrei che lo poteste far subito, prima che venga il freddo (1992, p. 76).


Il dolore del precettore, innamorato quanto magnanimo, si scatena nella breve, drammatica epistola successiva:

Rileggo la tremenda vostra lettera, ad ogni riga rabbrividisco. Tuttavia ubbidirò, l’ho promesso, lo devo; ubbidirò. Ma non sapete, o barbara, non saprete mai che cosa un siffatto sacrificio costa al mio cuore. Ah, non avevate bisogno della prova del boschetto [un bacio d’amore accordatogli da Julie] per farmelo più acerbo! È una raffinatezza crudele, inutile per la vostra anima impietosa; io posso almeno sfidarmi a farmi più infelice (1992, p. 77).

Ma ritornando ora al Platone, davvero interessanti, ai nostri fini, si rivelano le tre lettere successive (XLIX-LI). La prima è una dichiarazione d’amore a distanza, in cui un sentimento ardente e ardito che desidera esser ricambiato – senza dubbio la passione principale del testo – si fonde e si confonde con rabbia, paura, dolore e solitudine affettiva:

Ebbene, crudele! a due cento stadi di distanza mi sarà permesso trattenermi con te? A due cento stadi io ti vedo, io ti ascolto, tu sei con me, viva, presente, padrona sempre del mio cuore.
Che ti dirò io del mio viaggio? Che m’importano le terre de’ Tarantini che ho lasciate, quelle de’ Messapi nelle quali sono entrato, quelle de’ Salentini che si prolungano nel mare alla sinistra, quelle degli Appuli che si stendono alla mia destra?… Io non ho tenuto conto se non del tempo da che ti avea lasciato, degli stadi che mi separavano da te.
Quanti ho incontrati pel cammino, i quali da Uria ritornavano in Taranto!… Ed io solo ne partiva! O se pur ne partiva qualche altro, lasciava anch’egli Mnesilla? (II, p. 68; 2006, p. 338)


La lettera continua con una rapidissima narrazione di fatti. Ma si notino le esitazioni inquiete e le calcolate reticenze della penna innamorata:

Gli amici di Archita e tuoi mi hanno accolto in Uria con molta ospitalità. Ma chi può dirti qual giudizio avran dato di me? Mi han chiesto di Taranto, di Archita… anche di te mi han dimandato, o Mnesilla! e forse con più tenera premura che degli altri… Ed io a nessuna altra dimanda ho risposto con tanta loquacità, non saprei dirti se per… o anche per un poco di dispetto… Non ho cenato, non ho parlato di altro… I miei ospiti han detto: «Cleobolo è stanco dal viaggio; ed ha bisogno di riposo…»
Io non avea bisogno di altro che di rimaner solo con te… di scriverti e di sperare… unica e miserabile consolazione che rimane alla mia vita!
Ma o tu che sola puoi rendermi questa vita o misera o felice! O tu che forse a quest’ora non pensi a Cleobolo! Mentre egli ti scrive questa lettera, vedi tu l’astro della notte che misura i mesi della di lui vita ed il duolo che consuma il di lui cuore? Ed il tuo, il tuo non ti dice per quanto altro tempo ancora potrà misurarli? (II, pp. 68-69; 2006, pp. 338-339)


Dopo questa pagina, forse tra le più belle ed efficaci dell’intero romanzo, sentiamo finalmente la voce di Mnesilla ragionar d’amore, dell’amore combattuto e intensissimo ch’ella da tempo prova per quel giovane ateniese. Il lettore non distratto riconoscerà sùbito, nelle sue parole dolenti, oneste e franche, numerosi tratti tipici delle eroine romantiche, di tante malinconiche protagoniste di prose, poesie e pièces ottocentesche, che possono senz’altro considerarsi “sorelle” (o, per lo meno, “cugine”) di questa virtuosa fanciulla della Magna Grecia:

E tu che mi laceri l’anima coi tuoi rimproveri, tu credi forse, tu puoi credere che il cuore di colei che rimane sia più tranquillo del tuo? Quante volte, dopo il tuo ritorno da Locri, in quei giorni che han preceduta la tua partenza, io ho detto a me stessa: «No, io non avrò cuore di vederlo partire!» Quante volte ho tentato parlare, e la parola è spirata sul labbro smarrito; e tu, dando al silenzio del mio labbro un’ingiusta interpretazione, tu non vedevi la guerra, la tempesta che nel mio povero cuore si destava per te! Nella stessa sera in cui t’imposi di partire, un momento, un altro solo momento; e tu vincevi ancora, e tu ancora staresti in Taranto.
Ma non tutt’i giorni dell’amore, o mio amico, son tanto lieti quanto quei primi momenti, ne’ quali il mio cuore si aprì alla dolce speranza di un mutuo affetto. Io lo conosco troppo questo amore; e tu ben sai che non ancora sono ben asciugate le lagrime che per esso ho versate… L’amore ci può promettere de’ piaceri, ma la sola virtù può insegnarci a conservare i piaceri che promette l’amore (II, p. 70; 2006, p. 340).


La travagliata concitazione della giovane innamorata – mai dimentica dei doveri imposti dalla casta virtù, ma col cuore in tempesta… – è poi resa più incisiva e solenne da incalzanti costrutti anaforici:

Deh! se questo amore parla a te come parla nel fondo del mio cuore, se ti è tanto caro quanto lo è a me, soffriamo ancora per poco, o mio amico, e guardiamoci di non estinguerlo profanandolo; guardiamoci di non cangiare il più nobile affetto che ispiri la natura in un cieco precipitoso trasporto; guardiamoci di non dover un giorno pentirci, non di ciò che gli abbiam negato, ma di ciò che gli abbiamo concesso (II, pp. 70-71; 2006, p. 340).

Mnesilla guarda quindi in se stessa, rivelando un’attitudine all’introspezione che ritroveremo ancora nel nostro cammino di lettura. Si osservi, fra l’altro, come il prosatore civitese le faccia pronunciare un’idea assai cara al Rousseau dell’Emile, secondo cui, per natura, la virtù della donna trova nel sentimento del pudore una salvaguardia potentissima:

Io ho temuto più di te, o perché la natura istessa a noi donne, più deboli, ha data per difesa una prudenza maggiore, o perché forsi io più di te… Ma io non voglio farti arrossire de’ tuoi rimproveri; sebbene ingiusti, essi mi son troppo cari. Io ti ho visto la prima volta, e ti ho amato; sei ritornato da Locri, e ti ho temuto… Lo ripeto: un altro momento, e tu ancora saresti in Taranto.
Diam lode ad Amore della nostra vittoria. Tu ti lagni della lontananza? Uomo di poco cuore, non ne conosci tu tutt’i piaceri? Io sento che dal momento della tua partenza alla tempesta che prima agitava il mio cuore è succeduta la calma. La tua immagine è risurta nell’anima mia. Io ti veggo, io ti seguo, io son sempre con te, ed ora ardisco dirti che io ti amo, senza arrossire e senza temere. Il mio cuore respira. Così l’agricoltore, se vede spuntare il sole sgombro da quei vapori e da quelle nuvole che presagiscono un giorno funesto e rendon cagione di palpiti la vista dell’essere più bello dell’universo, ne segue col pensiero il corso, che deve misurare i suoi lavori e riportar l’ora del suo riposo… Ed il riposo del mio cuore sarà con te, che sei da tre mesi la metà della mia vita (II, pp. 70-71; 2006, p. 341).


La risposta di Cleobolo a un messaggio di forza, freschezza e profondità simili, a dichiarazioni colme di tanto trasporto sincero, a questa epistola vergata letteralmente col cuore in mano non può che traboccare di felicità:

Mille volte ho baciata la tua lettera; in due giorni l’ho riletta mille volte. Ne sapeva già tutte le parole, ma, per poterle sempre pronunziare, per non fare che il pensiero le involasse al labbro, per udirmele ripetere, quasi ne contava le sillabe… Ora me l’ho messa sul mio cuore, e nessuno la toglierà mai più.
Oh, come tutta la natura è divenuta per me più lieta ora che è ridestata nel mio cuore la dolce fiducia di esserti più caro! Questo stesso meschino castelluccio, in cui mi ritrovo, e che è tanto sciaurato, che lo stesso nome non può entrare in un verso; in cui si vende, ed a caro prezzo, la più vile tra tutte le cose, l’acqua […]; questo stesso castelluccio è divenuto ai miei occhi un angolo il più ridente della terra. Qui io mi resterei eternamente, qui darei fine a’ miei giorni: con mia madre e con te, io preferirei questo meschino abituro alle superbe città protette da Minerva e da Nettuno… E qual giorno mi potrebbero rammentare Atene e Taranto tanto lieto al mio cuore quanto quello in cui io per la prima volta ho udito dirmi da Mnesilla che mi ama?
Tutti si sono accorti della mia buona ventura. La stessa albergatrice questa mattina mi ha detto: «Il nostro ospite ha avuto buone lettere dalla sua bella. Non è vero?»
«Sì, mia cara». –
«Eh! ben me ne era accorta io».
E poscia ha voluto saper tutta la nostra storia: ella mostrava tanto interesse, ed io era tanto espansivo per la letizia, che son divenuto ciarlone. Ella era tutta contenta, udendo la descrizione che io le facevo di te. Ma, quando poi ha visto il tuo ritratto, la mia buona appula dalla fisionomia muscolosa ed imbrunita dal sole […] è andata in estasi, e non poteva saziarsi di lodarne, or la bocca, sulla quale ella diceva spirare nel tempo istesso modesto e dolce il sorriso, ora quei capelli, ora quella fronte… E pure, o Mnesilla; ella né ti ha vista movere, né ti ha udito mai parlare!
Io partirò domani: lascerò i Campi di Diomede […]. Simile a quei che varcano l’onda del Lete; io lascerò sulla destra sponda del Cerbalo tutte le mie pene. Possa l’arido Atabulo […] disperderle come disperde le nebbie, che ingombrano queste pianure! Io anderò tra i Sanniti, tra i lucani, ove tu vorrai; ritornerò quando a te piacerà; ma la tua immagine sarà sempre con me, e starà sempre con te il mio cuore (II, pp. 72-73; 2006, pp. 342-343).


b. I tormenti dell’assenza
Nella lettera LVII Nearco, il fedele amico di Cleobolo, lo informa circa il reale stato, l’effettiva condizione psicologica di Mnesilla:

Mentre tu sei tra i monti del Sannio, Mnesilla languisce; e di questo suo languore, ‘bellissimo-e-buonissimo’ Cleobolo! ne tocca non picciola porzione anche a noi; poiché Mnesilla fissa i suoi occhi a terra e si ostina per qualche ora a non voler parlare o, se rompe talvolta il silenzio, parla per qualche altra ora, ma solamente di te. Di qualunque cosa avvien che si ragioni, se ella prende parte nel discorso, ci dice sempre: «Cleobolo farebbe, Cleobolo direbbe, Cleobolo faceva, Cleobolo diceva… Cleobolo che farà? Che dirà?» Così, o parli o taccia, Mnesilla è interamente perduta per noi (II, 112; 2006, pp. 379-380).

Altro che gioie, dunque, altro che quei deliziosi piaceri dell’assenza che lodava non senza entusiasmo nella prima epistola inviata a Cleobolo! La realtà dei fatti e del cuore è del tutto diversa: dopo la partenza dell’amato, la giovane è gradualmente caduta in una tristezza cupa, in una malinconia amorosa che non dà pace né alla sua persona né a chi le è più affezionato.
Con la sua consueta franchezza, con quell’immediatezza non scevra d’ingenuità che lo contraddistingue, il buon Nearco esorta l’amico lontano a por fine, una volta per tutte, a questa incresciosa situazione:

Questa cosa sarà bella e buona; ma a dirla tra noi, caro il mio Cleobolo, mi pare che ambedue potreste finalmente risolvere, se pur volete continuare a far all’amore, di farlo a spese vostre, senza che costi tanto anche agli amici. Sai quante volte mi è venuto in testa di dire a Mnesilla: «Ma intendetevi finalmente come s’intende tutto il resto del mondo, e finitela?» (II, 112; 2006, p. 380)

E tuttavia egli non trova poi il coraggio di parlare: in effetti, osservando soprattutto l’aspetto e le movenze della fanciulla, ha cominciato ad avvertire la divina nobiltà del loro sentimento, la sovrana purezza del vincolo insieme delicato e profondissimo che unisce i due amanti virtuosi:

Ma quando poi la vedo, mi sembra tanto dolcemente mesta, i suoi sospiri sono tanto affettuosi, ti nomina con tanta tenerezza, rivolge con tanta grazia quei suoi occhi al cielo, che la sua passione comincia a parermi una cosa santa; ed io non ardisco più di parlarne, per tema di non profanarla (II, 112; 2006, p. 380).

Il “sensuale” Nearco si cimenta quindi in una vera e propria anatomia dell’amor virtuoso, sottolineando come tali innamorati si costruiscano, a mano a mano, un universo parallelo alla realtà effettuale, fondato essenzialmente su una costante autodisciplina, su innumerevoli conflitti interiori che recano, nondimeno, delizie soavi e ineffabili:

Ben comincio ad avvedermi che ha li suoi grandi piaceri anche la vittoria di se stesso. E difatti qual altra ragione ha potuto mover Mnesilla a farti partire? Questa prima vittoria è seguita da nuovi affanni, da mille pentimenti; si vincono anche questi, e si rinnova e si raddoppia il piacere della prima vittoria. Frattanto ambedue voi, tra le vittorie, i desideri, gl’incantesimi di una immaginazione riscaldata vi create un mondo nuovo, vi contemplate a vicenda in un modo tutto vostro, mettete coi vostri inni vicendevoli (perché inni scrivete e non lettere) mettete a contribuzione tutta la natura, diventate l’uno per l’altro… oh! chi può dir mai cosa diventate?… Chi vi vede, chi vi ascolta dice: «Ma che voglion costoro?» e si beffa di voi… E voi intanto vi ridete di lui, perché avete realmente dato un valore straordinario ad una cosa, la quale in verità non ha più valore di quello che le diamo noi stessi (II, 112-113; 2006, p. 380).

Prosegue poi esponendo particolareggiatamente le differenze che, a parer suo, sussistono fra le gioie (maggiori) godute dai “sentimentali” come Cleobolo e Mnesilla, e quelle (minori) che possono conoscere i “sensuali” come lui.
Per rallegrare questo grande amico, che sa coltivare nell’intimo sentimenti così belli e generosi, l’avveduto Nearco gli manda un dono che – reputa – gradirà moltissimo, ovverosia una parte del diario di Mnesilla; e non ci stupisce che il bricconcello sottragga ed invii le carte senza che quest’ultima ne sappia nulla: «è una specie di furto che l’amicizia ha fatto all’amore», afferma arguto.
Queste pagine, che immaginiamo imperlate di lacrime, sono eloquentissime circa i tristi moti interiori della fanciulla, tutt’altro che allietata, per esempio, dalla partenza dell’amato:

Egli finalmente è partito… Io ho visto il suo petto ansante per l’affanno… Non mi ha detto altro se non: «Mnesilla, tu lo vuoi…» Gli ho vietata finanche la miserabile consolazione del pianto… Non sono io contenta del mio trionfo? (II, p. 115; 2006, p. 382)

Nearco aveva ben ragione: la giovane è piombata in una malinconia profonda che non le concede tregua alcuna. Mimando e rielaborando forme e modi tipici di poeti greci e latini, Cuoco le fa dire fra l’altro: «Tu sei bella, o aurora… sì, sei bella… ma non per me. Mi manca a chi dire che tu sei bella…» (II, p. 115; 2006, p. 383). Le ondate della sua stessa passione non cessano di travolgerla: «Come cresce l’ambascia del mio cuore!… Scorro tutt’i siti, tutti gli oggetti… Non ve n’è uno, un solo il quale non mi rammenti lui… Ed oggi dove è?» (II, p. 115; 2006, p. 383).
Pure il pensiero che possa essergli capitata qualche sciagura, mai disgiunto peraltro dal timore di un possibile raffreddamento del suo amore per lei, la inquietano, la ossessionano:

O sole! egli ora scorre que’ monti, verso i quali tu, lasciando il mare, t’incammini col luminoso tuo carro? Salve, o sole! siigli propizio, proteggilo, guidalo; io soffrirò molto… tutto. Ma sia egli lontano, purché sia felice, purché si ricordi di me, purché mi ami…
Se io fossi certa ch’egli non dovesse ritornar più, a quest’ora, in questo loco, il fiotto del mare sottoposto non si udrebbe invano da me… Io non potrei soffrire l’idea di non dover rivedere più Cleobolo (II, pp. 115-116; 2006, pp. 383-384).


Compiendo un ulteriore sforzo di autoanalisi, reso più duro dalle pene dell’aspra assenza, interroga se stessa sulle ragioni effettive che l’hanno spinta a farlo partire, e si dimostra così, ancora una volta, dotata di una indubbia vocazione introspettiva, che non può non far tornare alla mente, fra il resto, gl’intimi scandagli lasciatici da tante scrittrici francesi secentesche e settecentesche:

Perché dunque l’ho fatto io partire?… Egli mi amava… Ho io forsi temuto l’amor suo? Ho desiderata la gloria di vincere? Gloriosa vittoria che si acquista allontanandosi dal pericolo!… Ho voluto io far crescere il suo amore… E se si stanca? Se non mi ama più?…
Oh! credilo pure, Mnesilla: la voce del cuore non inganna mai. Se tu non fossi stata ingiusta con Cleobolo, soffriresti ora quelle pene che soffri, quella noia, quel tedio della vita, del quale i tiranni stessi non sanno inventare tormento maggiore?
Ogni colpa porta con sé una pena determinata: le gravissime sono seguite dalla morte… E la morte il più delle volte che altro ci toglie, fuorché la sensazion del dolore?… Ma questo genere di pena che io soffro, questa insoffribile inquietezza, onde tutte le mie membra, tutt’i miei sensi sono compressi, e per la quale io non soffro una, due, tre privazioni, ma tutte, perché tutto mi annoia, e la vita non mi rimane se non per moltiplicare le privazioni; questa specie di pena indefinita, incerta, ma universale, a quale specie di colpa l’ha destinata la giustizia degli Iddii? (II, p. 116; 2006, p. 384)


Davvero rimarchevole questa descrizione della malinconia amorosa: qui, come del resto nelle riflessioni di Mnesilla che abbiamo già incontrato, sembra fra l’altro di scorgere in filigrana talune reminiscenze di quel sottile, fortunato Discorso sull’indole del piacere e del dolore di Pietro Verri che, come osservato dianzi, Cuoco aveva discusso lungamente a Napoli – in anni assai meno carichi d’impegni, di lavori e di cure rispetto a quelli in cui stese il Platone – con la sua carissima amica appassionata anzitutto di filosofia.
Proseguendo la lettura di queste pregnanti pagine del diario di Mnesilla, troviamo la trascrizione di una lettera inviatale da Platone: con la pacata, invidiabile sicurezza cui ormai siamo avvezzi, il maestro le chiarisce la natura della sua «insoffribile inquietezza» (non si tratta di una “pena”, bensì di un’“ammonizione” inviata dagli Dei, che occorre ascoltare con animo pronto e grato), e la rassicura in merito alla giustezza del suo comportamento verso Cleobolo:

Hai allontanato da te colui che ami e da cui sei amata. Hai cessato di amarlo? E se tu lo ami ancora, che importa ch’egli sia vicino o lontano? Tu hai fatto per virtù ciò che un’altra avrebbe fatto per capriccio. La felicità nella vita, simile all’armonia nella musica, non si ottiene se non col sospendere, col ritardare, quanto più è possibile, le cadenze… (II, p. 117; p. 2006, p. 385)

Il venerando discepolo di Socrate dà poi un saggio eloquente della sua conoscenza della psicologia femminile: si tratta, invero, di un ragionamento tutt’altro che scontato o beceramente moralistico sulle interruzioni nei rapporti amorosi volute da donne:

Di tali sospensioni l’uso tra le donne è diverso. La stanchezza de’ diletti v’induce molte per noia; altre le desiderano per orgoglio, perché, più che amare, amano esser amate; e tanto le prime, quanto le seconde possono accrescere il diletto, ma non mai la perfezione, della quale si dice che sia padre l’amore. Quelle poi, anime più generose, che le desiderano per virtù, soffrono realmente pena maggiore e maggior contrasto, ma ne traggono beni maggiori, perché invece di scemare cresce colla lontananza l’amore; e cresce la virtù che è la sola madre di vero e durevole amore… (II, p. 117; 2006, p. 385).

L’ultima sorpresa offertaci dalle carte del diario di Mnesilla è la narrazione di un suo bel sogno, che costituisce un’evidentissima allegoria dei suoi più intimi e sospirati desideri amorosi:

Qual sogno! Mi pareva che dopo un lunghissimo cammino era entrata in un giardino, in mezzo del quale s’innalzava un picciol tempio consacrato a Venere Urania. La stanchezza, forse anche il dolce susurrar delle frondi che ombreggiavano il tempietto, ed il sacro mormorio di quell’acqua che spicciava dallo stesso scoglio sul quale stava l’immagine della Dea, mi avevano immersa in una specie di riposo, il quale non era veramente sonno, ma rassomigliava quella dolce stanchezza che suol ricoprire come un velo trasparente i nostri sensi; ed io né vegliava né dormiva, ma vedeva ed udiva… Giaceva ai piedi della Dea. Vedeva sopra un ramoscello di mirto un nastro, sul quale erano scritti il nome suo ed il mio… ed il nastro era annodato. Due colombe ne prendevano col becco le due estremità, volando una da un lato, una dall’altro; ed a misura che le colombe si allontanavano il nodo si stringeva…
Grazie, potente Urania! Accetto l’augurio! Sia esso verace!… (II, pp. 117-118; 2006, p. 385)


In virtù del favore e del potente ausilio di Venere Urania, che qui rappresenta naturalmente l’amor virtuoso, l’imeneo potrà dunque compiersi; le colombe – uccelli sacri a Venere che, nell’antichità, venivano effettivamente allevati nei suoi santuari, nonché simbolo universale di purezza e d’innocenza – sembrano inoltre promettere che sarà un nodo d’amore tanto giusto e virtuoso quanto saldo e durevole.
Giungiamo quindi a commentare la fine di questo piccolo quanto pregnante “romanzo sentimentale”: la seguente, infatti, mi pare l’ultima epistola del carteggio fra i due giovani greci davvero significativa per il nostro itinerario tematico:

Soavi illusioni dell’amore! Oh! quale incanto è mai, o Mnesilla, in tutto ciò che viene da te! Una sola, una sola delle parole che tu hai scritte per me, ed io partirei per udirle, ed andrei fino agli estremi confini dell’impero del Gran Re, fino a quelle terre che l’inverno eterno o l’estremo ardore del sole hanno negate alle abitazioni degli uomini!
Non saprei dirti il come né il perché, ma io ben mi avveggo la condizione di colui che ama esser più felice di quella di chi è amato. L’idea di ubbidire ad un tuo comando incomincia a rendermi dolce la stessa lontananza. Te lo confesso: non avea provato ancora un simile effetto. Ma qual altra mai avea saputo ispirarmi questi affetti che tu sola ispiri a coloro che ti conoscono? (II, p. 119; 2006, p. 386)


Anche il Saint-Preux della Nouvelle Héloïse, costretto a una sorta di esilio sentimentale dalle fondatissime preoccupazioni del “vago oggetto” del suo amore, sembra provare affetti simili a quelli di Cleobolo, come leggiamo nella lettera XIX sempre della prima parte del romanzo:

Cento volte – scrive senza infingimenti di sorta a Julie – ho riso leggendo nei romanzi i freddi lamenti degli amanti circa l’assenza. Ah, allora ignoravo che la vostra mi sarebbe stata un giorno intollerabile! Oggi sento quanto un’anima tranquilla è poco atta a giudicare delle passioni, e quanto è insensato ridere dei sentimenti che non si sono provati. Tuttavia, ve lo debbo dire? Non so quale idea dolce e consolante tempera in me l’amarezza della vostra lontananza, pensando che l’avete comandata voi. I mali che mi vengono da voi mi sembrano meno crudeli di quanto mi sembrerebbero se mi fossero mandati dalla fortuna; se giovano a soddisfarvi non vorrei non provarli; sono altrettante garanzie di risarcimento: conosco troppo bene l’anima vostra per reputarvi barbara gratuitamente (1992, p. 81).

In piena consonanza con certa sensiblerie settecentesca e con tanta letteratura – ora più ora meno nota – dell’epoca, Cleobolo prosegue la melanconica narrazione delle sue pene d’amore:

Non sono stato mai tanto vicino a te, quanto ora che per tuo comando ne sono lontano; non mai tanto contento di me stesso, quanto ora che adempio ad un tuo comando. Tu sei sempre con me; io non ragiono con altri che con te. Non ti ragiono né di gioie né di contenti… che importa?… Ti parlo delle mie pene, di ciò che soffro per te; e questo è per me più dolce di ogni altro diletto, perché mi sembra, mentre ti parlo, di vedere sul tuo labbro quel sorriso pietoso onde tu sei tanto parca, e che in tre mesi non ho potuto ottenere giammai (II, p. 119; 2006, p. 386).

Ci imbattiamo poi in uno scoperto riferimento ai Rerum vulgarium fragmenta sul quale, quasi un secolo fa, sorrise non senza imbarazzo anche Felice Battaglia (1925, pp. 233-234). Come peraltro nessuno ignora, ancora all’alba romantica dell’Ottocento la poesia del grande aretino era stimata quale modello letterario insieme fondativo e imprescindibile:

Talora queste regioni montuose offrono alcuni siti pittoreschi che sembran formati dalla natura per asilo di due anime amanti, le quali, obbliate, derise, perseguitate da tutti gli uomini, vi si ritirino per godervi la pace, gli anni e la vecchiezza di Filemone e Bauci. Non mi avvicino mai ad alcuno di tali siti che non mi senta il core batter più forte dell’ordinario, e scapparmi dal petto un involontario sospiro. «Deh! perché – esclamo – non è qui con me colei che forma la metà della mia vita?» Ed abbandono ogni forma di compagnia, e m’innoltro solo, pensoso, perdendomi entro que’ labirinti che formano le quercie antiche, quanto la stessa terra, e l’edera, i ginepri e quella vite selvaggia, la quale, stendendo ampiamente i suoi rami, pare destinata dalla natura a legar insieme tutte le varie parti della numerosa famiglia silvestre. Talora seguo il corso tortuoso di un ruscello; tal altra mi arrampico sulle più straripate cime degli altissimi monti colla speranza di poter riconoscere, tra quel caliginoso azzurro che tinge l’estremità di un orizzonte immenso, il punto nel quale, sul lido del Ionio, è la tua abitazione. Io non vedo nulla, ma raccomando ai ruscelli che sgorgano ai miei piedi e vengono al tuo mare di recarti i miei saluti ed i miei sospiri. Il lamentar degli augelli, il soave mover delle fronde, il mormorare delle acque, tutto parmi che sia la tua voce; io ti vedo, ti ascolto, t’intendo… e da sì lontano tu rispondi ai miei sospiri (II, 119-120; 2006, pp. 386-387. Corsivi miei.).

Anche questi aspetti tutto sommato marginali ci fanno meglio comprendere la singolarità pressoché priva di termini di paragone del Platone in Italia, nel quale si fondono – non sempre, a dire il vero, integrandosi armonicamente – elementi storici, eruditi, filologici, letterari, filosofici, pedagogici, religiosi, giuridici, civili, politici, patriottici etc. Certo è, comunque, che un’opera così progettata e composta non è riconducibile sic et simpliciter al fortunato genere del romanzo archeologico, cui pure deve oggettivamente molto. Ma ecco che, a distanza di poche righe, fa capolino un altro palese ammiccamento al Canzoniere:

Così passando di pensiero in pensiero e di monte in monte, spesso sopraggiunge la sera; e, mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio cuore veglia, innalzandosi col pensiero fino a quegli astri eternamente lucenti che brillano sul mio capo; e dopo averli riguardati ad uno ad uno, il mio occhio si ferma in quella fascia immensa, la quale pare che tutto circondi l’universo. Di là si dice che le nostre anime sien discese, ed ivi ritorneranno… e rimarranno unite… per sempre!…
O saggio figlio di Sofronisco! O Eraclito! O Mnesilla!… Deh! perché tu sei in Taranto ed io tra’ Sanniti? Perché non siamo uniti da oggi… e per sempre?
Vi è qui un sasso che rassomiglia a quello di Leucade famoso per tante morti di amanti sventurati. Ed io spesso dico a me stesso: «Il desiderio della felicità non potrebbe ispirar quello stesso coraggio che ispira la disperazione?» (II, 120-121; 2006, p. 387. Corsivi miei.)


Non diversamente dalle Avventure di Telemaco (1699) di Fénelon – nobile e apprezzato modello per tantissimi narratori e pedagogisti del Sette e dell’Ottocento –, questo atipico romanzo epistolare si chiude lato sensu felicemente. Tanto nel primo quanto nel secondo, inoltre, il discepolo viene a sapere che la sua virtuosa vicenda sentimentale si concluderà in maniera lieta e del tutto appagante dal maestro, cioè dalla voce saggia e sapiente che l’ha accompagnato e orientato con magnanimitas paziente in un lungo e non sempre agevole viaggio di crescita sostanziale.
Nell’ultimo libro del capolavoro francese, mentre si congeda dal figlio d’Ulisse che per tanto tempo ha guidato sotto le sembianze di Mentore, è infatti Minerva a dirgli fra l’altro: «Andate or dunque: voi siete degno di seguire il cammino ch’egli [Ulisse] vi ha segnato. Non vi resta che un breve e facile tragitto per raggiungere Itaca, dov’egli in questo momento sta arrivando. Combattete al suo fianco, e obbeditegli come l’ultimo dei suoi sudditi: egli vi darà per sposa Antiope, e voi sarete felice con lei, per avere cercato in lei più la saggezza e la virtù che non la bellezza» (1982, p. 380).
Analogamente, è il vecchio Platone ad assicurare a Cleobolo, nella densa, sentenziosa lettera che chiude il romanzo, che potrà finalmente coronare il suo sogno d’amore: «Or tu sei già alla metà del tuo viaggio. Te richiaman gli amici, la patria, la madre. Non ci rivedremo se non in Atene, e forse per soli pochi giorni: si appressa per me l’ora d’intraprendere un viaggio più lungo. Tu intanto non perdere il frutto di quello che hai già fatto. Ami Mnesilla e ne sei amato: ella lascerà Taranto per venire a dividere con te in Atene i doveri, le gioie e le pene della vita. E questo sarà l’acquisto che avrà fatto il tuo cuore» (II, p. 272; 2006, p. 527).

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Id., Introduzione a V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, a cura di A. Valles Poli, Milano, 1999.

Note

  1. Onde fornire uno “stato dell’arte” davvero utile al lettore a giusto titolo esigente del nostro tempo (2022), ritengo sia opportuno cedere la parola a Fulvio Tessitore, che da decenni, inter alia, esplora magistralmente l’intera opera cuochiana. Nell’ambito di un’intrapresa editoriale sapientemente orchestrata da Treccani (Il contributo italiano alla storia del pensiero: Filosofia), nel 2012 l’insigne intellettuale partenopeo, dopo aver tratteggiato un nuovo profilo convincente e, talora, artigliante dell’homme de lettres molisano, ha redatto una nota bibliografica preziosa, che desidero qui trascrivere quasi in toto: «Per il Saggio storico, dopo le prime edizioni novecentesche filologicamente sicure, pur se non critiche, di F. Nicolini (Bari 1913, 1919, poi più volte ristampata) e di N. Cortese (Firenze 1925, dottamente commentata), vanno viste la rist. anast. della I ed. (1801), a cura di F. Tessitore (Napoli 1988) e l’ed. critica a cura di A. De Francesco (Manduria-Roma-Bari 1998, con le varianti della II ed. del 1806). […] Del Platone in Italia, dopo le edizioni di F. Nicolini (2 voll., Bari 1916-1924, più volte ristampata), va ora vista l’edizione a cura di A. De Francesco e A. Andreoni (Roma-Bari 2006), nella benemerita nuova edizione delle Opere, diretta da L. Biscardi e A. De Francesco, di cui sono usciti, oltre il Platone, i seguenti volumi: Epistolario (1790-1817), a cura di D. Conte, M. Martirano, Roma-Bari 2007. Scritti politico-giuridici, a cura di N. di Maso, Roma-Bari 2009. Scritti di statistica e di pubblica amministrazione, a cura di L. Biscardi, A. De Francesco, Roma-Bari 2009. Pagine giornalistiche, a cura di F. Tessitore, Roma-Bari 2011. Meritano […] una menzione i moltissimi saggi recenti, principalmente quelli prodotti dai tre centri del “nuovo corso” degli studi cuochiani: Napoli, Milano (intorno ad Antonino De Francesco), Pisa (intorno a Umberto Carpi)». Doveroso aggiungere alla serrata, inequivocabile argomentazione che il progetto relativo agli opera omnia cuochiani non si è fermato ai pur pregevolissimi approdi del 2012. Così, a quanto ora mi consta, nel 2014 è uscita, a cura di A. De Francesco, una nuova e innovativa edizione laterziana del Saggio storico, nonché, nel 2015, un’ammirevole quanto ponderata raccolta di testi cuochiani relativi al senso della ricerca storiografica: alludo al prezioso volume intitolato L’utilità della storia, superbamente allestito una volta ancora, sempre per i tipi di Laterza, da Fulvio Tessitore.
  2. Per le citazioni dal Platone in Italia ho utilizzato l’edizione curata da Giuseppe Saitta (Bologna, Cappelli, 1933, 2 voll.). Tutti i corsivi sono miei. Perché mai, si osserverà probabilmente, non avvalersi dell’ottima edizione critica del romanzo (2006) or ora menzionata nella prima nota? In tutta sincerità, anzitutto per la semplice ragione che – ironia della sorte? – nel secondo volume del mio Letteratura come terapia sociale (2024), dedicherò un saggetto al singolare, eclettico curatore in discorso. Ciò nondimeno, dopo aver compiuto una breve quanto (forse) diligente collazione, ho sempre indicato fra parentesi anche i riferimenti essenziali alla nuova, encomiabile edizione laterziana del romanzo. Mi sono mosso analogamente, come si vedrà, per l’Epistolario (1790-1817).
  3. Sui rapporti di Vincenzo Cuoco con il latomismo italiano mi sembrano proficue quanto persuasive soprattutto alcune riflessioni di M. Themelly (1990), di A. De Francesco (1997) e di P. Rossi (1998).
  4. «I pescatori sono stati sempre la classe forse la più misera di tutte le nazioni. Quelli di Taranto e dell’una e dell’altra Grecia erano simili ai nostri, miserabili, spogliati dagli specolatori, maledetti dai compratori, insultati da tutti i comici, oppressi da tutte le leggi annonarie» Vedi Athenaeus, VI, passim» [Nota di Vincenzo Cuoco].
  5. Per gli opera omnia cuochiani, finalmente disponibili in un’edizione tanto ricca quanto filologicamente ammirevole, rimando alla prima nota.

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