Bibliomanie

Mani pulite. Contro il revisionismo
di , numero 56, dicembre 2023, Note e Riflessioni, DOI

Mani pulite. Contro il revisionismo
Come citare questo articolo:
Gianni Barbacetto, Mani pulite. Contro il revisionismo, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 56, no. 10, dicembre 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.11016

Sono passati 30 anni, ma Mani pulite non ha ancora trovato una lettura condivisa. Anzi, il racconto dell’inchiesta sulla corruzione in Italia che nel 1992-93 ha determinato la fine del sistema dei partiti nato nel dopoguerra è diventato più slabbrato e contraddittorio. Oggetto oggi di “revisionismo” e “negazionismo” anche da parte di molti giornalisti, commentatori e politici che avevano vissuto Mani pulite e l’avevano raccontata per quello che è stata: una grande, complessa, multiforme, ma ordinaria indagine giudiziaria; non un’operazione politica. Ieri salutata – in maniera impropria – come “la rivoluzione italiana”, oggi viene invece da molti criticata e ritenuta l’avvio della “guerra dei 30 anni”, cioè dello scontro tra magistratura e politica.


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Operazione politica?
Mani pulite fu una inchiesta – o meglio, una serie di inchieste – che partì nel febbraio 1992 da una piccola indagine su una tangente da 7 milioni di lire che poi, come nel gioco del domino, si allargò mazzetta dopo mazzetta e portò alla luce un pervasivo e gigantesco sistema della corruzione. Si scoprì che ogni esborso di denaro pubblico per appalti e servizi che usciva dalle casse dello Stato e delle amministrazioni pubbliche era “tassato” con una percentuale che veniva segretamente incassata e spartita dai partiti. I loro segretari amministrativi centrali e i cassieri locali gestivano in maniera riservata, ma organizzata, tutto il sistema.
L’inchiesta ebbe effetti politici: l’implosione di cinque partiti che avevano fatto la storia dell’Italia (Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli) e la nascita di un nuovo sistema dei partiti. Ma il cambiamento avvenne per via elettorale, non giudiziaria. E poté maturare – senza alcuna macchinazione o complotto – grazie a un insieme di concause.
Innanzitutto l’abilità investigativa dell’ex poliziotto Antonio Di Pietro, il magistrato che iniziò le indagini a Milano, e i cambiamenti del nuovo Codice di procedura penale del 1989 che aveva affidato ai pm la direzione delle inchieste e la guida della polizia giudiziaria.
Su scala più grande, fu determinante la diminuzione della disponibilità di denaro pubblico da destinare agli appalti e dunque l’assottigliarsi dei margini per le mazzette: questo rese il sistema più fragile e gli imprenditori più disponibili a denunciare i politici che continuavano a chiedere tangenti in cambio di vantaggi sempre meno lucrosi. Nei primi anni Novanta, in Italia il deficit supera il 10 per cento del Pil; il debito pubblico si assesta sopra il 100 per cento; la lira, sotto attacco sui mercati, barcolla; il tasso d’interesse sui titoli di Stato supera il 12 per cento. Sono i nodi arrivati al pettine della politica dei governi italiani degli anni Ottanta, fatta di spesa pubblica allegra, gonfiata oltretutto dal peso delle tangenti: è questo il sistema che fu chiamato Tangentopoli; è questo il quadro economico che rese possibile Mani pulite.
Il 7 febbraio 1992 il governo di Giulio Andreotti aderisce al Trattato di Maastricht: l’Italia accetta i primi vincoli europei che rendono più difficile la spesa pubblica e il debito, e dunque anche le relative tangenti. L’arresto a Milano dell’amministratore socialista Mario Chiesa, che segna l’avvio di Mani pulite, avviene esattamente dieci giorni dopo, il 17 febbraio. Mentre i cambiamenti economici dettavano le loro regole, nella società italiana si era intanto diffusa una dilagante insoddisfazione nei confronti dei partiti, del loro strapotere, della loro occupazione e spartizione delle istituzioni che avrebbero dovuto servire, della corruzione e impunità di cui era sospettato il sistema politico (ben prima di Mani pulite, le barzellette e le vignette satiriche sui “socialisti ladri” erano diventate fenomeno di costume).
Era profondamente cambiato anche il quadro geopolitico: la caduta del muro di Berlino aveva posto fine alla Guerra Fredda e al mondo diviso in due blocchi. Dunque l’Italia, Paese di confine tra i due blocchi, in cui la classe politica di governo era inamovibile e improcessabile per motivi geopolitici, entra in una fase nuova in cui il sistema politico diventa più flessibile.
Ecco dunque verificarsi nei primi anni ’90 del Novecento la congiunzione astrale di fattori soggettivi, giudiziari, economici, sociali, culturali, politici e geopolitici che rendono possibile il decollo delle indagini sulla corruzione. Una parte della magistratura le aveva già tentate, gli scandali politici si erano susseguiti anche negli anni precedenti, ma senza risultati rilevanti. I pochi magistrati che si erano messi in moto, a partire dai cosiddetti “pretori d’assalto”, avevano dovuto limitarsi a investigare singoli episodi senza poter cogliere il carattere sistemico della corruzione; o erano stati costretti a fermarsi dinanzi ai meccanismi di reazione di un sistema politico-giudiziario ancora potente, che poteva contare su una Procura di Roma pronta ad avocare le indagini sulla politica e sugli insabbiamenti in quello che venne chiamato “il porto delle nebbie”.
Per qualche anno invece, a partire dal 1992, saltano le barriere protettive, le inchieste si moltiplicano in tutto il Paese e riescono a decifrare quello che non era un insieme di casi isolati e slegati fra loro, ma un sistema organico, organizzato e pervasivo di regolazione dei rapporti tra imprese e politica e di sotterranea spartizione di risorse tra i partiti. Poi furono non i giudici nei processi, ma gli elettori nelle urne, a far saltare il sistema dei partiti della cosiddetta Prima Repubblica, ormai screditati. Sorsero o si affermarono nuove forze politiche (la Lega Nord, la Rete, poi Forza Italia) e la classe dirigente del Paese fu costretta a cambiare (almeno in parte, almeno in apparenza) il quadro politico. Colui che più ne beneficiò fu il più abile figlio dell’Ancien Regimedella Prima Repubblica, Silvio Berlusconi, grazie alle sue capacità imprenditoriali, ma anche mimetiche e trasformistiche, agevolate dal suo strapotere mediatico e pubblicitario.
Il nuovo sistema politico, dopo un primo ringraziamento alla magistratura per la sua azione di rinnovamento (presente nei discorsi di Berlusconi all’insediamento del suo governo nel 1994) provvide ad alzare nuove barriere protettive contro una magistratura autonoma e indipendente dalla politica e forte delle regole costituzionali dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e dell’obbligatorietà dell’azione penale. Nasce qui quella che è stata chiamata la “guerra tra magistratura e politica”: una narrazione che tenta di nascondere l’eterna (e perfino comprensibile) pulsione della politica a non essere soggetta al controllo di legalità.

Toghe rosse
L’argomento più forte per cercare di dimostrare che Mani pulite sia stata un’operazione politica è quello che sostiene che le inchieste abbiano annientato i partiti di governo (soprattutto Psi e Dc) e “salvato i comunisti”.
A guardare i fatti, i “comunisti” non sono stati affatto salvati: il primo “politico puro” arrestato a Milano da Mani pulite, dopo il socialista Mario Chiesa che era un amministratore a capo di un ricovero per anziani, fu il pidiessino ex Pci Epifanio Li Calzi, assessore comunale all’Edilizia. Dopo di lui, finì in carcere o sotto indagine l’intera dirigenza del Pds milanese (il partito erede del Pci): i “cassieri” occulti Luigi Carnevale e Sergio Soave, il segretario provinciale Roberto Cappellini, l’ex vicesindaco Roberto Camagni, l’assessore Massimo Ferlini, il segretario provinciale Barbara Pollastrini, il parlamentare Gianni Cervetti (gli ultimi due furono poi assolti).
Le indagini giunsero fino a Roma, al tesoriere nazionale del partito, Marcello Stefanini, e al responsabile del patrimonio immobiliare, Marco Fredda. Furono arrestati e condannati il funzionario del partito Primo Greganti e il responsabile del settore energia Giovanni Battista Zorzoli. Il pool Mani pulite indagò anche sulle coop rosse, sugli uomini del Pds dentro Enel e quelli coinvolti nel grande business dell’Alta velocità. E tentò d’indagare anche su una misteriosa valigia piena di soldi che Raul Gardini, il numero uno di Enimont, aveva portato – secondo alcune testimonianze – nella storica sede del Pci di via delle Botteghe Oscure a Roma. I magistrati non riuscirono però a individuare il destinatario, anche per la morte dei principali protagonisti della vicenda.
Le indagini ricostruirono un sistema in cui i partiti di governo partecipavano direttamente alla spartizione delle tangenti, mentre il Pci-Pds era finanziato attraverso una quota degli appalti pubblici assegnati alle cooperative rosse che poi finanziavano, perlopiù legalmente, il partito. Tranne a Milano, dove la corrente “migliorista” del Pci-Pds era entrata a pieno titolo nel sistema delle mazzette con, appunto, i “cassieri” Carnevale e Soave; e in alcuni sistemi nazionali come quelli dell’energia e dell’Alta velocità.
Il record di avvisi di garanzia spettò al cassiere della Dc, Severino Citaristi, che riceveva i finanziamenti illegali per il maggior partito italiano. Il Psi apparve più colpito da Mani Pulite perché il suo segretario, Bettino Craxi, risiedeva e operava a Milano (sotto la competenza diretta di quella Procura, diversamente dai segretari degli altri partiti, con base a Roma) e perché gli imprenditori e i cassieri di area socialista si rivelarono i più disponibili a confessare, rendendo più facili le indagini. Inoltre, il Psi era strutturato diversamente dal Pci-Pds, aveva (si direbbe in gergo calcistico) la “panchina corta”: rispetto a Pci e Dc era meno compartimentato, privo di filtri organizzativi tra i cassieri dei finanziamenti illeciti e il segretario nazionale. Craxi, secondo i racconti di testimoni ritenuti attendibili, si rivelò l’unico segretario di partito a cui i denari venivano in alcune occasioni consegnati direttamente, dentro grandi buste gialle portate nel suo ufficio milanese, in piazza Duomo 19.

Gli abusi di Mani pulite
I numeri di Mani pulite sono notevoli. La sola Procura di Milano aprì fascicoli su 4.520 persone, per 3.200 chiese il rinvio a giudizio (perlopiù per reati di corruzione, concussione, ricettazione, illecito finanziamento ai partiti), per 1.320 posizioni trasmise il fascicolo ad altre Procure. Per 609 persone arrivò una “condanna” già del giudice dell’udienza preliminare (con rito abbreviato o per patteggiamento), 390 posizioni si esaurirono davanti al gup per prescrizione o per estinzione del reato. Il Tribunale giudicò 1.075 persone. Ne condannò 645; altre 430 furono prosciolte, ma solo 161 con un’assoluzione nel merito, 269 per estinzione del reato, di cui 243 per prescrizione, istituto giuridico che in Italia salva molti imputati dalla condanna.
I critici di Mani pulite hanno allineato negli anni molte accuse ai magistrati che hanno condotto l’inchiesta. Le più ricorrenti sono l’abuso della carcerazione preventiva, usata – dicono alcuni – per far confessare gli indagati e addirittura come una forma di tortura. L’analisi delle inchieste sembra smentire queste accuse. Si era creato nel Paese un clima di consenso entusiasta per le indagini anticorruzione. Sui muri della città comparvero scritte inneggianti ai pm del pool: «Grazie Di Pietro», «Davigo, Colombo, andate fino in fondo». Il tema «Mani pulite» ispirò fiaccolate, feste in discoteca, t-shirt, gadget. Le tradizionali luci natalizie in corso Buenos Aires, la via dello shopping milanese, nel 1993 furono aperte da una scritta inneggiante a Di Pietro. Un clima festoso, nient’affatto greve, con – secondo i sondaggi di quegli anni – la stragrande maggioranza dei cittadini, di destra e di sinistra, che sosteneva Mani pulite, nella convinzione che la legge fosse diventata davvero uguale per tutti e nella speranza che fosse l’inizio di un rinnovamento duraturo della politica.
Questo clima psicologico favoriva le confessioni, le testimonianze spontanee, le chiamate di correo. Le carcerazioni preventive furono lunghe soltanto per alcuni indagati. Di certo la decisione di mandarli in carcere veniva presa non dai sostituti procuratori del pool di Mani Pulite, ma dai giudici delle indagini preliminari (i gip), come previsto dalla legge e seguendo il codice di procedura penale. Quanto alle confessioni, molti degli indagati le rendevano senza essere arrestati o ancora prima che scattassero le manette ai loro polsi («Cominciavano a parlare già al citofono», ricorda ironico l’allora pm Piercamillo Davigo).
Se una percentuale di indagati finiva in carcere, ciò accadeva perché i gip lo decidevano non in modo discrezionale, ma secondo quanto stabilito dalla legge: per impedire che la persona indagata potesse fuggire, o reiterare il reato, o inquinare le prove, intimidendo testimoni o concordando versioni di comodo o distruggendo documenti. Chi confessava veniva rimesso in libertà perché erano cadute le esigenze cautelari: non poteva più né ripetere il reato, né inquinare le prove, avendo reciso il vincolo di omertà che lega corrotto e corruttore ed essendosi dunque reso inaffidabile agli occhi dei complici. Riassume Davigo: «Non li mettevamo dentro per farli parlare, ma li mettevamo fuori dopo che avevano parlato. Come prevede la legge».
Alcuni indagati si tolsero la vita. Quello dei suicidi è un argomento drammatico, perché mette di fronte a una scelta estrema e irrevocabile. Si tolsero la vita (da indagati, ma non in carcere) il segretario del Psi di Lodi Renato Amorese, il deputato socialista Sergio Moroni, l’imprenditore Raul Gardini. Morì in carcere, invece, il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, di cui il pool Mani pulite aveva già deciso la scarcerazione, ma che fu trattenuto in cella da altri magistrati per una diversa indagine, quella sulla tangente Eni-Sai (in cui, post mortem, risultò certamente coinvolto), e non per estorcergli confessioni, ma perché stava cercando di inquinare le prove, mandando a dire ai coimputati di non raccontare quanto sapevano. Amorese, in una lettera ai familiari, spiegò la sua drammatica scelta con il fatto di non riuscire a reggere la vergogna di leggere il suo nome nelle cronache di Tangentopoli. Scrisse una lettera anche a Di Pietro: «La ringrazio per la sensibilità, pur nella rigorosità giusta delle sue funzioni».
Anche Moroni lasciò una lettera, in cui non se la prendeva con i magistrati, ma con i compagni del Psi che l’avevano emarginato e isolato. Uno di loro, Loris Zaffra, poi raccontò: «Con Moroni ne avevamo discusso la scorsa estate. Aveva molto sofferto per il cordone sanitario che gli era stato fatto attorno. Tangentopoli ha messo a nudo, oltre al giro delle tangenti, la slealtà dei rapporti politici. Sei stato arrestato? Peccato per te, entri nel cesto delle mele marce. Gli altri, che con te hanno diviso errori e responsabilità, si girano dall’altra parte. Inaccettabile». Dopo la morte di Moroni, Bettino Craxi commentò: «Hanno creato un clima infame». Il coordinatore del pool Gerardo D’Ambrosio, addolorato ma duro, replicò: «Il clima infame l’hanno creato loro. Noi ci siamo limitati a scoprire e perseguire fatti previsti dalla legge come reati. Poi c’è ancora qualcuno che si vergogna e si suicida». E Davigo: «Le conseguenze dei delitti devono ricadere su chi li ha commessi, non su chi li ha scoperti».

Il complotto
È ricorrente anche il tentativo di spiegare l’indagine Mani pulite come un complotto internazionale ai danni del sistema politico ed economico italiano. Ordito dai “poteri forti”, dalla Trilateral, dalla Cia, dagli americani che volevano mettere fine alla Prima Repubblica, dal potere economico che voleva impossessarsi delle aziende di Stato italiane.
Ad attenersi ai fatti, la verità storica appare molto più prosaica. Nel biennio 1992-93 l’Italia vive una grande trasformazione politica ed economica, nel contesto della profonda mutazione geopolitica internazionale (la fine della Guerra Fredda e del mondo diviso in due blocchi). È possibile che molti poteri, italiani e non, abbiano cercato di incunearsi in questa svolta storica per provare a pilotarla secondo i propri interessi: la massoneria tenta di sostituirsi ai partiti morenti; l’organizzazione mafiosa Cosa nostra va a caccia di nuovi referenti politici e tratta a suon di stragi nuovi equilibri con lo Stato; le centrali economiche internazionali provano a influire sulla metamorfosi del sistema italiano; alcuni imprenditori portano a casa a prezzi di saldo servizi, infrastrutture e pezzi pregiati dell’industria di Stato. Ma è difficile individuare in tutto ciò un complotto.
Gli Stati Uniti, molto attenti a ciò che accade in casa nostra fin dal dopoguerra, hanno certamente tenuto sotto osservazione l’evoluzione italiana, ma con maggiore distacco rispetto a prima, quando il nostro Paese era terra di confine tra i due blocchi, scattavano “strategie della tensione” e la Dc era blindata al governo e improcessabile. Dopo l’implosione dell’impero sovietico, gli Usa allentano la presa, lasciano che l’Italia segua il suo destino. Anche per questo le indagini di Mani pulite possono decollare.

Fango e servizi
L’operazione di denigrazione delle indagini di Mani pulite è tutt’uno con la messa sotto accusa del suo principale protagonista, il magistrato Antonio Di Pietro. È stato attaccato con potenti campagne mediatiche e con decine di inchieste giudiziarie. È stato indagato in lungo e in largo, per anni, senza che sia stato trovato un solo elemento di rilievo penale a suo carico. La Procura di Brescia, imbeccata dalle denunce degli inquisiti a Milano, ha aperto un’infinità di procedimenti sul suo conto, a cui il diretto interessato si è disciplinatamente sottoposto, dopo essersi dimesso prima dalla magistratura e poi da ministro dei Lavori pubblici. Da tutti i procedimenti è uscito prosciolto con formula piena.
Quello che resta è il fango che è stato messo in circolo in una campagna politica e mediatica durata anni e che alla fine è riuscita a raggiungere l’obiettivo di appannare l’immagine dell’uomo che nel 1992-93 era considerato «l’eroe di Mani Pulite», beatificato da gran parte della stampa nazionale e internazionale e della tv con toni enfatici e agiografici oltre ogni limite: quasi fosse un santo, veniva chiamato «la Madonna» e perfino il suo linguaggio popolano, pieno di anacoluti e avaro di congiuntivi, era lodato come «dipietrese». Poi, quando il vento cambiò, Di Pietro divenne un villico illetterato, arruffone e spregiudicato.
Può essere che qualche suo comportamento (alcune frequentazioni, un prestito ottenuto da un amico imprenditore) possa essere considerato inopportuno o poco rigoroso. Ma questo non inficia minimamente il suo lavoro di magistrato né riduce di un millesimo la colpevolezza degli inquisiti che ha scoperto e che poi i giudici hanno condannato. Nessun reato è stato trovato a suo carico in anni di lavorio mediatico-spionistico spiegabile soltanto con la voglia di vendetta di chi aveva perso il potere a causa delle indagini da lui iniziate.
C’è, più in generale, una voglia di vendetta contro Mani pulite, che si manifesta nei tentativi di riscriverne la storia, di rimpiangere e rivalutare la Prima Repubblica e il sistema di Tangentopoli, di additare i magistrati come eterni nemici della politica. Senza aver fatto davvero i conti con Mani pulite in modo sereno e oggettivo, gran parte della politica ha operato nei 30 anni successivi per tentare di ridurre, a suon di riforme (o “controriforme”) della giustizia, il controllo di legalità della magistratura sulla politica. Più che allo «scontro tra magistratura e politica», da tre decenni assistiamo al tentativo della politica di liberarsi dal pericolo che le indagini giudiziarie (ormai condotte da una parte sempre più limitata della magistratura, e con sempre minori strumenti) possano scoprire le robuste quote di illegalità presenti nelle classi dirigenti italiane.

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