Bibliomanie

Pasolini, Luzi e le radici dell’umanesimo
di , numero 54, dicembre 2022, Note e Riflessioni, DOI

Pasolini, Luzi e le radici dell’umanesimo
Come citare questo articolo:
Gian Mario Anselmi, Pasolini, Luzi e le radici dell’umanesimo, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 54, no. 15, dicembre 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.10176

In ricordo di Mauro Conti allievo e amico carissimo
Se sappiamo osservare con attenzione il recente passato non possiamo non percepire con nitidezza che il grande dibattito sulla modernità in Italia nel secondo Novecento ha toccato le sue punte più alte e significative nel dialogo fertile e polemico, via via, di Vittorini, Calvino, Moravia, Pasolini. Ma anche, seppure in modalità altre, fra poeti come Luzi, Bigongiari, Gatto, Montale, Giudici, Caproni. Come a dire che, per la peculiarità stessa della nostra tradizione, adusa, tra tardo Medioevo e Umanesimo, a dislocare il proprio fuoco ermeneutico e speculativo nella letteratura, tra scrittori e letterati, anche nel Novecento, in Italia, si è condensata una riflessione di fondamentale rilievo, ovvero quella che pertiene al “passaggio” verso il Terzo Millennio (e in questa ottica due raccolte saggistiche di Calvino, Una pietra sopra e Lezioni americane, rappresentano proprio per un verso il bilancio di quella combattuta stagione e per l’altro la straordinaria apertura al nuovo ancora da percorrere). In quel dibattito che poneva al centro in modo drammatico e prioritario (come già era avvenuto in altri momenti cruciali della nostra storia e della nostra cultura, con Dante, con Petrarca, con Bembo, con Manzoni) il problema della lingua, della fruizione della letteratura e degli autori, del rapporto tra testo e lettore fino al ganglio dei rapporti coi linguaggi dialettali e settoriali, in realtà si faceva largo una più complessiva riflessione sulla “cultura” in senso lato, antropologico e sociale, e nell’intreccio col delicato processo di passaggio dell’Italia arcaica e contadina verso la “modernità” con le sue mitologie nuove1.
Pasolini (grande lettore di Gramsci da sempre, e anche in questa chiave) più di altri entrò con piglio deciso e “corsaro” nell’arena, costringendo tutti a misurarsi, attraverso il dibattito sulla letteratura, sulla lingua, sui nuovi metodi di comunicazione, con i drammatici problemi del cambiamento e delle trasformazioni. Che le risposte dei vari interlocutori fossero fra loro molto diverse e che la più sostanzialmente pessimistica fosse proprio quella di Pasolini, ma tutte comunque di altissimo livello, mostra il rilievo di quel dibattito e il ruolo essenziale in esso giocato dalle provocazioni pasoliniane.
Pasolini, quindi, non ebbe timori a collocare la sua formazione letteraria, il suo stesso essere prioritariamente poeta, scrittore e lettore al centro delle ragioni fondanti della sua vita e delle sue battaglie: poco si comprende Pasolini, infatti (e molto di lui si fraintese, appunto, per tanto tempo, in modo anche ingeneroso da parte di certa critica militante) se non si coglie come fulcro costante della sua riflessione questa adesione alle ragioni profonde della letteratura e dello specifico ruolo del poeta. Ragioni e ruolo che richiamano quelli già vivissimi nella nostra tradizione dantesca e rinascimentale e che il romanticismo fece integralmente propri, ridefinendoli nel contesto del nuovo soggettivismo filosofico. La letteratura, cioè, come luogo che spezza l’egemonia del logos, fa coesistere gli opposti, diviene il terreno della contraddizione e del “dialogo”; la poesia spezza la storia, la sfida, ne mostra l’altro possibile, quasi in concorrenza con l’autentico concetto di “profeta” che è dato cogliere nei testi sacri. Il “poeta-profeta” in altre parole non come tronfio vate di assolute certezze ma come lacerato cantore di un’umanità dolente in cerca della sua “patria”: non è un caso che Pasolini, in aperta polemica con ermetismi e sperimentalismi, riscopra, per così dire, la “poesia civile”, riplasmi in modo efficacissimo (unico forse dopo i grandi romantici inglesi) la terzina dantesca, citi, in un passaggio cruciale delle Ceneri di Gramsci, Shelley, il geniale interprete romantico e moderno di questa visione peculiare di poeta e poesia. In tale crogiuolo nasce la bipolarità irresolubile, per Pasolini, di “passione” e “ideologia”, ovvero di irriducibilità all’unica dimensione ideologica dell’alterità non detta dalla politica e dai suoi soggetti e che pure è carne e sangue dell’arte, della poesia: Pasolini giunge ad affermare appunto che non si può chiedere al poeta di far tacere la propria voce “profetica”, quella irrimediabilmente alternativa ad ogni visione storicistica e giustificazionista e quindi, per ciò stesso, anche irrimediabilmente “scandalosa”, contradditoria, sempre oltre o altrove rispetto ai quieti porti dogmatici delle ideologie fideistiche, fossero anche quelli della sinistra cui apparteneva.
Ed è ancora a partire da questa sua forte caratura di poeta che, da laico, egli guarda con sgomento al processo di desacralizzazione dell’occidente moderno: l’omologazione, l’appiattimento, l’usura delle esperienze e dei linguaggi sembrano appunto impedire la fertile contaminazione con l'”altrove” che sta alla radice stessa dell’arte e della sua “aura”, con l’ansia utopica che non si ferma alla banale quotidianità. L’irruzione del sacro, dell'”angelo necessario”, per dirla con Cacciari (o con Wim Wenders), l’improvviso squarcio epifanico nella tranquilla quotidianità borghese si accampano al centro di quello straordinario romanzo (uno dei grandi testi del nostro Novecento, da sempre sottovalutato dalla critica) che è Teorema, nato in unisono con l’omonimo film (e pubblicato in un anno emblematico, il ’68).
Proprio se ci soffermiamo su questi snodi possiamo allora comprendere il rilievo drammatico e pieno di genuino pathos che assumono, in Pasolini, altre essenziali dicotomie o bipolarità, da collocare nell’alveo già ben evidente, come si è visto, di “passione/ideologia”: così è per il nesso “mito/storia” (che attraversa tutta la sua riflessione sul mondo antico, dalla traduzione dell’Orestiade a film come Medea); così, ancor più, fino agli ultimi anni di vita, per quell’irrequieto trascorrere dal polo di un inesausto vitalismo a quello di una morte devastante (Salò), e che, si può intuire, avrebbe assunto un ruolo centrale nello stesso vasto progetto dell’incompiuto Petrolio. E del resto, in tutta la sua attività di poeta e scrittore e regista, la dialettica, ora antinomica ora contaminante, fra “corporeità” (fisicità pulsante) e “sacralità” (Accattone, Ragazzi di vita, Una vita violenta, ma anche già le poesie friulane) si attesta al cuore della sua poetica, terreno emblematico di ciò che è dicibile solo col discorso straniante del mito, dell’arte, della letteratura; e invece negato dalla banalità inespressiva della comunicazione quotidiana, massmediologica, ideologica, anzi di fatto inesprimibile, censurato, perennemente frainteso nelle articolazioni dei linguaggi che ineriscono a tale comunicazione. La società contemporanea ha infatti tragicamente messo in luce la lacerazione originaria dell’uomo, sospeso tra la sua violenza ferina e devastante e il processo di costruzione della “civiltà” fondata sulla ragione, sulle leggi, sul mito del progresso.
Perciò a Pasolini è così caro il mito dell’Orestea di Eschilo. Il testo di Eschilo non è solo tradotto nel 1960 ma è da Pasolini successivamente fatto proprio come uno dei possibili viatici per interpretare la radicale dualità di ogni civilizzazione. L’antropologia di Pasolini non è infatti un sistema: è piuttosto il frutto di una osservazione poetica sostanzialmente pessimistica del processo di civilizzazione dell’umanità.
All’origine, per Pasolini, non vi è comunque alcun paradiso perduto da riconquistare: l’innocenza è già perduta dall’uomo nel suo stesso essere nel mondo. Il rimpianto di Pasolini è per una innocenza non raggiungibile, fruibile solo per via mitica e analogica ovvero poetica; una innocenza ugualmente importante da rievocare come “luogo” utopico dell'”altrove”, pietra di paragone che impedisce di soccombere all’omologazione della quotidianità corrotta e corrosiva. Per questo la cultura occidentale deve continuare a confrontarsi con il mito greco: quel mito ha messo a nudo una volta per tutte l’origine della lacerazione e della dualità, il distacco definitivo tra uomo e Dio, il faticoso cammino della civiltà come necessità talora cieca e imponderabile. Non è casuale che Pasolini, accanto a Oreste, rimediti, nei suoi film le figure di Edipo e Medea. Le Erinni non diventeranno mai del tutto Eumenidi, Medea e Giasone non si riscatteranno dalla propria violenza originaria e tutta la sua sapienza non salverà Edipo dalla maledizione propria dell’uomo (l’antropologia di Pasolini e la sua tragica rilettura del mito greco richiamano, per tanti versi, Machiavelli, specie il memorabile XVIII capitolo del Principe).
L’accesso poetico, artistico, filmico a quei miti è forse l’unico ancora possibile, di là da ogni logos filosofico: non a caso Pasolini, con i versi di un’altra opera significativa, Pilade, tenta di proseguire l‘Orestea di Eschilo, rinnovando il tema della dualità non risolta tra uomo e civilizzazione, tra ferocia primitiva e ragione, logos, tra brutale istinto di sopraffazione e legge, nomos.
Non a caso questo è il tema dominante del suo approccio ai cosiddetti paesi in via di sviluppo, ai paesi africani in particolare: se essi sono negli anni Sessanta il luogo di un'”origine” che sembra ancora incontaminata e perciò apparentemente “innocente” (si veda l’uso che Pasolini fa di questo spunto nei suoi film) essi sono anche il luogo di una “civilizzazione” dirompente e devastante ovvero il luogo di uno scontro senza precedenti tra “ragione” illuministica e “ragione” analogica e simpatetica. L’una non riesce ad annullare del tutto l’altra: la ferocia di fondo dello scontro (e le vicende africane di oggi danno ancora una volta ragione al Pasolini “profeta”) non fa intravedere alcun possibile Oreste africano vincitore. La dimensione tragica della perdita originaria dell’innocenza, della impossibilità dell’innocenza sembra accumunare così Occidente e Paesi del terzo mondo nella loro storia. Pasolini quindi non ha verso il terzo mondo una curiosità asettica da scienziato né tantomeno un trasporto ingenuo di entusiasmo facile e acritico com’era frequente nel pensiero “militante” : con determinazione, con scrupolo (anche con i suoi appunti di viaggio) Pasolini tenta invece di capire come nasca il conflitto originario, verificandolo nei luoghi dove esso è appunto ancora eclatante, e reso ancor più tragico e incombente dalle pesanti responsabilità del mondo occidentale nel cosiddetto processo di “civilizzazione”. Pasolini non “cerca” miti africani o orientali dal sapore esotico o ideologicamente salvifico, non pretende di convertirsi a tradizioni non sue: vuol mettere alla verifica dell'”origine” i suoi personali miti, il suo approdo culturale e antropologico, di uomo forgiato dalla civiltà greco-occidentale, da intellettuale di sinistra controcorrente e imprevedibile. Pasolini è insomma prima di tutto poeta educato sulla tradizione classica e romantica; non antropologo culturale: e in ciò sta forse la singolare forza delle sue intuizioni o, come si diceva all’inizio, quel suo statuto di “poeta-profeta” civile dell’occidente al punto forse più alto della sua crisi novecentesca. Non c’è consolazione nell’antropologia pasoliniana (anzi, con Salò, vi è ormai solo disperazione, nel senso originario e forte del termine, contiguo al suicidio, al dissolvimento per “mancanza di speranza”): c’è però a lungo (anche con i film dedicati alla “Trilogia della vita”) il senso di una grande funzione conoscitiva della ragione poetica ovvero mitopoietica, secondo la migliore tradizione umanistica e romantica (specie inglese). Questa conoscenza, questo particolare rispetto per la tradizione mitografica e la sua forte valenza metaforica certo non consolano ma danno il senso originario del nostro continuo “rimpianto”. Il mondo moderno, la sua banalità, la sua devastante piattezza antropologica non possono impedire al poeta e al suo pubblico di rimpiangere l’innocenza, di far vivere comunque l’utopia, di dare testimonianza estrema di ogni irriducibile alterità: per Pasolini questa ricerca è tanto dolorosa quanto ineludibile, sta nella natura stessa dell’uomo e il mito che può dirne è della cifra del mito greco, il mito appunto che narra la dualità, la lacerazione, la necessità in cui operano i figli di Prometeo. I miti della contemporaneità sono fasulli, non apportano conoscenza, non sono segno di contraddizione, sono altro dal mito come poetica e dolorosa ricerca: sono, per paradosso, portatori essi (non quelli greci o arcaici) di piattezza, di staticità, di allontanamento dalle cause ultime.
Fuggono la morte: non parlano la morte; fuggono la passione: non parlano la passione. Descrivono l’uomo senza saperne. Antropologia si dà col mito antico. Ma il mito antico si dà con la letteratura ed i suoi testi, con il sapere del poeta, del “profeta” umanista, di chi sta al punto di rottura tra uomo e storia. Pasolini ha sempre cercato di non fuggire quel punto, di ricordarcelo, di narrarcelo, di testimoniarcelo, affrontandone tutte le conseguenze fino a quelle estreme2.
Perché accostare questo Pasolini al diverso, “lontano” Mario Luzi? La cosa sembrerebbe ancora più singolare se si rammentano i primi giudizi di Luzi sul Pasolini poeta. Giudizi certo non entusiastici: non piaceva a Luzi quella poesia così “narrativa”, così lacerata di fronte al nudo vero cui tendeva, quella vocazione troppo dichiaratamente “di parte” e provocatoria di Pasolini. Però col passare degli anni, e specie dopo la sua morte tragica, le valutazioni su Pasolini di Luzi subirono non piccoli ripensamenti fino ad espliciti elogi: Luzi stesso, del resto, tra gli anni Ottanta e i primi anni Duemila fino alla morte, mutò profondamente non solo molti statuti della sua poesia ma anche i termini del suo stesso “ingaggio” letterario. Si fece infatti sempre più pressante in lui, di fronte al crescente degrado politico e sociale italiano, l’esigenza di testimoniare ed intervenire, non tradendo le sue radici cristiane e creaturali ma forgiandole di una accorata difesa dell’eredità umanistica ed evangelica intorno alla dignità dell’uomo e della sua etica civile, tradite proprio da quella disfatta della politica e dei costumi che Pasolini aveva intravisto e denunciato.
In realtà, persino fin dai tempi giovanili dell’apprendistato ermetico, l’idea di un forte senso di etica civile non è mai mancata in Luzi: anzi, il fatto che sempre si sia, con buone ragioni ovviamente, insistito sulle radici cristiane di Luzi e su certo suo esacerbato rovello poetico e stilistico ha finito col mettere in ombra la sua tensione etica di matrice umanistica e civile appunto, laddove il richiamo agli scabri ed essenziali borghi della giovinezza, alla “osteria” o ai venti fra vie silenziose scandite da rari passi di viandanti o da sguardi e chiacchiere vitali di ragazze non hanno nulla di “idillico” e sono semmai una straordinaria riscrittura, in altra chiave, di potenti suggestioni leopardiane. Il richiamo alla natura propria dell’uomo che si misura con l’altro da sé e con il Mondo ci riportano ancora più indietro e ad autori carissimi a Luzi: al Dante “creaturale” e soprattutto al Petrarca poeta in volgare e “filosofo etico” in latino3. Questa è la matrice che fa intrecciare i versi di Luzi tra etica e poesia, tra amore e tensione verso l’“altrove”. Infatti Luzi frequenta, da raffinato francesista, Montaigne, grande umanista e grande maestro di etica moderna, e traduce dall’inglese autori romantici e moderni figli del migliore Umanesimo italiano e precursori del nostro “nuovo” Umanesimo, cui sempre Luzi diede voce. E che furono importanti radici anche per Pasolini in tutta la sua vita.
Non a caso, in una delle sue più belle poesie, Terrazza, Luzi pone in apertura il verso «Perché sono nato nell’umano» ribadendolo più avanti nella stessa poesia «Sì, perché sono nato nell’umano»4. In un’altra grande poesia, Vita fedele alla vita, ambientata, in questo caso, in una domenica di città sonnacchiosa e quasi silente, non poi molto diversa dagli acciottolati appartati dei borghi antichi e contadini della giovinezza (il “silenzio” rotto da pochi suoni è una cifra unica e straordinaria di Luzi) si dice:
«La città di domenica / sul tardi/quando c’è pace / ma una radio geme / tra le sue moli cieche / dalle sue viscere interite // e a chi va nel crepaccio di una via / tagliata netta tra le banche arriva / dolce fino allo spasimo l’umano / appiattato nelle sue chiaviche e nei suoi ammezzati». Come non pensare a Levi e al tema dell’inumano tra l’orrore dei Lager dove proprio la letteratura, Dante davano all’orrore una fioca speranza di luce? Qui in Luzi non è il Lager lo sfondo ma è una città anonima che si estende in altezza e in inutile sfrontatezza (le «moli», le «banche», gli «ammezzati») e in infernali, dantesche bassure («viscere interite», «crepaccio di via», «chiaviche», quasi un repertorio della città di Baudelaire): ma Luzi non dispera. Tra quegli estremi alberga appunto, «dolce fino allo spasimo, l’umano» (corsivi nostri). Tra le moli e le chiaviche l’uomo può trovare senso, direzione di senso: partitura altissima che condensa eco infinite di pagine care ai latini come agli umanisti; tra l’angelo e il demone l’uomo si apposta per carpire il “doppio” che lo lacera ma che potrebbe essere anche il transito autentico per ciò che dà il titolo alla lirica, una vita appunto fedele alla vita, nella humanitas. Come diceva una grande artista e performer americana, Kiki Smith, negli anni Ottanta: «Le cose accadono…bisogna essere presenti alla vita» (corsivo nostro). La lezione di Terenzio, di Virgilio, di Cicerone, di Seneca è evidente ma non meno quella di Petrarca, di Pico, di Alberti, di Erasmo, di Tommaso Moro, di Montaigne, di Spenser. Qui davvero c’è anche tutto il Pasolini che noi ben conosciamo: quell’umano, brutalizzato eppure sempre “divino”, che domina il film Accattone, personaggio appunto tra le chiaviche e le viscere interite e i resti della grande Roma cui Pasolini dedica la sua pietas profonda e umanistica accompagnandone la storia con una colonna sonora sublime tratta da Bach.
Il debito di Luzi verso le più profonde radici umanistiche trova un approdo nel dialogato intenso del breve poemetto Nel corpo oscuro della metamorfosi: la metamorfosi di Luzi nulla ha a che vedere con Kafka ma è del conio di quella ovidiana nella lettura trascendente che ne diede Dante specie nel Paradiso e che come tale definisce l’intera tradizione umanistica europea non solo letteraria ma anche figurativa e pittorica. «Non c’è niente che non sia anche nascita. / Soltanto per questo pregherò». Sembra di sentire l’eco di Hannah Arendt quando affermava che l’uomo non è destinato alla morte ma alla nascita; l’umanismo messo in crisi dalle filosofie novecentesche e poi postmoderne viene riscattato dalla migliore linea poetica italiana del Novecento. In modi diversi i poeti sanno che senza la pietas dell’umano, senza la metamorfosi continua ed eraclitea delle trasformazioni che imprimiamo all’esserci nel mondo non c’è possibile salvezza per nessuno. Luzi che pure negli anni rivisitò con sofferenza di “espiante” le proprie radici cristiane sa che l’impasto inarrestabile di cristianesimo e di etica civile umanistica può fare la differenza: sono le suggestioni del resto che portano Pasolini ad evocare, dalla sua sponda di marxista eretico alla Benjamin, il sacro, soprattutto la “nostalgia” del sacro, di quel sacro che perdendosi fra i disastri dell’omologazione e del consumismo lascia comunque un vuoto incolmabile, la privazione appunto della angelica “metamorfosi”. È quel “trasumanar” dantesco che Pasolini con un modo e Luzi con un altro apparecchiano come l’unico dispositivo che sa trarre l’uomo alla sua “rinascita”, alle sue radici umanistiche.
Allora non è poi stato così strano accostare poeti diversi fra loro come Luzi e Pasolini: ma anche se avessimo tracciato altri percorsi, altri intrecci non sarebbe poi cambiata di molto la prospettiva. Quella di una grande poesia italiana novecentesca che non aveva verità assolute e squadrate da indicare (Montale) ma dolenti eppure non sopite apprensioni per salvaguardare l’ultimo confine dell’umano.

Note

  1. Gian Mario Anselmi, L’approdo della letteratura, Roma, Carocci, 2018; Id., I passaggi e la cronologia ragionata della letteratura italiana (con Francesca Tomasi), Bologna, Pàtron, 2021.
  2. Cfr. la nota 1. Si vedano inoltre i saggi pasoliniani di Marco Antonio Bazzocchi, nonché sempre di Marco Antonio Bazzocchi (a cura di), Cento anni di letteratura italiana (1910-2010), Torino, Einaudi, 2021.
  3. Per un tracciato molto ampio e aggiornato anche sul piano bibliografico è ora importante Daniele Piccini, Luzi, Roma, Salerno Editrice, 2020 nonché i molti contributi, commenti ed edizioni di Stefano Verdino. Segnaliamo poi un contributo con intervista a Mario Luzi nell’anno delle celebrazioni petrarchesche del 2004, Video/Cd non molto conosciuto e meritevole di essere “riscoperto” dalla critica luziana: Petrarca nel tempo di Luzi / Dipartimento di Italianistica dell’Università di Bologna, in collaborazione con l’associazione di lettura “La Bottega dell’Elefante” ; progetto e intervista di Gian Mario Anselmi e Andrea Severi, Bologna, Università di Bologna, Dipartimento di Italianistica, 2004 (disponibile nella Biblioteca dell’attuale Dipartimento di Filologia classica e Italianistica con collocazione: CD C 0001).
  4. Citiamo da Mario Luzi, Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1988. Cfr. per il contesto di cui qui parliamo Neil Novello (a cura di), Apocalisse. Modernità e fine del mondo, Napoli, Liguori, 2008; Vito M. Bonito e Neil Novello (a cura di), Età dell’inumano. Saggi sulla condizione umana contemporanea, Roma, Carocci, 2005.

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