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Le stragi e il tempo
di , numero 53, giugno 2022, Note e Riflessioni, DOI

Le stragi e il tempo
Come citare questo articolo:
Leonardo Grassi, Le stragi e il tempo, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 53, no. 23, giugno 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.10030

Il 6 aprile di quest’anno la Corte d’Assise di Bologna ha condannato Paolo Bellini all’ergastolo ritenendolo responsabile della strage di Bologna del 2 agosto 1980.
Anche gli altri imputati, Piergiorgio Segatel e Domenico Catracchia, sono stati condannati per reati commessi nel corso delle indagini e tesi ad ostacolarle, rispettivamente a sei e a quattro anni di reclusione. Le linea investigativa portata avanti dalla Procura Generale è stata dunque pienamente accolta dalla Corte.
È un processo che pur essendo iniziato a circa quarant’anni dall’epoca dei fatti è importante non solo perché ha accertato, almeno nel primo grado di giudizio, la responsabilità nella strage di un esecutore ulteriore rispetto a quelli già condannati in altri processi, ma anche perché si occupa di alcuni soggetti, ormai deceduti, indicati come i mandanti, gli organizzatori e i sovventori di quello che è stato il più grave atto terroristico del dopoguerra italiano.
Si tratta, oltre a Licio Gelli, di Federico Umberto D’Amato, Umberto Ortolani e Mario Tedeschi, tutti affiliati alla P2.
Prima del processo Bellini, la strage di Bologna è stata oggetto di complesse vicende processuali che si sono solo in parte concluse nel 1995, con le condanne per strage di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, entrambi esponenti di un gruppo terroristico denominato Nuclei Armati Rivoluzionari, di altri terroristi di destra per banda armata e di Lico Gelli e di uomini dei servizi appartenenti alla loggia massonica P2 per il depistaggio delle indagini e associazione sovversiva.
Da questo primo processo è scaturita una costola a carico di Sergio Picciafuoco, ambiguo personaggio vicino a strutture dei servizi e a Terza Posizione, altro gruppo terroristico di destra. Il processo, dopo alterne vicende si è concluso nel 1997 con l’assoluzione di Picciafuoco per insufficienza di prove.
Picciafuoco era inspiegabilmente presente in stazione al momento del fatto, tant’è che rimase ferito. Così pure, secondo l’accusa, ed ora anche secondo la Corte, Paolo Bellini era presente alla strage, proprio nell’attimo dell’esplosione, sul primo binario. Nel frattempo si instaurava un altro processo a carico di Luigi Ciavardini, minorenne al tempo dei fatti, terrorista militante sia nei NAR che in Terza Posizione, che è stato condannato in via definitiva, per concorso in strage con Fioravanti e Mambro nel 2007, quando ormai era ultra quarantenne.
Seguiva poi ancora un altro processo per strage e banda armata a carico di Gilberto Cavallini, terrorista legato sia ai NAR che a Ordine Nuovo, conclusosi in primo grado il 9 gennaio 2021 con la condanna dell’imputato alla pena dell’ergastolo.
La cosa che appare più evidente da questa sintesi estrema della sequenza dei processi per la strage di Bologna è il tempo, tempo che come vedremo è un sintomo delle enormi resistenze cui tutti i processi sono andati incontro.
Siamo ora a 41 anni dalla strage di Bologna. Per la strage di Brescia, avvenuta nel 1974, l’ultima sentenza è arrivata nel 2015; l’ultima decisione, peraltro assolutoria, sulla strage di Piazza Fontana, come è noto del 1969, risale al 2005.
Lo scopo di questo scritto non è tanto ricostruire la storia dello stragismo, quanto cercare di spiegare le ragioni di questo blocco del tempo, che ha segnato tutti i processi e capire perché questo lavoro di archeologia processuale che è stato fatto nel processo Bellini, riesumando sentenze vecchie di decenni e tentando la citazione di testimoni, che in gran parte risultano deceduti abbia avuto comunque un senso, come peraltro riconosce lo stesso legislatore considerando la strage un reato imprescrittibile.
Cercare di spiegare il perché di questo tempo rallentato non è semplice, e anche qui tenterò una sintesi, maturata nella mia esperienza di magistrato che si è confrontato con il terrorismo stragista per circa dieci anni.
Tutte le stragi dal 1969 al 1980 sono state commesse da terroristi di destra, coinvolti peraltro anche in attività criminali di autofinanziamento, di disinformazione, provocazione e intimidazione, così che la locuzione “stragi fasciste”, evocata dalla lapide commemorativa delle vittime della strage in Piazza Maggiore, a Bologna, appare appropriata.
Alla stazione di Bologna, alle 10,25 del due agosto 1980, erano presenti soggetti appartenenti a tutte le componenti del terrorismo fascista attive nel 1980, i NAR, Terza Posizione, Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.
Ma le stragi non sono state soltanto “fasciste”.
Tutte le stragi sono state parte di una strategia, la strategia della tensione, consistente in una sorta di guerra non ortodossa, o guerra a bassa intensità, che talvolta ha assunto anche la forma di guerra psicologica, contro le forze progressiste e fino a un certo momento soprattutto contro il partito comunista.
Questa guerra è stata combattuta in Italia in ossequio alle direttive dell’alleato statunitense, ossessivamente preoccupato del pericolo comunista.
L’Italia era troppo importante nella visione geopolitica degli USA per rischiare di perderla, sia per moti popolari che a seguito di elezioni democratiche.
Vi sono documenti di provenienza statunitense che affermano chiaramente che il contrasto al comunismo in Italia poteva essere effettuato anche attraverso “covered actions” di natura terroristica (Piano Demagnetize, documento “Field Manual” ed altri, tutti acquisiti agli atti di vari processi) e sul tema del contrasto al comunismo con mezzi illegali si elaborarono strategie persino rese pubbliche in convegni, come quello del 1965 tenutosi a Roma all’Hotel Parco del Principi.
La gestione di queste operazioni era affidata soprattutto ai Servizi dell’epoca, che non erano, come si usa dire, “deviati”, bensì adempivano ad una specifica funzione, indicibile ma in un certo senso “istituzionale”. Vito Miceli, Gian Adelio Maletti, Federico Marzollo, non erano oscuri funzionari infedeli del Servizio, erano ai vertici del SID e avevano contatti diretti sia con le centrali USA che con i terroristi di Ordine Nuovo.
Federico Umberto D’Amato non era un impiegato fellone del Ministero dell’Interno.
È stato per decenni al vertice di strutture di enorme potere quali l’Ufficio Affari Riservati e la Polizia di Frontiera e nello stesso tempo era uno dei promotori e degli artefici della strategia della tensione.
Amos Spiazzi, colonnello dell’esercito e responsabile dell’Ufficio Informativo di una caserma di Verona, era al tempo stesso un eversore, implicato nel 1974 in un’organizzazione denominata “Rosa dei Venti”, un informatore del SISDE e un ordinovista e, nel 1980, era così contiguo all’ambente dei NAR da essere in grado di svelarne le strategie subito prima della strage facendone una sinistra e inascoltata anticipazione.
La parte occulta di Gladio, il c.d. “Anello”, i “Nuclei di difesa dello stato” erano apparati interni ai Servizi di sicurezza che in varia maniera cooperavano alla strategia della tensione, nella quale, peraltro, erano implicati cospiratori e terroristi di una miriade di altre organizzazioni.
Sullo sfondo, in alcuni momenti, nel 1964, nel 1970, e nel 1974, pulsioni golpistiche, nel 1970 e nel 1974 collegate alla strategia stragista, che se non sono mai sfociate in un vero e proprio colpo di stato, tendevano comunque a condizionare in senso autoritario la vita politica italiana e a intimidire le forze progressiste.
Nel corso del tempo i servizi di sicurezza hanno utilizzato per i propri disegni le diverse forme di terrorismo, sia di destra che di sinistra, come rilevato nel corso di un’indagine del Giudice Istruttore di Padova già nel 1974, e di ciò vi è traccia anche nel processo Bellini con riferimento alla figura di un altro imputato, Domenico Catracchia, gestore di appartamenti, appartenenti a società del SISDE, situati a Roma in Via Gradoli, dati in uso prima alle Brigate Rosse, nel 1978 per il rapimento di Aldo Moro, e poi nel 1981 ai NAR, che vi ebbero a lungo una loro base.
Contro l’Italia progressista erano state mobilitate anche organizzazioni mafiose, sempre contigue al terrorismo di destra ed il cui apporto non si è limitato agli episodi di Portella della Ginestra (1947) e alla strage di Gioia Tauro (1970), ma è proseguito sino al 1980 e anche oltre, quando la strategia delle stragi, dalla così detta strage di Natale del 24 dicembre 1984 a seguire è stata presa direttamente in carico dalle componenti in senso lato mafiose.
Michele Sindona, uno degli snodi fra fascisti, mafia e massoneria, era vicino a frange di estrema destra, ebbe rapporti con il principe Borghese nel suo tentativo di colpo di Stato del 1964 e fu strumento e beneficiario delle politiche economiche della P2. È nelle indagini a suo carico, infine, che i giudici istruttori di Milano arrivarono alla scoperta della loggia e al rinvenimento degli elenchi degli affiliati.
La massoneria, specie in alcune aree del sud, era diventata luogo di incontro e di contaminazione fra il potere mafioso e il potere politico e imprenditoriale ed aveva una forte connotazione di destra. Nel luglio 1980 Valerio Fioravanti e Francesca Mambro ebbero contatti in Sicilia con tali ambienti pochi giorni prima di commettere la strage.
Il così detto “Piano d rinascita nazionale”, documento che venne scoperto e sequestrato il 4 luglio 1981, perciò poco dopo il rinvenimento della lista degli appartenenti alla P2, in un doppiofondo di una valigia di Maria Grazia Gelli, figlia di Licio Gelli, rappresenta la prefigurazione di modificazioni costituzionali, di iniziative legislative e comunque di azioni volte a condizionale in senso autoritario la libertà di stampa, le libertà sindacali, e l’autonomia della magistratura, una sorta di attentato alla Costituzione, sintesi dei disegni piduisti.
In Italia come si è già detto, non c’è mai stato un colpo di stato alla greca o alla cilena e si è preferito adottare una strategia occulta, modulata su un’ampia gamma di modalità operative, fra le quali, ultima, il terrorismo indiscriminato, certo non estraneo alla cultura dei terroristi di destra, tanto è vero che costoro ne parlano con una sorta di cinico compiacimento in numerosi documenti:
“Bisogna arrivare al punto che non solo gli aerei, ma le navi e i treni e le strade siano insicure, bisogna ripristinare il terrore e la paralisi della circolazione. Diamo un segno inequivocabile della nostra presenza. Ci riconosceranno. Ci seguiranno, perché ciò che vogliamo è ciò che essi vogliono: la distruzione del mondo borghese […] Arrecare danni al sistema è un errore, il sistema te ne chiederà conto. Ma provocarne la disintegrazione, questo è il rimedio, occorre una esplosione da cui non escano che fantasmi. Occorre che il nostro gesto sia così chiaro da far nascere in tutta la popolazione inerme inginocchiata due sole risposte: nessun dubbio, sono loro e finalmente” scrive nel 1979 l’ordinovista Carlo Battaglia in una pubblicazione clandestina.
Nel così detto “Documento di Nuoro”, o “Progressione rivoluzionaria”, redatto nel carcere di Nuoro da alcuni detenuti, fra i quali, Guido Giannettini, Mario Tuti, Nico Azzi, Carlo Fumagalli e Pietro Malentacchi si afferma che: “Il terrorismo, sia indiscriminato che contro obiettivi ben individuati, e il suo potenziale offensivo (è stato definito l’aereo da bombardamento del popolo) […] può essere indicato per scatenare l’offensiva contro le forze del regime contando sull’impressione prodotta sia sul nemico che sulle forze almeno in parte a noi favorevoli. […] È indubbio che si avrà quasi automaticamente un estendersi della lotta armata, favorita anche dalla prevedibile recrudescenza della repressione […]. Il cecchinaggio, pur valido da un punto di vista tattico, non è di per sé sufficiente a mettere in crisi le istituzioni e per questo dovrà essere affiancato, da un punto di vista strategico, da metodi di lotta di più ampia portata e di maggiore coinvolgimento […]. La massa della popolazione sarà portata a temerci e ammirarci, disprezzando nel contempo lo Stato per la sua incapacità”.
Anche i “Fogli d’ordine” sequestrati nel 1978 all’ordinovista rodigino Gianluigi Napoli evocano il terrorismo indiscriminato, in consonanza col documento «Formazione elementare», sequestrato al dirigente di An Marco Ballan, nel quale si parla tra l’altro di attentati ai mezzi di comunicazione affermando che “la propaganda tramite il terrore è la più efficace che si possa immaginare […] il terrore distrugge la fiducia nel potere costituito […] disorienta l’individuo rende estremamente ricettivi e manovrabili”.
Fra le varie componenti coinvolte nella strategia della tensione e nello stragismo si era creato un vincolo di carattere omertoso e i servizi di sicurezza dell’epoca, attraverso i depistaggi e i terroristi attraverso l’omicidio di uomini delle istituzioni, fra i quali i magistrati Mario Amato e Vittorio Occorsio, hanno sempre cercato di proteggere il segreto di queste solidarietà.
Di qui dilazioni e depistaggi, che hanno intorbidito e ritardato l’accertamento delle responsabilità per le stragi e un persistente riserbo dei servizi di sicurezza, che, pur non avendo da tempo nulla a che fare con i servizi di Vito Miceli e Gian Adelio Maletti hanno sinora affrontato malvolentieri il tema della strategia della tensione e delle sue centrali operative.
Paolo Bellini, è una figura criminale complessa.
Era già comparso nelle prime indagini sulla strage, ma la sua posizione era stata archiviata ed è tornato all’attenzione degli inquirenti perché la sua immagine, fra l’altro riconosciuta dalla moglie, compare in un filmato amatoriale che lo ritrae alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 proprio al momento della strage.
Già appartenente ad Avanguardia Nazionale, la formazione eversiva di Stefano Delle Chiaie, si è reso responsabile, fra i molti altri reati, dell’omicidio di un militante di Lotta continua, Alceste Campanile, commesso a Reggio Emilia il 12 giugno 1975, più tardi confessato nel contesto di una controversa attività collaborativa.
Trafficante di opere d’arte, ambiguo informatore dei servizi, fuggì all’estero nel 1976 dopo aver commesso un tentato omicidio e si rifugiò in Paraguay con la falsa identità di Roberto Da Silva, la stessa identità con cui ricomparirà ufficialmente in Italia, nel 1981, quando verrà arrestato perché fermato alla guida di un camion carico di mobili rubati.
Bellini è stato in contatto con la mafia, con Antonio Gioè, coinvolto nella strage di Capaci, con l’ambiente di Delle Chiaie, con uomini dei servizi di sicurezza, con la massoneria e, cosa del tutto singolare per un latitante, con il Procuratore della Repubblica di Bologna Ugo Sisti, che venne sorpreso dalla polizia a Reggio Emilia, nell’albergo del padre proprio poco dopo la strage.
Questo è il terrorista che la Corte ha condannato, ma in realtà si è andati ben oltre alla individuazione di un esecutore materiale.
Infatti, dal dispositivo pare di capire che la Corte sia riuscita a fare chiarezza su altre questioni fondamentali, nonostante tentativi di depistaggio portati sin all’interno di un’aula di giustizia. Ovviamente è solo una deduzione, fondata sull’andamento dell’istruttoria dibattimentale, perché il pensiero autentico della Corte si potrà leggere soltanto nella motivazione.
Comunque sia, c’è stata un’accurata istruttoria dibattimentale sulle figure dei sovventori e dei mandanti, che sono stati compitamente identificati in Licio Gelli, Federico Umberto D’Amato, Umberto Ortolani e Mario Tedeschi, tutti affiliati alla P2.
Le accuse nei loro confronti scaturiscono in particolare dall’analisi di un documento contabile che Licio Gelli custodiva, ripiegato nel suo portafogli, all’atto del suo arresto in Svizzera il 13 settembre 1982, il così detto “Documento Bologna”, rimasto a lungo sconosciuto nella sua interezza agli inquirenti bolognesi per ragioni che destano più di un sospetto sulla correttezza delle indagini e che Gelli aveva usato a fini di ricatto.
Si tratta di annotazioni di movimenti di un conto corrente in dollari acceso presso l’UBS di Ginevra, utilizzato per pagare i terroristi e i loro mandanti, dalle quali si ricava una movimentazione di quindici milioni di dollari in un arco di tempo ricomprendente la data della strage.
Gli spunti investigativi tratti da tale documento sono stati sviluppati nell’indagine dei Procuratori generali con accertamenti bancari, con rogatorie, con l’assunzione delle testimonianze dei funzionari di polizia che a suo tempo lo trattarono e con l’audizione di alcuni fra i beneficiari.
Le sigle che vi compaiono sono state decrittate e le movimentazioni di milioni di dollari cui si fa riferimento sono state compiutamente ricostruite, sino a provare che un fiduciario di Gelli disponeva di un milione di dollari in contanti da consegnare ai terroristi prima della strage, e di altri quattro milioni da accreditare loro a strage avvenuta.
Secondo la ricostruzione della Procura Generale, verosimilmente accolta dalla Corte, il 30 di Luglio 1980, a Roma, avviene la consegna del denaro ai terroristi Fioravanti e Mambro, segue la strage, il giorno due agosto, ed infine l’accredito del resto.
Altro denaro della medesima provenienza lo ricevono Federico Umberto D’Amato, già a capo dell’Ufficio affari riservati del Ministero dell’Interno ed oscuro protagonista della strategia della tensione fin dalla Strage di Piazza Fontana, Umberto Ortolani, alter ego di Gelli, Mario Tedeschi, giornalista di estrema destra, direttore de “Il Borghese”, pagato per le sue campagne di stampa depistanti, oltre ad altri soggetti che pur avendo avuto una parte attiva nello smistamento dei fondi in questione non sono indicati come coinvolti nella strage.
Ma per tornare alla domanda iniziale, è davvero utile, mentre la vita politica e civile fluisce per i suoi percorsi continuare ad occuparsi di queste vecchie storie?
La Corte con la sua sentenza ha detto evidentemente che si.
E va detto che i quarant’anni decorsi dai fatti hanno in un certo senso giocato anche in favore del processo.
Nel decorrere di tempi così lunghi c’è stata una sorta di ineluttabilità per le molte ragioni che ho cercato di sintetizzare, ma questo spessore temporale forse è stato anche utile, oltre che inevitabile, perché in questo arco di tempo si è avuta la digitalizzazione degli atti giudiziari che ha consentito la lettura in un certo senso sincrona di tutti i processi per strage celebrati nel corso degli anni e del processo per il Banco Ambrosiano e questo ha portato ad avere una visione d’assieme sia della strategia della tensione che della strategia dello stragismo, che ha trovato voce in quasi tutte le sentenze “recenti”, anche in quelle di assoluzione.
Suppongo che con la sua motivazione lo dirà anche la Corte d’Assise di Bologna, ma già ora lo dice la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano del 22.7.2015 sulla strage di Piazza della Loggia:
“L’unico aspetto positivo che presenta la celebrazione di questo processo a distanza di quattro decenni dai fatti, risiede proprio nella possibilità di una visione più ampia e articolata della cornice in cui questi si pongono, e una conoscenza più nitida di una pluralità di tessere che compongono l’intero mosaico, grazie all’enorme sforzo ricostruttivo che si è avuto in tale lungo lasso di tempo, non solo in ambito storico-politico, ma anche in quello giudiziario. È dato, così, cogliere, nei plurimi accertamenti giudiziari condotti nel tempo su quelle stragi, lo stretto legame che intercorre fra le stesse.
Una lettura dei dati processuali confacente alla realtà dei fatti non può prescindere dall’inquadramento di questi in una delle fasi più oscure della vita della Repubblica, fortemente caratterizzata da spinte eversive dell’ordine democratico cui non sono rimaste estranee centrali di potere occulto, anche extranazionali, e parti non insignificanti degli apparati istituzionali, specie militari – accomunate, tutte, dall’obiettivo di ostacolare l’avanzala di forze innovative sia in ambito politico[…] che in ambito sociale[….]. Lo studio dello sterminato numero di atti che compongono il fascicolo dibattimentale porta ad affermare che anche questo processo- come in altri in materia di stragi – è emblematico dell’opera sotterranea portata avanti con pervicacia da quel coacervo di forze individuabili ormai con certezza in una parte non irrilevante degli apparati di sicurezza dello Stato, nelle centrali occulte di potere, dai Servizi americani alla P2, che hanno, prima, incoraggiato e supportato lo sviluppo dei progetti eversivi della destra estrema, e hanno sviato, poi, l’intervento della magistratura…..”

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