Bibliomanie

La crisi del Trecento e la Peste Nera. Letture e prospettive
di , numero 53, giugno 2022, Saggi e Studi, DOI

La crisi del Trecento e la Peste Nera. Letture e prospettive
Come citare questo articolo:
Luciana Petracca, La crisi del Trecento e la Peste Nera. Letture e prospettive, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 53, no. 2, giugno 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.9868

Introduzione
Dal gennaio 2020 la vita di tutti in ogni suo aspetto è stata condizionata dal Coronavirus. Con la diffusione dei primi contagi l’intero pianeta si è scoperto fragile e impreparato di fronte a una pandemia che si cerca ancora di contenere e sconfiggere. Ciò significa non solo arginare e risolvere l’emergenza sanitaria, ma anche gestirne le conseguenze socio-economiche, interrogarsi sulle cause e ridurre la gravità degli effetti.
In un momento così difficile e “fuori dall’ordinario” è tornato forte tra gli studiosi e gli appassionati di storia l’interesse per le grandi epidemie del passato. E come non ricordare, fra queste, la più funesta e devastante, vale a dire la Peste Nera del Trecento, che sterminò – si stima – almeno un terzo (circa trenta milioni di persone) della popolazione europea complessiva.
Da questa premessa, il presente contributo si prefigge un duplice obiettivo. Da un lato, intende ripercorrere, a grandi linee e senza alcuna pretesa di esaustività, i cambiamenti intervenuti nel corso del XIV secolo, prima e dopo il dilagare dell’epidemia, alla luce del vivace dibattito storiografico che dagli anni Cinquanta del secolo scorso continua ad alimentare discussioni e ricerche sulla crisi del Trecento. Dall’altro, sintetizza le principali linee interpretative sugli effetti prodotti dalla Peste Nera sulla società dell’epoca.
Nel corso del Medioevo il diffondersi di fenomeni epidemici si registrò in realtà in diversi momenti. La cadenza spesso ravvicinata con cui si riproponevano gli episodi di contagio sviluppò nella sensibilità degli uomini del tempo una sorta di abitudine al morbo pestis. Il contenuto delle testimonianze coeve (per lo più fonti annalistiche e cronache) rivela come con il termine “peste” l’uomo medievale, sprovvisto delle moderne conoscenze in ambito infettivologico e degli strumenti propri della diagnosi differenziale, fosse solito indicare, oltre alla peste propriamente detta, anche altre manifestazioni a carattere epidemico, come tifo, dissenteria, vaiolo o colera. L’assenza, e soprattutto nelle fonti altomedievali, di puntuali annotazioni utili all’esatta individuazione del morbo – come già evidenziato da Ovidio Capitani negli anni Novanta –, ha rappresentato e continua a rappresentare un forte limite per la ricerca storica, giacché impedisce di verificare la natura delle diverse epidemie che si diffusero in Occidente dopo la peste di Giustiniano del VI secolo1.
Come malattia infettiva la peste cominciò a essere indagata in termini scientifici solamente a partire dal XIX secolo, e soprattutto a seguito dell’identificazione nel 1894 della pastaurella pestis, l’agente causale del morbo, ad opera di Alezandre Yersin (1863-1943) e, contemporaneamente, di Shibasaburo Kitasato (1856-1931). La scoperta del bacillo, ribattezzato Yersinia pestis, funse da stimolo alla ricerca, e non solo in ambito medico, anche se per un riscontro oggettivo delle cause d’insorgenza del morbo, della tipologia dei sintomi, delle modalità di diffusione, dei livelli di mortalità e delle pratiche di prevenzione si dovranno attendere gli anni Sessanta del Novecento.

1 La congiuntura del Trecento: le principali linee interpretative
Prima di lasciare spazio ad alcune considerazioni sull’impatto avuto dalla peste su molteplici aspetti del vivere sociale, non si può prescindere da una rapida valutazione della situazione europea nella fase immediatamente precedente lo scoppio dell’epidemia del 1347/’48. A tal riguardo si accennerà alle principali proposte interpretative sulla cosiddetta ‘congiuntura del Trecento’, le quali, sulla base di alcune variabili (demografiche, economiche, sociali, istituzionali ecc.), hanno anticipato la comparsa dei primi indicatori di segno negativo già a partire dalla fine del Duecento.
Secondo queste piste d’indagine, il sopraggiungere di un fattore esogeno, come la peste, causa in tutta Europa di una forte contrazione demografica, non avrebbe rappresentato il motivo primario e scatenante della crisi del Trecento, ma avrebbe certo incontrato facile terreno di propagazione in una situazione socio-economica (oltre che politico-militare e igienico-sanitaria) già largamente compromessa.
Che il XIV secolo avesse inaugurato per la storia europea l’avvio di una parabola discendente è apparso chiaro già dagli scritti di due grandi maestri del Novecento, come Henri Pirenne e Marc Bloch, che individuarono le cause del declino soprattutto nella lunga ed estenuante Guerra dei Cent’anni, nel fallimento delle grandi compagnie mercantili italiane e nei cambiamenti in ambito monetario2. Dopo di loro, le prime analisi mirate sulle criticità tardomedievali si devono ancora a due storici d’Oltralpe: al francese Édouard Perroy3 e all’inglese Michael Postan4. Entrambi, partendo da uno schema interpretativo d’impostazione malthusiana, incentrato sull’interazione tra oscillazioni demografiche e mezzi di sussistenza, imputarono la crisi trecentesca allo squilibrio venutosi a determinare tra questi due fattori.
In altre parole, la crescita della popolazione e l’espansione dei coltivi che avevano caratterizzato i secoli centrali del Medioevo non erano state adeguatamente supportate da un analogo sviluppo in campo tecnologico, in grado di incrementare sufficientemente la capacità produttiva e di soddisfare la crescente domanda di generi alimentari. La messa a coltura di terreni marginali e poco fertili, così come i disboscamenti, attuati anche in aree di scarso rendimento, non sortirono l’effetto sperato. La diminuzione delle risorse dovuta alla relativa improduttività dei terreni fu aggravata dalla crescente frantumazione delle proprietà fondiarie, mentre si assisteva, contestualmente, al crollo dei salari, all’aumento degli affitti e al mandato decollo dei commerci, anch’essi condizionati dalle difficoltà del settore primario. La limitazione delle risorse si ripercosse sull’andamento demografico, e soprattutto a seguito della grande carestia che piagò l’Europa tra il 1315 e il 1317.
In questo scenario, ricostruito inizialmente sulla base dei dati relativi all’Inghilterra degli inizi del XIV secolo, ma presto estesi anche all’Europa continentale5, l’epidemia di peste del 1347/’48 sarebbe andata a colpire una popolazione già duramente segnata, denutrita e, pertanto, in fase di contrazione. La crisi, dunque, intervenuta secondo Postan già nel primo Trecento, e generata – si è detto – dal mancato equilibrio tra demografia e produzione agraria, avrebbe preceduto di qualche decennio l’ondata epidemica.
La lettura proposta dallo storico inglese in vari saggi ha goduto nel tempo di un largo consenso ed è stata da stimolo, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, alla riflessione di diversi studiosi6, che hanno esaminato e portato alla luce una ricca documentazione di natura, per così dire, “demografica” (atti di matrimonio, transazioni agrarie, tasse di successione o atti di morte)7, grazie alla quale la tesi di una generalizzata contrazione demica antecedente alla grande peste ha trovato conferma nelle aree urbane come presso gli insediamenti rurali di varie regioni europee.
Più di recente la produzione storiografia di ispirazione malthusiana si è concentrata soprattutto su ricerche di ambito regionale e locale, che hanno in sostanza messo in evidenza specifiche variabili e differenti livelli di oscillazione demografica, dimostrando l’inadeguatezza di spiegazioni di carattere generale e l’utilità di procedere per indagini mirate e circoscritte8.
Se la visione di Postan si fondava sostanzialmente sulla convinzione che l’agricoltura avesse rappresentato il settore trainante dell’economia medievale, a partire dagli anni Sessanta/Settanta si è puntato il focus della riflessione anche sul ruolo giocato nella crisi da altri fattori, come il commercio, a breve ma soprattutto a lunga percorrenza, gli scambi e il denaro9. Precursore di questa linea interpretativa, con uno sguardo rivolto in particolare all’economia italiana del Trecento e all’andamento dei consumi in un’ottica di rilancio dei manufatti pregiati (oggetti d’arte, libri e tessuti serici), è da considerarsi lo storico genovese, naturalizzato statunitense, Roberto Sabatino Lopez10.
Secondo la tesi dei cosiddetti “monetaristi”, concentrati sui cambiamenti intervenuti nel mercato internazionale, e dunque nelle transazioni su larga scala che impiegavano sistemi monetari di credito e di cambio, la depressione di fine Medioevo sarebbe stata causata dal ridimensionamento delle grandi attività commerciali, dall’esaurimento di quella fase espansiva che Federigo Melis e Fernand Braudel definivano come “economia-mondo” o economia dei grandi spazi, cui si associarono la caduta dei prezzi e la rarefazione dei metalli preziosi nelle riserve di tutta Europa11.
Contestualmente alla riproposizione delle teorie malthusiane, un’alternativa alla tesi di Postan fu offerta anche da alcuni storici d’ispirazione marxista, i quali, pur concordi nel datare al primo Trecento la fase iniziale di una depressione di lungo periodo, ne riconducevano le cause al malessere sociale determinato dalla crescente pressione economica esercitata dal ceto feudale sulle masse contadine. L’interpretazione di matrice marxista faceva capo a uno studio pioneristico dello storico inglese Rodney Hilton, pubblicato nel 195112, in cui, sviluppando le teorie proposte dal connazionale Maurice Dobb13, e in contrapposizione con la linea interpretativa dell’americano Paul Sweezy14, venivano evidenziate le contraddizioni interne alle modalità di produzione del sistema feudale.
Secondo Hilton, che basava la sua analisi sul conflitto di classe, tra XII e XIV secolo la feudalità inglese avrebbe assunto un atteggiamento vessatorio nei confronti della popolazione sottoposta, imponendo prelievi sempre più esosi che impoverirono i contadini, privati, tra l’altro, anche della possibilità di introdurre innovazioni tecnologiche in grado di accrescere la produttività, e dunque spesso indotti alla ribellione o costretti alla fuga. D’altro canto, la rendita delle classi agiate, pur rimpinguata dagli aggravi fiscali, continuava a restare improduttiva giacché investita prevalentemente nel superfluo.
A partire dagli anni Settanta questo filone di studi si arricchì, oltre che dei contributi sempre più articolati dello stesso Hilton15, anche delle ricerche di altri storici vicini alla visione marxista, come Guy Bois16 e, soprattutto, Robert Brenner17. Entrambi gli studiosi, trascurando il fattore demografico, spiegavano il declino economico di fine Medioevo ricorrendo ai conflitti di classe. La crisi, secondo la loro interpretazione, esito di ricerche basate rispettivamente sui dati provenienti dalla Normandia e dall’Inghilterra, era stata determinata dall’inasprimento dei vincoli feudali nei confronti della popolazione contadina dipendente.
Le tre principali linee interpretative (“neo-malthusiana”, “monetarista” e “marxista” o “neo-marxista”), che hanno avuto il merito di tenere vivo il dibattito sulla crisi del primo Trecento e di orientare in buona sostanza le ricerche del secondo Novecento, oltre a prospettare una comune e riconosciuta visione “pessimista”, mostrano un medesimo limite, evidente nel tentativo di identificare un fattore primario (sia esso di natura demografica, economica o sociale) al quale attribuire la causa della svolta o congiuntura negativa, del declino e dell’impoverimento della popolazione europea. Ciò ha comportato inevitabilmente il ricorso a facili generalizzazioni, a convinzioni erronee e largamente smentite, come, ad esempio, «l’idea che la condizione contadina fosse uniformemente caratterizzata da uno stato di sostanziale miseria»18, e un alto grado di astrazione.
Una robusta replica alle posizioni dominanti e al pessimismo di fondo che emergeva dalle loro letture è stata avanzata a partire dagli anni Ottanta dalla ricerca anglosassone. Alcuni studiosi, tra i quali il già ricordato Hilton e il suo allievo Christopher Dyer, hanno focalizzato l’attenzione sul sistema rurale degli scambi. I mercati agricoli, anche se su scala ridotta, avrebbero offerto una valida risposta all’iniziativa imprenditoriale di piccoli operatori e innescato un circolo virtuoso nei meccanismi di scambio tra campagna e comunità urbane19. Un contributo importate in questa direzione è stato dato nel decennio successivo (ma anche in seguito) da alcuni storici dell’economia rurale, come Richard Britnell e Bruce Campbell, che hanno in sostanza ribaltato l’immagine di un’economia tardomedievale impoverita e ripiegata su sé stessa20.
L’attenzione riservata da questa linea di ricerca al ruolo positivo svolto dal mercato ne ha motivato la qualifica di “tesi della commercializzazione” (o Commercialization Theory), così come l’inevitabile rinvio a quella legge ‘naturale’ della domanda e dell’offerta che secondo l’economista scozzese Adam Smith, principale teorico del liberismo, regolava i meccanismi di scambio e la distribuzione della ricchezza, favorendo nel complesso la crescita produttiva e il benessere collettivo.
Le analisi orientate in questa direzione, e definite di matrice smithiana (ma, per certi versi, analoghe a quelle di Sweezy), insistono sulle dinamiche economiche, sui canali e sui processi di commercializzazione, che negli ultimi due secoli del Medioevo avrebbero incoraggiato l’ampliamento dei bacini di traffico (e in particolar modo del mercato inglese), incrementato il volume delle transazioni e accresciuto il numero e la varietà delle merci scambiate. In quest’ottica anche l’aumento della popolazione (nei secoli centrali del Medioevo) si traduce in occasione di sviluppo, giacché funge da stimolo alla produzione e al commercio, riattivati proprio dalla necessità di soddisfare l’incalzante richiesta di una maggiore domanda21. Com’è facile intuire anche su questi argomenti non sono mancate voci discordanti, mirate a ridimensionare lo slancio dei mercati, i livelli di specializzazione e le effettive capacità imprenditoriali di grandi e piccoli produttori agricoli22.
Sin dai primissimi anni Ottanta la riflessione sull’economia tardomedievale aveva intrapreso anche un diverso percorso interpretativo, volto a valutare il ruolo giocato dalle istituzioni in termini di capacità finalizzate a promuovere o, al contrario, limitare lo sviluppo locale, la crescita e la specializzazione produttiva. In questa direzione, definita della “Nuova Scuola Istituzionalista” (New Institutional Economics), illuminante si è rivelato il contributo dell’economista statunitense Douglass North, vincitore del premio Nobel nel 1993, il quale in un lavoro pubblicato nel 1981 suggeriva di guardare ai modelli economici quale esito delle strutture di scambio poste in essere dalle istituzioni, le sole in grado, se efficienti, di creare condizioni favorevoli alla crescita economica23. Secondo la teoria delle istituzioni di North l’efficienza si misura soprattutto in termini di costi di transazione. Quando uno Stato o un qualsiasi altro potere istituzionale consente vantaggi superiori ai costi di transazione, protegge i diritti di proprietà, attua interventi migliorativi nel sistema monetario e metrologico e si fa garante del rispetto di norme comuni, le incertezze del mercato si riducono.
Si è inoltre fatta strada anche una corrente alternativa a quella che attribuiva alle sole istituzioni liberali la capacità di garantire lo sviluppo di sistemi economici evoluti ed efficienti. Ne sono prova gli studi del giovane e prematuramente scomparso Stephan R. Epstein sulle relazioni tra dinamiche istituzionali e mutamenti economici nella Toscana e nella Sicilia del XIV secolo24. Per quanto stimolante e ricca di suggestioni la tesi dello studioso britannico non è stata esente da critiche, che hanno messo in discussione soprattutto l’eccessiva fiducia nelle potenzialità del mercato locale e l’esclusività del modello istituzionale proposto: lo Stato centralizzato25.
La medesima linea interpretativa è stata adottata anche da un’altra allieva di David Abulafia, la storica greca Eleni Sakellariou, nel suo corposo lavoro sulle strutture economiche e politiche della parte continentale del Regno nel secolo compreso tra l’età di Alfonso d’Aragona e i primi viceré spagnoli26. Secondo la Sakellariou l’intervento regio avrebbe giovato all’economia meridionale tramite l’abbattimento dei costi di transazione, l’eliminazione di numerosi pedaggi e balzelli riscossi dalla feudalità e il patrocinio di una fitta rete di fiere e mercati, che contribuirono al potenziamento dei traffici su scala locale27. A convincere meno è stata la scarsa importanza attribuita dalla studiosa ai traffici internazionali e alle relazioni di scambio tra le province del Mezzogiorno e i mercati dell’Italia centro-settentrionale28.
Sulla scia delle sollecitazioni offerte dalla “scuola” olandese di Utrecht29, e in particolare dalla dovizia interpretativa degli studi di Jan Luiten Van Zanden, le ultime tendenze della ricerca storico-economica si mostrano concordi nel rifiutare le spiegazioni mono-causali. Predomina la consapevolezza dell’opportunità di affrontare e di spiegare i grandi cambiamenti in modo tutt’altro che univoco; motivo per cui diventa imprescindibile il ricorso all’esame analitico di un’ampia gamma di fattori e di parametri, soprattutto microeconomici e sociali, e di tutte le loro possibili variabili, combinazioni e interazioni. Ciò che, in altre parole, ci si propone è l’elaborazione di un modello complesso, alla comprensione del quale concorrono varie evidenze (economiche, sociali, familiari, culturali, istituzionali, materiali, demografiche, tecnologiche, ambientali, climatiche ecc.)30. Da questa prospettiva anche la “congiuntura del Trecento” si presta a molteplici letture e spiegazioni, giacché molteplici furono gli aspetti coinvolti (il mondo produttivo, la società nel suo complesso, la politica, i quadri mentali e altro ancora) e, di conseguenza, gli indicatori che via via lo storico dovrà valutare31.
In ultima analisi, un breve cenno merita la situazione italiana. Come osservato di recente da Giuliano Pinto, i primi a parlare, tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, di «crisi del Rinascimento» nella nostra Penisola sono stati i toscani Armando Sapori ed Enrico Fiumi32. Al lombardo Carlo Cipolla si deve invece il merito di aver proposto, negli stessi anni, una chiave interpretativa sulla depressione di fine Medioevo alternativa all’ortodossia allora dominate presso la più accreditata storiografia economica angloamericana, e che faceva capo a due personalità, sia pur così diverse, come Roberto Sabatino Lopez e Michael Postan33.
A una iniziale tendenza orientata a cogliere il quadro d’insieme nella prospettiva di scenari comuni, ha fatto seguito, più di recente, l’affondo su specifici casi di studio, come ad esempio quello lombardo34, che hanno fatto emergere difformità regionali e locali collidenti con la tesi di una generalizzata regressione demografica, economica e sociale, scaturita dalla proiezione su scala nazionale di quanto riscontrato in area toscana35. Se è vero che nel Trecento l’Italia tutta si misurò con gli effetti di una svolta epocale, è altrettanto evidente come essa assunse valenze diverse a seconda dei contesti e delle aree geografiche. Lo stesso trend demografico, in forte calo – si stima che la popolazione europea si ridusse del 35% – è stato letto alla luce di differenti approcci. Secondo il già citato Carlo Cipolla, ad esempio, il crollo della popolazione, causato, tra gli altri fattori, anche dalla diffusione di focolai epidemici, offrì maggiori chance di sopravvivenza ai sopravvissuti, migliorandone il tenore di vita grazie all’aumento del reddito pro capite, che, investito in nuovi manufatti e attività produttive, avrebbe dato luogo a una nuova fase di crescita36.
Così, prendendo le mosse dalla diversificazione delle aree regionali, a partire dai primi anni Novanta si è fatta strada la convinzione che al declino di alcuni grandi e piccoli centri fosse corrisposto il rilancio o lo sviluppo di altri37. La crisi del Trecento non avrebbe dunque colpito tutti e nemmeno nello stesso modo. In alcune aree della Penisola si sarebbe addirittura riscontrato un incremento dei consumi e della produzione manifatturiera – anche di beni e di oggetti di lusso che richiedevano un’alta e qualificata specializzazione38 –, intrinsecamente correlato all’ampliamento dei circuiti di scambio, come all’efficacia di mirati interventi politici volti a influire positivamente sui processi di crescita.
Sulla base di queste valutazioni, negli ultimi decenni le interpretazioni sulla congiuntura del Trecento hanno assunto toni più sfumati e respinto visioni catastrofiste. Nel complesso, mentre si condivide l’idea di un’epoca per vari aspetti in affanno a causa della concomitanza di più fattori (epidemie, guerre, carestie, politiche dannose per il commercio, inasprimento delle condizioni di dipendenza della popolazione contadina ecc.), non si esclude la possibilità che alcuni contesti regionali, così come alcuni settori produttivi o gruppi sociali abbiano tratto addirittura beneficio dalla crisi, incrementando il volume dei traffici e dei profitti.
A un’immagine completamente buia si è dunque sostituita quella di un tardo Medioevo dai contorni sfumati, avvolto da luci e ombre, non certo omogeneo, ma al contrario segnato da profonde differenze sul piano geografico, sociale, politico, economico, demografico e culturale. Ed è proprio su queste differenze che varrebbe ancora la pena di insistere e di indagare al fine di comprendere un periodo che – come sottolineato di recente da Sandro Carocci – «continua in larga parte a sfuggirci»39.

2 La Peste nera e i suoi effetti: letture e prospettive
Ma veniamo al ruolo giocato dalla Peste Nera nella “congiuntura del Trecento”, tra flessione demografica e rallentamento economico, oltre che agricolo, foriero di grandi cambiamenti. Appare evidente come le trasformazioni già in atto nella prima metà del XIV secolo subirono un’improvvisa accelerazione con il dilagare dell’epidemia e con le successive ondate, che per decenni piagarono l’Europa.
La peste di metà Trecento rappresenta la seconda grande pandemia del Medioevo. Così come la prima, comparsa nel VI secolo (542) al tempo dell’imperatore Giustiniano e descritta da Procopio di Cesarea, fu preceduta da importanti carestie e si diffuse attraverso le rotte commerciali che collegavano l’Oriente alle regioni del Mediterraneo occidentale. La mappatura del contagio, giunto dal mare per mezzo di alcune galere genovesi, e i suoi effetti sull’Europa del tempo hanno sollecitato e continuano a sollecitare l’attenzione di numerosi specialisti (storici, economisti, archeologi, demografi, epidemiologi ecc.), a conferma dell’indubbia rilevanza storica dell’evento e della sua complessità. Oggetto di ricerche multidisciplinari e interdisciplinari, la peste del 1348 ha segnato per molti aspetti una svolta epocale al punto da assumere per alcuni studiosi anche una decisiva valenza periodizzante40.
Nell’ambito di quello che si configura ormai come uno specifico ambito di ricerche, i temi sui quali si è maggiormente concentrato il dibattito sulla peste hanno riguardato soprattutto la valutazione dell’impatto demografico, le ricadute in termini economici e sociali, e, in misura minore, gli esiti sul piano emotivo, relazionale e religioso.
Ciascuno di questi approcci ha contribuito a rimarcare il nesso tra epidemia e rottura (o alterazione) dei precedenti equilibri, aprendo la strada a nuove prospettive d’indagine e ipotesi interpretative che hanno fatto della peste un osservatorio privilegiato dal quale mettere a fuoco i caratteri, per certi versi drammatici, del secolo a cavallo tra Tre e Quattrocento41. Così, da circa un cinquantennio lo studio dei cambiamenti demografici, socio-economici e culturali intervenuti nell’ultimo scorcio dell’età medievale, continua a confrontarsi con l’azione, più o meno incisiva, di un fattore esogeno come l’epidemia di peste del 1347/‘48.
Uno dei principali interrogativi ai quali la ricerca ha provato a dare risposta concerne il nesso tra diffusione del contagio e tracollo demico. Per quanto risulti difficile, data la natura e la qualità delle fonti pervenute, quantificare con esattezza e su ampia scala il numero degli appestati e dei decessi, è indubbio che il morbo colpì duramente la popolazione europea dell’epoca, impreparata a fronteggiare un’emergenza sanitaria di tale portata.
Se a ciò si aggiunge anche il fatto che, dopo la prima tragica ondata del 1347-‘48, la peste si ripropose in forma endemica a intervalli quasi regolari in molte regioni d’Europa e ben oltre la metà del XV secolo, si può facilmente intuire il peso della sua virulenza sulla contrazione demografica di fine Medioevo. Ciò nonostante, e come ampiamente dimostrato da valide argomentazioni storiografiche, orientate a superare l’idea che il collasso demico (oltre che socio-economico) trecentesco fosse riconducibile a un’unica causa, la peste non avrebbe rappresentato né la sola né la principale responsabile.
Le più recenti letture infatti, sia pur non trascurando l’impatto dell’epidemia sull’andamento demografico, concordano nel ritenere che la congiuntura sfavorevole sia stata determinata da un cambiamento strutturale dei livelli demici, innescato da un’inversione di tendenza avviata già nei decenni precedenti l’esplosione del contagio42. Tale inversione, situabile cronologicamente a cavallo tra XIII e XIV secolo, se in alcuni contesti si era limitata a un lieve rallentamento delle nascite, presso altri aveva raggiunto livelli di flessione demografica piuttosto critici. In un caso come nell’altro, la pandemia si abbatté su una popolazione già provata da tutta una serie di crisi di sussistenza e di episodi epidemici, più o meno gravi, e che per giunta le scarse condizioni igienico-sanitarie, particolarmente carenti nei centri urbani a forte densità abitativa, e il modesto livello delle competenze mediche contribuirono a rendere ancora più vulnerabile43.
Quel che è certo, tuttavia – tenuto conto anche delle differenti condizioni socio-economiche, oltre che climatiche, al sopraggiungere del contagio –, è che non tutti i paesi pagarono lo stesso tributo di vittime, non tutti furono investiti con eguale intensità, anche se ovunque la peste contribuì al peggioramento della situazione pregressa complessiva. In Europa le aree maggiormente colpite dal morbo furono l’Italia e le regioni della Francia meridionale. Qui la recessione demografica di metà Trecento fu aggravata dalle successive impennate epidemiche, dal funesto incremento dei conflitti bellici e dalle loro ripercussioni sulle economie locali e di più ampio raggio, oltre che sulle strutture sociali.
Un secondo e sicuramente più complesso ambito entro il quale sono state ricondotte le ricerche sulla peste ha riguardato proprio l’impatto socio-economico dell’epidemia nell’Europa di fine Medioevo. La questione degli effetti economici della pestilenza anima da tempo il dibattito storiografico, dal quale sono emerse differenti chiavi di lettura, derivanti da altrettanti approcci metodologici, che proviamo a sintetizzare.
Secondo l’interpretazione tradizionalista (e “depressionista”) il dilagare dell’epidemia, incidendo sulla variabile demografica, avrebbe interrotto la grande espansione del Duecento e innescato una depressione economica generalizzata e plurisecolare. Si sarebbe così avviata una lunga fase di recessione, segnata da una severa crisi del settore agricolo, che si ripercosse sul mercato dei generi alimentari e sul loro prezzo, causando diffusi malesseri e tensioni sociali. Contestualmente ne avrebbero risentito anche i settori economico e industriale, indeboliti dal crollo delle attività manifatturiere e dalla destrutturazione dei sistemi produttivi e di scambio. Per i fautori della tesi “depressionista” dopo la Peste Nera del Trecento – sull’esatto peso della quale varie sono tuttavia le opinioni, e anche in relazione ai differenti contesti spaziali e geopolitici – l’Europa tardomedievale avrebbe accusato un durissimo colpo, dal quale per circa due secoli sarebbe stato difficile riprendersi.
Diametralmente opposta a questa visione, per certi versi ancora maggioritaria, è quella decisamente più “ottimistica” che propende per una ristrutturazione dell’economia tardomedievale, avvenuta attraverso un più o meno rapido processo di ripresa e di sviluppo, strettamente correlato alla drastica riduzione della pressione demografica sulle risorse agricole, e in particolare sui cereali. Ciò avrebbe incrementato la produzione di beni alimentari di più alta qualità (come zucchero e frutta) e ampliato le superfici destinate al pascolo. Parallelamente si sarebbe ripreso anche il settore manifatturiero, intensificando la produzione di panni di lana e di seta, di tessuti misti di cotone e lino e di oggetti preziosi; e si sarebbe inoltre verificato il ripopolamento dei centri urbani. In altre parole, come osservato da David Abulafia, la tesi “ottimistica” «scorge nella contrazione demografica il formarsi di nuove energie per la diversificazione economica», che aveva conosciuto una battuta d’arresto a partire dagli ultimi anni della cosiddetta ‘espansione’ medievale44.
A metà strada tra questi due opposti orientamenti sulle conseguenze in campo economico e sociale del decremento demografico post-peste è andata progressivamente imponendosi, più di recente, una tendenza alternativa e più equilibrata, mirata a ridimensione entrambe le precedenti visioni. Secondo quest’ultima lettura, che esclude la tesi di una grave e prolungata depressione economica, come quella di una repentina e generalizzata ripresa, l’Europa tardomedievale avrebbe attraversato una fase di relativo regresso economico. In sostanza, il declino di una regione o di un settore produttivo sarebbe stato bilanciato dal dinamismo di un’altra o dalla trasformazione/riconversione di alcuni settori dell’economia, in grado di riattivare, sia pur con tempi e modi differenti a seconda dei casi, i circuiti produttivi e di scambio.
Rispetto alla storiografia angloamericana e francese, quella italiana si è accostata al tema delle epidemie e della decrescita demografica nel basso Medioevo soltanto in tempi più recenti. Mentre la ricerca d’Oltralpe già a partire dagli anni Sessanta indagava con approcci interdisciplinari il rapporto tra malattia e società, con le possibili interazioni e implicazioni sulle strutture economiche, sanitario-assistenziali o antropologiche, come pure sui quadri mentali e gli atteggiamenti culturali, piuttosto evidente si confermava lo scarto dei lavori condotti in Italia sui medesimi argomenti45. Non deve apparire dunque strano il fatto che siano stati proprio degli storici stranieri, come Elisabeth Carpentier, Wiliam Bowsky e David Herlihy, i primi a offrire illuminanti contributi sulla diffusione e sugli effetti dell’epidemia di peste nel nostro paese46.
Tra gli anni Settanta e gli Ottanta l’iniziale ritardo della storiografia italiana ha cominciato in parte a essere recuperato grazie alle ricerche avviate – solo per citare alcuni esempi – da Giovanni Cherubini, Rinaldo Comba, Maria Serena Mazzi, Anna Maria Nada Patrone, Irma Naso, Lorenzo Del Panta e Giuliana Albini47. A seguito di questa prima stagione di studi, nell’ultimo trentennio il fenomeno epidemico e le sue conseguenze sono stati oggetto di una crescente attenzione, tenuta viva dal progressivo infittirsi delle iniziative di ricerca, individuale e collettiva, che hanno prodotto risultati interessanti, e soprattutto in relazione a specifici ambiti territoriali48. A essere maggiormente indagate sono state in particolar modo le regioni dell’Italia centro-settentrionale, mentre una diversa sorte è toccata al Mezzogiorno, poco esplorato e approfondito, nonostante le sollecitazioni espresse da alcuni studiosi, come Bruno Figliuolo, che già nel 1994, in occasione del convegno internazionale svoltosi a Cuneo su “Demografia e società nell’Italia medievale”, lamentava per il Meridione la totale assenza di analisi specifiche e sistematiche49.
Al momento la situazione non è cambiata di molto. Riferimento imprescindibile per lo studio delle epidemie nelle regioni del Sud Italia restano ancora alcune incursioni sull’argomento presenti nelle pagine di Giuseppe Galasso dedicate alla “grande crisi” del Trecento, e un saggio di Raffaele Licinio su Carestie e crisi in area pugliese tra XIII e XIV secolo50. Difronte a un panorama di studi singolarmente scarno, maggiore significato ai fini della ricerca acquista il contributo di un esiguo numero di saggi incentrati sulla Sicilia51 e, più di recente, sulla Terra d’Otranto52.
Per concludere, nel quadro storiografico appena tracciato – e sotto la spinta dell’emergenza sanitaria scatenata dalla nuova pandemia da Covid-19 – non appaia pleonastico l’auspicio di un rinnovato e concreto riesame delle fonti tre-quattrocentesche, e soprattutto in relazione a specifiche realtà regionali ancora poco esplorate, utile a sviscerare una pagina di storia che ha profondamente influenzato il corso degli eventi, nell’Europa tutta, nel Nord e nel Sud della nostra Penisola.
La peste del Trecento ha indubbiamente trasformato lo scenario economico e sociale di fine Medioevo, ha mutato il paesaggio, generando diserzioni più o meno radicali di agglomerati demici, ha cambiato le abitudini quotidiane, ha condizionato le scelte politiche, ha introdotto massicci cambiamenti strutturali sul piano culturale, ha accresciuto il potere consolatorio della fede; in altre parole, essa ha impresso un segno fortissimo e decisivo sulla vita degli uomini e delle donne del tempo. Sono dunque tanti gli aspetti sui quali vale ancora la pena riflettere, per meglio comprendere e valutare, oggi come ieri, «l’impatto delle pestilenze e delle epidemie nella storia dell’umanità»53.

Note

  1. Ovidio Capitani, Premessa a O. Capitani (a cura di), Morire di peste: testimonianze antiche e interpretazioni moderne della «peste nera» del 1348, Bologna, Pàtron, 1995, pp. 5-20.
  2. Henri Pirenne, Storia economica e sociale del Medioevo, appendice bibliografica e critica di Hans van Werveke, Milano, Garzanti, 1967, pp. 210-211; Marc Bloch, Signoria francese e maniero inglese. Lezioni sulla proprietà fondiaria in Francia e in Inghilterra, a cura di Daniela Gagliani, Giorgio Orlandi, Donatella Vasetti, Milano, Feltrinelli, 1980.
  3. Édouard Perroy, À l’origine d’une économie contractée: les crises du XIVe siècle, in “Annales Économies, sociétés, civilisations”, 4 (1949), pp. 167-182.
  4. Michael Postan, Some Economic Evidence of Declining Population in the Later Middle Ages, in “Economic History Review”, II s., 2 (1949-1950), pp. 221-246 (rist. con il titolo Some Agrarian Evidence of declining Pupulation in the Later Middle Ages, in Michael Postan, Essays on Medieval Agriculture and General Problems of the Medieval Economy, Cambridge, Cambridge University Press, 1973, pp. 186-213). Dello stesso autore si veda anche The Medieval Economy and Society, London, Weidenfeld & Nicolson, 1972, in particolare le pp. 31-39.
  5. Carlo Cipolla, Jean Dhondt, Michael Postan, Philippi Wolff, La démographie au Moyen Âge, dans IXe Congrès international des Sciences historiques, Paris, Aubier, 1950, I, pp. 55-75.
  6. George Duby, L’économie rurale et la vie des campagnes dans l’Occident médiéval, Paris, Aubier, 1962 (trad. it. Bari, Laterza, 1966); David Herlihy, Population, plague and social change in rural Pistoia, 1201-1430, in “The Economic history review”, s. II, 17 (1964/1965), pp. 225-244; Barbara Harvey, The Population Trend in England between 1300 and 1348, in “Transactions of the Royal Historical Society”, 5th series, XVI (1966), pp. 23-42; David Herlihy, Medieval and Renaissance Pistoia: the Social History of an Italian Town 1200-1430, New Haven and London, Yale University Press, 1967, pp. 64-66; Edouard Baratier, La Démographie provençale du XIIIIème au XIVème siècle, Paris, S.E.V.P.E.N., 1961; David Herlihy, Christiane Klapisch-Zuber, Tuscans and Their Families: a Study of Florentine Catasto od 1427, New Haven and London, Yale University Press, 1985.
  7. Barbara Harvey, La “crisi” dei primi anni del quattordicesimo secolo, in Ovidio Capitani (a cura di), Morire di peste, cit., pp. 39-66: 45.
  8. Bruce Montimer Stanley Campbell (edit. by), Before the Black Death. Studies in the “crisis”of the early fourteenth century, Manchester and New York, Manchester University Press, 1991.
  9. Si limita il rinvio agli studi di William Robinson, Money, popolation and economic change in late Medieval Europe, in “Economic History Review”, XII (1959-60), pp. 63-76; Nicholas Julian Mayhew, Numismatic evidence and falling prices in the fourteenth century, in “Economic History Review”, XXVII (1974), pp. 1-15; John Munro, Monetary contraction and industrial change in the late-medieval Low Countries, 1335-1500, in Nicholas Julian Mayhew (ed.), Coniage in the Low Countries (880-1500), Oxford, B.A.R., 1979, pp. 95-161; e di John Day, The Medieval Market Economy, Oxford, Wiley-Blackwell, 1987, in particolare le pp. 185-218.
  10. Roberto Sabatino Lopez, Hard Times and Investment in Culture, in The Renaissance. A Symposium (Febr. 8-10, 1952), New York, Metropolitan Museum of Art, 1953, pp. 19-34; e Roberto Sabatino Lopez, Herry A. Miskimin, The Economic Depression of the Renaissance, in “The Economic History Review”, s. II, 14 (1962), pp. 408-426.
  11. John Day, The Great Bullion Famine of the fifteenth century, in “Past and Present”, 129 (1978), pp. 1-54 (rist. in John Day, The Medieval Market Economy, cit.).
  12. Rodney Hilton, Y eut-il une crise générale de la féodalité?, in “Annales Économies, Sociétés, Civilisations”, VI (1951), pp. 23-30.
  13. Maurice Dobb, Studies in the Development of Capitalism, London, George Routledge and Sons, 1946 (ed. it. Problemi di storia del capitalismo, Roma, Editori Riuniti, 1970).
  14. Paul Sweezy, Maurice Dobb, The Transition from Feudalism to Capitalism, in “Science and Society”, 14, 2 (1950), pp. 134-167. Per Sweezy la crisi del modo di produzione feudale e la progressiva affermazione di quello capitalistico non era stata cagionata da fattori endogeni, ma esterni, come lo sviluppo dei commerci e di sistemi produttivi estranei all’economia feudale.
  15. Rodney Hilton, The English Peasantry in the Later Middle Ages, Oxford, Oxford University Press, 1975; Rodney Hilton, Class conflict and the crisis of feudalism. Essays in medieval social history, London, W.Va. Hambledon Press, 1985; e Rodney Hilton, Medieval market towns and simple commodity production, in “Past and Present”, 109 (1985), pp. 3-23.
  16. Guy Bois, Crise du féodalisme. Économie rurale et démographie en Normandie orientale, du début du XIV e siècle au milieu du XVIe siècle, Paris, Editions de l’Ecole des hautes études en sciences sociales, 1976; Guy Bois, Noblesse et crise des revenus seigneuriaux en France au XIVe et XVe siècles: essai d’interpretation, in Philippe Contamine (ed.), La noblesse au moyen age, XIe-XVe siècles. Essais à la mémoire de Robert Boutruche, Paris, Presses universitaire de France, 1976, pp. 219-233.
  17. Robert Brenner, Agrarian class structure and econimic development in pre-industrial Europe, in “Past and Present”, 70 (1976), pp. 30-75; Robert Brenner, The agrarian roots of European capitalism, in “Past and Present”, 97 (1982), pp. 16-113. Entrambi i saggi sono stati ripubblicati in Trevor Henry Aston, C.H.E. Philpin, The Brenner Debate. Agrarian Class Structure and Economic Development in Pre-industrial Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 1985 (ed. it. Il dibattito Brenner. Agricoltura e sviluppo economico nell’Europa preindustriale, Torino, Einaudi, 1989).
  18. Sandro Carocci, Il dibattito teorico sulla “Congiuntura del Trecento”, in “Archeologia Medievale”, XLIII (2016), pp. 17-32: 19.
  19. Rodney Hilton, Medieval market towns and simple commodity production, in “Past and Present”, 109 (1985), pp. 3-23; Christopher Dyer, Standards of living in the later Middle Ages. Social change in England, c. 1200-1520, Cambridge, Cambridge University Press, 1989; Christopher Dyer, The Consumer and the Market in the later Middle Ages, in “The Economic history review”, s. II, 42 (1989), pp. 305-327; Christopher Dyer, Were peasants self-sufficient? English villagers and the market, 900-1350, in Elisabeth Mornet (ed.), Campagnes médiévales. L’homme et son espace. Etudes offertes à Robert Fossier, Paris, Publications de la Sorbonne, 1995, pp. 653-666.
  20. Richard Hugh Britnell, The commercialisation of English society 1000- 1500, Cambridge, Cambridge University Press, 1993; Richard Hug Britnell, Bruce Campbell, (ed.), A commercialising economy. England 1086 to circa 1300, Manchester, Manchester University Press, 1995; Bruce Campbell, Nature as historical protagonist: environment and society in pre-industrial England, in “The Economic History Review”, 63, 2 (2010), pp. 281-314; Bruce Campbell, Unit land values as a guide to agricultural land productivity in medieval England, in Jean-Michel Chevet, Gérard Béaur (eds.), Measuring agricultural growth: land and labour productivity in Western Europe from the Middle Ages to the twentieth century (England, France and Spain), Turnhout, Brepols, 2014, pp. 25-50.
  21. Si vedano, in merito, gli studi del già citato Christopher Dyer, An age of transition? Economy and society in England in the later Middle Ages, Oxford, Clarendon Press, 2005; Christopher Dyer, The Crisis of the Early Fourteenth Century. Some Material Evidence from Britain, in Laurent Feller (ed.), Écriture de l’espace social. Mélanges d’histoire médiévale offerts à Monique Bourin, Paris, Année d’édition, 2010, pp. 491-506; e Christopher Dyer, Philipp R. Schofield, Recent Work on the Agrarian History of Medieval Britain, in Christopher Dyer, Peter Coss, Chris Wickham (eds), Rodney Hilton’s Middle Ages. An Exploration of Historical Themes, in “Past and Present”, Supplement 2 (2007), pp. 21-56. Utile anche il rinvio al volume di David Stone, Decision-making in medieval agriculture, Oxford, Oxford University Press, 2005.
  22. John Hatcher, Mark Bailey, Modelling the Middle Ages. The history and theory of England’s economic development, Oxford, OUP Oxford, 2001, in particolare le pp. 149-173.
  23. Douglass North, Structure and Change in Economic History, New York, W.W. Norton, 1981.
  24. Stephan Epstein, Cities, regions and the Late Medieval crisis: Sicily and Tuscany compared, in “Past & Present”, 130 (1991), pp. 3-50; Stephan Epstein, An island for itself. Economic development and social change in late medieval Sicily, Cambridge, Cambridge University Press, 1992 (trad. it. Potere e mercati in Sicilia, secoli XIII-XVI, Torino, Einaudi, 1996); Stephan Epstein, Freedom and growth: the rise of states and markets in Europe 1300-1750, London, Routledge, 2000.
  25. Alma Poloni, Una società fluida. L’economia di Firenze nel tardo medioevo, in “Storica”, 21, nn. 61-62 (2015), pp. 164-190: 164-167; Sheilagh Ogilvie, ‘Whatever Is, Is Right’? Economic Institutions in Pre-Industrial Europe, in “The Economic History Review”, II s., 60 (2007), pp. 649-684.
  26. Eleni Sakellariou, Southern Italy in the Late Middle Ages. Demographic, Institu- tional and Economic Change in the Kingdom of Naples, c. 1440 – c. 1530, Leiden-Boston, Brill, 2012.
  27. Ibidem, p. 127-230.
  28. Si veda in merito la lucida analisi di Sergio Tognetti, L’economia del Regno di Napoli tra Quattro e Cinquecento. Riflessioni su una recente rilettura, in “Archivio Storico Italiano”, 170 (2012), pp. 757-768.
  29. Oltre ai contributi già menzionati, si segnalano anche: Bas Van Bavel, Jan Luiten Van Zanden, The Jump-start of the Holland economy during the late Medieval crisis, c. 1350-c. 1500, in “Economic History Review”, 57 (2004), pp. 503-532; Jan De Vries, The Industrial Revolution and the Industrious Revolution, in “Journal of Economic History”, 54 (1994), pp. 249-270; e Maarten Prak, Jan LuitenVan Zanden (eds.), Technology, Skills and the Pre-Modern Economy in the East and the West. Essays dedicated to the memory of S.R. Epstein, Leiden, Brill, 2013.
  30. Per questo tipo di approccio, si rinvia soprattutto alle ricerche di Christopher Dyer, An age of transition? Economy and society in England in the later Middle Ages, Oxford, Oxford University Press, 2005.
  31. Sugli sviluppi storiografici più recenti, utilissimo è il rinvio al denso e già citato saggio di Sandro Carocci, Il dibattito teorico, cit., pp. 26-29.
  32. Giuliano Pinto, Poids démographique et réseaux urbains en Italie entre le XIIIe et le XVe siècle, in Villes de Flandre et d’Italie (XIIIe- XVIe siècle). Les enseignements d’une comparaison, sous la dir. de Élisabeth Crouzet-Pavan et Élodie Lecuppre-Desjardin, Turnhout, Brepols, 2008, pp. 13-27: 27. Il rinvio è ad Armando Sapori, Il Rinascimento economico, in Armando Sapori, Studi di storia economica (secoli XIII-XIV-XV), I, Firenze, Sansoni, 1955, pp. 619-652; e a Enrico Fiumi, Storia economica e sociale di San Gimignano, Firenze, Olschki, 1961; e Enrico Fiumi, Fioritura e decadenza dell’economia fiorentina, Firenze, Olschki, 1977.
  33. Roberto Sabatino Lopez, Hard Times and Investment in Culture, cit., pp. 19-34; Roberto Sabatino Lopez, Herry A. Miskimin, The Economic Depression of the Renaissance, cit., pp. 408-426; Michael Postan, Some Economic Evidence of Declining Population, cit.
  34. Maria Luisa Chiappa Mauri, Terre e uomini nella Lombardia medievale. Alle origini di uno sviluppo, Roma-Bari, Laterza, 1997; Patrizia Mainoni, The economy of Renaissance Milan, in Andrea Gamberini (a cura di), A companion to late medieval and early modern Milan, Leiden/Boston, Brill, 2014, pp. 118-165.
  35. Ruggiero Romano, Tra due crisi: l’Italia del Rinascimento, Torino, Einaudi, 1971; e Ruggiero Romano, La storia economica. Dal secolo XIV al Settecento, in Storia d’Italia, II, Dalla caduta dell’Impero romano al secolo XVIII, Torino, Einaudi, 1974, II, pp. 1811-1931.
  36. Carlo Cipolla, The Trends in Italian Economic History in the Later Middle Ages, in “The Economic History Review”, s. II, 2 (1949), pp. 181-184; Carlo Cipolla, Economic Depression of the Renaissance?, in “The Economic History Review”, s. II, 16 (1964), pp. 519-524; Carlo Cipolla, Tra due culture. Introduzione alla storia economica, Bologna, Il Mulino, 1988.
  37. Italia 1350-1450: tra crisi, trasformazione, sviluppo. Atti del tredicesimo convegno di studi (Pistoia, 10-13 maggio 1991), Pistoia, Centro italiano di studi di storia e d’arte, 1993. Per un’aggiornata bibliografia in merito, si veda Sergio Tognetti, Geografia e tipologia delle attività urbane, in Franco Franceschi (a cura di), Storia del lavoro. Il Medioevo: dalla dipendenza personale al lavoro contrattato, Roma, Castelvecchi, 2017, pp. 312-341.
  38. Si vedano in merito gli studi di Richard A. Goldthwaite, The Renaissance Economy: The Preconditions for Luxury Consumption, in Richard A. Goldthwaite (a cura di), Aspetti della vita economica medievale, Firenze, Istituto di storia economica, Università degli Studi Firenze, 1985, pp. 659-673; Richard A. Goldthwaite, The Empire of Things: Consumer Demand in Renaissance Italy, in Francis William Kent, Patricia Simons (eds.), Patronage, Art and Society in Renaissance Italy, Oxford, Oxford University Press, 1987, pp. 155-175; Richard A. Goldthwaite, Wealth and the Demand for Art in Italy, 1300-1600, Baltimore-London, Johns Hopkins University Press, 1993. Per una chiara sintesi degli orientamenti più recenti, si rimanda a Franco Franceschi, Luca Molà, L’economia del Rinascimento: dalle teorie della crisi alla ‘preistoria del consumismo’, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, I, Storia e storiografia, Vicenza, Colla Editore, 2005, pp. 185-200; Franco Franceschi, Luca Molà, Stati regionali e sviluppo economico, in A. Gamberini, I. Lazzarini (a cura di), Lo Stato del Rinascimento in Italia: 1350-1520, Roma, Viella, 2014, pp. 401-420.
  39. Sandro Carocci, Il dibattito teorico, cit., p. 29.
  40. Tra i primi a considerare la peste come fattore periodizzante, si ricorda ancora Roberto Sabatino Lopez, La nascita dell’Europa, Torino, Einaudi, 1966 (I ed. Paris 1962).
  41. Interessanti in merito soprattutto gli studi di Alessandro Pastore, Peste e società, in “Studi storici”, 20 (1979), pp. 857-873; Alessandro Pastore, Peste, epidemie e strutture sanitarie, in La storia. I grandi problemi dal Medioevo a l’Età Contemporanea, dir. Nicola Tranfaglia, Massimo Firpo, III, L’Età Moderna, I, I quadri generali, Torino, Utet, 1987, pp. 63-84; Giuliana Albini, A proposito di studi recenti di storia della salute nel medioevo e nell’età moderna, in “Nuova rivista storica”, 64 (1980), pp. 143-164; Vincenzo Bontempo, Epidemie e società: la storiografia italiana dalla peste al colera, in “Società e storia”, 54 (1991), pp. 881-892; Giovanni Cherubini, La peste nera: l’accertamento storiografico, in La Peste Nera: dati di una realtà ed elementi di una rappresentazione, Atti del XXX Convegno storico internazionale (Todi, 10-13, ottobre 1993), Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1996, pp. 383-402; e Ovidio Capitani (a cura di), Morire di peste, cit.
  42. Sulla decrescita demografica tra XIII e XIV secolo, si rinvia a Enrico Fiumi, La popolazione del territorio volterrano-sangimignanese ed il problema demografico dell’età comunale, in Studi in onore di Amintore Fanfani, I, Milano, A. Giuffrè, 1962, pp. 249-290: 283-284 (ora anche in Enrico Fiumi, Volterra e San Gimignano nel medioevo, a cura di Giuliano Pinto, San Gimignano, Cooperativa Nuovi Quaderni, 1983, pp. 127-158); John Day, Crisi e congiunture nei secoli XIX-XV, in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo, cit., I, pp. 245-273: 256-258; Giuliano Pinto, Conclusioni, in Italia 1350-1450: tra crisi, trasformazioni, sviluppo, Atti del tredicesimo Convegno di Studi (Pistoia, 10-13 maggio 1991), Pistoia, Centro italiano di studi di storia e d’arte, 1993, pp. 500-503; Paolo Pirillo, Peste Nera, prezzi e salari, in La peste: dati di una realtà ed elementi di una interpretazione, Atti del XXX Convegno storico internazionale (Todi, 10-13 ottobre 1993), Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 1994, pp. 177-183; Reinhold Mueller, Epidemie, crisi, rivolte, in Storia medievale, Roma, Manuali di Storia Donzelli, 1998, pp. 557-584: 560; e Giuliano Pinto, Dalla tarda antichità alla metà del XVI secolo, in Lorenzo Del Panta, Massimo Livi Bacci, Giuliano Pinto (a cura di), La popolazione italiana dal medioevo ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 44-51.
  43. Cfr. Lorenzo Del Panta, Le epidemie nella storia demografica italiana (secoli XII-XIX), Torino, Loescher, 1980, pp. 105, 133-136; John Day, Crisi e congiunture, cit., pp. 245-246; Reinhold Mueller, Epidemie, crisi, rivolte, cit., p. 560; Giuliano Pinto, Dalla tarda antichità, cit., pp. 45-49; e Alfio Cortonesi, Luciano Palermo, La prima espansione economica europea. Secoli XI-XV, Roma, Carocci, 2009, pp. 155-166.
  44. David Abulafia, Carestia, peste, economia, in Alfonso Leone, Gerardo Sangermano (a cura di), Le epidemie nei secoli XIV-XVII, Atti delle giornate di studio (Fisciano/Università degli Studi – Salerno, 13-14 maggio 2005), Salerno, Laveglia, 2006, pp. 11-31: 15.
  45. Alessandro Pastore, Peste e società, cit., p. 857.
  46. Elisabeth Carpentier, Une ville devant la peste. Orvieto et la peste noire de 1348, Paris, S.E.V.P.E.N., 1962 (II ed. Bruxelles 1993); William M. Bowsky, The Impact of the Black Death upon Sienese Government and Society, in “Speculum”, 39 (1964), pp. 1-34; David Herlihy, PopulationPlague and Social Change in Rural Pistoia, 1201-1430, in “Economic History Review”, 18 (1965), pp. 225-244.
  47. Cfr. Giovanni Cherubini, La Peste Nera (1347-1350), Seminario di Storia medievale. Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1969-70; Rinaldo Comba, La popolazione in Piemonte sul finire del medioevo. Ricerche di demografia storica, Torino, Deputazione subalpina di storia patria, 1977; Maria Serena Mazzi, Salute e società nel medioevo, Firenze, La nuova Italia editrice, 1978; Anna Maria Nada Patrone, Irma Naso, Le epidemie del tardo medioevo nell’area pedemontana, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1978; e Lorenzo Del Panta, Le epidemie nella storia demografica italiana (secoli XVI-XIX), Torino, Loescher, 1980; Maria Serena Mazzi, Demografia, carestie, epidemie tra la fine del Duecento e la metà del Quattrocento, in Storia della società italiana, VII, La crisi del sistema comunale, Milano, Nicola Teti & C. Editore, 1982, pp. 11-37; e Giuliana Albini, Guerra, fame e peste. Crisi di mortalità e sistema sanitario nella Lombardia tardomedievale, Milano, Cappelli, 1982.
  48. Si limita il rinvio ai lavori di Giuliana Albini, Un problema dimenticato: carestie ed epidemie nei secoli XI-XIII. Il caso emiliano, in Rinaldo Comba, Irma Naso (a cura di), Demografia e società nell’Italia medievale (secoli IX-XIV), Cuneo, Società italiana di demografia storica, 1994, pp. 47-67; Antonio Ivan Pini, Una morte annunciata: la peste del 1348 a Modena e Bologna nelle profezie e nella realtà, in Ilaria Zilli (a cura di), Fra spazio e tempo. Studi in onore di Luigi De Rosa – Dal Medioevo al Seicento, I, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, pp. 657-682; Gian Maria Varanini, La peste del 1347-50 e i governi dell’Italia centro-settentrionale: un bilancio, in La peste nera: dati di una realtà, cit., pp. 285-307; Maria Giagnacovo, Economia e peste a Genova alla fine del Trecento attraverso il carteggio di Datini, in “Storia economica”, 3 (2000), pp. 97-131; Guido D’Agostino, Peste e epidemie in Italia Meridionale, in Le epidemie nei secoli XIV-XVII, cit., pp. 189-196; e Marina Romani, Il governo della peste: malati, medici, religiosi, magistrature sanitarie (secoli XIV-XVI), in “Annuario dell’Archivio di Stato di Milano”, 2015, pp. 63-77.
  49. Bruno Figliuolo, Clima, carestie, epidemie nel Mezzogiorno continentale dal secolo IX alla metà del XIII, in Demografia e società nell’Italia medievale, cit., pp. 69-77. Analoghe valutazioni circa le differenti tradizioni di studi sui processi storici legati alla peste tra Nord e Sud della Penisola sono state espresse da Guido D’Agostino, Peste e epidemie in Italia Meridionale, cit., p. 190.
  50. Cfr. Giuseppe Galasso, Prima e dopo la “grande crisi” del secolo XIV, in Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese (1266-1494), Torino, Utet, 1992; e Raffaele Licinio, Carestie e crisi in Italia meridionale nell’età sveva e primoangioina: aspetti sociali e istituzioni, in Franco Moretti (a cura di), Cultura e società in Puglia in età sveva e angioina, Atti del Convegno di studi (Bitonto, 11-13 dicembre 1987), Bitonto, Centro Ricerche di Storia e Arte Bitontina, 1989, pp. 37-30 (ripubblicato con qualche aggiunta in Raffaele Licinio, Masserie medievali. Masserie, massari e carestie da Federico II alla Dogana delle pecore, Bari, Adda, 1998, pp. 211-249). Entrambi gli studiosi hanno sostenuto la necessità di analisi territoriali subregionali, atte a cogliere le specificità delle singole aree del Mezzogiorno.
  51. Salvatore Tramontana, I francescani durante la peste del 1347-48 e alcuni episodi di psicosi collettiva in Sicilia, in Francescanesimo e cultura in Sicilia (secc. XIII-XVI), Atti del Convegno internazionale di studio nell’ottavo centenario della nascita di San Francesco d’Assisi (Palermo, 7-12 marzo 1982), in “Schede medievali”, 12-13 (1987), pp. 63-78; Domenico Ventura, Epidemie ed attività commerciale. La Sicilia di fine Trecento nei documenti dell’Archivio Datini, in “Società e Storia”, 66 (1994), pp. 723-740; Laura Sciascia, Malattia e salute a Palermo nel XIV secolo: attorno alla peste nera, in Le epidemie nei secoli XIV-XVII, cit.
  52. Carmela Massaro, Carestie, epidemie e rete ospedaliera in una subregione del Mezzogiorno nei secoli XIV-XV, in Società e istituzioni nel Mezzogiorno tardomedievale. Aspetti e problemi, Galatina, Congedo, 2000, pp. 91-126; Cosimo Damiano Poso, La peste del 1480-1481 in Terra d’Otranto, in Città della Puglia meridionale nei secoli XI-XV, Galatina, Congedo, 2012, pp. 149-190. Sul sostegno della monarchia aragonese alle popolazioni colpite dal morbo, fornito spesso sotto forma di sospensione o riduzione fiscale, si rinvia al recente saggio di Francesco Senatore, Survivors’ Voices: Coping with the Plague of 1478-1480 in Southern Italian Rural Communities, in Domenico Cecere, Chiara De Caprio, Lorenza Gianfrancesco, Pasquale Palmieri (a cura di), Disaster Narratives in Early Modern Naples. Politics, Communication and Culture, Roma, Viella, 2018, pp. 109- 126.
  53. William H. McNeill, La peste nella storia. L’impatto delle pestilenze e delle epidemie nella storia dell’umanità, Milano, Res Gestae, 2012. Tra i più recenti volumi pubblicati sull’argomento, si segnalano: Alberto Luongo, Una città dopo la peste. Impresa e mobilità sociale ad Arezzo nella seconda metà del Trecento, Pisa, Pisa University Press, 2020; Pino Blasone, Francesca Olivieri, Le pestilenze nella storia. Esperienze epidemiche tra vita materiale, culture e immaginario, Milano, Feltrinelli, 2020; Frank M. Snowden, Storia delle epidemie. Dalla Morte Nera al Covid-19, Gorizia 2020; William G. Naphy, Andrew Spicer, La peste in Europa, Bologna, Il Mulino, 2021.

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