Bibliomanie

Ultimo duetto nel “centenario Baudelaire”: Proust e Thibaudet
di , numero 52, dicembre 2021, Traduzioni, inediti e rari, DOI

Ultimo duetto nel “centenario Baudelaire”: Proust e Thibaudet
Come citare questo articolo:
Davide Monda, Ultimo duetto nel “centenario Baudelaire”: Proust e Thibaudet, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 52, no. 25, dicembre 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.9680

Sainte-Beuve e Baudelaire1
Marcel Proust
Un poeta che tu2 ami solo in parte, e riguardo al quale è generalmente ammesso che Sainte-Beuve, che gli era molto legato, diede prova dell’ammirazione più chiaroveggente e divinatrice, è Baudelaire. Ora, se Sainte-Beuve – commosso dall’ammirazione, dalla deferenza e dalla gentilezza di Baudelaire, che gli mandava ora dei versi ora del pan pepato, e gli scriveva lettere entusiastiche su Joseph Delorme, sulle Consolations, e sui Lundis – gli inviava lettere affettuose, non ha mai tuttavia accondisceso alle sue ripetute richieste di dedicargli almeno un articolo. E il maggior poeta dell’Ottocento, che per di più era suo amico, non compare nei Lundis, ove invece figurano tanti Conti Daru, Alton Shée e altri del genere. O vi compare solo marginalmente. Una volta, al momento del processo intentato contro di lui, Baudelaire implorò da Sainte-Beuve una lettera in sua difesa: Sainte-Beuve reputò che i suoi legami col governo imperiale glielo impedissero, e si limitò a scrivere uno schema anonimo3 di difesa, del quale l’avvocato di Baudelaire era autorizzato a servirsi, ma senza menzionare Sainte-Beuve, e ove diceva che Béranger era stato audace quanto Baudelaire, aggiungendo: «Lungi da me l’intenzione di sminuire in alcun modo la gloria di un illustre poeta (non si tratta di Baudelaire, ma di Béranger), di un poeta nazionale, caro a tutti, e che l’imperatore ha ritenuto degno di pubbliche esequie etc.».
Tuttavia, aveva inviato a Baudelaire una lettera sulle Fleurs du Mal, che fu poi riprodotta nelle Causeries du Lundi, precisando però, senza dubbio per attenuare la portata dell’elogio, che l’aveva scritta «con l’intenzione di venire in aiuto della difesa». Esordisce ringraziando Baudelaire delle parole con cui gli aveva dedicato una copia del libro; ma non si spinge a dirne una sola parola d’elogio; afferma che le sue poesie, che aveva già letto, fanno, raccolte insieme, «tutt’altro effetto»; che evidentemente è un effetto triste, desolante, ma che Baudelaire ben lo sa; tutto questo per un’intera pagina, senza che un solo aggettivo lasci intendere se Sainte-Beuve trovi il libro buono. Apprendiamo soltanto che Baudelaire ama molto Sainte-Beuve e che questi, dal canto suo, conosce le doti di cuore di Baudelaire. Finalmente, verso la metà della seconda pagina, si lancia in un apprezzamento (e ciò in una lettera di ringraziamento all’amico, che l’ha trattato con tanto affetto e tanta deferenza!): «Facendo ciò con sottigliezza (primo apprezzamento, ma che può essere interpretato sia in senso positivo sia in senso negativo), con raffinatezza, con un talento inconsueto (è il primo elogio, ammesso che sia davvero tale; ma non bisogna fare i difficili, perché resterà l’unico), e un abbandono quasi prezioso d’espressione, parlando (il verbo è sottolineato da Sainte-Beuve) o petrarcheggiando sull’orribile…»; e aggiunge, paternamente: «Avete dovuto soffrir molto, caro figliolo». Seguono alcune critiche, e poi grandi complimenti su due poesie soltanto: il sonetto Tristesses de la lune, «che sembra opera di qualche poeta inglese contemporaneo del giovane Shakespeare», e A celle qui est trop sage4, di cui dice: «Perché questa poesia non è scritta in latino, o piuttosto in greco?». Dimentico che, poco prima, aveva parlato della sua «finezza d’esecuzione». E, siccome ama le metafore coerenti, conclude così: «Ma, ancora una volta, non si tratta di complimenti a qualcuno a cui si vuol bene…» – un amico che gli ha appena inviato Les Fleurs du Mal, mentre lui ha passato la vita a far complimenti a tanti scrittori privi talento…
Ma non basta: questa lettera, Sainte-Beuve – appena saputo che si voleva pubblicarla –, l’aveva richiesta indietro, probabilmente per verificare di non essersi lasciato sfuggire troppi elogi (è peraltro solo una mia ipotesi). In ogni caso, pubblicandola nelle Causeries du Lundi, ritenne opportuno anteporle – dirò francamente, per indebolirla ancor di più – un breve preambolo, ove dichiara che la lettera era stata scritta «con l’intenzione di venire in aiuto alla difesa». Ed ecco come, in tale preambolo, parla delle Fleurs du Mal, sebbene questa volta, non rivolgendosi più al poeta «suo amico», non debba più rimbrottarlo, e potrebbe anche fargli qualche complimento: «Il poeta Baudelaire… aveva impiegato anni a estrarre da ogni argomento e da ogni fiore (ossia, a scrivere Les Fleurs du Mal) un succo velenoso, e persino, bisogna dirlo, piacevolmente velenoso. Era, d’altronde (sempre la stessa storia!), un uomo intelligente (!), abbastanza simpatico nei suoi momenti migliori (gli scriveva, infatti: «Ho bisogno di vedervi, come Anteo di toccare la terra») e capacissimo di affetti (è, in effetti, tutto quel che c’è da dire sull’autore delle Fleurs du Mal: Sainte-Beuve ci aveva già detto, allo stesso modo, che Stendhal era modesto e Flaubert un bravo figliolo). Dopo ch’ebbe pubblicato tale raccolta, intitolata Les Fleurs du Mal («So che scrivete versi, non siete mai stata tentata di pubblicarne una piccola raccolta?», diceva a Madame de Noailles un uomo di mondo), se la dovette vedere non solo con la critica, ma con la Giustizia, quasi ci fosse veramente pericolo in quelle malizie avviluppate e sottintese in rime eleganti…». Poi, alcune righe in cui Sainte-Beuve ha l’aria di scusarsi (questa è, almeno, la mia impressione) per gli elogi della lettera, con l’argomento del favore da rendere all’accusato. Rileviamo, per inciso, che le «malizie avvilupate» non s’accordano granché con la frase: «Avete dovuto soffrir molto, caro figliolo». Dinanzi a Sainte-Beuve quante volte viene la tentazione di gridare: «Che vecchio imbecille!», oppure: «Che vecchia canaglia!».
Un’altra volta – e forse perché Sainte-Beuve era stato accusato dagli amici di Baudelaire di non aver avuto il coraggio di testimoniare in suo favore in Corte d’Assise, insieme con Barbey d’Aurevilly, etc. –, in occasione delle elezioni all’Académie française, Sainte-Beuve scrisse un articolo sui diversi candidati, fra i quali c’era anche Baudelaire. Sainte-Beuve – cui, del resto, piaceva dar lezioni di letteratura ai colleghi dell’Académie, così come amava dar lezioni di liberalismo ai suoi colleghi del Senato, in quanto, pur appartenendo a quell’ambiente, si sentiva molto superiore ad esso, e aveva velleità, slanci, vivi desideri d’arte nuova, d’anticlericalismo e di rivoluzione – Sainte-Beuve parlò in termini amabili e concisi delle Fleurs du Mal: «quel piccolo padiglione che il poeta si è costruito all’estremità della Camciatca letteraria, e che io chiamerei la “Folie Baudelaire”» (sempre motti di spirito, che gli hommes d’esprit possano citare sogghignando: chiama ciò “Folie Baudelaire”. Solo che le persone che usavano citarli a cena, potevano farlo se si riferivano a Chateaubriand o a Royer-Collard, ma non già nel caso di Baudelaire, che per loro era uno sconosciuto). Ma concluse il suo articolo con queste frasi incredibili: «certo è che Baudelaire ci guadagna a esser conosciuto di persona, giacché, mentre ci si aspetterebbe di veder entrare un uomo strano ed eccentrico, ci si trova viceversa dinanzi a un candidato cortese, rispettoso, esemplare, un giovanotto amabile, fine di linguaggio e perfettamente classico nelle forme». Non posso credere che Sainte-Beuve, scrivendo le espressioni giovanotto amabile, ci guadagna ad esser conosciuto, classico nelle forme, non abbia ceduto a quella sorta d’isteria del linguaggio che, ogni tanto, gli faceva provare un irresistibile piacere nel parlare come un borghese che non sappia scrivere, o nel dire di Madame Bovary: «L’inizio è di grande finezza».
Si tratta sempre dello stesso sistema: fare qualche elogio «da amico» a Flaubert, ai Goncourt, a Baudelaire, e dire che, in privato, essi sono gli uomini più deliziosi, gli amici più affidabili. Lo troviamo anche nell’articolo retrospettivo su Stendhal («più sicuro nel suo sistema»). E, dopo aver consigliato a Baudelaire di ritirare la sua candidatura, avendolo il poeta ascoltato e scritto la lettera di rinuncia, Sainte-Beuve se ne complimenta e lo consola in questo modo: «Quando (nella seduta dell’Académie) è stata letta la vostra ultima frase di ringraziamento, elaborata in termini così modesti e cortesi, si è detto ad alta voce: “Benissimo. Avete lasciato una buona impressione. Non è forse qualcosa?”». Non conta qualcosa aver fatto a De Sacy o a Viennet l’impressione di un uomo modesto, d’un «giovanotto amabile»? E non contava forse qualcosa, da parte di Sainte-Beuve, grande amico di Baudelaire, aver dato consigli al suo avvocato, a patto che il suo nome non venisse menzionato; aver rifiutato di scrivere un solo articolo sulle Fleurs du Mal, e persino sulle traduzioni da Poe, ma aver detto poi che la “Folie Baudelaire” era un delizioso padiglione etc.?
A Sainte-Beuve sembrava che tutto ciò fosse molto. E – fatto spaventoso, che suffraga quel che ho già detto –, per quanto la cosa possa apparire incredibile, Baudelaire era dello stesso avviso. Allorché i suoi amici s’indignano per l’abbandono di Sainte-Beuve al momento del suo processo, e manifestano sulla stampa il loro malcontento, Baudelaire è come fuori di sé; scrive a Sainte-Beuve una lettera dopo l’altra per rassicurarlo che lui è del tutto estraneo a quegli attacchi; scrive a Malassis e ad Asselineau: «Vedete quanto possa turbarmi questa storia… Babou sa bene quanto io sono legato allo zio Beuve, che tengo moltissimo alla sua amicizia, e che mi faccio scrupolo di tacere la mia opinione quando è contraria alla sua etc. Babou ha l’aria di voler difendermi contro qualcuno che mi ha fatto un’infinità di favori». (?) E scrive a Sainte-Beuve che, ben lungi dall’aver ispirato quell’articolo, aveva piuttosto cercato di persuadere l’autore che «voi (Sainte-Beuve) facevate sempre tutto quel che dovevate e potevate fare. Ancora poco tempo fa, parlavo a Malassis di questa grande amicizia che mi onora».
Anche supponendo che Baudelaire non fosse sincero, e che solo per opportunismo cercasse d’ingraziarsi Sainte-Beuve, facendogli credere che stimava che con lui si fosse comportato bene, le cose non cambiano: ciò prova, semmai, l’importanza che attribuiva a un articolo di Sainte-Beuve (che, in realtà, mai riuscì ad ottenere) e, in mancanza di quello, alle poche frasi di elogio che il critico finì per concedergli. E tu hai sentito il tenore di quelle frasi… Ma, per quanto ci sembrino meschine, esse mandano in visibilio Baudelaire. Dopo l’articolo «ci guadagna ad esser conosciuto di persona, è un giovanotto amabile, “Folie Baudelaire” etc.», scrive a Sainte-Beuve: «Un altro favore di cui vi sono debitore! Quando avranno termine? E come posso ringraziarvi? Poche parole, caro amico, per esprimervi il genere affatto speciale del piacere che mi avete recato… Quanto a ciò che chiamate la mia Camciatca, se io ricevessi spesso incoraggiamenti così vigorosi come questo, credo che avrei la forza di farne un’immensa Siberia etc. Quando considero la vostra attività, la vostra vitalità, mi vergogno profondamente (per la sua impotenza letteraria!). Occorre forse ora che io, l’incorreggibile innamorato dei Rayons jaunes e di Volupté, di Sainte-Beuve poeta e romanziere, faccia i complimenti al giornalista? Come avete fatto a raggiungere tale altezza formale? Vi ho ritrovato tutta l’eloquenza della vostra conversazione etc.»; e infine: «Poulet-Malassis muore dalla voglia di pubblicare un opuscolo col vostro mirabile articolo». Né Baudelaire limita la sua gratitudine a una lettera: difatti scrive, sull’articolo di Sainte-Beuve, un articolo non firmato per la “Revue anecdotique”: «L’intero articolo è un capolavoro di buon umore, di gaiezza, di saggezza, di buon senso e d’ironia. Tutti coloro che hanno l’onore di conoscere davvero l’autore di Joseph Delorme etc.». Sainte-Beuve ringrazia il direttore della rivista dicendo infine, sempre con quel suo gusto di stornare il senso delle parole: «Saluto e rispetto il benevolo anonimo». Ma Baudelaire, non essendo sicuro che Sainte-Beuve l’avesse riconosciuto, gli scrive per dirgli che l’articolo è suo.
Tutto ciò conferma quanto ti dicevo, ossia che l’uomo che vive nello stesso corpo con un grande genio ha scarsi rapporti con questo, che è l’uomo che gli intimi conoscono e che, di conseguenza, è assurdo voler giudicare, come fa Sainte-Beuve, il poeta basandosi sull’uomo o sulle testimonianze dei suoi amici. L’uomo non è che un uomo, e può ignorare del tutto quel che vuole il poeta che vive in lui. E forse è meglio così5. Il nostro ragionamento, per contro, traendo dall’opera del poeta la sua grandezza, dice di lui: «è un re», e lo vede come un re, e vorrebbe che l’uomo si comportasse da re. Ma il poeta non deve affatto vedersi così, affinché la realtà che rappresenta resti per lui oggettiva, ed egli non pensi a se stesso. Così, il poeta si vede come un poveretto, che sarebbe ben lusingato d’essere invitato nella dimora di un duca e di ottenere premi all’Académie. E se questa umiltà è la condizione della sua sincerità e della sua opera, sia benedetta! Baudelaire s’ingannava su se stesso fino a questo punto? In teoria forse no. Ma anche se la sua modestia, la sua deferenza fossero state mere forme d’astuzia, comunque s’ingannava, in pratica, su se stesso, giacché lui, che aveva scritto Le Balcon, Le Voyage, Les Sept Vieillards, si percepiva in una sfera ove un seggio accademico o un articolo di Sainte-Beuve avevano un gran valore. E si può affermare che tali siano i migliori scrittori, i più intelligenti: che non tardano a ridiscendere dalla sfera in cui hanno scritto Les Fleurs du Mal, Le Rouge et le Noir, L’éducation sentimentale – di cui possiamo renderci conto, noi che conosciamo soltanto le opere, ossia i geni, senza essere fuorviati dalla mendace immagine dell’uomo, a quale altezza si trovi rispetto a quella in cui furon scritte le Causeries du Lundi, Carmen e Indiana – per accettare con deferenza, per calcolo, per finezza di carattere o per amicizia, la falsa superiorità di un Sainte-Beuve, di un Mérimée o di una George Sand. Tale dualismo, pur così naturale, ha qualcosa d’inquietante. Vedere Baudelaire disincarnato, pieno di rispetto per Sainte-Beuve; altri in atto d’intrigare per ottenere la Legion d’onore; o Vigny che, appena terminate Les Destinées, mendica un po’ di pubblicità presso un giornale (non ricordo con esattezza, ma mi sembra di non sbagliare).
Al pari del cielo della teologia cattolica, costituito di più cieli sovrapposti, la nostra persona, nell’apparenza che le conferisce il corpo, con la testa che circoscrive in una piccola sfera il pensiero, la nostra persona morale è composta di più persone sovrapposte. Probabilmente, ciò vale in modo particolare per i poeti, nei quali v’è un cielo in più, un cielo intermedio fra il cielo del loro genio e quello del loro ingegno, della loro bontà, della loro nobiltà di tutti i giorni: la loro prosa. Nei Contes di Musset, si avvertono ancora, a tratti, il fremito, il fruscio serico, la tendenza a volare di quelle ali che non si leveranno da terra. Del resto, l’hanno detto assai bene:

Même quand l’oiseau marche, on sent qu’il a des ailes6.

Un poeta che scriva in prosa (salvo che naturalmente non vi faccia della poesia, come Baudelaire nei suoi Petits poèmes e Musset nel suo teatro) – Musset, per esempio, quando scrive i suoi Contes, i saggi critici, i discorsi accademici – è un essere che ha messo da parte il proprio genio, che ha cessato di trarre da sé forme prese in un mondo soprannaturale ed esclusivamente suo, ma che se ne ricorda e ce ne fa ricordare. A un certo momento, di fronte a certi brani, ci viene da pensare a certi versi celebri, invisibili, assenti, ma la cui forma vaga, incerta, sembra trasparire dietro discorsi che chiunque potrebbe tenere, conferendo loro una sorta di grazia e di maestà, di commovente allusività. Il poeta è già scomparso, ma il suo riflesso appare ancora dietro le nubi. Invece, nell’uomo – l’uomo della vita, dei pranzi mondani, dell’ambizione – non ne resta più traccia. E proprio a questo Sainte-Beuve pretende di chiedere l’essenza del poeta, di cui non ha conservato nulla.

Comprendo che tu possa amare Baudelaire solo in parte. Nelle sue lettere, come in quelle di Stendhal, hai letto cose crudeli sulla sua famiglia. E crudele è nella sua poesia: crudele, eppure infinitamente ricco di sensibilità, tanto più stupefacente nella sua durezza in quanto si avverte che le sofferenze che deride, che rappresenta con tanta impassibilità, lui le ha sentite sin nel fondo dei suoi nervi. Certo è che, in una poesia sublime come Les Petites Vieilles, non gli sfugge nessuna delle sofferenze di queste. Non soltanto i loro immensi dolori:

Ces yeux sont des puits faits d’un million de larmes…
Toutes auraient pu faire un fleuve avec leurs pleurs
7,

lui è nel loro corpo, freme con i loro nervi, trema con la loro debolezza:

… flagellés par les bises iniques,
Frémissant au fracas roulant des omnibus…,
Se traînent, comme font les animaux blessés
8,

Ma la bellezza descrittiva e caratteristica del quadro non lo fa indietreggiare dinanzi ad alcun particolare crudele9:

Ou dansent, sans vouloir danser, pauvres sonnettes…10
Celle-là, droite encor, fière et sentant la règle…

Avez-vous observé que maints cercueils de vieilles
Son presque aussi petits que celui d’un enfant?
La Mort savante met dans ces bières pareilles
Un symbole d’un goût bizarre et captivant…
A moins que méditant sur la Géometrie
Je ne cherche, à l’aspect de ces membres discords,
Combien de fois il faut que l’ouvrier varie
La forme de la boîte où l’on met tous ces corps.


Ma soprattutto:

Mais moi, moi qui de loin tendrement vous surveille,
L’oeil inquiet, fixé sur vos pas incertains,
Tout comme si j’étais votre père, ô merveille!
Je goûte à votre insu des plaisirs clandestins.


Ecco perché amare Baudelaire – come direbbe Sainte-Beuve, del quale mi vieto di far mia tale locuzione, pur essendone stato spesso tentato, per togliere a questo mio progetto di articolo ogni parvenza di gioco di spirito; ma la mia non è una parodia, è un’osservazione fatta da me, in cui le parole mi tornano alla memoria o sulle labbra, e che in questo momento mi si impone –, amare Baudelaire, voglio dire amarlo sino alla pazzia in queste sue poesie così pietose e umane, non è necessariamente segno di grande sensibilità. Di tali spettacoli – che, in fondo, ne son certo, lo avevano fatto soffrire – diede una raffigurazione così potente, ma nella quale è assente ogni espressione di sensibilità, sicché certi spiriti puramente ironici e amanti del pittoresco, dei cuori davvero duri, se ne possono dilettare. Il verso su quelle Petites Vieilles:

Débris d’humanité pour l’éternité mûrs!11

è un verso sublime che grandi spiriti, grandi cuori amano citare. Ma quante volte l’ho udito citare, e gustare appieno, da una donna molto intelligente, ma la più inumana, la più priva di bontà e di moralità che io abbia mai conosciuto, e che, mescolandolo a ingiurie spiritose ed atroci, si divertiva a lanciarlo, come una predizione di prossima morte, al passaggio di certe donne in età da lei aborrite. Sentire tutti i dolori, ma restando abbastanza padrone di sé da non soffrire nel contemplarli; poter sopportare il dolore causato artificialmente da una cattiveria (si giunge persino a dimenticare, nel citarlo, quanto è crudele lo splendido verso:

Le violon frémit comme un coeur qu’on afflige12,

Ah! quel fremito di un cuore cui si fa male – poco fa, era soltanto il fremito dei nervi delle vecchine, nell’udire lo strepito viaggiante degli omnibus).
Forse questa subordinazione della sensibilità alla verità, all’espressione è, in fondo, un segno del genio, un segno della forza dell’arte, superiore alla pietà individuale. Ma, in Baudelaire, c’è qualcosa di più singolare. Sembra che, nelle più sublimi espressioni relative a certi sentimenti, si sia limitato a dipingerne la loro forma esteriore, senza simpatizzare con essi. Uno fra i più mirabili versi sulla carità, uno di quei versi immensi e distesi, caratteristici di Baudelaire, è questo:

Pour que tu puisses faire à Jésus, quand il passe,
Un tapis triomphal avec ta charité13.


Ma non c’è nulla di meno caritatevole (deliberatamente, ma non importa) del sentimento con cui esso è pronunciato:

Un Ange furieux fond du ciel comme un aigle,
Du mécréant saisit à plein poing les cheveux,
Et dit, le secouant: «Tu connaîtras la règle!
(Car je suis ton bon Ange, entends-tu?) Je le veux!
Sache qu’il faut aimer, sans faire la grimace,
Le pauvre, le méchant, le tortu, l’hébété,
Pour que tu puisses faire à Jésus, quand il passe,
Un tapis triomphal avec ta charité»14.


Forse comprende tutto quanto c’è in tutte quelle virtù, ma sembra escluderne dai suoi versi l’essenza. C’è tutto lo spirito di devozione, in questi versi delle Petites Vieilles:

Toutes m’enivrent! Mais parmi ces êtres frêles
Il en est qui, faisant de la douleur un miel,
On dit au Dévouement qui leur prêtait ses ailes:
«Hippogriffe puissant, mène-moi jusqu’au ciel!»15


Sembra che il poeta eterni con la forza straordinaria, inaudita della parola (cento volte più grande, checché se ne dica, di quella di Hugo) un sentimento che si sforza di non provare pur nel momento in cui ne parla, in cui lo dipinge più di quanto non l’esprima. Per tutti i dolori, per tutte le dolcezze, sa trovare forme inedite, rapite al suo proprio mondo spirituale e che mai si troveranno in un altro poeta, forme di un pianeta ove lui solo ha dimorato e che non somigliano a nulla di quanto conosciamo. Su ogni categoria di persone lui posa, calda e soave, piena di liquore e profumo, una di quelle grandi forme, uno di quei sacchi che potrebbero contenere una bottiglia o un prosciutto; ma, se parla con labbra risonanti come il tuono, si direbbe che si sforzi di parlare solo con le labbra, sebbene si intuisca che ha sentito tutto, compreso tutto, e possiede la più vibrante sensibilità, l’intelligenza più profonda.

L’une, par sa patrie au malheur exercée,
L’autre, que son époux surchargea de douleurs,
L’autre, par son enfant Madone transpercée,
Toutes auraient pu faire un fleuve avec leurs pleurs!16


«Exercée» è stupendo; «surchargea» è stupendo; «transpercée» è stupendo. Ciascuno di questi termini depone sopra l’idea una di quelle belle forme scure, abbaglianti, nutrienti.
Tra le belle forme d’arte inventate da Baudelaire, di cui ti parlavo e che posano le loro grandi forme calde e colorate sui fatti che va enumerando, alcune alludono, in effetti, alla patria degli antichi:

L’une, par sa patrie au malheur exercée…
Les uns, joyeux de fuir une patrie infâme17
C’est la bourse du pauvre et sa patrie antique18.


Come le belle forme sulla famiglia («d’autres, l’horreur de leurs berceaux»19), che non tardano a rientrare nella categoria delle forme bibliche, e di tutte quelle immagini che fanno la potenza veemente di una poesia come Bénédiction, ove tutto è ingrandito da tale dignità d’arte:

Dans le pain et le vin destinés à sa bouche
Ils mêlent de la cendre avec d’impurs crachats;
Avec hypocrisie ils jettent ce qu’il touche,
Et s’accusent d’avoir mis leurs pieds dans ses pas.

Sa femme va criant sur les places publiques…
Je ferai le mêtier des idoles antiques, etc.
Ah! que n’ai-je mis bas tout un noeud de vipères,
Plutôt que de nourrir cette dérision!20


Accanto a versi raciniani, così frequenti in Baudelaire:

Tous ceux qu’il veut aimer l’observent avec crainte21,

i grandi versi fiammeggianti «come ostensori»22, che sono la gloria delle sue poesie:

Elle-même prépare au fond de la Géhenne
Les bûchers consacrés aux crimes maternels23.


E tutti gli altri elementi del suo genio… che tanto mi piacerebbe enumerarti se ne avessi il tempo. Ma, in questa poesia, le immagini che prevalgono sono già le belle immagini della teologia cattolica:

Des Trônes, des Vertus, des Dominations.

Je sais que la douleur est la noblesse unique
Où ne mordront jamais la terre et les enfers,
Et qu’il faut pour tresser ma couronne mystique
Imposer tous les temps et tous les univers24.


(Immagine del dolore, questa, non ironica come quelle dello spirito di devozione e della carità, prima ricordate, ma pur sempre impassibile, formalmente più bella, più ricca di allusioni a opere d’arte del Medioevo cattolico, più pittorica che commossa).
Tralascio i versi sulla Madonna, poiché in essi il gioco consiste appunto nel servirsi di tutte quelle forme cattoliche. Ma ecco piuttosto queste meravigliose immagini:

Je traîne des serpents qui mordent mes souliers25.

La parola «soulier» che ama tanto riprendere dalle Sacre Scritture: Come son belli i tuoi piedi senza calzari, o figlia di principe. L’infedele lascia i propri calzari sulla soglia della chiesa e «ces serpents sous tes pieds comme sous les pieds de Jésus», inculcabis aspidem, «calpesterai l’aspide».
Ma, tralasciando le forme troppo note (benché siano forse quelle essenziali), mi sembra che potrei evocarti un po’ alla volta, una forma dopo l’altra, il mondo intellettuale di Baudelaire, il paese del suo genio, di cui ogni poesia rappresenta solo un frammento che, appena conosciuto, si ricongiunge agli altri frammenti già a noi noti, come, in una mostra di pittura, in un quadro che non avevamo ancora visto, una montagna antica su cui rosseggia il tramonto e ove passa un poeta dal volto di donna seguito da due o tre muse – ossia un quadro della vita antica conosciuta in maniera naturale, giacché quelle muse erano persone realmente esistenti, che passeggiavano a due o a tre, la sera, in compagnia di un poeta etc.; tutto ciò in un dato momento, a una certa ora, nell’effimero che conferisce alcunché di reale alla leggenda immortale –, scorgiamo un frammento del «paese» di Gustave Moreau. Per questo, ti occorrerebbero tutti quei porti, non solo un porto pieno di vele e di alberi26, e quelli

Où les vaisseaux, glissant dans l’or et dans la moire,
Ouvrent leurs vastes bras pour embrasser la gloire
D’un ciel pur où frémit l’éternelle chaleur,


ma quelli che sono soltanto «dei portici»

Que le soleils marins teignaient de mille feux27,

«le portique ouvert sur les Cieux inconnus»28. Gli alberi di cocco dell’Africa, pallidi come spettri:

Les cocotiers absents de la superbe Afrique
Derrière la muraille immense du brouillard…29

Des cocotiers absents les fantômes épars30.


Appena si accende il crepuscolo della sera, ove il sole mette

Ses beaux reflets de cierge
Sur la nappe frugale et les rideaux de serge,


fino all’ora in cui il cielo è tutto «di rosa e di azzurro mistico» e con quegli strascichi di musica che troviamo sempre in Baudelaire e che gli hanno permesso di creare quella che è forse, dopo l’Eroica di Beethoven, la più deliziosa esaltazione:

Ces concerts riches de cuivre
Dont les soldats parfois inondent nos jardins
Et qui par ces soirs d’or où l’on se sent revivre
Versent quelque héroïsme au coeur des citadins31.

Le son de la trompette est si délicieux
Dans ces soirs [solennels] de célestes vendanges…32.


Il vino: non solo in tutte le divine poesie nelle quali è cantato, da quando matura «sur la colline en flamme» sino al momento in cui la «chaude poitrine» del lavoratore gli è una «douce tombe»; ma ovunque esso, e ogni elisir, ogni vegetale ambrosia (un altro dei suoi personali e deliziosi preparati), entra segretamente nell’elaborazione dell’immagine: come quando della morte dice che essa

… nous monte et nous enivre,
Et nous donne le coeur de marcher jusqu’au soir33.


Gli orizzonti azzurri ove sono incollate vele bianche:

Brick, tartane ou frégate
Dont les formes au loin frissonnent dans l’azur…34.


E la negra, e il gatto, come in un quadro di Manet… Del resto, c’è forse qualcosa che Baudelaire non abbia dipinto? Ho negletto i Tropici, un aspetto troppo noto del suo genio o, perlomeno, troppo noto a noi due, giacché molto ho faticato ad assuefarti a La Chevelure. Ma Baudelaire non ha forse dipinto il sole «dans son enfer polaire» come «un bloc rouge et glacé»? Se ha scritto sul chiaro di luna versi che sono come quella pietra che contiene come sotto vetro, in una custodia di silice, l’opale, e che è come un chiaro di luna sul mare, in mezzo al quale filtra, come un filo di un’altra essenza, d’oro e di viola, un’iridescenza simile al raggio di Baudelaire, egli ha poi dipinto in modo affatto diverso la luna simile a una medaglia appena coniata. E, se ho tralasciato l’autunno, di cui tu, come me, conosci a memoria tutti i versi, ha scritto sulla primavera versi del tutto differenti e divini:

Le printemps vaporeux fuira vers l’horizon35.
Le printemps adorable a perdu son odeur…36.


E, del resto, si possono forse enumerare tali forme, dal momento che Baudelaire non ha mai parlato di nulla (e ha parlato di tutta l’anima!) senza mostrarlo per mezzo di un simbolo, e sempre così materiale, così evidente, così poco astratto, con le parole più forti, più usuali e rese più degne?

Bâton des exilés, lampe des inventeurs!…
Toi qui fais au proscrit ce regard calme et haut
Qui damne tout un peuple autour d’un échafaud…37.


E sulla morte:

C’est l’auberge fameuse, inscrite sur le livre
Où l’on pourra manger, et dormir, et s’asseoir;

[…] Et qui refait le lit des gens pauvres et nus;
C’est la gloire des dieux, c’est le grenier mystique…
C’est le portique ouvert sur les Cieux inconnus!38


Sulla pipa:

Je fume comme la chaumine…39.

E tutte le sue donne, e le sue primavere e il loro odore, e i suoi mattini con la polvere delle discariche e le sue città forate come formicai, e le sue «voci» che promettono mondi: quelle che parlano nella biblioteca e quelle che parlano davanti alla nave, quelle che dicono che la terra è «un gâteau plein de douceur»40 e quelle che dicono:

C’est ici qu’on vendange
Les fruits miraculeux dont votre coeur a faim.


Ricordati che tutti i colori veri, moderni, poetici, li ha trovati lui, non molto vividi, è vero, ma deliziosi, soprattutto i rosa con del blu, dell’oro o del verde:

Vous êtes un beau ciel d’automne, clair et rose…41
Les soirs au balcon, voilés de vapeurs roses42;


e tutte le sere in cui c’è del rosa.
E, in questo universo, un altro ancor più interno, contenuto nei profumi, ma non finiremmo più. E, se prendessimo qualunque sua poesia (non dico le grandi liriche sublimi che tu ami quanto me, Le Balcon, Le Voyage), ma certe poesie meno famose, ti stupiresti di trovarvi ogni tre o quattro versi un verso celebre, assolutamente non baudelairiano, che tu non sapevi dove fosse (accanto a versi forse più baudelairiani e divini):

Beaux écrins sans joyaux, médaillons sans réplique43

un verso fecondo, si direbbe, tanto è generale e nuovo, di mille altri versi analoghi, ma che non sono mai stati scritti così bene, e in tutti i generi, come, ad esempio:

Et les grands ciels qui font rêver d’éternité44

un verso che potresti credere di Hugo:

Et tes yeux attirants comme ceux d’un portrait45

che potresti credere di Gautier:

O toi que j’eusse aimé, ô toi qui le savais46,

che potresti credere di Sully-Prudhomme:

Toux ceux qu’il veut aimer l’observent avec crainte47

che potresti credere di Racine:

O charme du néant follement attifé48

che potresti credere di Mallarmé; come tanti altri che potresti credere di Sainte-Beuve, di Gérard de Nerval, che per più aspetti somiglia a Baudelaire, sebbene fosse più tenero, che ebbe lui pure contrasti familiari (o Stendhal, Baudelaire, Gérard), ma nei quali si dimostrò così affettuoso, che era anch’egli un nevrotico e, come lui, scrisse i versi in assoluto più belli, che dovevano poi essere ripresi; e come lui pigro, con qualche incertezza nel piano d’insieme e notevole sicurezza d’esecuzione nei particolari. Sono così singolari le poesie di Baudelaire, con quei grandi versi che il suo genio, impegnato nel giro dell’emistichio precedente, riempie, di scatto, in tutto il loro gigantesco movimento; e in tal modo offrono la più alta idea della ricchezza, dell’eloquenza, dell’infinità del genio:

Et dont les yeux auraient fait pleuvoir les aumônes (svolta)
Sans la méchanceté qui brillait dans leurs yeux49.

… Ce petit fleuve,
Triste et pauvre miroir où jadis resplendit (svolta)
L’immense majesté de vos douleurs de veuve… 50.


e si potrebbero fare cento altri esempi51. E i finali di quelle composizioni che s’interrompono bruscamente, come se chi faceva volare il suo carro, sin dal penultimo verso, nell’immensa arena, non avesse più la forza di proseguire.
Finale di Andromaque:

Aux captifs, aux vaincus, à bien d’autres encor…

Finale di Le Voyage:

Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau…

Finale dei Sept Vieillards:

Et mon âme dansait, dansait, vieille gabare Sans mâts, sur une mer monstrueuse et sans bords.

Vero è che, in Baudelaire, certe ripetizioni sembrano volute e non possono essere scambiate per un ripiego.

Ahimè, doveva venire il giorno in cui fu colpito da quello che aveva chiamato il “castigo dell’orgoglio”:

… Sa raison s’en alla.
L’éclat de ce soleil d’un crêpe se voila.
Tout le chaos roula dans cette intelligence,
Temple autrefois vivant, plein d’ordre et d’opulence,
Sous le plafond duquel tant de pompe avait lui.
Le silence et la nuit s’installèrent en lui,
Comme dans un caveau dont la clef est perdue.
Dès lors il fut semblable aux bêtes de la rue,
Et quand il s’en allait sans rien voir, à travers
Les champs, sans distinguer les étés des hivers,
Sale, inutile et laid comme une chose usée,
Il faisait des enfants la joie et la risée52.


Da quel momento, lui che ancora pochi giorni prima aveva momentaneamente posseduto il verbo più potente che mai sia risuonato su labbra umane, non poté pronunciare altro che queste parole: «Nom, crénom»: essendosi visto in uno specchio portatogli, perché si pettinasse, da un’amica (una di quella amiche barbare che credono di farci del bene costringendoci a «essere accurati», e non si peritano di porgere uno specchio a un viso moribondo che s’ignora e che, con gli occhi già chiusi, s’immagina ancora un viso di vita), e non riconoscendosi, si rivolse un cenno di saluto!

Penso a tutte queste cose, e – come lui dice – a molte altre ancora, e non posso ammettere che sia stato un grande critico colui che – avendo parlato così ampiamente di tanti imbecilli e, pur essendo ben disposto verso Baudelaire, la cui produzione pretendeva del resto fosse simile alla propria (le liriche di Joseph Delorme sono Les Fleurs du Mal ante litteram) – ha scritto su di lui soltanto poche righe, in cui, tranne qualche motto di spirito («Camciatca letteraria» e «Folie Baudelaire»), non c’è che questo elogio, che potrebbe benissimo valere per molti direttori di «cotillons»: «Bravo ragazzo, ci guadagna a esser conosciuto, educato, fa buona impressione».
E tuttavia Sainte-Beuve, grazie alla sua meravigliosa intelligenza, è uno di quelli che meglio hanno compreso Baudelaire. Lui che ha lottato tutta la vita contro la miseria e la calunnia, dopo la sua morte, a sua madre fu a tal punto dipinto come un pazzo e un perverso che ella rimase stupefatta e felice nel ricevere da Sainte-Beuve una lettera in cui le parlava di suo figlio come di un uomo intelligente e buono! Il povero Baudelaire aveva dovuto lottare tutta la vita contro il disprezzo generale. Ma

…les vastes éclairs de son esprit lucide
Lui dérobaient l’aspect des peuples furieux53.


Furiosi sino alla fine: quando era già paralizzato, su quel letto di dolore dove la negra, che era stata la sua unica passione, veniva a tormentarlo con richieste di danaro, le sue povere parole d’impazienza contro il male, balbettate a stento dalla bocca ormai afasica, parvero alla superiora del convento dov’era in cura altrettante bestemmie ed empietà, e dovette andarsene. Ma, come Gérard de Nerval, lui giocava col vento, conversava con le nuvole: «S’enivrait en chantant du chemin de la croix»54. Proprio come Gérard, il quale pregava che si dicesse ai suoi congiunti che lui era intelligente55. In questo periodo della sua vita, Baudelaire portava quei lunghi capelli bianchi che gli davano l’aria (così diceva) di «un accademico all’estero». In quell’ultimo ritratto, lui mostra soprattutto una straordinaria somiglianza con Hugo, Vigny e Leconte de Lisle, come se tutti e quattro non fossero che copie un poco diverse del medesimo volto, del volto di quel grande poeta che, in fondo, è uno soltanto, sin dall’inizio del mondo, e la cui vita intermittente, lunga quanto quella dell’umanità, ha avuto, nell’ultimo secolo, ore tormentate e crudeli, che chiamiamo vita di Baudelaire, ore laboriose e serene, che chiamiamo vita di Hugo, ore vagabonde e innocenti, che chiamiamo vita di Gérard de Nerval, e forse di Francis Jammes, traviamenti e abbassamenti verso scopi d’ambizione estranei alla verità, che chiamiamo vita di Chateaubriand o di Balzac, traviamenti e sopraelevazioni rispetto alla verità, che chiamiamo seconda parte della vita di Tolstoj, così come di Racine, di Pascal, di Ruskin, e forse anche di Maeterlinck.

BAUDELAIRE56
ALBERT THIBAUDET

I
Les Fleurs du Mal e i Petits poèmes en prose sono stati scritti, come tutte le raccolte di poesie, secondo l’occasione e la fantasia, ma tali occasioni seguivano certi percorsi della fortuna, tale ispirazione soffiava da una certa direzione, il sentimento della composizione artistica interveniva a precisare e completare l’ordine naturale, e non senza ragione Baudelaire scriveva ad Alfred de Vigny: «L’unico merito che rivendico per questo libro è che gli si riconosca che non è un semplice raccolta, e che possiede un inizio e una fine».
A maggior ragione Baudelaire avrebbe detto altrettanto dei Poèmes en prose, intitolati inizialmente Le Spleen de Paris, e dei quali si potrebbero artificialmente unire i due titoli in quello di Poèmes de Paris. Essi terminano con un epilogo in versi, versi che sono, peraltro, fra i più convenzionali e deboli che Baudelaire abbia scritto, e che pongono all’orizzonte del libro un’ultima immagine di quella Parigi ove ha attinto il suo nutrimento e le sue visioni.

Le coeur content, je suis monté sur la montagne
D’où l’on peut contempler la ville en son ampleur,
Hôpital, lupanars, purgatoire, enfer, bagne…


Sul medesimo tema, per Les Fleurs du Mal, aveva abbozzato un epilogo la cui minuta conserva un ampio respiro. E i Poèmes en prose, nella dedica ad Arsène Houssaye, s’aprono così: «Chi di noi non ha sognato, nei suoi giorni ambiziosi, il miracolo di una prosa poetica, musicale senza ritmo e senza rima, abbastanza flessibile e contrastata da adattarsi ai moti lirici dell’anima, alle ondulazioni della fantasia, ai soprassalti della coscienza? Ed è soprattutto nel frequentare città immense, è dall’incrocio dei loro innumerevoli rapporti che nasce questo ideale ossessivo. Voi pure, caro amico, non avete forse tentato di tradurre in una canzone il grido stridulo del vetraio, e di esprimere in una prosa lirica tutte le desolanti suggestioni che quel grido manda sino agli abbaini, attraverso le nebbie così alte della via?»
Les Fleurs du Mal e i Poèmes en prose realizzano pressappoco un programma del genere. Quasi tutte queste poesie potrebbero recare il titolo d’una sezione delle Fleurs du Mal, ossia Tableaux parisiens, quadri pittoreschi, ma soprattutto quadri interiori, messa a nudo di un’anima in una grande città, messa a nudo dell’anima di una grande città. Non si tratta di un fremito nuovo, bensì della situazione nuova che Baudelaire ha creato nella poesia. è l’inizio d’un rinnovamento che cominciamo a scorgere soltanto in qualche insieme e in qualche sequenza.
La vita urbana poteva pur essere, fino all’Ottocento, la vita comune dei poeti e dei loro lettori; ma una sorta di tacita convenzione, fondata peraltro su una legge profonda, sembrava escluderla dalla poesia. Di più, possiamo vedere, nelle grandi epoche della vita urbana, la poesia tanto più violentemente respinta fuori dalla città, quanto più la città moltiplica, per il poeta e per l’uomo, le possibilità di vita intellettuale e morale. Quando la vita intellettuale e morale del mondo greco ha come centro le grandi città cosmopolite, quali Alessandria e Siracusa, da quelle stesse città nasce la poesia pastorale. Quando poi lo stesso ruolo viene assunto dalla Roma di Augusto, riappare allora la medesima poesia dei pastori, dei campi, della fresca natura, con le Bucoliche e le Georgiche di Virgilio. E, nella Francia del Settecento, nel momento più scintillante della vita di società, della vita parigina, ritornano le poesie pastorali, insieme con il ritorno all’antico. André Chénier57 e il Trianon58 si corrispondono e si completano.
Non stiamo affatto esagerando. Il genere pastorale e la poesia pastorale fiorirono nella vita cittadina per il bisogno stesso di quell’alibi che è una delle fonti profonde della poesia. Ma è soltanto una delle fonti. Frequentemente all’alibi si opporrà l’occupazione forte e ardente di un tempo e di un luogo, come il vagabondaggio provoca il gusto contrastato od alterno per le radici, come ogni idealismo richiama un realismo. Roma, che ha realizzato pienamente la vita cittadina, ha istituito altresì una poesia urbana originale, autoctona, quella satirasatira tota nostra – che si conclude con Persio e Giovenale. La differenza fra l’epigramma alessandrino e quello di Marziale ci dà modo di valutare la qualità e la novità della poesia urbana nella letteratura latina d’età imperiale.
Non v’è, mi pare, nulla di simile – o ben poco – nella nostra età classica. Montaigne dichiara d’amare persino le verruche di Parigi, ma Parigi e le sue verruche non paiono fornire, se non molto di rado, un luogo morale alla poesia del Sei e del Settecento. Il pittoresco un po’ superficiale e artefatto delle Satires di Boileau potrebbe esser degno, in tal senso, di qualche considerazione, come un tempo lo era stato il piacevole tono da conversazione di quelle d’Orazio. Ma l’unico poeta in cui potrebbe già riscontrarsi qualche tratto dell’ “urbanistica” baudelairiana (nonché di altri aspetti di Baudelaire) è stato forse, ai tempi suoi, Saint-Amant59.
è peraltro notevole che la tradizione classica, sostenuta dalla critica classica, suo braccio secolare, abbia così ostinatamente mantenuto un atteggiamento diffidente ed ostile, in poesia, nei confronti dell’ispirazione urbana. O meglio, dopotutto, è meno notevole di quanto non sia naturale e rispettabile. Evidentemente la vita urbana, in ciò che presenta di nuovo e di specifico, può essere definita artificiale e corrotta. Sembra che l’idea d’una vita artificiale e corrotta, contrapposta alla vita naturale e sana, debba essere prodotta e spontaneamente maturata da quel complesso albero che è una grande città moderna. E questa s’è espressa sotto sembianze latine. Giovenale è più vicino a Teocrito di quanto non sembri: pur occupando due rami diversi, stanno entrambi sul medesimo albero, ossia quello della grande città mediterranea. E Baudelaire pone all’orizzonte della città e della vita parigina i medesimi tratti di nostalgia:

Nous avons, il est vrai, nations corrompues,
Aux peuples anciens des beautés inconnues:
Des visages rongés par les chancres du coeur,
Et comme qui dirait des beautés de langueur;
Mais ces inventions des nos muses tardives
N’empêcheront jamais les races maladives
De rendre à la jeunesse un hommage profond.
– A la sainte jeunesse, à l’air simple, au doux front,
A l’oeil limpide et clair ainsi qu’une eau courante.


(E si dà il caso, fra l’altro, che la lingua e lo stile di questi versi pregnanti siano singolarmente banali).
Eppure, presentata che sia con buona o con cattiva coscienza, sul piano della satira o su quello del compiacimento (ben più simili di quanto non sembri di primo acchito), la deformazione urbana della natura umana sarà sempre considerata con astiosa diffidenza dalla vera ed autentica tradizione classica. I Poètes latins de la décadence di Nisard60, opera insieme critica e allegorica, ove l’autore pone e stigmatizza sotto maschere antiche i suoi contemporanei, possono apparire emblematici, a questo riguardo. Vi si vedono le forme di una letteratura decadente fiorire spontaneamente sui materiali in decomposizione accumulati dalla cultura di una grande città cosmopolita. E tuttavia, allorché Nisard se la prende con i poeti romantici, noi crediamo che s’inganni, e che i suoi strali eruditi, resi acuminati dal latino, non centrino il bersaglio.
A suo parere, i romantici hanno seguito la grande via classica, hanno voltato le spalle alle raffinatezze e alle complessità urbane, hanno praticato una poesia sul prototipo omerico, quella che vien definita, in modo alquanto arbitrario, la poesia eterna. Ha ragione Jules Lemaître61 che, ricercando il maggior pregio di Lamartine, lo definisce un grande poeta ariano: poeticamente ha vissuto in quella famiglia, con sentimenti ariosi e luminosi, con la pienezza solida e sana dei fiori e dei frutti, dei corpi e delle anime. Hugo ha rifulso di salute, di una natura esuberante e diretta. Nella poesia di Musset, ben più che corruzione e complessità, ci sono enfasi oratoria e sentimenti semplici, amplificati da una buona retorica.

Musset se trompe, il n’est pas si coupable…

e il resto dei versi di Voltaire su Gresset62, che si possono trasporre. Vigny da una parte, Gautier dall’altra, benché conducano per due vie diverse a Baudelaire, hanno costruito la loro poesia in scenari che non hanno quasi nulla della grande città baudelairiana: il primo in quello di una natura spiritualizzata, il secondo in un negozio d’antiquariato o nello studio d’un pittore.
Passando da tutti questi poeti romantici a Baudelaire, si va da uno scenario naturale ad uno fatto di pietra e di carne. Costruendo, in Rêve parisien, il sogno di un mondo ideale, lo descrive così:

Le sommeil est plein de miracles!
Par un caprice singulier
J’avais banni de ces spectacles
Le végétal irrégulier.

Et, peintre fier de mon génie,
Je savourais dans mon tableau
L’enivrante mélancolie
Du métal, du marbre et de l’eau…

Et tout, même la couleur noire,
Semblait fourbi, clair, irisé;
Le liquide enchâssait sa gloire
Dans le rayon cristallisé.


è il «sogno di pietra» a cui paragona la bellezza; è la pietra su cui si fonda la sua visione. Il suo mondo ideale è rappresentato come un’architettura, perché il suo mondo reale è un’architettura, una natura urbana, ovverosia una natura che non è più natura. «Ho sempre pensato che ci fosse nella natura fiorente e sempre rinnovata qualcosa di desolante, di duro, di crudele, – un non so che prossimo all’impudenza». Non ci sembra davvero che sia questo il tema della Maison du berger63, della Tristesse d’Olympio64 e di altri testi romantici. Secondo i romantici, la natura costituisce un’orchestra, emanante una musica divina ch’essi cercano di trasfondere tutta quanta nelle loro opere. Tale musica è triste e patetica come ogni musica profonda, ma viene da una realtà sana, eterna, divina. Nella loro poesia, c’è il timore della natura, così come il timore di Dio è alla base della religione, ma vi si vede insieme la svolta in virtù della quale quel timore diviene amore; o meglio, amore e timore sono momenti, figure passeggere di quella realtà sovrumana che occupa tutto l’ambito dell’anima religiosa o poetica, e che da loro è chiamata Dio o natura. Ma assai ben si comprende che il timore di Dio, in un temperamento come quello di Lucrezio o di Nietzsche, si trasforma nell’odio di Dio, che ne è ad un tempo lo sviluppo e il contrario. Similmente, il timore religioso della natura, che faceva parte, per i grandi lirici del Romanticismo, della loro familiarità con la natura, in Baudelaire è viceversa divenuto odio per la natura.
Un odio per la natura che è il corrispettivo e lo specchio di quella violenza contro la natura che sono l’essere materiale, la vita intellettuale e morale di una grande capitale. E non ci si meraviglia nel vedere Baudelaire, nel 1859, infuriarsi dinanzi al successo di Mireille e di Mistral65, «poeta dialettale spinto da Adolphe Dumas, che scrive in un gergo incomprensibile». A due anni di distanza – entrambi quasi altrettanto lontani dal Romanticismo, ma lontani in senso opposto e formanti, col loro contrasto, un’antitesi curiosamente assoluta –, i due libri, le Fleurs du Mal e Mireille, l’uno del poeta parigino e l’altro del contadino di Crau, accrescevano, se non la poesia francese tout court, quanto meno la poesia di Francia, sino a conferirle un’importanza che sarebbe difficile immaginare più rilevante.
Due estremi che, per quanto lontani dal Romanticismo, dopotutto vi erano già contenuti in potenza, poiché Mireille realizza certe tendenze della poesia lamartiniana, e le Fleurs du Mal certe altre che possono facilmente intravedersi in quella di Musset. Con quel magnifico passaggio di poteri che è l’articolo degli Entretiens del 1859, Lamartine riconosce e saluta in Mireille la pienezza della natura patriarcale e ariana, la fiamma antica e il latte fresco del sacro focolare, tutto quello che, insomma, aveva già brillato a profusione nella sua poesia giovanile. E, dal canto suo, Mistral gli offre Mireille come il primo grappolo della sua vendemmia. Baudelaire, per contro, è stato oltremodo provato dalla sua vita come dalla sua arte: ha abbracciato un’attitudine irritata e diffidente che contrasta totalmente con quella fede rustica. Musset lo fa indignare: «Tranne che all’età della prima comunione – dice –, ossia all’età in cui tutto quanto riguarda le prostitute e le scale di seta produce l’effetto d’una religione, non ho mai potuto sopportare quel maestro di damerini, la sua impudenza da bambino viziato, che invoca il cielo e l’inferno per avventure da locanda, il suo torrente fangoso d’errori di grammatica e di prosodia: la sua totale incapacità di comprendere, insomma, il lavoro mediante il quale una fantasia diviene oggetto d’arte». è davvero curioso osservare come queste siano le stesse parole e le stesse metafore impiegate, parlando di Baudelaire, da coloro che non lo possono soffrire. I «collegiali isterici che di lui si pascono», ad avviso di Brunetière66, sono quegli stessi che rappresentava – stando a quanto confessa – durante la sua giovinezza, e che lo leggono proprio nel modo in cui leggeva Musset. Brunetière poi continua: «è solo un Satana da garni, un Belzebù da locanda». Ci informa poi che «quell’uomo forte brillava davvero per debolezza e improprietà espressiva», e che, insomma, prenderlo a modello significa «scambiare i deliri di un malato con l’autentico oggetto dell’arte». è evidente che non attribuiamo maggiore importanza al giudizio di Baudelaire su Musset di quanta non ne diamo al giudizio di Brunetière su Baudelaire, e, in ambo i casi, non scambieremo certo i deliri di un malato con l’autentico oggetto dell’arte, né gli accessi di un umore atrabiliare con un sano giudizio critico. Ma tale vocabolario intercambiabile si fonda sicuramente su delle analogie.
Certo non si fonda su affinità artistiche, e siffatta repulsione era abbastanza naturale per Baudelaire: non c’è alcun rapporto, infatti, fra l’abbondante predisposizione oratoria di Musset – quel grande talento creativo che ha profuso nel teatro almeno quanto nella poesia – e l’ispirazione avara che Baudelaire ama trasformare in sobrietà, in purezza e in condicio sine qua non dell’oggetto d’arte. Ma l’uno e l’altro, nati da un Romanticismo esasperato, testimoniano parimenti la reazione contro il Romanticismo, quella famosa reazione contro il Romanticismo che è vecchia quasi quanto lui, e senza la quale potremmo a malapena immaginarlo, così come non possiamo immaginare la stessa senza il Romanticismo. «Ricordatevi – scrive Baudelaire – di una profonda affermazione di Leconte de Lisle67: “Tutti gli elegiaci sono canaglie”. E se questo ci informa di quanto s’intendeva nel Parnasse per profondità, ci rammenta altresì i sogni di navicelle, gli amanti della notte, dei laghi, delle cascatelle, contro cui Musset dichiara il suo disprezzo. Sentite che entrambi detestano, nei poeti che non amano, la mancanza di sincerità, e che al cuore ondeggiante in bianche vesti, vele leggere e vapori, vogliono che la loro poesia sostituisca un cuore “messo a nudo”». Nulla vieta di vedere qui un richiamo a Racine, di trovare in questo passaggio dal Romanticismo alle Nuits e alle Fleurs du Mal ciò che rappresentò, nel 1667, per un pubblico innamorato di Corneille e dai gusti romanzeschi, la novità di Andromaque (mantenendo distinti, beninteso, i piani fra opere così diverse), che segnò il passaggio da un esterno ad un interno, da uno scenario ad una musica, dalla natura al cuore.
Ma non c’è anima senza carne; a questo interno, a questa musica, a questo cuore, servono pure un esterno, uno scenario, una natura appropriati. E l’elemento materiale che supportava la vita spirituale era, nella tragedia di Racine, quella forma di società umana chiamata vita di corte, quella concentrazione dei valori, della bellezza, dell’essenza di un paese in uno spazio ristretto, attorno ad un re, fatto che raggiunge la sua perfezione nei primi vent’anni del regno personale di Luigi XIV, nel Seicento. Nell’Ottocento, Parigi, come capitale, occupa in Europa e nel mondo lo stesso posto occupato dalla corte di Luigi XIV nel Seicento. Non è l’unica capitale, né la più grande, né la più ricca: lo è meno di altre metropoli; ma è l’unica ove l’uomo possa vivere sino in fondo la vita propria di una grande capitale, l’unica ove tale vita produca tutti i suoi frutti spirituali, l’unica ove le potenzialità della durata, del suolo e del clima siano riunite, come su un colle della Borgogna, per dare a questo vino una qualità eccellente. Come la vita di corte ha prodotto, nel Seicento, una poesia psicologica, era altrettanto naturale che la vita di una capitale producesse, nell’Ottocento, una poesia che toccasse le stesse corde, che si costruisse in opposizione ad analoghi antenati e nemici, e che incontrasse resistenze dello stesso genere. è la poesia che inizia all’incirca con Musset e si conclude – nella misura in cui si può, a questo proposito, parlar di conclusione – con Baudelaire.

Che cos’è una capitale? è una foresta di uomini. Uno spirito fatto per esprimere la poesia urbana si sentirà, in tale foresta d’uomini, come un poeta romantico in una foresta d’alberi e dinanzi alla natura. Baudelaire è divenuto l’artista di un sentimento che Descartes già provava nelle affaccendate città olandesi, e che espone assai bene a Balzac, in una lettera che si potrebbe curiosamente accostare a queste righe: «Non a tutti è consentito fare un bagno nella moltitudine: godere della folla è un’arte, e ciò può provocare, sul genere umano, un’ubriacatura di vitalità, in colui al quale una fata ha infuso nella culla il gusto per il travestimento e la maschera, l’odio per la fissa dimora e la passione del viaggio». Certo, Baudelaire sarebbe stato incapace di far vivere delle folle, di diventare poeta o romanziere di folle, ossia di crearle sul piano estetico. Ma la folla, foresta mobile come un fiume, è un sentiero che cammina, serve da mezzo, da supporto e da paesaggio per la fantasia del poeta, proprio nella misura in cui egli è poeta; la forma e il movimento della folla aderiscono alla linea e all’ondulazione della fantasia poetica e del vagabondaggio sensuale, come la curva del mare sposa la curva inversa della riva. «Moltitudine, solitudine; termini uguali e intercambiabili da parte del poeta attivo e fecondo. Chi non sa popolare la propria solitudine non sa nemmeno esser solo in una folla affaccendata».
Solitudine sempre fremente ed all’erta per attirare su di sé le anime pensanti che la popoleranno. E’ la donna seguìta come un sentiero nei boschi, lo scambio di uno sguardo che dura solo un attimo ed ove stanno tutta la possibilità e tutta l’essenza di un destino:

Un éclair… puis la nuit! – Fugitive beauté,
Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité?
Ailleurs, bien loin d’ici! Trop tard, jamais peut-être!
Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
O toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais!


è l’ultimo verso del sonetto A une Passante, e uno di quei versi che ci fanno sentire in modo chiarissimo l’impronta con cui Baudelaire ha dovuto definitivamente segnare gli uomini la cui giovinezza è stata tutt’uno con la vita di una grande capitale, e in particolare i letterati. Certo, questo testo non potrebbe esser proposto all’ammirazione dei collegiali come i Deux cortèges68. Ma i collegiali non credono all’incontro delle due madri se non per la testimonianza di Soulary, così come credono al vaso di Soissons69 solo per quella di Duruy70. Per di più, essi non hanno bisogno di tornare da soli a Robinson dopo esserci stati con un’innamorata per comprendere e ammirare la Tristesse d’Olympio, per trarne un’impressione profonda: la Tristesse d’Olympio, in effetti, segue una via largamente battuta da tutta la letteratura e poesia d’amore, e per seguire quell’onda bella non è necessario aver personalmente provato l’amore, ma basta applicarvi quella disposizione all’amore che è propria di tutti i temperamenti e di tutte le età; e i critici non dicono qualcosa di diverso quando, vedendo in questa poesia l’espressione di un luogo comune eterno, la contrappongono agli originali artifici ed alle bizzarrie di Baudelaire. Ma un sonetto come la Passante e un verso come l’ultimo dello stesso sonetto non possono godere di quella comprensione generale ed innata. Nessuna Cloe potrebbe farli intendere a Dafni. In nessun caso potrebbero nascere, né essere apprezzati in un paese o in una piccola città. Possono sbocciare soltanto nell’ambiente di una grande capitale, ove gli uomini vivono assieme, stranieri l’uno all’altro, e viaggiatori l’uno accanto all’altro. Solo Parigi, fra tutte le capitali, può produrli come un suo frutto naturale. Quello sguardo scambiato con quella passante, quella rapida scintilla del selciato parigino che, evidentemente, nulla di Virgilio, di Racine e di Mistral ha insegnato ancora al compilatore di schede bibliografiche, e la cui esperienza è unica: tutto ciò è stato creato in una poesia altrettanto unica, e quel verso di Baudelaire che mai avreste prima immaginato, finisce poi per ossessionarvi. Le sue antitetiche metà s’incrociano proprio come i due sguardi, fanno un verso solo, totale e dalla risonanza infinita, così come i due sguardi hanno avuto, per un attimo, una sola luce. Ma ora quel verso è tutt’uno con la polvere dorata del boulevard, in una sera di giugno. Non v’è luce, senz’altro, nel luogo in cui dieci volte, dopo uno di quegli sguardi con cui si sono uniti per un istante due esseri che non s’incontreranno mai più, uno di loro sente il grande alessandrino salire dalla sua memoria, riempire un vuoto, placare e completare nel suo intimo qualcosa, associare quella scintilla a milioni di scintille, quello sguardo, che dapprima gli era parso così povero ed effimero, a milioni di sguardi simili, che conferiscono a quella sera d’estate la sua sostanza umana e la sua luce intelligente, e condurlo, infine, verso la vita con un’anima per un attimo liberata, equilibrata e più consapevole:

O toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais!

Tale trasposizione dalla natura alla città, dalla vegetazione all’architettura, dalla strada agli uomini, rappresenta un mutamento di scenario che, evidentemente, implica pure una trasformazione del sentimento, ma non una trasformazione tale da non riconoscervi le realtà permanenti della sensibilità poetica. Si tratta di una foresta – dicevamo – ove gli alberi sono esseri viventi dilatati in simboli e approfonditi in misteri:

L’homme y passe, à travers des forêts de symboles
Qui l’observent avec des regards familiers.


Alberi e foreste che, per l’anima del poeta, liberano il loro senso e la loro musica nella stagione in cui cadono le foglie. Non si può comprendere la bella poesia delle Petites vieilles se non vi si scorge un poco di Feuilles d’automne71 completamente trasposta – conservandone tutte le proporzioni e tutti i toni – in un paesaggio urbano, ove l’umanità cade in frantumi, col vecchio ritmo con cui, nei versi dei poeti, cadono le foglie degli alberi:

Dans les plis sinueux des vieilles capitales,
Où tout, même l’horreur, tourne aux enchantements,
Je guette, obéissant à mes humeurs fatales,
Des êtres singuliers, décrépits et charmants.


Si può pure provar pietà per questo freddo mistificatore, che pensa di stupirci mostrandosi intento a spiare le vecchie:

Ah! que j’en ai suivi, de ces petites vieille!

Ma, se si pensa alla particolare sensibilità donde nascono le Fleurs du Mal, Baudelaire non poteva non scrivere questa poesia, che forse, nella sua opera, è la più centrale e la più caratteristica. Ha portato come doloroso trofeo non già un infinito tesoro di sensazioni possibili, come Hugo, non una densità di vita interiore come Vigny, ma quel che si potrebbe definire uno spessore di ricordi tale che lui sembra vivere in una sorta di continua paramnesia:

(J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans.)

Sono ricordi che si confondono, in lui, con gli odori, come quello di un «vieux flacon qui se souvient»: sono quegli odori in cui sembra ritrovare tutta un’immemorabile durata che si rivela d’improvviso:

Ce grain d’encens qui remplit une église,
Où d’un sachet le musc invétéré,
Charme profond, magique, dont nous grise
Dans le présent, le passé restauré!


In una chioma, come in una rete tenebrosa, una simile durata rimane presa, s’accumula, rovescia il suo corso inesauribile:

O boucles! ô parfum chargé de nonchaloir!
Extase! Pour peupler, ce soir, l’alcôve obscure
Des souvenirs dormant dans cette chevelure,
Je la veux agiter dans l’air comme un mouchoir.

La langoureuse Asie et la brûlante Afrique,
Tout un monde lointain, absent, presque défunt,
Vit dans tes profondeurs, forêt aromatique…


Il poeta porta in sé una durata vivente, che gli odori risvegliano e rivelano, e con la quale si confondono. Ma gli odori, pur manifestandolo in modo originalissimo, non sono gli unici a possedere tale privilegio: ci sono anche la musica, la pittura (si pensi solo ai Phares…). Ma non la natura che, nel senso di vegetazione e di paesaggio datole dai romantici, quasi non esiste per Baudelaire (la periferia di Victor Hugo e di Paul Fort non trova posto nella sua poesia); esiste bensì quella sorta di anti-natura, quel paesaggio di cose umane che è la città. La città, come l’anima del poeta, è anch’essa una durata, una forma inveterata di vita, una memoria. Non chiedetele immagini di freschezza, la giovinezza, e quell’aurora sempre nuova che ogni mattina si leva sul mare. Chiedetele piuttosto una durata. Ma non cercatela nelle sue pietre, come farebbe un archeologo indifferente, o in una NotreDame de Paris72, come farebbe un romantico: invero, è in realtà umane ch’essa risplende per l’anima del poeta. Se Baudelaire ha amato, nella bellezza femminile, l’artificio e il belletto – in una Jeanne Duval non si sa quale notte immemorabile, quali tenebre primitive calde di carne e di sangue –, ciò sarà un mero simbolo o un’approssimazione di quella durata vera, viva, consustanziale alla vita e all’essenza di Parigi: la durata di quegli esseri tanto vecchi ed oltraggiati, che gli sembrano dover formare, come la capitale stessa, dei blocchi, delle panche inesauribili di ricordi. Nelle Petites vieilles, la città si rivela come qualcosa che dura, come la foresta, in autunno, quando le foglie cadono e marciscono nella nebbia:

Mais moi, moi qui de loin tendrement vous surveille,
L’oeil inquiet, fixé sur vos pas incertains,
Tout comme si j’étais votre père, ô merveille!
Je goûte à votre insu des plaisirs clandestins.

Je vois s’épanouir vos passions novices;
Sombres ou lumineux, je vis vos jours perdus;
Mon coeur multiplié jouit de tous vos vices!
Mon âme resplendit de toutes vos vertus!

Ruines! Ma famille! ô cerveaux congénères!
Je vous fais chaque soir un solennel adieu!
Où serez vous demain, Eves octogénaires
Sur qui pèse la griffe effroyable de Dieu?


Sono Eve ottuagenarie tanto naturali per il selciato di una capitale, quanto l’Eva del Sacre de la Femme73 – splendidamente agli antipodi di Baudelaire – lo è per la freschezza battesimale della grande natura poetica.
Qui tocchiamo il fondo di questa poesia, il segreto della sua originalità creativa, che in tutta onestà di cuore si può attaccare, ma che nessuna autentica onestà intellettuale può negare. Essa traspone i valori naturali in valori urbani, il paesaggio in umanità: crea una poesia tutta parigina, così come Mistral crea una poesia tutta provenzale. Essa corrisponde a un raffinamento – chiamatelo malaticcio, se volete – della civiltà di un vecchio paese. E non dobbiamo stupirci di tale cambiamento. Ha infatti dei precedenti, è connaturata all’essenza stessa della poesia francese. Ho ricordato or ora Versailles e Racine. Brunetière – additando solo in parte la verità, ma bene – ha mostrato con forza (e per primo, mi pare) una delle ragioni per cui Racine ebbe tanti nemici a corte, fece indignare molti benpensanti per il crudo realismo con cui rappresentava senza remore la passione femminile, fu perseguitato dalle ostilità sino a Phèdre, che gli diede il colpo di grazia. E credo davvero che, se Brunetière ha coperto le Fleurs du Mal di un numero d’insulti superiore a quello che i famigerati sonetti rovesciarono su Phèdre e su Racine, ciò sia in parte accaduto per motivi analoghi. Volendo segnalare, nella sua Evolution de la poésie lyrique, un poeta della vita di Parigi, non è riuscito a trovare altri che François Coppée! Allo stesso modo, era naturale che Quinault74 avesse meno nemici di Racine. Non si tratta, evidentemente, di spingere la mancanza di gusto sino a porre Baudelaire sullo stesso piano di Racine; occorre semplicemente spiegare con leggi analoghe, sull’uno e sull’altro, le ostilità, le resistenze, l’assuefazione, la conversione delle persone di gusto, considerando come le generazioni successive hanno via via rovesciato, da sorgenti più fresche, falde di sensibilità nuova nei vecchi serbatoi della critica.

II
Tutte le Fleurs du Mal e tutto lo Spleen de Paris ruotano attorno a una certa forma d’amore: quella che riguarda propriamente il selciato di una grande città, e che è – a dirla giusta – la prostituzione. Mi auguro, peraltro, di non essere frainteso. Le belle, e pure e vere forme dell’amore sono naturali per la vita di Parigi, così come lo sono per qualsiasi città o campagna. Ma, a Parigi come altrove, sono sempre le stesse e, sul piano artistico, lo scenario di Parigi si addice ad esse come un altro, o forse addirittura meno. La vita di Parigi, nell’Ottocento, porta nella sua aria respirabile – o meglio, ora più ora meno respirabile – una sensualità fisica che, per i raffinati più o meno consumati che l’interpretano alla lettera, diviene ben presto sensualità dell’anima, sensualità triste. Il mondo della galanteria, quei settori della società equivoca o della gente che, bene o male, lo frequenta (e che gli scrittori, per parecchie ragioni, deformano e spingono nella direzione a cui esse tendono), tutto ciò che è proprio di una capitale e che non riguarda né Quimper75, né Quarré-les-Tombes, almeno in quanto non sono degli «esempi», ecco dunque quello che la sua poesia ha cercato, nell’Ottocento, e non ha però trovato al primo colpo. Vi si sono cimentati l’eloquenza un po’ vuota di Alfred de Musset e l’idillio ingenuo di Murger76; e poiché entrambi presentavano forme abbastanza convenzionali per essere accettate da un pubblico borghese – come la Vie de Bohème poteva stare accanto fraternamente, sulla scena dell’Odéon, al Mariage d’Olympe77 –, il favore generale si è rivolto ben presto a tale “bella retorica” alla Corneille, nonché a banalità alla Quinault.
Con Baudelaire, viceversa, non si è potuto fare a meno di guardare in faccia la verità, considerare le forme corrotte che l’amore assume, non solo all’esterno, ma anche all’interno, in una grande città antica e disincantata, vederla così com’è, indipendentemente dalle convenzioni letterarie, secondo la solita metafora del fiore sbocciato sul letame di una vecchia capitale. Nessuno infatti potrà negare – che lo deplori o se ne compiaccia (e Baudelaire fa l’una e l’altra cosa alternativamente) – che questa città sia tutta artificiale, e l’esatto contrario della vita naturale. Ed è proprio questo artificio, per la prima volta messo in luce ed espresso da un poeta di tale lucidità, ad aver prodotto le Fleurs du Mal e lo Spleen de Paris.
Coloro che vanno ripetendo che la poesia di Baudelaire è artificiale, e l’attaccano per questo motivo, sono in realtà pienamente d’accordo con lui. Essa è artificiale come il suo oggetto, artificiale come l’amore alla cui analisi si rivolge. Mettiamo pure d’accordo detrattori, amici e lui stesso affermando: è un disgraziato! Ma, se quest’uomo e questa poesia fossero solo artificiali, non esisterebbero affatto. Se la vita di Parigi fosse solo artificiale, l’uomo non ci vivrebbe. Invero, c’è una natura profonda e vera che sa far proprie le sue apparenti antitesi. E l’amore, nei versi di Baudelaire, acquista una risonanza così profonda soltanto perché, nonostante tutto, sa toccare una corda eterna del cuore.
Baudelaire sembra non aver conosciuto altra forma d’amore se non quella che scorre nelle strade parigine. Lasciamo alla cronaca la cura, probabilmente superflua, di distinguere ed esaminare l’avvicendarsi delle sue relazioni. Come che sia, ha accolto chiaramente nella poesia, nonché portato a una buona consapevolezza poetica (non dico morale!), quel tanto di poligamia tipica dell’atmosfera e della vita di una moderna capitale: si tratta di un’eterogeneità assai ben rappresentata da Jeanne Duval e Madame Sabatier.
Manon Lescaut78, Marion Delorme79, Marguerite Gautier80 sono apparse nell’Ottocento – il secolo che ha decretato il successo dell’opera di Prévost – come creature commoventi e interessanti al pari delle appassionate principesse delle tragedie. In questo, c’è stata una lenta ma indubbia ascesa: quella che, al tempo di Dumas figlio, era definita società equivoca (demi-monde) s’è fusa con il resto della società, mentre la galanteria, che allora non ne rappresentava un gruppo specifico, è divenuta la società equivoca, e ha sferrato attacchi per la conquista della rimanente metà. Baudelaire, per più ragioni, non ha aderito a tale movimento che è, in fondo, sentimentale, e che non porta (si pensi a Musset) tanto i fiori del male, quanto il fiorellino azzurro e le camelie della Dame. Non ha certo avuto la sua Aïssé81, ma piuttosto la sua Thérèse Levasseur82: intendo – fatto strano – una donna al di sotto della stessa Thérèse, ossia Jeanne Duval, una mulatta sciocca, viziosa, alcolizzata, che fu la compagna della sua vita e l’ispiratrice di alcuni dei suoi versi più belli. Probabilmente Baudelaire avrebbe provato una gioia cupa nel leggere quanto Brunetière scriveva nel 1887: «Insieme con Stendhal, e per motivi diversi, ma fra i quali si può individuare più d’una analogia, Baudelaire è un idolo del nostro tempo: è una sorta d’idolo orientale, mostruoso e deforme, la cui naturale deformità è enfatizzata da colori insoliti, e il suo santuario è tra i più frequentati». Baudelaire aveva tratto Jeanne Duval dal mondo della prostituzione parigina quasi fosse un idolo africano, e non dobbiamo andare alle esposizioni, così parigine, d’arte negra per sapere quale bestialità primitiva può raggiungere e includere l’estrema raffinatezza. D’altronde, non è questa la sede per cercar le ragioni che assicurano il dominio sensuale – come qualsiasi altro – di una Thérèse Levasseur o di una Jeanne Duval. Bisogna davvero offrirsi in olocausto per rinnovare la sensibilità di un paese o di un’epoca.
Ma l’aspetto particolare di questo «quadro parigino», rappresentato dalla vita sentimentale di Baudelaire, è un Sacro Cuore al disopra di quello di Montmartre, è la figura di Madame Sabatier al di sopra di quella di Jeanne Duval, è la doppia cima di questo Parnaso erotico, la doppia ispirazione che ne deriva, e che dà a due realtà, quando ciascuna è colta dal punto di vista dell’altra, l’immagine di due nostalgie. è indubbio che i versi d’amore indirizzati alla Présidente sono oggi i più popolari della nostra civiltà letteraria: sono quelli che sanno a memoria non solo le persone che hanno letto Racine, Lamartine e Hugo, ma di sicuro moltissime altre che non li hanno mai letti. Essi costituiscono tutto il repertorio poetico di tanti studenti e agenti di commercio, il che non impedisce loro di figurare anche in quello dei lettori più raffinati.
La loro origine non è meno profonda di quella dei versi che parlano della Venere nera, ma è ben più facile da presentare. è curioso che la psicoanalisi non abbia ancora affrontato il caso di Baudelaire, giacché non credo esista un esempio più tipico di quello ch’essa definisce complesso materno o complesso di Edipo. Qualunque sia il ruolo della sua particolare malattia nella formazione o deformazione del suo genio, nel profondo di Baudelaire occorre riconoscere anche, e soprattutto, come direbbero gli psicoanalisti, l’eco del dramma che rappresentò per lui il secondo matrimonio della madre: lui l’amava profondamente, e ne fu geloso con una carica d’odio tale da sconvolgere per sempre la sua vita interiore. Il suo patrigno, il generale Aupick, era un militare d’animo nobile, un uomo dotato di lealtà e di senso del dovere, a cui nulla si può rimproverare circa il comportamento verso il figliastro. Ma il marito della madre impersonò, per Baudelaire, il rivale vittorioso negli affetti e, nel contempo, la famiglia, lo Stato, la società, la disciplina, tutti valori «immani» ch’era bello immolare all’Arte. La rivoluzione del 1848 consistette per lui nel ripetere ai combattenti di febbraio: «Tutto questo è niente: bisogna uccidere il generale Aupick!». Ma

Si le viol, la prison, le poignard, l’incendie
N’ont pas encor brodé de leurs plaisants dessins
Le canevas banal de nos piteux destins,
C’est que notre âme, hélas! N’est pas assez hardie!


L’odio che riversava contro il patrigno era il rovescio del suo tenero amore per la madre, di quell’amore tradito che gli ha ispirato la straziante Bénédiction. Un uomo che, come lui, porta nella sua carne fragile il ricordo della profonda unione con la carne materna, sognerà ovunque il calore di quel seno:

L’homme a toujours besoin de caresse et d’amour.
Sa mère l’en abreuve, alors qu’il vient au jour…


E la forma superiore e pura dell’amore dovrà assumere, per lui, l’immagine materna. In questo caso, la sensualità cerebrale di Baudelaire si spinge invero abbastanza lontano, e non credo di cadere nell’arbitrio e negli accostamenti forzati se trovo direttamente derivate da quell’origine oscura le poesie, in apparenza così strane, della Géante e del Léthé. Ma soprattutto questa complessità della maternità amorosa insiste su colei che chiama angelo custode, Musa e Madonna. Madame Sabatier che accettò – senza conoscerne l’autore sino all’apparizione delle Fleurs du Mal – le sue più belle poesie d’amore, aveva la stessa età di Baudelaire (era infatti nata nel 1821), ed era una delle donne più belle del suo tempo per aspetto fisico e freschezza, «una straordinaria – diceva Flaubert – e soprattutto sana creatura», che sapeva presiedere (da cui il nome grazioso di Présidente) un’assemblea d’artisti senza mescolare futilità femminili alle loro conversazioni, e limitandosi a posare fra loro la purezza di un corpo che Clésinger83 aveva scolpito, lo splendore di un volto di cui Ricard84 aveva fatto il ritratto, e l’apollinea autorità salutata da Gautier, quando in Emaux et Camées le rivolgeva questi versi:

J’aime ton nom d’Apollonie,
Echo grec du sacré vallon
Qui dans sa robuste harmonie
Te baptise soeur d’Apollon.


Una di quelle donne la cui sensualità diretta e discreta si fonde armoniosamente con la poesia e la creazione dell’opera d’arte. Di questa salute, di questa maternità spirituale, familiare e plastica, Baudelaire s’innamorò profondamente:

Et pourtant, aimez-moi, tendre coeur, soyez mère
Même pour un ingrat, même pour un méchant;
Amante ou soeur, soyez la douceur éphémère
D’un glorieux automne ou d’un soleil couchant|

Courte tâche! La tombe attend; elle est avide!
Ah! laissez-moi, mon front posé sur vos genoux,
Goûter, en regrettant l’été blanc et torride,
De l’arrière-saison le rayon pâle et doux.


In una donna così naturale e dallo spirito così sano come Apollonie, toccare la corda materna, toccarla con tale fervore, tale delicatezza e musica, non è forse anche – e soprattutto –, per un diseredato come Charles Baudelaire, il miglior mezzo per raggiungere il suo cuore e ottenere dal suo amore tutto quanto dipende dalla sua volontà, dalla sua intelligenza, dalla sua pietà? Quando apparvero le Fleurs du Mal e se ne riconobbe l’ispiratrice, Madame Sabatier, certo non innamorata ma lusingata e riconoscente, materna e fiera, pagò con la sua attitudine naturale, con onestà ed umanità, il proprio debito. Si sa quanto accadde, e l’aridità sentimentale che Baudelaire, nel momento in cui chiunque altro avrebbe ritenuto realizzati tutti i propri auspici, scoperse d’improvviso in se stesso. La sua lettera del 1857 è chiara, e le ragioni, a cominciare dalla prima che è la più superficiale, si susseguono con logica crescente: «Per prima cosa, noi siamo entrambi ossessionati dalla paura di affliggere un onest’uomo che ha la fortuna di esser sempre innamorato. Abbiamo poi paura dei nostri personali turbamenti, perché sappiamo – io specialmente! – che ci sono certi nodi difficili da sciogliere. E infine, qualche giorno fa, tu eri una dea, il che è così comodo, così bello, così inviolabile. Ora, eccoti donna! E se, per mia sventura, io acquisissi il diritto d’essere geloso! Ah, che orrore solo a pensarci!».
La paura dell’amore, l’orrore della passione, l’incapacità di amare nel senso pieno e normale del termine (e sappiamo pure quali realtà fisiologiche, e persino patologiche, governassero in Baudelaire tutto ciò) non fanno forse altro che coprire un sentimento più profondo. Tutto l’elemento materno, che nel poeta determina l’amore e contribuisce a idealizzarlo, non vuole rientrare nella cornice abituale e prevedibile della passione amorosa. Non ha parole per esprimersi, né un letto normale ove scivolare, né una buona coscienza di cui sentirsi soddisfatto. Considerato il modo in cui l’ha conosciuta da bambino, ben si capisce che Baudelaire abbia orrore di pensare alla gelosia. Si comprende donde venissero apparenti paradossi come questo: «L’amore può derivare da un sentimento generoso: il gusto della prostituzione; ma è presto corrotto dal gusto della proprietà». Brunetière lo commenta così: «Non prendetevela! Ne sarebbe troppo felice; lui vuole dire soltanto che la capacità generale d’amare, che è la simpatia, diventa un egoismo a due, quando si rivolge a un soggetto particolare: siffatta osservazione non è certo nuovissima». Le parole di Baudelaire, legate a una sensibilità artistica quantomai particolare, e la chiosa pedantesca del critico, si somigliano proprio quanto un violino e una custodia da violino…
Amare una donna intelligente – dice all’incirca Baudelaire – è abbandonarsi all’amore proprio contro natura. Similmente, dopo un’unica e crudele esperienza, giudicò che provare autentica passione per l’angelo custode, la Musa e la Madonna, aver come amante la Présidente, una sorta di «madre» degli artisti nel senso di organizzatrice dei loro lavori (i Goncourt85, più grossolanamente, la chiamavano vivandiera di fauni), sarebbe stato una specie d’incesto. Nell’oscura memoria della sua carne, nella sua durata inconscia di bambino e di adolescente, tutto quell’ordine di sentimenti si era tradotto in uno sconvolgimento troppo profondo perché la sua anima non ne restasse intimorita, e la sua vita interiore priva di equilibrio.
La Présidente non fu più altro, per lui, che una presenza materna, la quale illuminò il suo capezzale nell’ora della disgrazia e della morte. L’equivalente – baudelairiano o quasi – di quel che gli uomini chiamano amore, bisognava che, intorno o sotto questa chiesa,

(Je veux bâtir pour toi, Madone, ma Maîtresse…)

fosse rigettato nella strada, nella vita solitaria delle capitali, nella voluttà sterile e irreale delle folle. «Quel che gli uomini chiamano amore è tanto piccolo, limitato e fragile, se paragonato a quella santa prostituzione dell’anima che si dà tutt’intera, poesia e carità, all’imprevisto che si manifesta, all’ignoto che passa».
In quelle folle, ha ricercato immagini della sua sterilità. Ha gustato

La froide majesté de la femme stérile.

Ha seguito la vedova che «tornerà a piedi, meditando e fantasticando, sola, sempre sola; perché il figlio è irrequieto, egoista, senza dolcezza né pazienza; e non può nemmeno, come un semplice animale, come un cane o un gatto, far da confidente ai dolori muti». Più lontano ancora, nello zolfo del loro regno spaventevole, ha trovato le Femmes damnées e si è riconosciuto nelle loro schiere disperate; meglio del «Vase de tristesse» e della «Madone», esse gli hanno indicato il suo dominio infernale:

L’âpre stérilité de votre jouissance
Altère votre soif et roidit votre peau,
Et le vent furieux de la concupiscence
Fait claquer votre chair ainsi qu’un vieux drapeau.

Loin des peuples vivants, errantes, condamnées,
A travers le déserts, courez comme des loups;
Faites votre destin, âmes désordonnées,
Et fuyez l’infini que vous portez en vous.


Se l’amore è, come dice Diotìma86, il generare nella bellezza, nessuno lo conobbe meno di Baudelaire, e nessuno pretese più accanitamente da tutte le forme di bellezza che avessero, quale carattere comune, la sterilità, che portassero all’amarezza e alla cenere, che fossero non già un “procedere”, ma una caduta. «Chi si dà al piacere, cioè al presente, mi fa l’effetto di un uomo che rotoli lungo un pendio, e che, cercando di aggrapparsi agli arbusti, li strappi e li trascini con sé». Il mondo morale implica, inoppugnabilmente, un alto e un basso. Baudelaire ha sentito la sua carne e la sua anima, il suo corpo e il suo cuore travolti da un peso, e ha preso coscienza di quel peso. A suo avviso, il male è il peccato. I poeti romantici, sulla scorta del loro “padre”, hanno sviluppato e fatto scorrere come un fiume luminoso un “genio del cristianesimo”87. Baudelaire invece ha ricercato, non già nello scenario della natura, ma nelle tenebre della coscienza, il “genio del cattolicesimo”.

III
Le Fleurs du Mal riprendono e ripercorrono un orientamento letterario già sperimentato da Racine. Sono liriche cattoliche come Phèdre era giansenista. Sono la poesia del peccato come Phèdre era la tragedia del peccato. La Citera di Baudelaire è invasa dalle medesime passioni ed avversioni della Trezene in cui Venere, aggredita la sua preda, la spinge al furore e alla morte88:

Dans ton île, ô Vénus, je n’ai trouvé debout
Qu’un gibet symbolique où pendait mon image.
– Ah! Seigneur, donnez-moi la force et le courage
De contempler mon coeur et mon corps sans dégoût.


Il più saggio e moderato fra i giansenisti, Le Nain de Tillemont, scriveva nella prefazione alla sua Histoire des Empereurs: «Vediamo in Caligola, in Nerone, in Commodo e nei loro simili quel che tutti noi saremmo, se Dio non frenasse l’inclinazione che ci dà la cupidigia verso ogni sorta di crimine». A questa natura, che ha generato Caligola, Nerone e Commodo, occorreva, come brodo di coltura, una grande capitale e il potere assoluto. Baudelaire la vede pullulare in una capitale moderna sotto forma d’ombre impotenti e sventurate. Il suo specchio dapprima, e quindi le figure incrociate sul boulevard, gli rivelano quei Caligola, quei Nerone, quei Commodo dai piccoli piedi, che la società tiene incatenati alle loro fantasticherie. «Un Belzebù da locanda, un Satana da garni!», dice Brunetière facendo spallucce. E di che mai vorreste fosse il Satana? Si cammina sulla coda del diavolo in tutte le scale dei garni e, ai tempi in cui c’erano le locande, il diavolo le frequentava volentieri quanto la taverna di Auerbach89. Ammettiamo che non l’abbiate incontrato,

Hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère.

è un valore cristiano che Baudelaire condivide con altri romantici o semplicemente, se si preferisce, con certi romantici (ha condannato il «biascicare romantico», come ha fatto Musset, il che non gli impedisce – proprio come fanno Musset e molti altri – di calpestare il Romanticismo con un altro Romanticismo): è il sentimento fisico della morte o, se si preferisce, del cadavere. Victor Hugo, Gautier, Flaubert – si vedano le loro opere giovanili e la corrispondenza – sono stati letteralmente ossessionati dall’idea della decomposizione del loro futuro cadavere o, più precisamente, dall’idea dei vermi che lo divoreranno. Il robusto stomaco poetico di Hugo era in grado di digerire una visione di tal sorta, ma gli altri due ne sono rimasti angosciati sino alla fine. Tale materialismo da confessionale è valorizzato da Baudelaire con una sincerità pari all’angoscia e, a questo proposito, è alquanto semplicistico parlare di mistificazione macabra. Si dimostra persino cattiva fede isolando la Charogne dalla Comédie de la Mort e dall’Epopée du Ver, e attaccando soltanto questa prima poesia, che ha perlomeno il merito di una maggiore sobrietà rispetto alle lunghe tirate oratorie di Gautier e di Hugo. Il pensiero tormentoso del cimitero, che non compare quasi mai nella poesia spiritualizzata di Lamartine e di Vigny, sembra viceversa il sigillo dei poeti dall’immaginazione plastica, dominati dalla realizzazione visiva delle loro idee. Parimenti, esso è il sigillo di un cattolicesimo senza Dio, di un “genio del cattolicesimo”, ossia di un cristianesimo ricondotto alla materia e al peso delle sue immagini, privato di quell’anima che le sollevava e di quel moto che le portava in cielo.
Ma questo “genio del cattolicesimo” assume in Baudelaire un altro aspetto ancor più importante, che lo lega più strettamente a una serie secolare di generazioni letterarie. Sembra che, dalle Confessions di Rousseau in avanti, tutta la nostra letteratura autobiografica sia uscita da un mobile da chiesa fatto a pezzi, da un confessionale rovesciato. L’autore di Mon coeur mis à nu ha dato spesso alle Fleurs du Mal e allo Spleen de Paris le sembianze di una tavola anatomica interiore. Ha provato quel gusto della confessione che sopravvive alla religione e che, in letteratura, passa non senza una certa difficoltà, non senza certi diritti di dogana assai pesanti da pagare ai poteri celati lungo il percorso, alle passioni e, in particolare, alla loro regina, l’Orgoglio, e tale regina, sulle assi del vecchio confessionale trascinato alla luce, s’è fatta un letto molto comodo. Una Confession letteraria – genere poetico anch’essa, come la meditazione, l’armonia o l’elevazione – è solitamente (anche e soprattutto in Rousseau) un’autodifesa. Baudelaire ha evitato (o quasi) tale comoda tendenza; ma l’ha evitata solo per accoglierne un’altra, ossia quell’aspetto dell’orgoglio che è la mistificazione.
Coloro che non possono o non vogliono comprendere hanno buon gioco, in questo caso: ammucchiano tutti i generi di mistificazione nella stessa borsa, che è di regola la valigia di un commesso viaggiatore, e non faticano a provare pietà per Baudelaire. E di certo si è dato un risalto eccessivo a certe battute da caffè. In una pagina dei suoi Souvenirs littéraires, Maxime Du Camp90 mette a confronto il povero poeta mistificatore, che si era tinto i capelli di verde (probabilmente si trattava solo del rimedio contro un’affezione al cuoio capelluto di cui Baudelaire soffriva), e il modello d’elevata intelligenza e fredda irreprensibilità che il lettore è invitato ad ammirare in un futuro accademico. Ed è vero che questo brano ci lascia un’idea assai sgradevole di uno dei due… L’elemento di mistificazione, che peraltro sussiste davvero nell’opera di Baudelaire, è sovente una prova, al contrario, della sua sincerità, che può essere accostata ad analoghe prove che si trovano in Gautier e, specialmente, in Flaubert. C’è una forma d’ironia che non è quella di Socrate, né di Swift, né di Voltaire, né di Stendhal, ma che bisogna saper riconoscere, e in cui è possibile valutare correttamente certi elementi di triste verità. In materia d’analisi interiore e di confessione, la sincerità ritorna così spesso a formule fatte, a uno stereotipo, a un meccanismo, la sua espressione diretta è così presto schiacciata e consunta ch’è necessario esprimerla in forme inverse, volgerle momentaneamente le spalle, trasporla sul piano della fantasia, ritemprarla con quella sorta di ginnastica che è, per l’appunto, l’ironia. In che cosa l’ironia o la mistificazione, che pure sono evidenti, incidono sui toni commoventi e strazianti dell’Examen de Minuit?

La pendule, sonnant munuit,
Ironiquement nous engage
A nous rappeler quel usage
Nous fîmes du jour qui s’enfuit;
– Aujourd’hui, date fatidique,
Vendredi treize, nous avons,
Malgré tout ce que nous savons,
Mené le train d’un hérétique.

Nous avons blasphémé Jésus,
Des dieux le plus incontestable…
Salué l’énorme Bêtise,
La Bêtise au front de taureau.
Enfin, nous avons, pour noyer
Le vertige dans le délire,
Nous, prêtre orgueilleux de la Lyre,
Dont la gloire est de déployer
L’ivresse des choses funèbres,
Bu sans soif et mangé sans faim!
Vite, soufflons la lampe, afin
De nous cacher dans les ténèbres.


Dieci anni della vita di Baudelaire, di vita dissipata e rosa dal tedio e dai rimorsi, stanno in questi versi. Un’immagine di stravaganza e di mistificazione, un tono di cattolicesimo beffardo sono fusi perfettamente con l’emozione più aspra, e fanno la loro parte in questa sinfonia dell’inutile, della rinuncia e del vuoto, in questo spettro di una giornata trascorsa sull’arido selciato parigino… Questi versi, ritmati dai rintocchi stessi della pendola che suona la mezzanotte, ci colpiscono più delle crisi di disperazione oratoria a cui s’abbandona Musset quando rincasa nel medesimo stato d’animo. Quanti artisti, oggi, li ripetono coricandosi, e vi trovano puntualmente il letto della loro insoddisfazione e della loro aridità interiore!
Si chiami pure mistificazione, se si preferisce, quella parte di volontà, d’inclinazione e di scenografia che è presente nel cattolicesimo di Baudelaire! Ma tale mistificazione corrisponde ad una realtà, e fa parte dell’intelligenza della sua anima e della sua arte. Come Flaubert, vedeva nella vita dell’artista non già una cattedrale, ma una cella monastica sconsacrata.

Mon âme est un tombeau que, mauvais cénobite,
Depuis l’éternité je parcours et j’habite;
Rien n’embellit les murs de ce cloître odieux.
O moine fainéant! Quand donc saurais-je faire
Du spectacle vivant de ma triste misère
Le travail de mes mains et l’amour de mes yeux.


Così è la vita d’artista che Baudelaire si rimprovera di mal praticare e le cui prove costituiscono, d’altra parte, tutta la sua opera e la sua ragion d’essere: la coscienza del peccato, l’analisi del peccato (fatta, in proporzioni indistinguibili, di delectatio morosa e di rimorso), la trasformazione di questa coscienza e di questa analisi in poesia. Tutto ciò avviene in una cella, in una cella che, come quelle dei cenobiti, ha assunto la forma di una tomba: il monaco vero, infatti, vive per se stesso, sta segregato dal mondo per ottenere la salvezza. E ottenere la salvezza, per Baudelaire così come per Flaubert, significa realizzare l’opera d’arte. D’altronde, un Hugo nella sua gabbia di vetro di Guernesey, un Balzac in vestaglia bianca nella sua stanza notturna, un Flaubert nel suo studio di Croisset, non sono forse, insieme con Baudelaire, quattro immagini di monaci, simili ai quattro monaci che vediamo giacere sulle tombe antiche? Chi è il morto? è davvero un morto? Si discuterà ancora a lungo su questo argomento.
Come che sia, Baudelaire e Flaubert sarebbero stati davvero, in secoli lontani, dei monaci. è il monaco che in Baudelaire dice: «Essere un uomo utile mi è sempre sembrato alquanto ripugnante». Intendete la salvezza mediante l’opera d’arte, col suo necessario esponente d’inutilità e d’assoluto. La bellezza che odia il movimento, i suoi grandi occhi dagli eterni chiarori appartengono allo stesso ordine di cose della fredda maestà della donna sterile. Tale gusto per un’arte consapevole, travagliata, dura e pura come le pietre preziose – che detta a Baudelaire, nelle Fleurs du Mal, la dedica a Gautier e gli fa detestare Alfred de Musset – è l’atto di un’anima tesa verso la propria salvezza e che, di là dalle debolezze e dalle sconfitte, mantiene lo sguardo fisso su quel diadema di luce:

Puisée au foyer saint des rayons primitifs,
Et dont les yeux mortels, dans leur splendeur entière,
Ne sont que des miroirs obscurcis et plaintifs.


Il dandismo di cui praticò il culto – un culto che la povertà gli rese penoso – e che alcuni dei suoi nemici detestano in lui quanto la mistificazione, non è forse una sorta di veste della sua tendenza artistica, un esercizio che fortifica la volontà e disciplina la vita esteriore, e insieme una reazione contro quella bohème che, allora, era divenuta lo stereotipo borghese dell’arte? Se si stabilisce un’immagine popolare dell’artista, proprio questa sarà una ragione forte per cui l’artista non vorrà assomigliarle.
Insomma, proprio quell’immaginazione e quella natura da monaco si sono insediate nel suo sentimento oltremodo egoistico dell’amore. Intendo qui egoismo solo nel suo significato profondo, ovvero quello proprio dell’origine e dell’essenza dell’amore: è risaputo, invece, con quanta delicatezza e lealtà Baudelaire si sacrificò per la sventurata Jeanne, e certi farisei che l’hanno censurato con tanta asprezza avrebbero potuto prendere da lui vere e proprie lezioni. Voglio invece parlare di quell’egoismo trascendente che rifiutava l’amore condiviso, che scopriva una sorta di bellezza nell’indifferenza di colei che amava, e per il quale la donna fu ora la negra ora la madonna, ora la bestia del peccato ora l’angelo, ma giammai la compagna. «Prima di tutto, essere un uomo grande e un santo per se stessi: ecco l’unica cosa importante». è noto che si diede alla fuga quando la madonna, discesa dall’altare, gli cadde fra le braccia. «Che cos’è – si domanda – l’amore? Il bisogno di uscire da sé». Ma rifiutò di uscire da se stesso, e dell’amore conobbe solo il fantasma – i due fantasmi –, l’Anteros91 delle capitali.
I muri bianchi di una cella monastica sono altrettanti riflettori, che proiettano sulla coscienza la luce del giorno, la mantengono sotto esame e in uno stato d’inquietudine, le svelano i suoi recessi di peccato. Credo pure che Baudelaire sia il solo, fra i poeti dell’Ottocento, ad avere avuto con esattezza – nel medesimo grado di un cristiano seicentesco – la nozione del peccato, e in special modo di quella forma di peccato a cui tutte le altre si riconducono, così come tutte le prove razionali dell’esistenza di Dio si riconducono a quella ontologica: alludo al peccato originale. Il peccato non è né difetto dell’intelligenza, né istinto della carne, bensì un male della volontà: si tratta di una volontà cattiva esattamente contraria a quella volontà buona che costituisce, secondo Kant, l’essenza della moralità. Brunetière ironizza sulla convenzionalità di versi come questi:

Et le riche métal de notre volonté
Est tout vaporisé par ce savant chimiste.


(Qui si allude al diavolo.) Darlu92, polemizzando sulla grossolana confusione che il critico fa tra la nostra natura animale interpretata secondo il darwinismo e il peccato originale esposto da Pascal, perviene alla conclusione che Brunetière non ha il senso del peccato. È verissimo, e si potrebbe aggiungere che la scristianizzazione dell’Ottocento (ma anche del Settecento) può misurarsi esattamente sulla perdita di tale senso, una perdita che riguarda tanto i cattolici quanto gli altri. Quando Baudelaire scrive: «La vera civiltà non consiste nel gas, nel vapore e nelle tavole che girano, ma nella diminuzione delle tracce del peccato originale», cioè nella guarigione della volontà (che, su un altro piano, Schopenhauer aveva inteso allo stesso modo), parla un linguaggio che lui ben comprende, ma che è sempre meno compreso. Così, Brunetière e i suoi seguaci attribuiscono tutto quanto alla mistificazione, laddove, secondo Baudelaire, è proprio tale istinto di mistificazione che va ricondotto a un’immagine del peccato. La mistificazione baudelairiana non ha nulla in comune con la farsa elaborata a freddo dei Sapeck93; ma «lo spirito di mistificazione, che, in certe persone, è solo il risultato di un lavoro o di una combinazione casuale» fa parte, a suo avviso, di quegli impulsi irragionevoli e improvvisi rappresentati da Edgar Poe nel Demone della perversità. Invero, a chi non accade di volere, almeno per un attimo, qualcosa di assurdo, pericoloso o perverso, senza ragione, o meglio per la combinazione di queste due ragioni: che è malvagia e che è senza ragione? Forse a voi. Allora capisco come il Mauvais Vitrier vi sembri una mistificazione, ma la tragedia in cui non si dimostrasse alcunché sarebbe parimenti una mistificazione per lo studioso di geometria, e probabilmente, quando l’autore del libro sull’evoluzione della tragedia94 parlava del fallimento della scienza, vedeva nella geometria una mistificazione trascendente. I nostri limiti risiedono nella nostra individualità.
In questa natura cattolica e monastica, ove del cattolicesimo e del convento sopravvivono solo un pittoresco senza natura e un sentimento senza dogma, l’idea di un paradiso deve compensare l’idea del peccato. Baudelaire ha concepito l’amore anche in questa forma: la madonna, infatti, corrispondeva alla sua nozione di paradiso, e la negra alla sua nozione di peccato. Al di fuori delle poesie ispirate da Apollonie, parecchie liriche delle Fleurs du Mal – e sono fra le più belle, la prima in particolare – edificano, sopra il suo inferno, il paradiso del poeta. E l’autore di un ottimo libro su Baudelaire, Gonzague de Reynold95, si è dilettato (o divertito?) a ricostruire le Fleurs du Mal sul modello della Divina Commedia. Ma i paradisi del poeta non fioriscono spontaneamente nella vita delle capitali, mentre i veri paradisi baudelairiani – i paradisi artificiali, dell’hashish, dell’oppio, dell’alcol – meglio starebbero nel loro inferno. Notiamo, d’altro canto, che si tratta principalmente di un inferno anch’esso artificiale, e che i veleni cantati o raccontati da Baudelaire hanno meglio funzionato nella sua opera che non nella sua vita. < br>
Tutte queste ragioni, forse, ci spiegheranno perché il processo a Baudelaire sia durato così a lungo, e perché il suo centenario corrisponda a una sorta di battuta d’arresto dell’opinione a lui favorevole. è arduo dire quale sia il più letto fra i poeti dell’Ottocento, e tuttavia nessun libro ha un pubblico così cospicuo, vario e profondo quanto quello delle Fleurs du Mal, che risalgono a più di sessant’anni fa.
Tale successo va al poeta, non allo scrittore. Le persone di gusto che vedono in Baudelaire uno scrittore mediocre non hanno tutti i torti. Quasi tutte le liriche delle Fleurs du Mal pullulano di banalità e di ridondanze e, se non ci fosse stato Alfred de Vigny, Baudelaire sarebbe, fra i nostri grandi poeti, quello che scrive peggio. Notiamo infatti che, se il suo stile poetico, come quello di Vigny, è debole – ancora come Vigny, ma diversamente da Lamartine, Musset e Gautier –, Baudelaire non ha una prosa, ossia uno stile personale in prosa: la sua è solo appropriata e corretta, ma non certo originale. La magia che Baudelaire esercita sugli animi è costituita quasi dagli stessi elementi riscontrabili in Vigny: pur non avendo avuto il medesimo pubblico, almeno finora, ha agito sul proprio pubblico alla stessa maniera. Che altro aggiungere, se non che la massima di Buffon sulle opere ben scritte – le sole destinate alla posterità –, riguardo ai poeti non è del tutto azzeccata, o almeno dev’essere meglio precisata? La poesia è cosa viva che parla all’anima e ai sensi, e le sue magie somigliano a quelle dell’amore. C’è una perfezione stilistica (la perfezione di Hugo, per esempio, e quella di altri nostri poeti, come Corneille, la cui maestria è perfetta e immutabile) che noi riconosciamo e veneriamo, ma che tuttavia non ci seduce: la Venere di Milo, scolpita nel marmo, attrae tutti gli spiriti, ma, se fosse viva, non affascinerebbe quanto una Parigina dotata di quel certo non so che; e Corneille, il miglior stilista del nostro teatro, è anche quello che ha subìto il maggior calo dei consensi. Nella poesia, come nella bellezza femminile, conta ben poco la perfezione se non c’è “attrattiva”, e nulla è più complesso dell’attrattiva… Per Baudelaire, come per Vigny, essa è fatta di versi penetranti che arrivano al cuore, fanno vibrare una corda del nostro essere, fondono la loro carne con la nostra, aderiscono con la loro musica a qualche nostra ondulazione interiore. è fatta persino, alle volte, dal difetto che diviene bellezza, o contribuisce alla bellezza, da quella dissonanza che, sopra tante debolezze, improprietà e zeppe, suscita la purezza o scava la profondità di versi che si dilatano e palpitano come occhi infiniti su membra fragili e sulla carne impotente. In Baudelaire è fatta soprattutto dalla fusione crescente di questa poesia con una forma di vita che a noi s’impone sempre più, che sempre più trasforma – fuori e dentro – l’umanità: la vita accelerata, compressa, affannosa e malata delle grandi capitali, l’indebolimento di valori quali la calma, l’equilibrio e il tempo libero, la febbre che ci fa ammassare nella nostra durata i sentimenti, le idee, le ambizioni, così come ammassiamo nel nostro spazio artificiale gli uomini sugli uomini e le generazioni sulle generazioni. è fatta altresì da tutto quel che ci lega, nell’inconscio, alla nostra formazione cristiana, da quelle miserie da re spodestato che generano di continuo, nella folla come nella nostra anima, il tedio, l’inquietudine, e plasmano la nostra cattiva coscienza e la nostra tragedia quotidiana. è fatta, infine, dalla seduzione che, su un Francese, esercita l’intelligenza critica unita alla fiamma poetica: come Boileau, come Voltaire, come Musset, questo poeta di Parigi è un figlio di Parigi, a cui sono vietati certi torrenti montani e certe acque sacre, mentre gli è toccato in sorte il dono della lucidità. Lui che, quando ha voluto fare il mestiere del critico, l’ha fatto in maniera superlativa; lui che ha rivolto tale intelligenza critica su se stesso, su noi stessi, sulla sua città, sulla Città, e la cui Musa malata, consapevole e triste si leva dalla collina di Rastignac96, sopra una popolazione di quattro milioni d’anime, così come l’immagine della poesia antitetica – la Geneviève della montagna opposta (della riva sinistra, se si preferisce)97 – eleva la propria sopra un paesaggio purificato e una natura pacificata.

Note

  1. Questo testo fu iniziato da Marcel Proust verso la fine del 1908 con l’intenzione di farne un articolo per “Le Figaro”, ma non giunse mai a compimento, e i frammenti sparsi furono editi soltanto nel 1954 dall’apprezzato, infaticabile Bernard de Fallois (M. Proust, Contre Sainte-Beuve. Préface de B. de Fallois, Paris, 1954). Successivamente, nel 1971, Pierre Clarac ne curò un’edizione riccamente annotata e assai rigorosa, che si basava su criteri filologici alquanto diversi da quelli “empirici” abbracciati da Fallois. In estrema sintesi, il corpus di testi metodologici e critici a noi pervenuto comprende un’animosa confutazione del metodo di Sainte-Beuve – il principe pressoché indiscusso della critica letteraria francese dell’Ottocento – e alcuni ritratti di autori (da Balzac a Rolland), che risultano peraltro tutti preziosissimi, fra il resto, per comprendere dall’interno la complessa e travagliata gestazione della Recherche du Temps perdu. La presente versione si fonda sull’edizione curata da Bernard de Fallois or ora citata, ma tiene altresì presente quella di Pierre Clarac, nonché l’ottima traduzione di quest’ultima compiuta da Mariolina Bongiovanni Bertini in dialogo virtuoso con Paolo Serini (1899-1965), intellettuale e francesista d’inconcusso valore, nonché, nel contempo, coscienza etico-civile di libertà e coerenza tutt’altro che comuni (Cfr. M. Proust, Saggi, a cura di M. Bongiovanni Bertini e M. Piazza, Milano, 2015, pp. 99-118).
  2. Proust costruisce l’intero pezzo come un dialogo immaginario con la madre diletta, che in verità era deceduta nel 1905.
  3. «Sainte-Beuve felice di poter venire in aiuto del suo amico senza compromettersi», come scrive ingenuamente Crépet, il quale crede di far così l’elogio della condotta di Sainte-Beuve» (N.d.A.).
  4. Il titolo della poesia baudelairiana è, in realtà, A celle qui est trop gaie.
  5. Le ultime righe di questo paragrafo sono tratte da un altro quaderno, ove sono precedute dalla seguente annotazione: «Aggiungere a Baudelaire, quando parlo del poeta che desidera far parte dell’Académie etc. Suprema ironia, Bergson e le visite accademiche» (N.d.A.).
  6. Verso assai noto tolto dal primo dei sedici canti di Les Fastes, ou les Usages de l’année (1779), un poema composto da Antoine-Marin Lemierre (1721 ca.-1793), drammaturgo e verseggiatore stimato, all’epoca, d’indubbio talento.
  7. Les Petites Vieilles, vv. 33-34.
  8. Ibid., vv. 9-10 e 14.
  9. La poesia Les Aveugles comincia così: «Contemple-les, mon âme; ils sont vraiment affreux!» (N.d.A.).
  10. Ibid., v. 15. I versi seguenti sono tratti dalla stessa composizione (vv. 57, 21-24, 29-32, 73-76).
  11. Ibid., v. 72.
  12. Harmonie du soir, v. 9.
  13. Le Rebelle, vv.7 sg.
  14. Ibid., vv. 1-8.
  15. Les petites vieilles, vv. 41-44.
  16. Ibid., vv. 45-48.
  17. Le Voyage, v. 9.
  18. La Mort des pauvres, v. 13.
  19. Le Voyage, v. 10.
  20. Bénédiction, vv. 5-6, 33-37, 39.
  21. Ibid., v. 29.
  22. Cfr. Harmonie du soir, v. 5.
  23. Bénédiction, vv. 19 sg.
  24. Ibid., vv- 64-68.
  25. La Voix, v. 20.
  26. Parfum exotique, v. 10.
  27. La Vie antérieure, vv. 1 sg.
  28. La Mort des pauvres, v. 14.
  29. Le Cygne, vv. 43 sg.
  30. A une Malabaraise, v. 28.
  31. Les Petites Vieilles, vv. 53-56.
  32. L’Imprévu, vv. 49 sg.
  33. La Mort des pauvres, vv. 3 sg.
  34. Lesbos, vv. 48 sg.
  35. L’Horloge, v. 5.
  36. Le Goût du néant, v. 10.
  37. Les Litanies de Satan, vv. 40, 16, 17.
  38. La Mort des pauvres, vv. 7 sg. , 11, 12, 14.
  39. La Pipe, v. 6.
  40. La Voix, v. 6.; il verso e l’emistichio seguenti appartengono al Voyage, vv. 128 e sgg.
  41. Causerie, v. 1.
  42. Le Balcon, v. 7.
  43. L’Amour du mensonge, v. 19.
  44. Paysage, v. 8.
  45. L’Amour du mensonge, v. 8.
  46. A une passante, v. 14.
  47. Bénédiction, v. 29.
  48. Danse macabre, v. 16.
  49. Le Sept Vieillards, vv. 15 sg.
  50. Le Cygne, vv. 1-3.
  51. Talvolta, senza che il verso successivo sia sublime, c’è però quel mirabile rallentamento dell’emistichio che lancia il carro nella lotta del verso successivo; quell’ascesa del trapezio che va ancor più in alto, lentamente, senza un grande scopo, per meglio lanciare il pensiero: «Nul oeil ne distinguait / (per aumentare lo slancio) du même enfer venu, (svolta) / Ce jumeau centenaire…».
  52. Châtiment de l’orgueil, vv. 15-26.
  53. Bénédiction, vv. 55 sgg.
  54. Ibid., v. 26.
  55. Verificare (N.d.A.).
  56. Questo importante, originalissimo saggio di Albert Thibaudet (1874-1936), uno dei maggiori critici europei vissuti a cavallo dei due secoli, fu steso in occasione del centenario dalla nascita di Baudelaire (1921) e quindi raccolto nel volume Intérieurs. Baudelaire, Fromentin, Amiel, Paris, Plon, 1924. Se ne offre, per l’occasione, la prima traduzione italiana.
  57. André Chénier (1762-1794), celeberrimo poeta francese vissuto durante la Rivoluzione e ghigliottinato. Fu autore di Elegie, Bucoliche e Giambi, nonché di poemi didascalici tutt’altro che banali.
  58. Denominazione di due ville reali situate nel parco di Versailles: la prima (Grand Trianon) costruita sotto Luigi XIV, la seconda (Petit Trianon) sotto Luigi XV.
  59. Marc-Antoine de Saint-Amant (1594-1661) fu poeta satirico di notevole originalità e visse un’esistenza alquanto avventurosa e trasgressiva. In poesia, sosteneva la preminenza dell’ispirazione sulle regole dell’imitazione.
  60. Désiré Nisard (1806-1888) fu professore d’eloquenza latina, e poi francese, al Collège de France. Critico letterario ferocemente avverso agli autori romantici, attaccò Victor Hugo nel 1836. La sua elezione ad Accademico di Francia, nel 1850, fu vivacemente contestata dalla stampa letteraria e romantica, che gli avrebbe preferito Alfred de Musset.
  61. Jules Lemaître (1853-1914), critico e storico della letteratura, fu altresì autore di drammi e narratore. Accademico di Francia e insignito della Legion d’onore, pubblicò fra l’altro quattro volumi di critica letteraria e drammatica con il titolo di Les contemporains.
  62. Jean-Baptiste Gresset (1709-1777) fu poeta e scrittore di vena umoristica e dall’atteggiamento frequentemente anticlericale.
  63. Si tratta di uno dei componimenti poetici più importanti, significativi ed influenti di Alfred de Vigny (1797-1863). Fu compreso nelle celebri Destinées (1864, postumo).
  64. Famosa poesia di Victor Hugo, raccolta ne Les rayons et les ombres (1841).
  65. Frédéric Mistral (1830-1914) fu poeta in lingua provenzale e divenne famoso per il romanzo in versi Mireille, pubblicato nel 1859.
  66. Ferdinand Brunetière (1849-1906) fu critico letterario antizoliano e antisimbolista, nonché il maggior esponente del tradizionalismo più dogmatico. La sua opera più nota e monumentale è costituita dai nove volumi delle Etudes critiques sur l’histoire de la littérature française.
  67. Charles-René-Marie Leconte de Lisle (1818-1894), poeta antiromantico e ammiratore della cultura greca classica, è considerato – come si sa – il rappresentante di maggiore spicco del “Parnasse”, movimento letterario sviluppatosi in Francia fra il 1866 ed il 1876, che coltivava un ideale di poesia d’ispirazione e di forme classiche.
  68. Poesia di Joséphin Soulary (1815-1891), allora assai celebre. Noto soprattutto per l’arte del sonetto ed un impeccabile classicismo formale, Soulary seppe conferire alle sue composizioni originalità, forza emotiva e, talora, franco umorismo.
  69. Allude all’aneddoto secondo il quale un guerriero dell’esercito di Clodoveo ruppe volontariamente, dinanzi al sovrano, un vaso del bottino conquistato dopo la battaglia di Soissons. Qualche tempo dopo, peraltro, Clodoveo gli spaccò la testa, pronunciando le parole divenute proverbiali: « Souviens-toi du vase de Soissons», ovvero «chi la fa l’aspetti».
  70. Victor Duruy (1811-1894) fu storico e uomo politico di successo, attivo soprattutto nell’ambito dell’istruzione pubblica. Venne nominato Senatore e insignito della Legion d’onore e, nel 1884, eletto all’Académie française. Pubblicò numerosi testi scolastici, e con la sua Histoire des Grecs ottenne, nel 1889, il premio Reynaud.
  71. Allude alla raccolta vittorughiana Feuilles d’automne (1831).
  72. Il celeberrimo romanzo di Victor Hugo dato alle stampe nel 1831.
  73. Le sacre de la femme è un’altra famosa poesia di Victor Hugo consacrata al personaggio di Eva, e compresa ne La Légende des siècles (1859-1883).
  74. Philippe Quinault (1635-1688) fu autore di tragedie d’argomento romanzesco (Astrade, 1665) e di numerosi libretti musicati da Jean-Baptiste Lully (Il trionfo dell’amore, 1681), alternando nelle sue opere motivi barocchi e neoclassici.
  75. Porto francese del dipartimento di Finistère.
  76. Henri Murger (1822-1861), scrittore francese autore fra l’altro di Scènes de la vie de bohème (1847-1849) da cui Luigi Illica e Giuseppe Giacosa trassero il libretto della Bohème (1896) di Giacomo Puccini.
  77. Commedia in tre atti (1855) di Emile Augier (1820- 1889), autore di numerose opere teatrali di successo.
  78. Protagonista del famoso romanzo La vraie histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut (1731), opera dell’abate Antoine-François Prévost (1697-1763), che avrebbe successivamente ispirato la Manon Lescaut (1893) di Giacomo Puccini (1858-1924).
  79. Protagonista dell’omonima opera teatrale (1829) di Victor Hugo.
  80. Celeberrima protagonista della Dame aux camélias (1848) di Alexandre Dumas figlio (1824-1895), e ispiratrice della Traviata (1853) di Giuseppe Verdi (1813-1901).
  81. Mademoiselle Aïssé – nata nel 1693 in Circassia e morta a Parigi nel 1733 – fu comprata come schiava all’età di quattro anni e mezzo dal conte di Ferréol, ambasciatore francese a Istambul: costui era un uomo corrotto, che la crebbe con ogni cura per destinarla al suo piacere, e la portò in Francia. La sua posizione sociale, numerose avventure romanzesche e le vivaci passioni che poi le abbreviarono la vita ne fecero un personaggio celebre nel Settecento. Le sue lettere vennero pubblicate nel 1787 con note di Voltaire; furono quindi riedite con note di Sainte-Beuve e Ravenel nel 1846. La vicenda di Mademoiselle Aïssé è in seguito divenuta argomento di tre pièces teatrali: di Lavergne e Woucher (1854), di Bouilhet (1872) e di Dejoux (1898).
  82. Marie-Thérèse Levasseur (1721-1801) era una giovane cucitrice quando, a Parigi nel 1735, incontrò Jean-Jacques Rousseau, di cui rimase fedele compagna per più di trent’anni
  83. Jean-Baptiste Clésinger (1814-1883), figlio d’arte, divenne scultore alla scuola del padre, Georges-Philippe, e debuttò al Salon di Parigi del 1843. La sua ultima esposizione avvenne nel 1864.
  84. Louis-Gustave Ricard (1823-1873) fu apprezzato maestro nell’arte del ritratto (ne dipinse circa duecento), ove seppe mettere in luce le sue notevoli capacità d’introspezione.
  85. Edmond (1822-1890) e Jules (1830-1870) de Goncourt, narratori e saggisti di fama mondiale, scrissero, fra l’altro, il romanzo Germinie Lacerteux (1865), considerato un’opera fondamentale nell’ambito della poetica del Naturalismo francese.
  86. Thibaudet allude a Diotìma di Mantinea, l’illuminata sacerdotessa che, nel Convito di Platone, rivela a Socrate la vera natura dell’amore.
  87. Riferimento al celebre, fortunatissimo Génie du Christianisme (1802) di François-René de Chateaubriand, padre legittimo e riconosciuto del Romanticismo francese ed europeo.
  88. Thibaudet allude qui alla trama dell’Ippolito di Euripide. Il casto Ippolito, figlio di Teseo, è devoto ad Artemide e sdegna Venere, la quale, profondamente offesa, fa innamorare follemente di lui la matrigna Fedra. Tale terribile amore, incestuoso e inconfessabile, provocherà la tragica morte di Fedra e di Ippolito.
  89. Luogo menzionato nella prima parte (1773-1808) del Faust di Goethe: si tratta di una squallida bettola frequentata da studenti ubriaconi ove Mefistofele conduce Faust.
  90. Amico di Flaubert, Baudelaire e Gautier, Maxime Du Camp (1822-1894) fu anche autore di libri di viaggi e romanziere. I suoi Souvenirs littéraires apparvero nel 1882-83.
  91. Figlio di Ares e di Afrodite, Anteros era, presso i Greci, la personificazione dell’amore corrisposto. Lui ed il fratello Eros erano inseparabili; si narra anzi che Eros, prima della nascita del fratello, fosse sempre restato un bambino, e che solo in virtù di Anteros avesse raggiunto la maturità.
  92. Alphonse Darlu (1849-1921) fu filosofo e professore nei licei, nonché incaricato di psicologia e di morale all’Ecole normale supérieure di Fontenay.
  93. Originale personaggio de Le mariage manqué: fu creato da Alphonse Allais (1854-1905), giornalista ed umorista pungente, autore, fra l’altro, di numerose novelle fantastiche, spesso basate su una teoria dell’assurdo.
  94. Si riferisce, ancora una volta, a Brunetière.
  95. Storico e saggista svizzero dagli svariati interessi, Gonzague de Reynold (1880-1970) ha, fra l’altro, dedicato un ampio studio a Baudelaire (Charles Baudelaire, 1920).
  96. Eugène de Rastignac è un giovane studente di provincia assai determinato e ambizioso, che ricorre in diversi romanzi della Comédie humaine di Honoré de Balzac. Oggi Rastignac è divenuto sinonimo di arrivista. Ne Le Père Goriot, Rastignac, dopo aver seppellito il vecchio Goriot – magnifico padre vittima dell’ingratitudine violenta e crudele delle due figlie, per la felicità delle quali si è rovinato – sfida la città di Parigi dalla collina del famoso cimitero di Père-Lachaise.
  97. Questo importantissimo luogo storico della città rappresenta la cultura istituzionale, ufficiale e conservatrice.

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