Bibliomanie

Pierre Villey, La vita e L’opera di Montaigne
di , numero 52, dicembre 2021, Traduzioni, inediti e rari, DOI

Pierre Villey, La vita e L’opera di Montaigne
Come citare questo articolo:
Davide Monda, Pierre Villey, La vita e L’opera di Montaigne, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 52, no. 24, dicembre 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.9674

Montaigne non ci lascia ignorare di esser nato gentiluomo. Sia che parli di guerra, o di opere dello spirito, o anche di educazione, egli ne parla da gentiluomo.
Benché si compiaccia non poco di intrattenerci sui suoi antenati, sulla terra ove essi hanno riposto il loro affetto, sul suo stemma, e persino sul difetto abituale dei gentiluomini di esagerare un poco la loro nobiltà, la sua nobiltà è piuttosto recente. Infatti, il suo bisavolo, Ramon Eyquem, arricchitosi a Bordeaux col commercio del vino, del pastello e del pesce secco, proprio al termine della sua lunga vita, e soltanto cinquantacinque anni prima della nascita del filosofo, comprò il feudo di Montaigne nel Périgord. Suo nonno, Grimon Eyquem, è ancora un mercante che abita a Bordeaux e fa buoni affari. Solo suo padre, Pierre Eyquem, divenuto capofamiglia nel 1529, rinuncia al commercio: ha partecipato alle guerre d’Italia con l’audace nobiltà del suo tempo, poi ha vissuto da gentiluomo nelle sue terre, che ha accresciuto con amore in virtù di acquisizioni successive e arricchito di un bel castello secondo la moda dell’epoca. E Michel sarà il primo ad abbandonare definitivamente il nome di Eyquem per assumere soltanto quello della sua terra. Parecchi suoi zii paterni sono magistrati o uomini di Chiesa. La madre, Antoinette de Louppes, anch’ella ricca, appartiene a una famiglia di ebrei spagnoli convertiti al cristianesimo, i Lopès che, dopo essere emigrati a seguito delle persecuzioni, si sono insediati in varie città della Francia meridionale, ove si dedicano al commercio. Ella aderirà alla Riforma, e due dei suoi figli, il signor de Beauregard e Jeanne de Lestonnac, seguiranno il suo esempio, mentre gli altri saranno cattolici come il padre. Ecco una famiglia aperta alle più diverse influenze, variegata e senza le complicazioni delle tradizioni forti. Tanto meglio: la libertà di pensiero del filosofo non corre certo il rischio di essere soffocata da una spessa fioritura di pregiudizi.
Michel nacque il 28 febbraio 1533, ossia tra la pubblicazione di Pantagruel e quella di Gargantua, e poco dopo l’istituzione, da parte di Francesco I, dei lettori reali (il Collège de France). Il Rinascimento, che trionfa con il Padre delle Lettere, segnerà decisamente la sua prima educazione, e farà di quel gentiluomo un umanista.
Il padre ha riportato dall’Italia, terra degli umanisti, idee pedagogiche assai innovative. Non appena il bambino ha fatto ritorno dal povero villaggio ove, sin dalla culla, l’hanno mandato a balia per «ricongiungersi a quella condizione umana che ha bisogno del nostro aiuto», Pierre Eyquem fa venire al castello, in qualità d’istitutore del figlio, e «lautamente retribuito», un medico tedesco, di nome Horstanus, che non sa una parola di francese. Il suo compito sarà quello di parlar sempre ed esclusivamente in latino al piccolo Michel, ch’egli tiene costantemente «in braccio». Ed ecco che anche il padrone di casa si mette a studiare il latino, quel tanto che gli serve per rivolgere la parola al figlio; e dà ordine tassativo alla madre, ai vicini e agli amici, e persino ai domestici, «valletti e cameriere», di dire al bambino solo quel che possono farfugliargli in latino. «Insomma, dice Montaigne, ci latinizzammo a tal punto che la fama se ne diffuse fino ai nostri villaggi intorno, ove esistono ancora e sono divenuti di uso comune parecchi termini latini riferiti ad artigiani e a utensili». A sei anni, Michel sapeva parlare solo in latino. Quando entra nel collegio di Guienna a Bordeaux – uno dei migliori dell’epoca – ha come insegnanti maestri del calibro di Grouchy e di Guérente, che sono grandi umanisti, e pure il famoso poeta scozzese Buchanan; ma quegli uomini esitano ad affrontare quel ragazzino proprio nella lingua dei collegi, tanto egli la padroneggia. Ed eccolo sullo stesso livello della cultura antica. Probabilmente saprà poco il greco, ma poco importa: quasi tutta la letteratura e la scienza greche possono già leggersi in traduzione latina. L’inestimabile vantaggio del metodo paterno sta nel fatto che la lingua di Roma gli “apre” ogni buona letteratura e farà di lui un frequentatore abituale degli autori antichi.
Un secondo principio pedagogico di quel padre eccezionale, che aveva voluto che lo studio del latino gli risultasse tanto facile, è quello per cui si doveva educare l’anima dei bambini nella più completa libertà, far loro gustare il dovere e la scienza spontaneamente, senza alcuna costrizione. Per timore di svegliare Michel troppo bruscamente, lo faceva destare con la musica; a tale scopo tenne sempre al servizio del bambino un suonatore di spinetta. Voleva che fosse istruito divertendolo. Nella sua infanzia, Michel ha assaggiato la frusta solo due volte, e in modo assai poco energico. Se un giorno l’anima di Montaigne sarà così inadatta allo sforzo e capace di ripiegarsi su se stessa nella meditazione solitaria, se essa dev’essere, com’egli dice, «così singolare», possiamo scommettere che l’educazione paterna abbia pur contato qualcosa.
Il collegio avrebbe potuto compromettere tutto quanto col suo cattivo latino e l’abuso delle punizioni corporali. Ma Pierre Eyquem vegliava onde prevenire tale pericolo. Gli fece conservare alcune abitudini particolari, e mise presso il suo bambino dei «precettori di camera» di provata indulgenza e «bonarietà». La conoscenza del latino, d’altronde, aveva consentito a Michel di saltare le prime classi e perciò la sua prigionia durò solo sette anni, dai 6 ai 13 anni. Tutto il profitto che egli è consapevole di averne tratto lo attribuisce a uno dei precettori domestici scelti dal padre, che ha avuto l’intelligenza di chiuder gli occhi sulle lezioni mal studiate, e di lasciargli leggere di nascosto, per suo diletto, gli autori sui quali i suoi compagni penavano: le Metamorfosi di Ovidio, l’Eneide, Terenzio e Plauto. «Verso i sette od otto anni, dice, mi privavo di ogni altro divertimento per leggere le fiabe della Metamorfosi di Ovidio, giacché quella era la mia lingua madre e quello era il libro più facile che conoscessi e il più adatto alla mia tenera età». Tutta la nobiltà del suo tempo, assicura, riportava dal collegio l’odio per i libri; lui, grazie a quell’«uomo di giudizio», vi fortificò il gusto per le attività dello spirito.

Più tardi, studierà diritto forse a Tolosa, la cui facoltà era assai celebre, e ove gli Essais ci informano ch’egli ha soggiornato. Forse i ricordi relativi a Tolosa ivi riportati risalgono a quando vi studiava. Dall’età di ventun anni va a ricoprire l’incarico di Consigliere alla Cour des Aides del Périgueux, di recente creazione; poi, tre anni dopo, diventa consigliere al Parlamento di Bordeaux, quando la Cour des Aides viene trasferita in quella città. Eserciterà tale funzione per quasi tredici anni.
Quando ci parla dei giudici, della venalità delle cariche giudiziarie, delle leggi e dei loro difetti, del loro numero che vorrebbe ridurre sensibilmente, del modo di applicarle, ma soprattutto quando critica con tanta fermezza e originalità la questione della tortura e i processi di stregoneria, non possiamo dimenticare che parla un vecchio magistrato, con tutta l’autorevolezza della sua esperienza.
Su di lui fu profondo l’influsso dell’ambiente parlamentare, i cui rappresentanti venivano reclutati fra la ricca borghesia mercantile di Bordeaux, dalla quale proveniva la famiglia Eyquem. Michel vi contava diversi parenti e affini. E in quell’ambiente trovò moglie: Françoise de la Chassaigne ch’egli sposò, a trentadue anni, nel 1565, era figlia di un consigliere e nipote di un presidente dello stesso Parlamento. Era un ambiente colto ove, al contrario della nobiltà di spada, volentieri ci si piccava di amar le lettere. Il ceto dei magistrati è, in effetti, quello che ha dato alla Francia del Cinquecento la maggior parte dei suoi eruditi e scrittori. Montaigne si diletta negli ozi studiosi: possediamo un esemplare degli Annales di Nicole Gilles ch’egli ha studiato in quel tempo e riempito di note a margine, ove lo vediamo criticare le asserzioni di Nicole Gilles contrapponendovi le testimonianze di altri storici, e soprattutto sperimentare il suo giudizio già nel modo in cui lo farà poi negli Essais. Un po’ più tardi intraprenderà la traduzione in francese del Liber creaturarum di Raymond Sebond, un impegno di grande respiro (il volume conta più di 1000 pagine), che pubblica nel 1569, quando è ancora magistrato. Ha già dunque l’intenzione di fare lo scrittore.
Ma, soprattutto, il Parlamento di Bordeaux ha donato a Montaigne l’amico il cui nome rimarrà per sempre inseparabile dal suo. Étienne de la Boétie era anch’egli un consigliere e, maggiore di due o tre anni, probabilmente esercitò un grande influsso sul suo pensiero in un momento decisivo. La loro intima amicizia, che doveva interrompersi nell’agosto del 1563 con la morte prematura di La Boétie, durò quattro anni, come ci testimonia l’autore degli Essais. Dobbiamo supporre ch’essi rimanessero per un anno l’uno accanto all’altro senza conoscersi e stringessero amicizia soltanto nel 1559? oppure che Montaigne, che ha amato La Boétie fin dal suo arrivo a Bordeaux, per il dispiacere di non aver pienamente goduto del poco tempo accordato dal destino alla loro felicità, detragga dai sei anni della loro amicizia le lunghe assenze che li separarono? Autore di varie opere che non erano state pubblicate ma circolavano manoscritte nell’ambiente (dei sonetti amorosi alla maniera di Ronsard e una declamazione contro i tiranni nello stile di Tacito), La Boétie era completamente imbevuto di cultura antica. Fervido umanista, viveva in spirito con i grandi dell’antichità e, come altri magistrati dell’epoca, sognava di far rivivere la saggezza antica. Si sforzava di applicare nella pratica della sua vita i bei precetti e i grandi esempi che leggeva nei maestri latini. Quel che Montaigne ammirava in lui era «un’anima di stampo antico». La Boétie gli dava consigli dei quali le sue opere latine (talune indirizzate a Montaigne) ci hanno serbato il ricordo. Conversando, i due amici si chiedevano che cosa Catone o Epicuro avrebbero fatto al posto loro; oppure uno dei due citava qualche sentenza di Seneca che mostrasse la via da seguire. Parlavano della vecchiaia, della maniera di sopportarne i malanni con l’aiuto dei consigli di Cicerone; della gloria e delle sue vanità, del dolore sulla scorta delle lezioni del De finibus. Si ricadeva costantemente sull’argomento della morte alla quale il saggio deve sempre essere pronto. Montaigne sosteneva, contro il parere dell’amico, che i «moribondi oppressi dalla lunghezza della malattia, o dalle complicazioni di una apoplessia o mal caduco, o colpiti alla testa, che noi sentiamo gemere e talora emettere violenti sospiri», non soffrono affatto e sono, anima e corpo, sepolti e addormentati in una profonda insensibilità. Il suggestivo racconto degli ultimi momenti dell’amico, che Montaigne ci ha lasciato in una lettera al padre, ci fa penetrare nell’intimità di quell’emulazione di saggezza alla maniera antica:

Gli dissi che ero arrossito per la vergogna di non aver avuto il coraggio di ascoltare quel che lui, colpito dalla malattia, aveva avuto il coraggio di dirmi: che fino ad allora avevo pensato che Dio non ci concedesse un grande dominio sui casi umani, e a stento credevo a quanto talvolta ne avevo letto nelle storie; ma che, dinanzi a una tale prova, io lodavo Dio per essersi manifestato in una persona da cui ero tanto amato e che amavo con tanto affetto; e che ciò mi sarebbe servito d’esempio per fare a mia volta la stessa cosa. Egli m’interruppe per pregarmi di fare proprio così e di dimostrare, in concreto, che i discorsi che avevamo fatto insieme quando eravamo in buona salute non erano solo parole, ma da gran tempo erano incisi nel cuore e nell’anima per metterli in atto alle prime occasioni che si presentassero; aggiungendo che quella era la vera pratica dei nostri studi e della filosofia. E, prendendomi la mano: «Fratello, amico mio, mi disse, sono persuaso di aver fatto parecchie cose, nella mia vita, mi pare, con altrettanta pena e difficoltà di questa. E quando è detto tutto, è da molto tempo che vi ero preparato e conoscevo a memoria tutta la lezione».

Questa mistura di Dio cristiano e di filosofia pagana, le citazioni latine di saggi profani fin sul letto di morte, vicino al prete che gli reca la suprema consolazione, è già la condizione spirituale che, attraverso gli Essais, porterà in Du Vair alla fusione di cristianesimo e stoicismo. E persino in questa santa amicizia, stretta da una forza così fatale, ove c’è tanta tenerezza e spontaneità, non posso fare a meno di sentire il desiderio di rinnovare fra gli uomini una virtù di cui non si vede più «alcuna traccia vigente», una virtù secondo il modello che ce ne ha tramandato Cicerone.

Quando, nel giugno 1568, Pierre Eyquem morì, Montaigne in un primo tempo non rinunciò alla carica di consigliere. Anzi, verso la fine del 1569, sollecitò il proprio passaggio dalla Chambre des Enquêtes, la meno elevata, alla Grand Chambre ove era vacante un posto di consigliere, ma gli fu risposto che la presenza di un suo cognato nella Grand Chambre gliene impediva l’accesso. Quella delusione influì in qualche modo sulle sue decisioni? Comunque, il 24 luglio 1570, egli vendeva la sua carica a Florimond de Raemond, che fu suo intimo amico e scriverà sui margini di un esemplare degli Essais alcune preziose indiscrezioni sulle abitudini di Montaigne e sulle sue relazioni sociali.
Ci piacerebbe conoscere i motivi della sua decisione. Forse l’ambizione? Il desiderio di rendersi libero per qualche incarico di alto profilo? Vedete, si dice: da magistrato coglieva tutte le occasioni per correre a Parigi e mostrarsi a Corte. Ci va almeno due volte, e la seconda resta lontano da casa molto a lungo, forse diciassette mesi. Ogni volta accompagna la Corte in viaggi nella provincia di cui gli Essais ci hanno serbato il ricordo (a Bar-le-Duc, nel 1559; a Rouen, nel 1562). Subito dopo aver venduto la carica, torna a Parigi, ove dedica ad alcuni importanti personaggi – che potevano aiutarlo a farsi strada nelle alte magistrature – ciascuna delle opere dell’amico La Boétie, che lui fa stampare. L’anno seguente, riceve l’ordine di San Michele e il titolo di gentiluomo della Camera del re.
È tanto il tempo che ci separa che non è facile valutare appieno quei fatti e le cause di tutte quelle azioni, e probabilmente si finirebbe coll’abusare delle ammissioni di ambizione che si leggono negli Essais piuttosto che ricavarne argomenti contro Montaigne. Seppur ebbe delle tentazioni, l’amore per la sua quiete riprese in fretta il sopravvento. E son convinto che, quando rinunciò alla sua carica, l’ambizione di Montaigne era soprattutto quella di vivere la vita mondana e totalmente libera di un castellano che brilla tra i gentiluomini del vicinato ed è un vero piccolo sovrano nei suoi domini. Avrebbe continuato la tradizione paterna ora che era l’erede del nome e della terra nobiliare. Egli incarna, a sua volta, l’aspirazione dei mercanti suoi antenati cancellando dal proprio nome ogni traccia delle sue origini plebee, e dà a quell’aspirazione un tono personalissimo con l’ideale, che sarà il suo, di un’esistenza agiata, senza un’occupazione regolare, senza sostenere «obblighi» né sforzi, ma studiosa e intelligente, l’esistenza a cui forse l’hanno preparato i risvegli in musica della sua giovinezza, le letture d’Ovidio fatte di soppiatto, e il desiderio, nutrito accanto a La Boétie, di rinnovare fra i suoi contemporanei la saggezza antica.
È probabilmente da poco tornato da Parigi quando fa dipingere sulle campate della sua «biblioteca» questa iscrizione, nel giorno del suo compleanno, «L’anno di Cristo 1571, all’età di trentotto anni, alla vigilia delle calende di marzo, anniversario della sua nascita, Michel de Montaigne, da molto tempo infastidito dalla schiavitù della Corte del Parlamento e delle cariche pubbliche, sentendosi ancora in buona forma, venne in disparte a riposarsi in seno alle dotte Vergini nella quiete e al sicuro; lì trascorrerà i giorni che gli restano da vivere. Sperando che il destino gli consenta di completare questa dimora, questo dolce ritiro paterno, egli l’ha consacrato alla propria libertà, alla propria tranquillità e ai propri svaghi».
Il frutto del ritiro di Montaigne sarà, nove anni dopo, la pubblicazione dei due primi libri degli Essais.

Quella «biblioteca», ove abbiamo appena letto i progetti di Montaigne, si trova in cima a una torre che ha fatto sistemare particolarmente per suo uso. Al pianterreno si trova la cappella; il primo piano è occupato da una camera ove dorme quando vuol stare solo. È al secondo piano che si è riservato un angolo tutto suo, indipendente dalla «comunità coniugale, filiale e civile». Là egli trascorre «la maggior parte dei giorni» della sua vita, «e la maggior parte delle ore del giorno». D’inverno, si fa accendere il fuoco in uno studiolo attiguo, che è «aperto in modo assai gradevole». Là, mille volumi, disposti su cinque scaffali a semicerchio, gli presentano i loro titoli invitanti: deve solo allungare il braccio. Se alza la testa, i suoi occhi incontrano qualcuna delle sentenze latine o greche che ha fatto dipingere sulle campate e che gli riassumono l’esperienza dei saggi. Esse rammentano la vanità dell’uomo, l’inutilità del sapere, la follia della nostra presunzione. È il ritiro del saggio, del «moderno Talete», come lo chiamerà Giusto Lipsio.
Non crediate tuttavia ch’egli vi conduca un’esistenza da benedettino: è troppo gentiluomo per seppellirsi per sempre fra i libri. Dalla sua «biblioteca» «dirige contemporaneamente la sua casa»; sotto di lui vede il suo giardino, il suo cortile, la sua corte, e «dentro la maggior parte dei componenti» della sua casa. Governa i suoi possedimenti; a quel tempo assicura anche di essere un oculato amministratore. Riceve volentieri le persone distinte: Jacques Pelletier du Mans abiterà a casa sua. Frequenta soprattutto i signori dei dintorni; gli piace la compagnia di donne belle e virtuose; ricerca quella di uomini capaci. Sembra che trascorrano anche periodi lunghissimi durante i quali non aggiunge nulla al suo manoscritto. Ai suoi tempi soldato, ora partecipa alla guerra solo lontano da casa. Nel 1574 è nell’esercito del re, nel Poitou meridionale, e dal campo di Sainte-Hermine il duca di Montpensier lo manda a compiere una missione presso i suoi antichi colleghi, i consiglieri del Parlamento di Bordeaux. Di certo, poco dopo, quando Enrico di Navarra, fuggito dal Louvre, avrà riconquistato il mezzogiorno, frequenterà la sua corte prima ad Agen, e poi a Nérac. Era, come ci racconta Florimond de Raemond, «molto intimo» del re di Navarra, che accoglierà due volte nel suo castello, ospitandolo per parecchi giorni con tutto il seguito. E, forse per ricompensarlo di qualche servigio, Enrico lo nominò, nel novembre del 1577, gentiluomo di Camera. Se inizialmente (ma è assai dubbio) l’iscrizione del 1571 implicava una certa intenzione di austero ritiro e d’isolamento, Montaigne, a questo riguardo, si è ravveduto molto in fretta. Il suo sarà infatti il libro di un uomo di mondo.
Tuttavia poco della sua vita trapela da un primo gruppo di capitoli che compone intorno al 1572, all’inizio del suo ritiro.
L’evoluzione che ripercorrerò è assai meno l’evoluzione del pensiero di Montaigne che non l’evoluzione degli Essais. Non dimentichiamo che Montaigne ha già trentotto anni. Si accinge a cercarsi e a trovarsi per potersi mostrare nel suo libro; e le tappe di tale ricerca sono le tappe dell’evoluzione degli Essais. Cercandosi, probabilmente ci si plasma, ci si definisce, ci si perfeziona, ma non ci si trasforma.
I capitoli del 1572 occupano la maggior parte del primo libro. Non vi compare nessuna personaggio famoso. Se Montaigne ha preso la penna, non è affatto perché, come potrebbero supporre i lettori del suo Avvertimento, egli abbia concepito l’originale progetto di dipingere il suo io, ovvero abbia immaginato un genere nuovo da rivelare al pubblico. Comincia, come la maggior parte degli scrittori, facendo quel che altri fanno intorno a lui. Il suo scopo è quello, ci dice (Essai I, VIII), di occupare il suo spirito, di disciplinarlo per renderlo più attento nelle sue letture. In quel momento egli studia, fra altri libri, la storia d’Italia di Guicciardini e i Mémoires di due signori di cui ha probabilmente sentito parlare durante la sua infanzia, Guillaume e Martin du Bellay, in cui trova molti fatti interessanti. Uno di essi suscita, passando nella sua memoria, il ricordo di altri fatti che sembrano implicare un insegnamento analogo, o simile, o viceversa una conclusione totalmente opposta. Montaigne li confronta e vi annota qualche semplicissima riflessione. Non occorre di più per costruire un capitolo all’epoca (Cfr., per esempio: I, VI; I, XV). Difatti, in quel tempo in cui la divulgazione delle conoscenze era un bisogno urgente, dei compilatori provvedevano a estrarre la quintessenza delle loro letture, le loro «lezioni», come si diceva allora. Ne era nato un genere letterario – genere povero in verità e affatto privo di originalità – dapprima in latino, poi in volgare, a cui può applicarsi abbastanza bene il titolo che uno spagnolo, Pierre de Messie, ha dato alla sua raccolta di estratti, subito tradotta e apprezzata in tutti i paesi d’Europa: le Diverses leçons.
Anche Montaigne compone delle «lezioni», più complesse, ma non più personali. Sono in qualche misura dei cassetti ove l’autore accumula alla rinfusa tutte le storie curiose, gli esempi, i motti che gli paiono avere una certa «convenienza». Un capitolo tratta «dei destrieri», che è soltanto una raccolta di aneddoti riguardanti l’equitazione. Eccone poi un altro intitolato «dei nomi», ove Montaigne introduce, per esempio, la storia del banchetto in cui si contarono sino a centodieci commensali dal medesimo nome; quella di un altro banchetto in cui le vivande erano servite secondo l’ordine delle iniziali del loro nome; l’aneddoto di un debosciato che dovette la sua salvezza al nome della Santa Vergine pronunziato dinanzi a lui; e tanti altri che non hanno rapporti più stretti fra loro. Tutto un «guazzabuglio», come dice egli stesso. I «casi singolari» sono particolarmente apprezzati in una letteratura che tende istintivamente a esplorare i limiti del possibile. Perciò elenchi di fatti insoliti passavano di compilatore in compilatore. Montaigne, che ne compone a sua volta (vedi I, XXXIV), ne prende pure di già pronti dai suoi predecessori, che talora trascrive tali e quali, senza arricchirli: elenco di morti insolite; elenco di morti provocate dalla gioia; elenco di effetti prodigiosi dovuti alla forza dell’immaginazione, etc.
Altre lezioni trattano argomenti morali: la morte, il dolore, la solitudine filosofica, la saggezza, che sono di ben altro interesse. Si noterà il posto rilevante che occupano, nello svolgimento, le massime e le citazioni, venendo a costituire dei centoni veri e propri. I grappoli di massime tratte da Seneca si alternano agli esempi. Montaigne, per quanto già si sforzi, non riesce quasi mai a provare le proprie idee, a esprimere la sua personale concezione della vita. In quel momento, per presentarsi al pubblico, ritiene necessario tendersi, irrigidirsi, addobbarsi. Solo la saggezza altera e arrogante, quella lontanissima dal volgo, gli par degna di divenir materia di un libro. Non è che l’uomo non appaia qua e là con alcuni dei suoi caratteri specifici, ma una sorta di dipendenza dagli autori lo riporta costantemente alle formule altezzose, a una grandezza fittizia non priva di quell’orpello a cui i contemporanei volentieri attribuiscono l’epiteto di stoico. Poco importa se lo prende a prestito dallo stoicismo o dall’epicureismo: non si cura in alcun modo di far rivivere una dottrina piuttosto che un’altra. A quel tempo, il suo maestro è, senza riserve, Seneca, che anch’egli s’ispirava indifferentemente alle due scuole, e Montaigne letteralmente lo saccheggia.
Il suo modello è Catone il giovane «il vero depositario della virtù stoica», a cui costantemente ritorna. Fiducia nella ragione e in una meditazione volta a elevarci alla saggezza, disdegno arrogante per il volgo e per gli ignoranti, aspirazione a una bella morte che renda onore alla propria vita, questi sono alcuni sentimenti di quel tempo che Montaigne, quando si sarà scoperto, non riconoscerà in sé1; ora dice che la morte è il fine della vita, e ci invita a pensarvi incessantemente; pone la saggezza in un’intensa preparazione alla morte, al dolore, alle sventure umane, e in un isolamento egoistico e intransigente che ci metta al riparo dalle passioni.
Se Montaigne avesse composto soltanto questo primo gruppo di capitoli, se li avesse pubblicati nel 1572 e lì si fosse fermato, noi quasi non lo conosceremmo e lui non avrebbe affatto creato un genere nuovo nella nostra letteratura.
Ma ecco un secondo gruppo di capitoli, di transizione in un certo senso, che ci porterà ai saggi più originali. In verità, è molto meno facile da determinare rispetto al precedente. Io vi faccio rientrare, oltre a una gran parte del saggio II, XII, i saggi dal II al VI del secondo libro, che mi sembrano esser stati composti fra il 1572 e il 1574.
Vi compaiono due influssi predominanti: quello dei Moralia di Plutarco e quello delle Hypotyposes di Sesto Empirico. Entrambi favoriranno l’evoluzione a cui Montaigne spontaneamente tende man mano che va abituandosi a parlare al pubblico e scopre se stesso nella propria opera.
Il grosso in-folio di Plutarco, che ha appena ricevuto forse nel momento in cui compone il saggio II, IV, gli propone un ideale morale infinitamente meno arrogante di quello di Seneca, e lo seduce poiché Montaigne lo sente assai più conforme al proprio temperamento. Esso incoraggia la sua reazione spontanea contro le formule troppo altere di Seneca, e l’abitua a collegare la sua riflessione alle azioni più comuni della vita quotidiana. L’aiuta a sviluppare una concezione alquanto eclettica della saggezza, assai più umana e flessibile, assai più appropriata alla sua natura indolente e alla sua condizione di uomo di mondo, e gli mostra che quella saggezza è degna anch’essa di stare in un libro. Plutarco poco a poco riduce l’influenza di Seneca, e vi sostituisce la propria, molto più moderata, e Montaigne fa di lui il proprio «breviario». Alla luce di questo breviario si abitua a veder più chiaro e a penetrare più a fondo in se stesso, nonché a confrontare le sue azioni con quelle degli eroi che Plutarco mette in scena.
L’incontro con Sesto Empirico affretterà, con un’esperienza di singolare portata, tale spostamento. Rivelandogli la dottrina pirroniana, Sesto Empirico completerà il crollo dell’arrogante fiducia di derivazione senecana nel potere della ragione, e aiuterà Montaigne a prendere più piena coscienza dell’originalità del suo giudizio. Era pronto ad accogliere i suoi insegnamenti. Tanti concetti portati dal Rinascimento col prestigio della loro origine antica, tanti costumi venuti dai nuovi mondi non meno che dalla Grecia e da Roma, tante nozioni sconcertanti in materia di morale e di politica, nonché di storia naturale, mettevano a dura prova le certezze tradizionali. Tutte le idee acquisite venivano scalzate da quell’afflusso di idee nuove che tentavano di soppiantarle. Lo spirito duttile ed assai critico di Montaigne accoglieva le novità e reagiva al loro urto. Quando un filosofo venne a dirgli con l’autorità di Pirrone: tutti i nostri costumi, le nostre credenze, per quanto consacrate dall’abitudine, contraddette da altri costumi e altre credenze non meno sacre agli occhi di altri uomini, sono in realtà privi di un fondamento razionale ed è soltanto per un’illusione del nostro cuore che noi attribuiamo loro il privilegio della certezza, lui vi riconobbe la verità che cercava. Si sentì conquistato dal Pirronismo: fece incidere una medaglia col suo nome ove i due piatti di una bilancia in perfetto equilibrio simboleggiavano l’impossibilità del suo spirito di pendere da un lato piuttosto che dall’altro. In essa si leggeva la massima di Pirrone, poi divenuta la sua: «Che cosa so?».
Ma è mera apparenza: Montaigne non è affatto scettico, o lo è solo relativamente al dogmatismo del suo tempo. Questa crisi varrà soltanto ad approfondire il sentimento, che già era in lui, della relatività del pensiero, e gli darà una maggior fiducia nel suo giudizio, di cui ora valuta con più esattezza i limiti. In primo luogo essa fornisce una base più sicura al suo conservatorismo politico e religioso: gli altri accettano le usanze tradizionali perché le ritengono fondate sulla ragione, oppure le combattono perché altre usanze sembrano loro meglio fondate sulla ragione; lui, da saggio pirroniano, si conforma alla tradizione, di cui vede la vanità, perché la ragione, inetta dinanzi ai problemi politici, religiosi, metafisici, non sarebbe in grado né di sostenere la tradizione né di cercar di correggerla senza produrre rischi peggiori. Poi, sentendosi da solo libero dalla fiducia cieca nella ragione e dall’influenza dell’abitudine, eludendo con la finezza di Pirrone tutte le illusioni, prende più pienamente coscienza dell’originalità del suo buon senso: l’unica superiorità ch’egli riconoscerà in sé sarà quella del «senso». Insomma, sotto le rovine accumulate da Pirrone ha riconosciuto una solida base e una soltanto sulla quale la ragione può costruire: il fatto reale. Si avvia verso un positivismo flessibile e saldo insieme; e, da moralista, cercherà soprattutto nell’Io il dato certo su cui costruire la sua morale.
Dunque Montaigne, sia attraverso l’analisi interiore sviluppata da Plutarco, sia col lavoro critico accelerato da Sesto Empirico, è in qualche modo guidato a portare sempre più in primo piano il suo Io. Ed ecco come, un giorno, senza averlo previsto, approda al progetto di dipingere se stesso nella sua opera.
Tale progetto si manifesterà in un terzo gruppo di saggi databili fra il 1578 e il 1580, fra i quali i più caratteristici della nuova maniera sono De l’institution des enfans (I, XXVI); De l’affection des peres aux enfans (II, VIII); Des livres (II, X); De la praesumption (II, XVII); De la ressemblance des enfans aux peres (II, XXXVII).
In essi Montaigne non prende più le mosse dai libri come nel 1572, bensì prende spunto dalla sua esperienza personale. La struttura del capitolo non è più costituita da esempi libreschi; né il suo sviluppo è intessuto di sentenze d’accatto, o ingombro di grappoli di fatti singolari tratti da qualche compilatore. L’andamento è quello di una conversazione molto libera, personale, scorrevole, abbondante. Gli argomenti su cui Montaigne ci intrattiene sono anche quelli che nella vita ordinaria stimolano ogni giorno la sua riflessione: nel 1578 si è ammalato di calcolosi, male ereditario in famiglia; e così il saggio II, XXXVII ci espone le sue impressioni sull’argomento e le sue opinioni su medici, medicine, acque termali, etc. Nel saggio II, VIII, troviamo le sue idee circa l’amministrazione della famiglia; i suoi gusti in materia di libri nel saggio II, X. Il suo sistema pedagogico, esposto in I, XXVI, è totalmente ricalcato sulla sua esperienza ed elaborato, se così posso dire, sul modello della sua psicologia personale. I libri intervengono ancora, e anche spesso, ma non per fornirgli la materia; essi si limitano a sostenere e illustrare il pensiero personale dell’autore, ovvero Montaigne chiede ad essi elementi di paragone e stimoli per la sua meditazione. Questa volta assistiamo davvero allo sforzo metodico di un uomo volto a organizzare, alla luce della saggezza antica, la propria vita, secondo i bisogni della sua natura e in conformità col suo giudizio.
Montaigne si è preoccupato davvero, come scrive a Madame d’Estissac (II, VIII), della novità di quel progetto? Ha davvero temuto che in quel secolo pieno d’erudizione il pubblico potesse disprezzare un’opera che si presentava solo come un libro di buon senso? Certo, il timore del pubblico ha potuto contribuire a fargli esagerare tale novità sino al paradosso: non prestate attenzione alle cose di cui tratto, dice, ma alla mia maniera di trattarle; sono soltanto un ignorante, non mi curo affatto della scienza, ed è solo in questo la dimostrazione delle mie facoltà naturali. Perciò, lettore, in tutto questo non cercare altro che la descrizione delle mie opinioni e dei miei stati d’animo (II, X). Ma se la preoccupazione di prevenire la critica e di spuntarne i denti lo induce a quell’atteggiamento, altri impulsi ve lo incitano ancor di più: quanto ben corrispondeva alla sua prudenza intellettuale tale modestia! E, insieme, come ben s’addiceva quel disprezzo per la scienza al gentiluomo che ora si mostra negli Essais! Teneva soprattutto a non sembrare un pedante, un imbrattacarte. E allora perché fermarsi su una strada così buona? Nel capitolo De la praesumption (II, XVII), eccolo che traccia un ritratto a figura intera di se stesso, tanto della sua persona fisica quanto della sua personalità morale. Se è vero che si offre il proprio ritratto agli amici, perché non dovrei descrivermi con la penna così come altri si fanno disegnare con la matita? I miei saggi rivelano le imperfezioni del mio spirito; li si deve perciò nascondere? Ma mi vien forse l’idea di nascondere il ritratto fattomi dal mio pittore solo perché mostra la mia calvizie? (I, XXVI).
Giunto a questo punto, Montaigne ha il diritto di dire: io stesso sono l’argomento del mio libro. Ed è proprio in tal modo che «l’avvertenza al lettore» del marzo 1580 presenta gli Essais. Avvertenza assai inesatta, in realtà, che, per la precisione, è vera soltanto per una parte dell’opera, e non può applicarsi al resto se non – mi si consenta – per estensione, e in modo del tutto inadeguato. Ha il merito, almeno, di farci misurare tutto il cammino percorso in nove anni, e farci cogliere con forza l’originalità della concezione a cui è giunto Montaigne.
Ne mostra anche gli eccessi: lettore, il ritratto che ho fatto di me stesso, continua Montaigne, non vi interessa affatto; non è destinato a voi; l’ho fatto per i parenti, gli amici, quelli che, avendomi conosciuto e amato, saranno felici di ritrovarvi il mio aspetto quando non ci sarò più, e io l’ho fatto per loro soltanto. E altrove: «Tutti i rapporti che in questo ho con il pubblico consistono nel fatto che mi servo degli strumenti della sua scrittura (ossia la stampa) più veloce e comoda. Ho dovuto dare alle stampe questo ritratto per evitarmi la seccatura di farne fare a mano svariati estratti». È solo una battuta, probabilmente, ma questa concezione non è senza rischi: è forse il prezzo dell’ancor recente crisi pirroniana che, benché egli esprima opinioni e deduzioni con tanto vigore nell’Institution des enfans – per esempio –, rende Montaigne ancora esitante nel riconoscersi il diritto di trarre conclusioni generali dalle sue esperienze individuali; è soprattutto l’effetto dei suoi pregiudizi di gentiluomo e di un ombroso amor proprio. Non rischia di indurlo a descriversi con i caratteri più individuali, più spiccioli, quelli che in effetti interessano soltanto i parenti e gli amici? Che importa al pubblico della sua statura, della sua fronte rotonda, della «forma scarsa» del suo naso ovvero del fatto ch’egli s’inzaccheri fino alle natiche quando cammina?
Così, nel 1580, Montaigne è ormai padrone del proprio progetto, ma esita ancora a sondarne la vera portata filosofica e morale. Vedremo come in seguito egli la manifesterà e la metterà in piena luce.

Non appena i due libri degli Essais furono pubblicati dallo stampatore bordolese Simon Millanges, Montaigne, nel giugno del 1580, montò in sella e partì per un lungo viaggio in Svizzera, Germania e Italia. Il pretesto era quello di visitare alcune celebri stazioni termali per curarsi della renella che da due anni lo affliggeva; in realtà, voleva soddisfare la sua innata curiosità. Da quando amministrava i propri beni, aveva fatto notevoli economie che gli permettevano quel dispendioso divertimento. Il diario che ha lasciato di quel viaggio non era affatto destinato al pubblico: è pieno di particolari intimi sulla diarrea di Montaigne, sul numero dei bicchieri d’acqua che beve ogni mattina durante le cure a Plombières, a Baden, a della Villa, e altresì sugli effetti di quelle acque purgative; la forma è sciatta e spesso un segretario scrive al posto di Montaigne. Ma, grazie a questo diario, ritrovato e pubblicato nel Settecento, possiamo per alcuni mesi vivere in intimità col filosofo, e meno egli ha pensato a noi scrivendo, più siamo sicuri di coglierlo al naturale.
Egli è piuttosto indifferente dinanzi alle bellezze della natura: la traversata delle Alpi non gli strappa esclamazioni di sorpresa, né grida d’ammirazione. È pure quasi insensibile alle bellezze artistiche che a profusione gli offre l’Italia. Nelle rovine di Roma lo commuove l’evocazione di quel passato glorioso che egli così ben conosce, di quegli uomini dell’antichità con cui ha vissuto con la fantasia sin dall’infanzia. Insomma, ciò che l’affascina è l’uomo in tutti i suoi aspetti: si compiace di descrivere i lavori dell’industriosità umana, gli usi dei diversi popoli nel mangiare, nel dormire, nel vestire, e in generale tutti i particolari della vita sono annotati con una minuziosità che non teme la monotonia; ma soprattutto si sofferma sui costumi, sulle credenze religiose, le cerimonie, le abitudini morali, le caratteristiche politiche. Parla alla rinfusa delle lenzuola del suo letto, dei crauti che ha mangiato e di cui porta con sé la ricetta, delle tende della sua camera, della stufa che la riscalda, delle cortigiane cui ha fatto visita, di un battesimo, dei tovaglioli e delle stoviglie, di un’operazione chirurgica cui ha assistito. Quando si legge il suo Journal de voyage, si comprende come Montaigne dovesse, negli Essais, assumersi l’impegno di studiare l’uomo attraverso tutti i secoli della storia, in tutti i paesi del mondo, in tutte le pagine dei suoi in-folio. E quando si constata, nel medesimo diario, con quale precisione egli studi la sua malattia, ne segua tutte le fasi e ne descriva i sintomi, si comprende come, tenendo costantemente i suoi pensieri ripiegati sul suo io, alla fine egli abbia assunto il suo Io quale argomento dei propri studi, e abbia fatto della descrizione di sé la materia del suo libro.
Quando rientrò al suo castello, il 30 novembre 1581, era divenuto da quattro mesi sindaco di Bordeaux. Suo padre aveva già ricoperto la stessa carica un quarto di secolo prima, impegnandovisi con grande dedizione. Dapprima il filosofo rifiutò, ci assicura, ma una lettera del Re lo convinse ad accettare. Resse quell’incarico senza inutili ostentazioni – di buon grado gli crediamo dal momento che ce l’assicura – ma pure senza risparmio d’energie. La prova migliore ne è il fatto che, il primo agosto del 1583, i magistrati municipali lo rielessero per un altro periodo di due anni. Mandato in missione a Corte, seppe muovere severe rimostranze nei confronti dell’iniqua ripartizione delle imposte che gravava sui più poveri; e non meno coraggiosamente si rivolse al re di Navarra, quando si trattò di reclamare la libertà di commercio sulla Garonna. La già tesa situazione fra i due re, Enrico III ed Enrico di Navarra, circa l’adempimento della pace di Fleix, s’aggravò ulteriormente quando Enrico di Navarra rifiutò di accogliere sua moglie, pubblicamente insultata dal cognato, e s’impadronì di Mont-de-Marsan. Un ampio carteggio ci mostra Montaigne fungere da intermediario fra Matignon, luogotenente del re in Guienna, e Du Plessis-Mornay, che agisce per conto di Enrico di Navarra: ciascuno dei due partiti si preoccupa di giustificare i propri atti dinanzi a lui. Evidentemente entrambe le parti lo stimano molto e tengono in grande considerazione le sue opinioni. «Signore, gli scrive Du Plessis, se le nostre lettere vi piacciono, le vostre ci recano giovamento, e voi sapete quanto il giovamento superi il piacere». Il ruolo di Montaigne divenne attivo e personale soprattutto quando fu necessario combattere la Lega. Enrico di Navarra era divenuto erede presuntivo della corona a seguito della morte del duca d’Alençon. I due re si riconciliarono, e si poteva ancora sperare che facessero causa comune contro i ribelli. A Bordeaux, il governatore del castello Trompette, Vaillac, era della Lega e meditava di consegnare la città ai suoi. A Matignon spettava il compito di sventare gli intrallazzi di Vaillac, ma lo fece con l’aiuto e i consigli del sindaco di Bordeaux, e nel saggio I, XXIV si vede come il sindaco seppe darne di energici. E quando Matignon s’allontana, tutta la responsabilità ricade su di lui. Due lettere al luogotenente generale, datate 22 e 27 maggio, ce lo mostrano mentre paga di persona senza risparmio: passa «tutte le notti o per la città in armi, o fuori città sul porto». E se chiede a Matignon di tornare al più presto, reputando necessaria la sua presenza, lo assicura peraltro che non risparmierà né la sua «attenzione né, se occorre, la sua vita, per mantenere ogni cosa nell’obbedienza del re».
Essendo in città scoppiata la peste mentre Montaigne soggiornava nel suo castello, egli non rientrò a Bordeaux allo scadere della sua carica per riconsegnare le chiavi ai magistrati municipali, e pregò che venissero da lui. Noi forse avremmo preferito vederlo gettarsi eroicamente nel pericolo, per portare aiuto a una popolazione decimata. Ma il suo stile non era quello di un Belzunce. Aveva già mostrato che il coraggio non gli mancava quando doveva darne prova. Non lui, ma i magistrati dovevano prendere provvedimenti in quella circostanza. La restituzione delle chiavi era solo un rituale, privo di utilità. D’altronde nessuno allora pensò di rimproverargli la sua condotta, che era conforme agli usi di un’epoca in cui la peste infieriva così sovente nelle nostre grandi città.
I mesi seguenti furono atroci. L’esercito nemico che devastava il Périgord era giunto alle porte di Montaigne. I «saccheggiatori» erano ancor più temibili. Il feudo di Montaigne fu completamente distrutto sino «alla speranza». Ogni sera egli si coricava temendo di essere assalito nella notte. La peste sopravvenne a sua volta con violenza inaudita. I suoi contadini morivano in massa. La malattia infierì fin nella sua casa. Dovettero fuggire, e per sei mesi Montaigne fece da guida alla sua piccola compagnia nomade.
Nel febbraio del 1586, finalmente, lo ritroviamo tornato a casa, mentre legge una storia dei principi di Polonia. Ritrovata la quiete, riprende con lena la composizione degli Essais.

Il successo l’aveva incoraggiato nel suo progetto di descrivere se stesso e aveva in lui messo a tacere i timori di un tempo.
Ora rilegge i capitoli composti intorno al 1572 e, in maniera sistematica, introduce in ciascuno di essi qualche confidenza personale: saranno così meno lontani dalla concezione che ha in lui prevalso. Ma specialmente la vita di Montaigne e la sua esperienza pervadono in larga misura i nuovi Essais, quelli che costituiranno il terzo libro. Tre fra i migliori – il IX, il X e il XII – hanno per temi gli avvenimenti che hanno segnato la sua vita a partire dal 1580, ossia: il viaggio, la carica di sindaco e i flagelli dell’anno 1585. Egli si propone di trarne degli insegnamenti. Altri due, il III e l’VIII, ci presentano il suo ideale di vita mondana. In altri, il cui argomento è apparentemente più oggettivo, le confidenze – persino le più segrete – affluiscono ben presto in quantità. La forma, che è quella di una conversazione slegata, briosa, calda, finisce col plasmarsi su tale materia, creando un tipo d’arte inedita nella nostra letteratura.
Perciò la filosofia morale che Montaigne ora ricava direttamente dalle sue esperienze personali è per l’appunto modellata sulla sua natura2. Continua a nutrirla degli esempi e dei precetti degli antichi, ma gli antichi, anziché ingannarlo su lui stesso e distoglierlo dal suo io, ora l’aiutano ad appropriarsene. Quindi non ha più nulla dell’arroganza di un tempo. La morte non è più per lui il fine della vita, ne è soltanto la conclusione. Essa più non giudica tutta la nostra condotta passata. La preparazione alla morte, un tempo così imperiosamente prescritta, ora gli sembra contraria al fine ch’essa si propone: anziché confortare gli ultimi istanti dell’uomo, glieli rende più dolorosi. Per evitare le sofferenze causate dalle passioni, non c’è più bisogno di trincerarsi nell’egoistico isolamento ch’egli un tempo raccomandava; basta distogliersene. Adesso oppone Socrate a Catone, e Socrate è di gran lunga il preferito. Diffida della ragione ponderata e della cultura, e cerca i suoi modelli di saggezza nei contadini del Périgord, quelli che ha visto soffrire e morire con tanta semplicità nella terribile peste del 1585. Ma soprattutto riabilita il corpo e i suoi piaceri naturali, e mentre una volta pretendeva che l’anima, disprezzando il suo compagno, ne rimanesse separata, oggi invece raccomanda una loro stretta unione. «Seguire la natura» era il grande precetto comune a quasi tutte le scuole di pensiero antiche, che ciascuna interpretava in modo diverso. Riprendendolo per sé, Montaigne gli dà un’interpretazione conforme alla sua propria natura, attingendo d’altronde a destra e a manca quel che gli conviene nelle interpretazioni antiche.
Il fatto è che, nel fondo di ognuno di noi, dietro i fenomeni perpetuamente mobili che ci fanno sembrare così instabili e diversi, esiste una «forma maestra», una personalità solida che gli avvenimenti non modificano affatto. Ecco la pietra di paragone su cui ha collaudato le sue regole di condotta, e ha riconosciuto che esse erano convenienti per lui. Ma se esse sono propriamente adeguate a lui solo, adesso proclama ad alta voce, a differenza del 1580, che possono servire anche agli altri. Sostiene di voler essere utile ai suoi lettori e non dice assolutamente più che scrive per gli amici e i parenti. Se noi siamo completamente diversi gli uni dagli altri in certe cose, è anche vero che, per altri aspetti, ci somigliamo tutti, e di conseguenza l’esperienza di ogni uomo può essere in qualche misura utilizzata da tutti gli uomini. Un tempo diceva: so bene che la mia vita, quella che descrivo, non è la vita di un Cesare, e non ha nulla che possa interessarvi; perciò, lettore, io non ho la pretesa di pensare a te. Oggi invece dice: «Io propongo una vita modesta e senza gloria; è la stessa cosa: tutta la filosofia morale accompagna altrettanto bene una vita da popolano e da privato quanto una vita di rango superiore; ogni uomo porta in sé la forma intera della condizione umana». Tutte le esistenze sono, in qualche modo, avviluppate nella sua propria esistenza. Dal momento che «ogni uomo porta in sé la forma intera della condizione umana», egli non deve far altro che descriversi, descrivendo così l’uomo in generale. Tale concezione lo spinge a mostrarci, nella sua descrizione, non quello che ha di più individuale, ma, viceversa, quel che trova in sé di più umano, ossia quello che riguarda tutti gli uomini.
In ciò consiste propriamente il metodo di cui Montaigne espone i principi nel saggio III, II, e soprattutto nel saggio III, XIII, De l’experience, che mirabilmente inquadra il suo atteggiamento intellettuale. Non è senza motivo che egli abbia posto quel capitolo dopo tutti gli altri. La sua sfiducia nella ragione raziocinante non è diminuita. Ogni verità deriva dall’esperienza. Gli esempi, per i nostri eruditi, valgono solo se stampati, traggono dai libri tutta la loro dignità. Tuttavia, il più piccolo esempio che colgo guardando vivere un contadino al villaggio mi fornisce tanti insegnamenti quanti sono quelli che Cesare ha lasciato scritti per la posterità, e vale ancor di più perché posso controllarlo. Un pensiero vale esattamente nella misura in cui è libero da ogni forma d’autorità e subordinato soltanto ai fatti. Forse è difficile costruire sui fatti, perché questi sono tutti dissimili fra loro: in natura non ci sono due uova assolutamente identiche. Ogni cosa è unica per qualche suo aspetto. Non dimentichiamolo, ma costruiamo lo stesso, avendo cura soltanto di misurare in conformità la portata e la generalità delle nostre conclusioni. Ecco il punto di vista di un moralista alle prese con l’infinita varietà dei fenomeni della coscienza, ma che è riuscito a padroneggiare tale diversità assoggettandola alle esigenze di un pensiero positivo. Con questo si spiega anche la fermezza di alcune fra le più originali conclusioni di Montaigne. Per esempio la condanna dei processi per stregoneria intentati in gran numero ai suoi tempi (III, XI): egli ha cercato di esaminare i fatti imputati alle streghe, e ha visto perfino nelle loro affermazioni soltanto illusioni, allucinazioni e menzogne.
Il terzo libro, più omogeneo rispetto ai primi due, è anche il più compiuto, quello che davvero rende l’opera, secondo l’espressione di Montaigne, «consustanziale» alla vita, ed esprime quella che può definirsi la filosofia del suo progetto.

Nel febbraio del 1588, Montaigne partì per Parigi. Un editore bordolese non gli bastava più. Portò infatti il suo libro al grande stampatore parigino Abel Langelier, che in giugno avrebbe pubblicato la quinta edizione degli Essais, comprendente per la prima volta il libro III, con numerose aggiunte ai due primi. Durante il viaggio fu sorpreso dai banditi nella foresta di Villebois, e derubato del suo bagaglio. A Parigi, nel mese di luglio, i fautori della Lega, che erano divenuti padroni della città, lo fecero imprigionare alla Bastiglia, ma fu rilasciato la sera stessa, grazie all’intervento della Regina madre. Conobbe poi Marie Le Jars de Gournay che chiamerà sua figlia acquisita, e andò due volte a farle visita nel suo castello in Piccardia. Durante il viaggio di ritorno, si fermò presso gli Stati generali di Blois, ove incontrò Estienne Pasquier che gli rimproverò certe guasconate degli Essais. Alla fine di novembre, o a dicembre, fece ritorno a Montaigne.
Non sappiamo in che cosa consistesse quel «servizio del re» per il quale, ci vien detto, fu all’epoca «trattenuto in Guienna». La simpatia per il re di Navarra e lo scrupoloso attaccamento all’ordine legale avevano dovuto talora fare a pugni nella sua coscienza. Presto però si sarebbero riconciliati quando i due re si allearono (nella primavera del 1589) contro il nemico comune, la Lega, e insieme marciarono trionfalmente su Parigi; e ancor meglio quando, caduto Enrico III sotto il coltello di Jacques Clément, Enrico di Navarra divenne re di Francia. Ma se Montaigne plaudiva ai successi del giovane sovrano e forse gli dava suggerimenti di clemenza e di saggezza, non sembra peraltro essersi curato di rientrare nella vita attiva. Probabilmente Enrico IV l’avrebbe volentieri chiamato presso di sé. Due belle lettere che il filosofo gli scrisse nel corso dell’anno 1590 spirano una totale devozione nei confronti del monarca e insieme la ferma volontà di resistere alle sue lusinghiere proposte. Aveva poco più di cinquantacinque anni e, certi giorni, «spronava» ancora «dietro i suoi cani con giovanile e sfacciato ardore». Tuttavia gli attacchi della sua calcolosi divenivano sempre più frequenti e dolorosi e l’udito «s’appesantiva». Per quanto fosse socievole, era ormai tempo per lui, pensava, di «abbandonare la società», di «ritirarsi e raccogliersi nel suo guscio come le tartarughe»; più a lungo di una volta si isolava nella sua torre per riflettere sul dolore e sulla morte che s’avvicinava. «Per quel momento, io mi trovo in una condizione tale che, grazie a Dio, posso andarmene quando a lui piacerà, senza il rimpianto di nulla. Io mi distacco da tutto. I miei addii sono da poco accolti da tutti, tranne che da me. Mai un uomo si preparò a lasciare questo mondo più semplicemente e interamente, e se ne separò più completamente di quanto mi aspetto di fare… Il più lungo dei miei progetti non arriva a un anno; ormai penso soltanto alla fine, mi libero da ogni nuova speranza e iniziativa, mi congedo da tutti i luoghi che lascio, e ogni giorno rinuncio al possesso di ciò che ho».

In virtù di queste circostanze, dopo il 1588 il libro si è considerevolmente arricchito. Non vi sono nuovi saggi: l’esperienza di Montaigne non si è molto rinnovata. Si accontenta di riempire di aggiunte i larghi margini di un esemplare di Langelier.
Rimanendo fedele al progetto di descriversi, accresce gli Essais con tutte le meditazioni che la sua attuale condizione gli suggerisce, e approfondisce, tanto a beneficio del lettore quanto per suo uso individuale, la concezione della saggezza che gli abbiamo visto trarre dalla sua personale esperienza. Nel contempo, divenuto più consapevole che mai dell’originalità della sua forma, sparge con larghezza inusitata metafore, antitesi, proverbi popolari, gustosi neologismi, insomma tutti quei caratteri che fanno del suo stile un «parlare succoso e nervoso», e insieme familiare e spontaneo.
Soltanto, se Montaigne legge più spesso nel libro della sua vita, e con maggiore attenzione, forse per passare il tempo contrae pure l’abitudine di leggere assai di più nei libri stampati. Ora ha l’agio e la pazienza di studiare da cima a fondo, per esempio, tutta l’opera di Platone nella traduzione di Ficino, e anche le opere filosofiche di Cicerone. Legge ugualmente altre opere d’ampio respiro, e certo non si perita abbastanza di informare il lettore delle scoperte che vi fa. Molte di esse concorrono al suo progetto: gli danno l’occasione, per imitazione od opposizione, di acquisire un maggior controllo delle sue idee o di perfezionarne l’espressione. Sfortunatamente perciò, troppo spesso esse apportano al testo un sovraccarico non sempre esente da quel sentore di pedanteria di cui, un tempo, non si curava abbastanza. Che ne è ora del suo proposito di «parlare solo in maniera arguta», e che pensa, rileggendole, delle proprie canzonature circa l’abuso delle citazioni?
Eccolo soprattutto ingarbugliarsi in digressioni attraverso le quali il lettore farà molta fatica ad orientarsi. Il procedimento delle aggiunte sui margini, personali o prese a prestito, invitava a sviluppare i particolari per se stessi senza subordinare le parti al tutto. «Io, dice, che mi preoccupo più del peso e dell’utilità dei discorsi che non del loro ordine e successione, non debbo aver timore di mettere là, un poco in disparte, una storia bellissima. Quando esse sono provviste di una loro intrinseca bellezza e possono davvero reggersi da sole, mi basta un nonnulla per unirle al mio discorso3… Gli argomenti belli trovano sempre una loro collocazione, ovunque li si dissemini». Troppo spesso però il disordine non suscita più un’impressione d’arte, ma di trascuratezza […].

Quando s’approssimò la morte, il 13 settembre 1592, il saggio era pronto ad accoglierla. Era uomo legato alle tradizioni; morì da cristiano, a quanto ci assicura Estienne Pasquier, così come era morto La Boétie. Colpito da una paralisi alla lingua, da tre giorni non riusciva a comunicare con i suoi se non per iscritto. «Fece dir messa nella sua stanza e, quando il prete arrivò all’elevazione del Corpus Domini, il povero gentiluomo si slanciò come poté, a corpo morto, sul letto con le mani giunte, e con quest’ultimo gesto rese l’anima a Dio».
Tale morte, priva, sembra, di ogni angoscia per l’aldilà e secondo il rito cristiano, è proprio quella che gli Essais già facevano prevedere. In Montaigne convivono due uomini: un formidabile spirito critico che scalza senza pietà dalle fondamenta tutte le istituzioni, e un conservatore cocciuto che subito dopo le riassesta. L’uno è il prodotto delle tante diverse correnti di pensiero che hanno scosso il Rinascimento; l’altro s’è rafforzato dinanzi allo spettacolo delle miserie e degli eccessi delle guerre di religione. La riconciliazione è avvenuta a vantaggio del secondo che, saldamente rafforzato nei suoi principi d’azione, ha lasciato al primo completa libertà nell’ambito del pensiero. Giacché questa conciliazione è forse un po’ difficile da immaginare al di fuori delle circostanze temporali che l’hanno determinata, non fa meraviglia che, in seguito, Montaigne sia stato così di frequente visto, a torto, come un filosofo scettico e distruttivo; e ci si deve aspettare che i critici non s’accordino sempre completamente sul suo atteggiamento.
Ma, descrivendo il movimento del suo spirito nel corso dei vent’anni in cui sono stati composti gli Essais, abbiamo forse rimosso talune contraddizioni in cui incappava la critica. Credo di aver mostrato in particolare che il suo scetticismo, ove per due secoli si è vista l’ultima parola della sua filosofia, è in realtà solo un aspetto del suo pensiero. L’ha superato e ha dato prova di una ben consapevole sottomissione ai fatti, a cui dobbiamo il suo mirabile buon senso e alcune fra le sue idee più originali.
La sua grande originalità, sulla quale forse si concorderà facilmente, è quella di aver presentato ai contemporanei un modello di saggezza umana organizzata secondo i soli lumi della ragione. Nel Cinquecento, nessuno si è spinto oltre nella scoperta dell’uomo, che è la più bella conquista del Rinascimento […]. Per aver descritto l’uomo in generale in un solo individuo, Montaigne è l’iniziatore della nostra letteratura secentesca; e per aver trasferito nell’anima umana il centro della speculazione filosofica, egli è il precursore dei grandi filosofi moderni.
(Pierre Villey)4

Note

  1. Mi è stato rimproverato di aver attribuito a Montaigne un’anima stoica. Critica esclusivamente verbale: quando ho pronunciato la parola stoicismo a proposito di Montaigne, ho avuto cura di precisare l’accezione in cui usavo il termine, che è l’accezione in cui l’usavano molti contemporanei di Montaigne. Ho detto che Montaigne, per temperamento, era il contrario di uno stoico, e che mai si è proposto di far rivivere una dottrina antica piuttosto che un’altra, ma soltanto lo spirito che le accomuna. Ho detto altresì che Seneca, di cui in questo periodo è fervente discepolo, spesso s’ispira tanto ad Epicuro quanto agli stoici. Ma, giacché il termine si è prestato a fraintendimenti, è probabilmente preferibile evitarlo (N.d.A.).
  2. In questa sede non possiamo esporre la filosofia di Montaigne: il lettore potrà ricavarla da alcuni orientamenti qui presenti. Per questo argomento si rimanda al nostro studio su Les sources et l’évolution des Essais [Paris, 1908-1909, 2 voll.] e alla pregevole opera di Lanson [Les Essais de Montaigne. étude et analyse, Paris, 1929] (N.d.A.).
  3. In verità, quest’ultima frase si legge soltanto nell’edizione del 1595, ma essa esprime alla perfezione lo stile di Montaigne a quel tempo (N.d.A.).
  4. Giusto cent’anni or sono, l’Académie Française conferisce il prestigioso prix Sentour a Pierre Villey (1879-1933) per Les Sources des Essais (Bordeaux, 1920), un’opera d’immane erudizione e, nel contempo, d’intelligenza non comune tuttora imprescindibile, quanto meno, per gli studiosi. Nato il 15 ottobre del 1879 a Caen in una famiglia coltissima e influente, Villey, nonostante la tragica cecità che lo colpisce a quattro anni, dedica senz’altro le sue energie migliori alla letteratura francese del Cinquecento e, segnatamente, al Michel de Montaigne degli Essais. Parallelamente, insegna con soddisfazione a Clermont-Ferrand e all’Università di Caen (Facoltà di Lettere) e dà alle stampe diversi testi decisivi sul mondo dei ciechi: non per caso, d’altronde, già negli anni di studio aveva tradotto in braille il magnum opus del “suo” Montaigne. Nel breve ma denso saggio che qui proponiamo, per la prima volta in traduzione italiana, l’infaticabile filologo d’Oltralpe compendia egregiamente parecchi degli approdi storico-critici raggiunti nelle maggiori sue fatiche.

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