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Cenni storici su alcuni strumenti giuridici aggregativi in occidente
di , numero 52, dicembre 2021, Didactica, DOI

Cenni storici su alcuni strumenti giuridici aggregativi in occidente
Come citare questo articolo:
Luca Petroni, Cenni storici su alcuni strumenti giuridici aggregativi in occidente, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 52, no. 26, dicembre 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.9666

1. PREMESSA STORICO-CRITICA
Si è soliti affermare che una organizzazione sociale emerge e si sviluppa quando un gruppo di persone, superato il nomadismo, si aggrega in base a valori consolidati, su un territorio considerato proprio dalle medesime e su esso permangono in modo coeso e stabile; infatti, la comunità presuppone dei soggetti e tende a produrre un insieme di regole1 che ne disciplinano almeno la disponibilità e la gestione dei beni, le attività svolte all’interno e nell’interesse degli individui o del gruppo nonché i rapporti intersoggettivi primari, funzionali alla sopravvivenza e consolidamento della comunità.
Tale tipo di disposizioni, originariamente condivise dalla comunità oppure imposte da qualche soggetto dominante, giungono a prospettare degli organi, inizialmente eventuali e saltuari, poi stabili e riconosciuti come estrinsecanti una autorità funzionale – poi progressivamente specializzata – a gestire i rapporti tra singoli o tra chi compone i possibili vari gruppi all’interno della comunità.
Questa giunge così a produrre quelle regole che prefigurano la condotta reputata necessaria per una convivenza ordinata da parte di soggetti aggregati e destinatari delle medesime. Questo insieme di regole – consuetudinarie e poi anche scritte2 – diventano le norme3 di quel gruppo sociale: cioè una comunità ormai organizzata che tramite proprie disposizioni consente, impone, ignora, premia, punisce, sollecita, difende, controlla la condotta dei soggetti singoli o associati – o anche esterni – e applicandole, caso per caso, mediante propri organi. I quali erano composti da persone eminenti o carismatiche spontaneamente interpellate o incaricate dal gruppo per fronteggiare questioni contingenti o saltuarie, in una prima fase; per poi risultare consolidati e progressivamente istituiti o addirittura specializzatisi a risolvere soltanto particolari controversie.
Inizialmente, infatti, tutte le regole espresse dalla collettività – morali, religiose, tecniche, sociali, militari – tendevano a coincidere con le prescrizioni accettate dalla comunità. Soltanto a seguito della evoluzione della stessa, le varie disposizioni erano poi risultate differenziate rispetto a quelle presunte conformi al volere degli dei: difatti, originariamente, le regole erano quelle abitudinariamente considerate corrispondenti alle condotte gradite dalle divinità; pertanto, le correlate decisioni sulla loro volontà dovevano essere decifrate o interpretate – tramite le autorità religiose – e da queste poi rivelate al popolo o all’interessato, per indicargli la disposizione da attuare o la condotta a cui attenersi.
Per contro, a seguito della progressiva evoluzione organizzativa e culturale di Greci e Romani, la comunità o i notabili della stessa avevano scisso il ruolo dei sacerdoti e degli auguri da quello dei legislatori e dei giureconsulti; cosicché, infine, le norme risultavano direttamente prodotte e comunicate dalla volontà espressa dal popolo o dai suoi esponenti: solitamente, durante le assemblee convocate per assumere decisioni imputabili a esigenze di sopravvivenza della aggregazione, di tutela dei beni e degli interessi pubblici, di valori consolidati o di comportamenti individuali percepiti e condivisi in funzione della difesa e dello sviluppo del gruppo ormai consolidato. Queste decisioni erano denominate leggi4 poi accolte e riconosciute vincolanti5 e fatte applicare da appositi soggetti (inizialmente da notabili o da anziani oppure da chi era già preposto a svolgere tali incarichi di interesse comunitario).
Durante i secoli, l’evoluzione del gruppo primitivo in una società sempre più varia e complessa era giunta ad attribuire il compito di ottenere – da un lato – il favore delle divinità per il benessere e la salvaguardia della intera comunità o il perfezionamento interiore, la salvezza dell’anima e la indicazione delle regole etiche a strutture religiose; mentre – dall’altro – quelle giuridico-organizzative miravano a garantire al gruppo: la difesa esterna, le opere infrastrutturali primarie, la tutela reciproca delle azioni private, gli interessi e valori più rilevanti e l’ordinata convivenza; cioè quella condotta ritenuta condivisa, però eventualmente imposta e sanzionata, purché conforme alle norme divenute giuridiche, perciò vigenti per quel gruppo sociale.
Risultato da perseguire tramite la creazione di regole che configuravano: diritti, doveri, oneri per la condotta dei singoli; nonché tramite strutture operative funzionali ad applicare quelle norme aventi rilevanza generale. Organi ormai finalizzati a concretizzare interventi di protezione, repressione, certificazione e sostegno per ogni altra attività favorevole o sfavorevole verso i singoli componenti, gruppi di essi o la intera collettività. Si giunge dunque, attraverso cicli storici favorevoli o non, a un insieme di organi, di poteri e di compiti che conducono verso un assetto di soggetti autoritativi e di regole che possono risultare concordate con o fra i rappresentanti della comunità ovvero imposte da chi detiene un potere non discutibile oppure revocabile o limitato da uno scopo o da un periodo.
Quindi, noi siamo in presenza di norme giuridiche quando dei vincoli reciproci sorgono e incidono su più soggetti, in base ad un insieme di disposizioni (leggi) riconosciute prodotte dai medesimi, direttamente – cioè da un loro organo assembleare omni-partecipativo) o indirettamente (cioè rappresentativo, ma composto da soggetti pre-eletti) oppure imposte a loro da altre forme di autocrazia (p. es. dittatore o sovrano assoluto) e rese vigenti sul territorio e verso ogni persona o comunità interna o esterna a questo gruppo sociale. Le situazioni e i fattori sopra tratteggiati configurano le origini più ricorrenti da cui tale insieme di regole giuridiche discende, ovvero il diritto6 che disciplina la società ormai stabilmente costituitasi.
Le società giuridicamente più evolute hanno concepito, redatto e formalizzato a partire dal XX° secolo, un sistema costituzionale che stabilisce – tramite una legge fondamentale e sopra-ordinata al potere dello stato (tradizionalmente tripartito in legislativo, amministrativo e giudiziario) – i valori primari ai quali ogni organo deve conformarsi.
In questo sintetico elaborato si accennerà, in particolare: al potere legislativo, a chi esso compete (la Repubblica Italiana lo riconosce al parlamento europeo e a quello italiano, alle assemblee regionali e a due provinciali), alle procedure con cui lo si esercita, a quali ambiti di materia si riferisce e come li suddivide, a quali sono i rapporti fra i vari organi previsti nel testo costituzionale, a quale rango appartengono le fonti del diritto (ossia quale gerarchia vige fra queste norme: costituzionali, statali, regionali, decreti del Presidente della Repubblica o governativi, regolamenti di enti locali, etc.); ai rapporti fra i correlati organi, ai diritti civili, economici e sociali, alla impugnativa di leggi presunte incostituzionali benché approvate dalla assemblea competente, etc.
Soffermiamoci allora, sia pur molto brevemente, sulle Costituzioni e sulla loro natura: si riscontrano, infatti, costituzioni “rigide” ovvero quelle che possono essere modificate soltanto attraverso procedure specifiche e aggravate rispetto alle costituzioni “flessibili” cioè quelle modificabili da procedure di leggi ordinarie, nonché quelle consuetudinarie in toto o in parte non scritte oppure costituite da più leggi; tutte contenenti, comunque, norme gerarchicamente primarie rispetto a tutte le altre norme anche se contenute in leggi ordinarie. Infatti, i testi costituzionali dispongono l’insieme degli organi istituzionali e dei loro rapporti (dall’Ottocento, parlamento, governo e magistratura si suddividono i tre poteri supremi), la loro organizzazione, le loro competenze, i modi per controllare i medesimi, le procedure sulla produzione di norme subordinate a quelle costituzionali… l’insieme dei principi fondamentali vigenti per quella comunità (esplicitati da quegli stessi testi o da leggi di rango costituzionale previste dai medesimi o di essi attuative) che tracciano l’assetto politico sino a determinare – in base a diversificate teorie giuridico-costituzionali – la forma dello Stato7 e definire le forme di Governo. Difatti, in Italia, la Costituzione – scritta dalla Assemblea Costituente, fra il 1946 e il 1948 – prevede più ordinamenti giuridici quali fonti di norme vincolanti ma tra loro sopra-pari-sotto ordinati (Unione Europea, Stato, Regioni, Provincie autonome, Città metropolitane, Comuni); perciò, sovranità e autonomia dei rispettivi organi coesistono o si contrappongono oppure si integrano allorché giungono a contatto, tuttavia, rispettandosi in base alle disposizioni costituzionali vigenti.
Sottese a queste constatazioni, due domande si pongono rispetto al fenomeno giuridico. Primo quesito: un ordinamento nasce dalla organizzazione sociale che produce il diritto o, viceversa, ogni ordinamento produce il proprio diritto e, conseguentemente, costituisce l’organizzazione sociale? Storicamente, le piccole iniziali comunità si sono scontrate o accorpate definendo chi sarebbe poi giunto a configurare una autorità; però, al contempo, definendo pure le norme per organizzarla e poi delimitarla, fino a stabilire, sinora, l’attuale principio di tripartizione dei poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) finalizzata alla perimetrazione e al controllo dell’esercizio del potere da parte di uno Stato. Quindi si potrebbe riconoscere il gruppo sociale come produttore di un ordinamento giuridico che poi tende a riconoscere o costituire o modificare quel proprio iniziale assetto socio-normativo verso uno più autoritativo o verso uno demo-pluralista, giuridicamente delineato.
Secondo quesito: se un ordinamento può imporre qualsiasi norma oppure, invece, se è ancorato necessariamente a una preesistente gerarchia di valori affermati quali principi naturali – non scritti ma universali, innati e inderogabili – estrinsecati come divieti: limiti all’arresto arbitrario, alla pena capitale, alle torture; o come diritti: dignità umana, pluralismo ideologico, proprietà… Principi rispetto ai quali nessuna persona, né alcuna autorità può sottrarsi neppure in caso di controversie tra loro.
In merito, si afferma ormai che qualsiasi collettività può affermarsi e imporre le proprie autorità e le connesse norme prodotte in quello spazio e in quel tempo: dunque, quello risulta il diritto vigente in quel contesto sociale. Tuttavia, dopo la diffusione in Europa del giusnaturalismo e della Carta dei diritti universali dell’uomo e del cittadino8 durante il XVII e XVIII secolo, il principio dell’origine dal popolo tanto di ogni autorità quanto del principio asserente il doveroso rispetto dell’opinione altrui etica, religiosa e politica così come di ogni altra diversità nei rapporti tra individui appaiono ormai consolidati, condivisi e lentamente ma progressivamente applicati.
Questa evoluzione storica del pensiero giuridico si sta diffondendo in particolare tramite quegli stati o organizzazioni sopra-nazionali ispirati da principi economici e culturali che attualmente definiamo social-liberali o tipici delle società occidentali.

2. Forme di Stato e di Governo
Allora, per ricapitolare quanto precede e poi procedere ad altri riscontri giuridico-istituzionali, occorre sintetizzare il concetto di Stato; in estrema sintesi, esso presuppone le seguenti e tradizionali componenti: un popolo, un territorio, l’esercizio della sovranità (intesa come supremazia su ogni altro potere interno alla collettività, quale indipendenza da poteri esterni, più la capacità di esserne riconosciuto). In Europa, la nascita degli Stati intesi come assetto politico-territoriale, oltreché amministrativo e bellico, risale al trattato di Westfalia conseguente alla guerra dei Trent’anni (1618-1648) che aveva dilaniato la società dell’Europa centro-settentrionale militarmente, moralmente ed economicamente.
Questi stati (conseguenti alla disgregazione dell’Impero Romano, alla successiva invasione e formazione dei regni c.d. barbarici, al loro tracollo e alla trasformazione del territorio europeo in feudi, assorbiti prima nel Sacro Romano Impero carolingio e dopo sottoposti agli Ottoni, poi concentrati negli imperi di Federico di Svevia e di Carlo V o in leghe militari o commerciali o in potenti comuni o signorie o in regni sempre più vasti come Francia, Inghilterra, Russia, Spagna e Svezia) si erano infine affrancati dal papato e dall’impero, mentre altri erano emersi o si erano costituiti (Provincie Unite, Austria, Danimarca, Portogallo, Polonia, Ungheria, e Prussia in Europa e – in Italia – Piemonte, Repubblica Veneta, G. D. di Toscana, Stato della Chiesa e Regno di Napoli), ciascuno giungendo a creare amministrazioni civili, finanziarie, giudiziarie e militari davvero consolidate; nonché a estendere, progressivamente, le proprie competenze alla cura politica – intesa come direzione della collettività e della organizzazione – di tutti gli interessi generali (infrastrutture e gestione del territorio, attività produttive e commercio, giustizia e ordine pubblico, relazioni internazionali e attività militari, sanità, istruzione etc.) riscontrati sul loro territorio o per la comunità che gestivano e a cui si sentivano preposti o di cui intendevano mantenere o acquisire la legittimazione; in taluni casi, caratterizzandosi tramite la partecipazione dei cittadini all’esercizio della sovranità9 quanto all’esercizio del potere amministrativo, ripartendolo fra livello centrale e livello locale.
Ogni aggregazione sociale che si era evoluta in una struttura statale aveva acquisito delle caratteristiche rispetto alle quali si individuano adesso varie forme di stato – cioè il rapporto che intercorre fra il popolo e le istituzioni a cui è sottoposto e i modi con cui lo stesso può conferire o condizionare il potere legislativo, esecutivo e giudiziario conferito o riconosciuto alle medesime e come questo è esercitato sul proprio territorio, nonché rispetto a ogni altro Stato – il quale potrebbe essere qualificato, in estrema sintesi e applicando tradizionali criteri occidentali, come segue:
Stato Federale > presuppone la aggregazione di più Stati tramite un accordo – solitamente volontario – definito costituzione federale la quale stabilisce gli organi federali e la legge per eleggere gli stessi, le competenze affidate ai medesimi (politica militare, politica estera, moneta, reati federali, etc.), mentre ne riconosce altre, importanti, ai singoli Stati federati (diritto di famiglia, diritto penale, infrastrutture locali, fiscalità, etc.) ovvero ne prevede alcune che possono risultare condivise (p. es. la protezione civile). Ogni stato federato può avere una costituzione propria, ma subordinata a quella federale: pertanto le norme e le modifiche alla medesima non possono confliggere con la costituzione federale; mentre le revisioni di questa ultima devono essere condivise con gli stati federati o essere approvate da un assemblea o altro specifico organo rappresentativo dei singoli stati; inoltre, ognuno di questi ha competenze esclusive su alcune materie e pertanto legislazione, polizia e attività giurisdizionale proprie; inoltre, ogni Stato ha il diritto di nominare i propri rappresentanti alla camera federale cioè quella rappresentativa degli Stati, competente sulle materie attribuite allo Stato federale e distinta da quella eletta dai singoli cittadini. Talvolta il capo dello stato è eletto ricorrendo alle camere già elettive, talvolta questa carica suprema è invece scelta direttamente dal popolo ma, a tutela della democrazia e del pluralismo, questo chiamato a elezioni intermedie durante il mandato presidenziale. Il caso più noto di stato federale è rappresentato dagli USA, ma occorre segnalare come altri Stati federali presentano concezioni, organi e ripartizioni di competenze assai diverse. Per esempio, la Svizzera non ha un capo di stato né di governo, ma è retta da un Direttorio avente la presidenza affidata annualmente e a rotazione; o la Malesia, federazione composta da più stati federati, alcuni dei quali retti da monarchie mentre altri configurano delle repubbliche.
Unione Europea > prospettiva federale concepita su base democratica, durante la seconda guerra mondiale, da alcuni intellettuali antifascisti confinati a Ventotene10; attualmente l’unico organo rappresentativo eletto dalla cittadinanza, in ogni stato membro, è il parlamento europeo11. Adesso, la U.E. si configura quale organismo sopra-nazionale anomalo poiché caratterizzato da poteri talvolta vincolanti ogni Stato appartenente, ma limitatamente a poche competenze: moneta unica, libera circolazione di merci, capitali e persone, passaporto unificato, etichetta commerciale etc.; per contro, ogni altra decisione è affidata a trattative di volta in volta attivate dai propri organi composti dai rappresentanti di interessi contrapposti fra i singoli Paesi membri e su cui solitamente occorre la unanimità di tutti i membri per addivenire a una decisione vincolante e vigente in tutti gli Stati: quindi, essi ricadono spesso in una reciproca paralisi. In effetti, la Unione europea è ancora lontana da concretizzare una politica estera, amministrativa, fiscale, militare e sanitaria uniforme ovvero a istituzionalizzare organi specifici sopra-ordinati a ogni stato membro e finalizzati alla gestione uniforme di una politica condivisa ed effettivamente comune.
Stato unitario > questo è caratterizzato dalla concentrazione dei poteri legislativo amministrativo e giurisdizionale in organi centralizzati che si ramificano a livello locale, tramite una catena gerarchica legata all’organo centrale (p.es. ministero e prefetture); esso non ammette ripartizioni delle proprie competenze per materia, valore o ambito territoriale con altri organi autonomi; storicamente, soltanto le amministrazioni comunali detengono attribuzioni proprie, però, abitualmente condizionate dai finanziamenti che derivano dallo Stato e non da fonti finanziarie sufficienti e proprie.
Stato confessionale o ideologico > quando gli organi dello Stato – con struttura fortemente centralizzata – derivano dalle indicazioni delle autorità religiose o di quelle politiche, sostanzialmente incontestabili; lo stesso trae le proprie leggi dai precetti rivelati e contenuti in testi sacri oppure in testi depositari di dottrine ideologiche.
Stato regionale > tipica evoluzione degli Stati centralizzati dell’Europa occidentale (Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Inghilterra e altri Stati scandinavi) in cui si constata il passaggio verso forme di autonomia più o meno marcata attribuite agli organi abitualmente corrispondenti almeno alle ripartizioni territoriali degli stati storici preesistenti (quelli pre-unitari in Italia, quelli tardo-medioevali in Spagna). In Italia, le regioni sono inserite ma non “riconosciute” dalla costituzione; correlatamente, il loro atto fondamentale organizzativo (lo statuto) deve essere approvato da una legge del parlamento centrale e le competenze legislative e amministrative a loro attribuite sono quelli esplicitamente indicate dalla costituzione, mentre le rimanenti competenze possono essere ripartite fra Stato e le Regioni; oppure, risultano essere riservate esclusivamente allo Stato. Inoltre, le Regioni non hanno una rappresentanza nel Parlamento: infatti, soltanto alcuni propri eletti vi accedono con diritto di voto unicamente per le elezioni del Presidente della Repubblica, né esiste una loro Camera rappresentativa alla quale spettano le decisioni sulle attività o materie concernenti le Regioni; infine, queste non sono ammesse alle procedure di revisione costituzionale come invece avviene negli stati federali.
Qualche accenno, adesso, a una panoramica classificazione delle forme di governo; ovvero dei modi di gestire l’indirizzo politico (di maggioranza, espressa da una monarchia, da una oligarchia, da una democrazia) e di suddividere l’esercizio dei poteri pubblici solitamente fra capo di stato, parlamento e governo, controllati anche dal corpo elettorale e dalla magistratura ordinaria o costituzionale.
> si definisce “assolutismo” la forma di governo in cui la individuazione dei fini politici, della loro traduzione in leggi, della loro applicazione tramite l’apparato amministrativo o quello militare, della risoluzione di contrapposizioni e di interpretazioni tramite la giurisdizione risulta sempre imperniata o derivata da un unico sovrano (tipico quello di Carlo I d’Inghilterra o quello della Francia, dominata da Luigi XIV, il “Re Sole”; entrambi presuntisi re per diritto divino). Qui lo stato si identifica con il monarca (detentore delle finanze pubbliche e di ogni potere statale) e quindi con la volontà e le decisioni di questo, in nessun modo contestabili. Il popolo non ha diritti ma, conseguentemente, una posizione di sudditanza e i rapporti con il sovrano o suoi delegati sono strettamente di tipo concessorio; la società risulta suddivisa in classi tendenzialmente rigide (plebe, basso clero e borghesia, alto clero e nobiltà) e differenziata da vari privilegi (p. es.: queste ultime erano sottratte alla pena di morte, altresì esse erano solitamente esentate dal pagamento delle imposte mentre le prime ne erano vessate); si rileva invece una forma di governo “poliziesco” quando lo stato affida al sovrano, paternalisticamente autoritario, di provvedere a garantire l’ordine pubblico e qualche servizio ai sudditi (infrastrutture e sanità), la difesa militare e l’esercizio della giustizia ancora a lui correlata; mentre il popolo, parzialmente autorizzato ad auto-organizzarsi, appare libero di esercitare soltanto quelle attività economiche e le condotte civili esplicitamente consentite.
Durante questi secoli – eccetto dove i gruppi sociali erano riusciti a costituirsi su una base oligarchica o democratica e si erano resi indipendenti da ogni altra autorità come nei liberi Comuni – territorio e popolo coincidevano agli occhi del sovrano e delle caste a lui più prossime; infatti, i secondi percepivano i primi come entità di cui avevano la piena disponibilità e come strumenti identitari del binomio Stato-Nazione. Rispetto a questa, però, il sovrano doveva garantire sicurezza militare verso l’esterno, ma altresì la integrità fisica e la tutela della proprietà dei sudditi rispetto alle possibili minacce da altri individui o da altri sovrani; cosicché la difesa di tali valori, in una società nazional-territoriale in cui l’aggressione configurava una prassi ricorrente (homo homini lupus, come notorio, per Hobbes, 1588 -1679), era necessariamente affidata allo Stato; perciò un “contratto sociale”, finalizzato alla tutela della sicurezza interna ed esterna, era un risultato percepito connaturale e vincolante per il rapporto fra individuo e monarca12.
Una prospettiva ben diversa era stata concepita – sulla scia memorabile di Ugo Grozio (1583-1645), “padre nobile” fra il resto, come si sa, del giusnaturalismo moderno – dal quasi contemporaneo John Locke (1632-1704): lui, pur ammettendo la tutela di quegli interessi primari contrattualizzata da parte del popolo con una entità sovrana, riteneva compito non soltanto dei singoli sudditi ma pure della intera comunità – in primis dei sovrani – anche il miglioramento delle condizioni collettive. Perciò, la loro condotta contraria a quell’onere avrebbe violato la finalità prioritaria del “contratto sociale” il quale, per suddetto motivo, sarebbe risultato infranto e perciò non più vincolante ovvero, per conseguenza, “revocabile”. Pertanto il vincolo assoluto verso il sovrano non avrebbe più avuto una base etico-giuridica ineccepibile e ciò proprio a causa della condotta negativamente attiva o omissiva tenuta dal sovrano il quale, in tale modo, risultava avere violato il principio cardine del patto ed essere divenuto contestabile. In altri termini tanto il singolo quanto la comunità dei sudditi avrebbero potuto rigettare quell’accordo nonché il correlato potere assoluto attribuito al sovrano, così da pretendere un diverso contratto sociale contenente nuovi e reciproci diritti e doveri: in sostanza, il pensiero giuridico europeo era giunto a prospettare delle condizioni e a giustificare una critica e una correlata perimetrazione del potere sovrano.
Fra il 1600 e il 1770, anche in reazione alle carneficine perpetrate durante la guerra dei Trent’anni, le aristocrazie intellettuali pervengono – grazie alla dialettica giusnaturalistica e illuministica – al liberalismo anche giuridico il quale rievoca e sancisce dei principi da secoli inattuati: la certezza del diritto tramite la codificazione delle norme, la loro pubblicazione, il dibattito sulle medesime, il divieto di retroattività della legge almeno per quella penale, indipendenza della magistratura dal potere politico, il divieto di arresto senza convalida del magistrato; sino a giungere – per la prima volta, il 30 novembre 1786, nel Granducato di Toscana – alla abrogazione della tortura durante gli interrogatori di ogni imputato nonché all’abrogazione della pena di morte13.
Da questo periodo si può far discendere l’affermazione di uno regime “liberale”, dove la limitazione del potere sovrano si realizza suddividendolo conformemente alla c.d. separazione del potere statale14 fra tre organi distinti: il potere legislativo (parlamento elettivo), quello esecutivo (governo di espressione regia) e quello giurisdizionale (magistratura, questa qualificata da indipendenza e imparzialità) correlato dalla sua terzietà rispetto al detentore del potere e a tutela del cittadino contro i soprusi omissivi, attuativi o interpretativi15 del medesimo.
In effetti, pure un ordinamento liberale provvede a garantire l’ordine pubblico (ma, si noti, sempre reprimendo violentemente le manifestazioni popolari), la difesa militare, l’intervento sanitario, leggi fiscali favorevoli al ceto più benestante, la costruzione di moderne infrastrutture; tuttavia, si caratterizza prioritariamente astenendosi dalle attività economiche, mentre riconosce ai cittadini (di fatto soltanto una minoranza, appartenente alle classi altolocate) di avere il diritto ovvero la libertà, rispetto all’apparato governativo del sovrano, di organizzarsi in associazioni anche politiche (però non sindacali) funzionali all’esercizio dell’acquisito diritto di voto per eleggere i propri rappresentanti titolari del potere legislativo, di godersi le rispettive proprietà in modo pieno ed esclusivo, così come di attivare ogni iniziativa imprenditoriale. Ciò sul presupposto che l’intraprendenza individuale è più efficiente e variegata dell’intervento statale; pertanto, la iniziativa privata avrebbe favorito naturaliter il diffuso e progressivo arricchimento della intera società il quale, come una “mano invisibile” (A. Smith), avrebbe generato un ulteriore e diffuso benessere.
Social-comunista > governo che detiene le funzioni prioritarie; si caratterizza dalla attuazione dei principi economici e ideologici delineati da Hegel e Marx, limitando o annullando il diritto di proprietà e di libera iniziativa economica dei cittadini, reputate un furto o un privilegio rispetto alla maggioranza del popolo da secoli nullatenente e meritevole di almeno il minimo vitale e di beni o servizi essenziali, progressivamente ampliati e garantiti dall’iniziativa e dalla proprietà statali; inoltre, ipotizzando una dittatura “temporanea” della classe proletaria, annulla il pluralismo in senso lato e dunque anche quello politico: infatti, l’autorità affermatasi solitamente per via rivoluzionaria promuove e ammette soltanto il pensiero e l’azione del partito unico presunto conforme a quella ideologia.
Fascista (nazista) > dove il governo ha politiche espansionistiche, recepisce il diritto alla proprietà privata e la iniziativa imprenditoriale da parte dei cittadini, purché gestite conformemente ai supremi interessi della nazione indicati dal partito unico; si dichiara tutore di tutte le classi promuovendo servizi sociali sino ad allora pressoché inesistenti (assistenza alla maternità e all’infanzia, diffusione delle attività ricreative, vacanze per i minori non benestanti etc.); però, tutore della propria razza (ariana) asserita superiore e come tale dominante rispetto a quelle definite avverse o inferiori (ebrea e slava, in particolare), perciò ritenute meritevoli di essere sfruttate o annientate.
> Social-liberal-democratico, dove il governo provvede a garantire l’ordine pubblico, la difesa militare e altri servizi sociali ritenuti primari (istruzione, sanità, abitazione, trasporti, ambiente, informazione etc.) senza astenersi da interventi produttivi di beni e servizi essenziali o di supporto alle attività economiche; mentre tutti i cittadini, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza, sono liberi di organizzarsi in associazioni anche politiche o sindacali, di godersi le rispettive proprietà e di attivare ogni iniziativa imprenditoriali purché non lesive della dignità e della sicurezza dei singoli o della comunità; lo sviluppo è affidato prevalentemente a interventi infrastrutturali, finanziari e fiscali e/o promulgando leggi istitutive di strumenti, come la cassa integrazione o i lavori socialmente utili, per la mitigazione di criticità economico-sociali.

3. Verso uno Stato costituzionale
Riscontriamo adesso, sia pur velocemente, la evoluzione normativa italiana e come questa ha delineato gli organi statali, le rispettive competenze, le procedure di esercizio e di controllo sui poteri conferiti a loro, oltreché la estensione della partecipazione elettorale del popolo, dal Regno d’Italia alla Repubblica italiana. Lo Statuto Albertino16 risalente al 1848 – preteso da una ristretta oligarchia economico-culturale, era stato scritto in francese poiché rivolto a quei pochi maggiorenti e in quanto lingua ufficiale della monarchica Casa Savoia17 – prevedeva un senato di nomina regia e una camera rappresentativa eletta dal corpo elettorale.
Al riguardo, sembra opportuno ricordare l’effettivo significato del termine popolo18: a metà Ottocento, esso corrispondeva ai destinatari della legge elettorale vigente al momento della unificazione italiana e dunque, nel 1861, ai soli cittadini maschi, di età superiore ai 25 anni e di censo elevato: 40 lire di tasse versate allo stato, ogni anno, oppure 20 purché anche in grado di leggere e scrivere19. Successivamente, il diritto di voto era stato esteso a chi aveva 21 anni, licenza elementare e contribuzione di circa 20 lire, cioè alla media borghesia; cosicché la percentuale degli aventi diritto al voto, si era avvicinata al 10% della popolazione fra 1880 e il 1915. Soltanto nel 1919, i cittadini maschi ventunenni e anche i diciottenni, limitatamente a quelli sopravvissuti alla vita da trincea della prima guerra mondiale, erano stati ammessi all’elettorato; consentendo così la partecipazione a quasi il 30% della cittadinanza. Infine, nel 1926 con Mussolini già primo ministro, il diritto di voto era stato esteso pure alle donne: però limitatamente a quello amministrativo (elezioni dei consigli comunali e provinciali) escludendole da quello politico rimasto appannaggio degli uomini; decisione, questa, allora motivata da due constatazioni: solitamente erano i maschi a produrre reddito e a pagare le tasse, inoltre soltanto i maschi dovevano prestare il servizio militare e andare al fronte; pertanto spettava a loro partecipare alle elezioni dei deputati che avrebbero votato e deciso sulle imposte e sulla dichiarazione di guerra. Per contro, proprio il regime fascista non aveva poi consentito alcuna consultazione elettorale né amministrativa né politica.
Difatti le prime elezioni a suffragio universale – alle quali ormai avevano diritto di partecipare ogni cittadina e ogni cittadino allora ventunenni – si erano svolte nel 1946 dopo la fine della tragica seconda guerra mondiale: in occasione della consultazione popolare e cioè al referendum istituzionale per scegliere fra monarchia o repubblica20; contestualmente, il 2 giugno 1946, il corpo elettorale aveva votato anche per eleggere chi avrebbe composto l’Assemblea costituente incaricata di redigere una proposta di testo costituzionale.
Questa, composta da 576 deputati, aveva nominato una commissione interna composta da 75 membri scelti in accordo fra il presidente della stessa e i vari gruppi parlamentari21 tutti componenti del CNL. I lavori di stesura degli articoli si erano protratti sino alla fine del 1947 e l’Assemblea Costituente era giunta ad approvare il testo costituzionale il 22 dicembre 1947; poi promulgato il 27 successivo, da Enrico De Nicola – di cultura monarchica, tuttavia Capo provvisorio dello Stato – ed entrato in vigore in data 1° gennaio 1948 quale Costituzione della Repubblica Italiana.
Il testo costituzionale non consiste soltanto in una determinazione organizzativa dello Stato, anzi esso tende a sancire un insieme di principi storicamente affermatisi e trasformatisi in valori identitari, consolidati e formalizzati nei suoi articoli fondamentali: diritto e dovere al lavoro, diritto e dovere alla efficiente e imparziale gestione della cosa pubblica, diritto e dovere di contribuire allo sviluppo della nazione, tutela della libertà personale, diritto alla libertà di iniziativa imprenditoriale e alla proprietà privata, principio di eguaglianza formale (liberale) e sostanziale (cristiano-socialista) nonché di non discriminazione, diritto allo studio nonché al progresso socio-culturale, tutela del lavoro anche tramite i sindacati e diffusione del benessere economico, tutela del pluralismo ideologico e dei partiti, diritto associativo e partecipativo, tutela dei beni culturali, della ricerca e della innovazione, diritto alla salute e all’ambiente e al paesaggio etc. (articoli 1-54).
La Costituzione dispone pure sulle fonti delle norme giuridiche: cioè sulle competenze e sulle procedure per produrre le regole rivolte alla comunità e renderle vigenti ovvero: le riserve di legge sulle materie di esclusiva competenza parlamentare; i decreti-legge spettanti al governo, in caso necessità e di urgenza, però da sottoporre entro 60 giorni alla approvazione delle assemblee elettive; il decreto legislativo, strumento parlamentare che demanda la produzione di norme tecniche delegate – in base a criteri oggettivi, temporali e condizionali – al Governo; i regolamenti applicativi delle leggi spettanti al primo al primo ministro, ai ministri e ad organi amministrativi; le leggi spettanti ai consigli regionali ovvero i regolamenti prodotti dalle regioni medesime; in regolamenti dei comuni o delle province talvolta estremamente importanti come quelli in materia di mobilità ed edilizia22.
Inoltre, l’ordinamento costituzionale italiano, in base al principio di collaborazione tra Stati e in particolare con quelli europei, ha ammesso l’efficacia di due atti dell’Unione europea in Italia, le Direttive e i Regolamenti: le prime necessitano di atti statali ricettivi e attuativi delle medesime – da parte del parlamento o del governo – per renderle vigenti in Italia; mentre i Regolamenti sono immediatamente applicabili nell’ordinamento italiano sia da pubbliche amministrazioni sia da singoli cittadini o da imprese. I principi costituzionali impongono anche il divieto di effetto retroattivo almeno delle norme penali, la prevalenza delle leggi sui regolamenti oltre a disciplinarne la modifica oppure l’abrogazione (criterio cronologico e per competenza), nonché il modo di impugnare anche le leggi del parlamento allorché siano reputate in contrasto con le disposizioni costituzionali23.
Da evidenziare, inoltre, la diffusa possibilità per i cittadini di attivare dei referendum abrogativi cioè finalizzati alla cancellazione di leggi statali o regionali; mentre la possibilità di proporre o imporre tramite referendum dei testi che, qualora approvati, introdurrebbero nuove norme aventi valore di legge non è sinora prevista. Ulteriori strumenti inseriti nella Costituzione, per consultare o conoscere la volontà popolare, sono le proposte di legge di iniziativa popolare e le petizioni, tuttavia scarsamente applicate. Invece, il ricorso ai quesiti referendari per mezzo dei quali il popolo esprime la opzione preferita – da riferire rispondendo SI o NO alla domanda abrogativa di quella norma – hanno goduto di maggiore successo24; forse, proprio poiché consente una partecipazione diretta rispetto al risultato auspicato e alla immediata efficacia del medesimo. In Italia è ammesso soltanto il referendum abrogativo, cioè il corpo elettorale, corrispondente a quello che vota alla camera dei deputati, può esprimersi favorevolmente o negativamente rispetto alla norma di legge che è stata sottoposta a referendum per essere eliminata; il referendum introduttivo di una nuova norma non è invece è stato inserito dalla Assemblea Costituente e quindi il popolo non possiede uno strumento per imporre al Parlamento italiano l’inserimento fra le leggi vigenti di una disposizione particolarmente sentita dal corpo elettorale25.
Mentre in altri ordinamenti pure il referendum consultivo è stato previsto, esso però consiste soltanto nell’espressione di una preferenza sull’introduzione di una norma o sull’abrogazione di un’altra, pertanto – rispetto a questa decisione – può configurare un obbligo a trattare o votare quella norma, oppure consistere in una semplice manifestazione di un auspicio o di una preferenza senza alcuna vincolatività rispetto all’approvazione da parte dell’assemblea rappresentativa.
Un particolare referendum è quello costituzionale, cioè quando i cittadini sono convocati a esprimersi su una riforma di uno o più articoli della costituzione che il parlamento ha già approvato ma senza raggiungere la maggioranza qualificata (due terzi dei parlamentari); conseguentemente, il corpo elettorale può respingere o approvare la riforma della costituzione così come era stata votata dal parlamento.

4. PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, GOVERNO, PARLAMENTO
Un breve accenno adesso ai principali compiti, talvolta non bene delineati, del Presidente della Repubblica, del Governo e del Parlamento.
Il Presidente della Repubblica > Questa carica può essere affidata a cittadine o cittadini italiani che secondo la costituzione devono possedere due requisiti soltanto: godere dei diritti civili e politici ed avere compiuto cinquant’anni di età. Evidente la volontà del legislatore costituzionale di consentire a chiunque, indipendentemente dalle condizioni economiche, sociali e culturali di poter accedere alla massima carica dello Stato. Il Presidente della Repubblica è eletto dal parlamento in seduta congiunta (senatori e deputati insieme e integrati dalla presenza di 58 rappresentanti eletti dai consigli regionali), rimane in carica per sette anni: dunque, un periodo che vorrebbe garantirlo da pressioni parlamentari contingenti e rendere improbabile la scadenza del suo mandato coincidente con la cadenza fisiologica delle quinquennali elezioni politiche. Questa carica non dispone di un vice, infatti è sostituito temporaneamente dal presidente del Senato il quale ha poteri non adeguatamente definiti dalla Costituzione. Essa, invece, elenca i poteri, alcuni di origine sovrana residuale, a lui assegnati: la nomina di cinque senatori a vita, la nomina di un terzo dei giudici della corte costituzionale, la possibilità di concedere la grazia, la presidenza del consiglio superiore della magistratura e del consiglio superiore delle forze armate; inoltre ha il potere di recepire le leggi votate dal parlamento oppure, in caso di suo disaccordo e con messaggio motivato, di rinviarle al Parlamento per una seconda valutazione e votazione che se favorevole lo obbligherà a promulgare la legge medesima. Certamente, il potere politicamente più rilevante consiste nel poter sciogliere le Camere, condizionato dal solo obbligo di consultare preliminarmente la presidenza del Senato della Repubblica e la presidenza della Camera dei deputati prima di firmare – quasi discrezionalmente – lo specifico decreto e indire le elezioni politiche per addivenire a un rinnovato Parlamento26.
Parlamento > è l’organo rappresentativo della volontà popolare ed è eletto su base democratica27, cioè da tutto il popolo oppure su base oligarchica, ossia dalle classi dominanti su quel determinato territorio. Questo organo rappresentativo era stato convocato in Inghilterra – formalizzato su pressione dei feudatari per obbligare il sovrano a interpellarli (v. Magna Charta Libertatum, 1215) – per poi decidere su derrate, imposte, cavalieri, armi da conferire allo stesso; tuttavia, inizialmente, essi risultavano senza guarentigie, senza ordine del giorno pre-comunicato o auto-fissato, senza funzionari a loro servizio né da loro scelti, senza potere di autoconvocarsi, senza potere incidere sulle persone scelte dal re. Dal Settecento poi (v. Act of Selectement, 1701), la seconda Camera (quella dei Comuni) elettiva – ma allora rappresentante i soli ceti borghesi – si era affiancata alla Camera dei Lords (Baroni e Nobili, di nomina regia); successivamente, un lento ma progressivo ampliamento dei poteri – sottratti al sovrano per essere conferiti a quella dei Comuni – era stato affiancato da un contestuale ampliamento del numero del corpo elettorale. In Italia abbiamo due Camere pressoché identiche (unico caso istituzionale a livello europeo, storicamente originato dal Senato del Re e dalla successiva Camera dei Deputati), eccetto: per 5 senatori a vita nominati dal P.d.R., per il Senato votano i maggiori di 25 anni e sono eleggibili maggiori di 40 anni, oltre per qualche peculiarità del suo regolamento interno. Queste accennate disposizioni saranno modificate a partire dal 2022 dalle recenti riforme costituzionali: infatti, alle prossime elezioni politiche per il Senato, ogni maggiorenne e non più ogni ultra-venticinquenne avrà diritto al voto; inoltre, il numero dei parlamentari scenderà a 400 per i deputati e a 200 per i senatori28. Il Parlamento italiano elegge 1/3 dei componenti il Consiglio superiore della Magistratura, 1/3 dei Giudici della Corte Costituzionale; delibera lo stato di guerra, approva le leggi della Repubblica su iniziativa interna, converte i decreti-legge approvati in via di urgenza del governo, vota sugli statuti delle regioni o su proposte normative di iniziativa popolare e può procedere alla istruttoria tramite le Commissioni parlamentari per gli affari interni, esteri o altre materie; il Parlamento italiano legifera altresì sulle materie di competenza statale esclusiva o concorrente con le Regioni. Ogni parlamentare è formalmente libero di esprimersi senza vincolo di mandato politico-elettorale né per disciplina di partito e votare come ritiene opportuno, è remunerato tramite consistenti indennità, gode di immunità anche rispetto alla magistratura e rimane in carica per 5 anni; eccetto ovviamente, crisi di governo allorché comportano la fine anticipata della legislatura e nuove elezioni politiche.
Da evidenziare, in merito, una diffusa esigenza di stabilità emersa durante le ultime legislature. Al riguardo, per evitare ricorrenti crisi politiche dovute a cause estraparlamentari ovvero alla rissosità dei partiti presenti in assemblea, si tende a imporre nuovi criteri per favorire la stabilità di una maggioranza e quindi della legislatura: premio di maggioranza al partito o alla coalizione che ha raggiunto la maggioranza relativa dei voti, sbarramento percentuale con lo obbligo di ottenere una percentuale minima dei voti per essere ritenuti rappresentativi del popolo (p. es. raggiungere il 3% o il 5% di quelli validamente espressi ) e, a seguito di tale risultato, avere accesso in Parlamento (oppure nei Consigli regionali o comunali); possibilità per la minoranza di richiedere una “sfiducia costruttiva” cioè la capacità di proporre una sfiducia al governo in carica purché contestualmente idonea a creare una maggioranza di sostegno al nuovo Governo; incompatibilità fra la carica di ministro con quella di parlamentare oppure lo scioglimento delle Camere in caso di caduta anticipata del governo rispetto alla scadenza naturale.
Giova evidenziare che proprio il Governo configura l’organo più operativo dell’apparato statale; infatti, costituisce l’insieme degli esponenti di partiti politici incaricati di dare esecuzione alle priorità rilevate nonché al programma – espresso dalla maggioranza parlamentare – tramite la gestione dei vertici del potere esecutivo e degli apparati della Pubblica Amministrazione. Un Governo già in carica, per prassi costituzionale, si presenta dimissionario in caso di elezione del nuovo Presidente della Repubblica oppure a seguito delle elezioni politiche del Parlamento ovvero se la legislatura è giunta a scadenza naturale. Se, invece, il P.d.R. ritiene opportuno – per sua discrezionale valutazione – di avviare le consultazioni finalizzate a creare un nuovo governo e ritiene di aver riscontrato le condizioni favorevoli per una più solida maggioranza parlamentare, interpella i presidenti di Camera e Senato, gli ex presidenti della Repubblica e i capi-gruppo dei partiti presenti in Parlamento. Poi, dopo avere individuato un possibile presidente del consiglio dei ministri lo incarica di formare un nuovo governo; se ciò sarà risultato possibile (cioè un tendenziale accordo fra una o più componenti politiche è risultato in grado di formare la maggioranza parlamentare) allora il P.d.R. riceverà la personalità – da lui già incaricata di formare il nuovo governo – per ricevere dallo stesso la proposta dei ministri, la nomina dei quali avverrà di intesa fra il Presidente della Repubblica e il Primo Ministro incaricato. Il governo entra in carica immediatamente dopo il giuramento dei ministri davanti al Capo dello Stato e poi l’intero Governo si presenterà alle Camere per ottenere la fiducia parlamentare (in Italia, doppia: deve essere votata favorevolmente da senatori e da deputati, altrimenti il Governo decade immediatamente). In caso di risultato favorevole, il Consiglio dei Ministri nomina i vice-ministri e i sottosegretari, procede ad affidare loro le deleghe ripartendole come concordato fra i vertici dei partiti, attiva l’indirizzo politico, delinea gli atti di alta amministrazione affidata al governo, inoltre provvede a nominare o confermare le principali cariche preposte ai vertici dell’apparato ministeriale. Da evidenziare alcuni aspetti che sottolineano il carattere parlamentare della Repubblica italiana: primo, il Governo può emanare norme equivalenti a quelle legislative, che configurano delle eccezioni alla competenza legislativa propria del Parlamento29, infatti, i decreti-leggi devono essere convertiti in legge dal parlamento entro 60 giorni; secondo, una carenza lessicale: il primo Ministro non è definito Capo del Governo – causa la negativa esperienza dittatoriale durante il ventennio 1922/43 – anzi, lui ha soltanto funzioni di coordinamento dei Ministri che restano costituzionalmente indeterminate, né detiene il potere di revocarli di propria iniziativa; terzo: in caso di sua sfiducia verso un ministro del suo governo, lui potrebbe agire per farlo dimettere soltanto rivolgendosi al gruppo parlamentare di riferimento o al Presidente della Repubblica o richiedendo e ottenendo un voto di sfiducia ad personam al Parlamento. Questo, invece, in caso di mancata fiducia esplicita da parte del Parlamento verso il Governo o altresì se il contesto politico o anche sociale è negativamente e palesemente riscontrato rispetto allo stesso dal Presidente della Repubblica, egli può incaricare un altro soggetto affinché tenti di formare un nuovo governo; altrimenti – riscontrata l’assenza di una adeguata maggioranza – può optare per lo scioglimento del Parlamento e procedere alla indizione di elezioni politiche anticipate, finalizzate proprio a ridare voce al corpo elettorale.

5. Qualche osservazione finale
Attualmente, ogni ordinamento statale – inteso come insieme di norme e autorità capaci di estrinsecarsi senza delimitazioni eccetto quelle territoriali o frutto dei trattati o comunque della propria volontà – come qualunque altro nato e sviluppatosi in stretta connessione con una comunità stanziale e il suo territorio, risulta di fatto superato: le società multinazionali, la rete informatica, la immigrazione, gli scambi commerciali, i regimi fiscali, lo sviluppo diffuso della innovazione tecnologica, l’attività di organismi sopranazionali determinano, pure per gli Stati più importanti, condizionamenti e necessità di accordi sempre più estesi, incisivi e diversificati.
Contestualmente, altre esigenze sono emerse e si sono radicate all’interno delle società contemporanee: i servizi pubblici e la loro efficienza posta a confronto con quella offerta dal settore privato oppure dal volontariato nazionale e internazionale; la responsabilizzazione e la sicurezza sul luogo di lavoro, posto a carico del datore di lavoro come del dipendente; il diritto alla riservatezza, ma altresì alla informazione; la mancanza di controlli effettivi, ormai percepita, rivolti pure ai tradizionali poteri dello Stato; il diritto di accesso nonché di collaborazione (art. 118,3° Cost.) fra cittadini e amministrazioni pubbliche. Questi fenomeni, riscontrabili tanto a livello internazionale quanto locale, comportano la indispensabile revisione degli Stati come sorti e percepiti durante i secoli scorsi; in particolare, obbligano a riesaminare l’insieme delle sopra accennate questioni, le quali richiedono degli approfondimenti specifici come delle concrete preposte operative; questioni probabilmente risolvibili, purché gli Stati singoli o associati si impegnino, responsabilmente, concretamente e pacificamente a tale scopo e, magari, anche tramite i contributi di organizzazioni e di collettività non governative o neutrali.

Suggerimenti bibliografici minimi
Storia dei Greci e dei Romani – Einaudi
Storia d’Italia – Einaudi
Istituzioni di Diritto Romano (resta fondamentale il volume di V. Arangio-Ruiz, Jovene)
Storia del pensiero giuridico occidentale (per l’evoluzione di principi giuridici, J. M. Kelly, il Mulino)
Storia del pensiero politico occidentale (per lo sviluppo dei concetti politici, G. Galli, Ed. Dalai)
Diritto pubblico (con riferimento alla Costituzione italiana, A. Barbera – C. Fusaro, il Mulino)
Profili di storia del pensiero economico (per l’evoluzione dell’economia, E. Screpanti – S. Zamagni , Carocci)

Note

  1. Regola: dal lat. Regula / der. di regere (“guidare diritto”), che significava dapprima “assicella di legno, regolo”; poi lo svolgimento ordinato che si riscontra nella quasi totalità di alcuni eventi, nel campo della natura o dell’agire umano, in applicazione di una regola (per traslato analogico, in un assetto antropico: “canone”).
  2. Il primo testo normativo conosciuto, proveniente dalla Mesopotamia, è il Codice di Hammurabi (sesto re della dinastia babilonese del XVIII sec. a.C.); mentre in Italia, le norme giuridiche contenute nella Legge delle XII Tavole (disposizioni sulla proprietà, sul testamento, sulla famiglia) erano state stilate e pubblicate per la prima volta, nel 451 a.C., durante il periodo della Repubblica Romana che si era ispirata alla coeva Grecia di Pericle, e vigevano per tutti: tanto per i patrizi quanto per i plebei.
  3. Norma: dal latino Norma cioè “squadra” (in senso figurato “regola”), cioè uno strumento di tecnici e di artigiani: per tracciare misure o rapporti di linee e di angoli tramite una squadra; ossia, lavorare conformemente a uno strumento di precisione e dunque nel rispetto della norma stabilita dalle autorità tecniche o – per traslato – religiose o civili; in pratica, suddetto termine va a indicare un criterio di condotta non più tecnico-operativa, ma costituente un vincolo relazionale vigente e come tale ormai riconosciuto come doveroso per ogni componente nonché sanzionabile dall’autorità affermatasi in quel gruppo sociale (la norma, allora, è definibile giuridica).
  4. Legge: dall’indoeuropeo Leg, legare, stringere; con il significato di accorpare, tenere insieme; indica una disposizione generale (rivolta a ogni persona e non a singoli soggetti) e astratta (non rivolta al caso specifico ma a ogni analoga fattispecie) la cui attuazione è poi affidata ai poteri amministrativi e giudiziari.
  5. La Lex Ortensia, risalente al 287 a.C., aveva assegnato per la prima volta valore vincolante al plebiscito (dal latino plebis scitum ovvero decisione/ordine della plebe) nei confronti di chiunque, quindi anche del ceto aristocratico.
  6. Diritto: dal part. pass. lat. di Dirigere, cioè l’insieme di norme per condurre persone e/o comunità e i loro rapporti verso uno scopo (solitamente la stabilità, la convivenza e lo sviluppo).
  7. Stato: organizzazione di una comunità stanziale su un territorio, sovrana e solitamente riconosciuta da altre comunità equiparabili alla medesima.
  8. Valore di ogni cittadino riconosciuto e rivendicato di fronte a ogni autorità, Stato incluso (Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, datata 1789) a seguito della Rivoluzione francese, poi inserita nella Costituzione del 3 settembre 1791.
  9. La qualità giuridica di ogni stato di manifestare come originaria e indipendente ogni propria capacità da qualsiasi altro potere interno ed esterno al proprio territorio. L’autorità e l’esercizio di alcune funzioni che oggi percepiamo naturalmente statali (militari, amministrative, giudiziarie etc.) e soggettivamente interne a una società aggregata potevano risultare svolte, in tutto o in parte, da soggetti esterni rispetto a quella comunità o addirittura chiamati e retribuiti secondo la situazione contingente: si pensi alle compagnie di ventura o alle podesterie o magistrature affidate a truppe o personalità estranee a quel corpo sociale.
  10. A. Spinelli, E. Rossi, Per una Europa libera e unita. Progetto di un manifesto (più noto quale Manifesto di Ventotene), 1941.
  11. Per una breve guida informativa, v. Come funziona l’Unione europea, LA MIA UE.
  12. Repubblica: dal latino res publica, “cosa pubblica”; forma di stato in cui l’organo supremo deriva le funzioni e il potere dalla volontà del popolo o di parte di esso e per un periodo limitato.
  13. Questa decisione disposta da Pietro Leopoldo I di Toscana (della dinastia Asburgo-Lorena e collocato sul trono granducale per volontà delle potenze vincitrici la Guerra di Successione polacca) era stata accolta dall’ambiente conservatore europeo con meraviglia e disappunto; essendo stata valutata quasi un capriccio intellettuale di un sovrano illuminista, inoltre illogica nonché controproducente per l’ordine sociale costituito.
  14. C.-L. de Secondat (Barone di La Brède e di Montesquieu), Lo spirito delle leggi, pubblicato nel 1748, però a Ginevra (CH) e anonimo; il capo d’opera decisivo da cui si perviene al moderno Stato di diritto.
  15. Interpretazione: dal latino inter-praetium-dare, analisi del significato comunemente accettato delle parole da leggere – singole o accorpate e assegnando loro un valore – nella formula lessicale individuata dal legislatore per esprimere le sue intenzioni; questo enunciato risulta al contempo il contenitore della volontà della legislatore la quale, trasformatasi in legge da interpretare, assumerà uno o più significati autonomi (il contenuto, ossia la norma effettiva); ciò in funzione di chi sarà l’interprete nonché il caso specifico destinatario dell’applicazione più o meno corretta di quella norma. Quando si incontra un caso non disciplinato da una disposizione correlata, si cerca la norma che esprime un valore applicabile ai casi simili (analogia); se invece non si riesce a reperire una norma rivolta a un caso analogo, allora quel caso risulta privo di regole di riferimento e si deve ricorre ai principi generali dell’ordinamento giuridico. In mancanza anche di questi, si rimarrà con un vuoto giuridico per dirimere la questione sino alla introduzione di una norma o di (anomala) giurisprudenza innovative specifica.
  16. Statuto: dal latino statutus, part. pass. di statuere “stabilire”; variante letteraria di statuito, cioè fissato, convenuto fra le parti decidenti (gli anziani e/o il sovrano e/o nobili e/o benestanti e/o capo popolo e/o popolani) stabilito in modo vincolante per i destinatari: all’inizio dell’Ottocento, indicava il testo con cui le classi emergenti avevano delimitato il potere dei sovrani assoluti.
  17. Monarchia: forma di stato in cui l’organo supremo (talvolta presunto una divinità o spesso ritenuto investito per volontà di Dio) deriva il potere da chi lo ha preceduto ed esercita le funzioni per un periodo illimitato; nelle M. costituzionali, parte del potere – benché continui a essere ereditario – è condiviso con organi derivanti dalla volontà del popolo o di parte di esso.
  18. Popolo: comunità etnicamente coesa e culturalmente omogenea; spesso, tendenzialmente o effettivamente autonoma, accumunata da lingua e/o tradizioni e/o religione e/o cultura e/o interessi economici e/o militari consolidati e condivisi. Popolo del Risorgimento: all’epoca delle guerre di indipendenza italiane, esso identificava la classe civile e politica, più o meno privilegiata, considerata dal sovrano sabaudo come affidabile politicamente, economicamente e culturalmente: allora, le persone in grado di parlare italiano non superavano il 5% e quelle capaci di scriverlo correttamente non raggiungevano il 2,5% della cittadinanza. Nazione: dal latino natio-nationis, unità di persone coese per territorio, etnia, lingua, cultura, religione o altro elemento, la quale risulta cosciente di una peculiarità e talvolta di una autonomia rispetto a collettività o poteri esterni. Popolazione: sommatoria delle persone fisiche considerate residenti o domiciliate su un territorio alla data del censimento o dell’aggiornamento anagrafico.
  19. La cittadinanza avente diritto al voto dopo la proclamazione del Regno d’Italia, in applicazione della legge elettorale vigente nel 1860, superava le 800.000 unità; ma i votanti erano risultati superiori soltanto alle 500.000 unità: dunque, si era espresso appena l’1,8% della popolazione, la quale ammontava a circa 24.000.000 di abitanti.
  20. Il risultato ufficiale (contestato dai monarchici) aveva attribuito 12.718.000 di voti alla Repubblica, la monarchia ne aveva ottenuto quasi 11.000.000 mentre le schede bianche o nulle tendevano a 1.500.000; inoltre, i voti dei cittadini di Bolzano, Trieste e Friuli V. Giulia non erano stati espressi poiché in quei territori la sovranità dello stato italiano non era ancora stata ripristinata.
  21. Meuccio Ruini (1877-1970), nominato presidente della “Commissione detta dei 75”, era stato antifascista anche durante il ventennio e perciò espulso dal Consiglio di Stato ed escluso da ogni incarico pubblico; lui apparteneva all’ambiente laico-riformista, mentre la maggioranza dei membri era espressione dell’area cattolica oppure di quella social-comunista.
  22. Legislazione sull’ordinamento degli enti locali per Comuni, Province e Città Metropolitane: oltre al DL.vo 267/2000 e ad alcune leggi speciali, v. gli artt. 114, 117, 118, 119, 120 Cost.
  23. Controllo di legittimità costituzionale sulle leggi statali o regionali e sui rapporti fra organi e poteri previsti dalla Costituzione; in tali casi la competenza a emanare sentenze risolutive sui confitti fra questi soggetti è attribuita alla Corte costituzionale alla quale possono rivolgersi i poteri dello Stato, le Regioni oppure i cittadini per tramite dei magistrati.
  24. Referendum aventi per oggetto leggi concernenti tributi, bilancio, amnistia e indulto, autorizzazione di trattati internazionali, invece, sono vietati dalla Costituzione.
  25. Perciò, attualmente, questa potrà essere creata soltanto a seguito di elezioni politiche da cui sarà derivata una maggioranza ad essa favorevole, oppure tramite un referendum di riforma costituzionale finalizzato ad ammettere successivi referendum, che consentiranno l’inserimento di quelle nuove norme tramite voto diretto dei cittadini.
  26. Potere non esercitabile durante gli ultimi sei mesi del suo mandato, il c.d. “semestre bianco”: strumento paralizzante concepito forse sulla presunzione di non poterlo più stimare come rappresentante della unità nazionale o quale corretto e distaccato interprete della volontà popolare; forse volendo evitare una eventuale coincidenza temporale delle elezioni politiche con quelle ravvicinate del Capo dello Stato; o per impedire lo scioglimento di un Parlamento poiché divenuto a lui sgradito; oppure per annullare suoi calcoli politico-elettorali finalizzati a una successiva maggioranza ipoteticamente favorevole a una sua rielezione; o forse, ritenendo un incarico di sette anni già sufficientemente lungo. In effetti, la Costituzione non si esplicita sulla ammissibilità di un possibile secondo settennato, però neppure lo esclude. Quindi si potrebbe valutare il semestre bianco proprio come blocco per il P.d.R. di esercitare la più incisiva fra le sue prerogative costituzionali, in quanto distante ormai dalla sua elezione e impedirgli, così, delle manovre finali per ricandidarsi; ovvero, riflettendo a contrario, che non essendo la sua ricandidatura esplicitamente esclusa, la Costituzione gli vieta di sciogliere il Parlamento a fine mandato proprio evitare di puntare a uno più in sintonia con lui. Pertanto il semestre bianco mirerebbe a vietare questa manovra, ma soltanto per evitare di creare l’auto-creazione di un favor politico nel nuovo Parlamento; e dunque, in realtà, non per vietare direttamente la possibilità di una potenziale sua rielezione.
  27. Esso era stato costituito ad Atene durante il periodo aureo di Pericle, a metà del V sec. a.C., il voto era comunque riconosciuto soltanto a chi deteneva la cittadinanza ed era maschio; per giungere, infine, al suffragio generale (per la prima volta, il voto era stato concesso alle donne, temporaneamente: dalla Svezia nel 1718, dalla Repubblica di Corsica nel 1755, dalla Francia nel 1792; mentre era stato riconosciuto, definitivamente, in Nuova Zelanda dal 1893).
  28. Si richiamano, rispettivamente, le leggi costituzionali: n. 1 datata 18 ottobre 2021 e n. 1 datata 19 ottobre 2020.
  29. Al riguardo, cfr. la Costituzione francese, ove il Parlamento ha competenza su materie generali di particolare importanza, però soltanto su quelle indicate dalla Costituzione; mentre ogni altra materia è attribuita alla produzione normativa del Governo.

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