Bibliomanie

Quadri del Settecento musicale italiano
di , numero 39, maggio/agosto 2015, Saggi e Studi,

Quadri del Settecento musicale italiano
Come citare questo articolo:
Antonio Castronuovo, Quadri del Settecento musicale italiano, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 39, no. 6, maggio/agosto 2015

Vorrei tornare nella Napoli del Settecento…
Leggo quel che nel 1765 scrive Lalande, nel suo Voyage d’un français en Italie, e sogno la macchina del tempo per poter tornare indietro ed entrare in un teatro di Napoli ad ascoltare Scarlatti o Cimarosa o Pergolesi: «La Musica è soprattutto il trionfo dei napoletani; sembra che in quel luogo le corde del timpano siano più tese, più armoniche, più sonore che nel resto d’Europa. Il popolo medesimo ha in sé il canto: il gesto, l’inflessione della voce, la prosodia delle sillabe, la stessa conversazione, tutto vi segna e vi respira l’armonia e la Musica; così, Napoli è la sorgente principale della musica italiana, dei grandi compositori e delle opere eccellenti». E il fatto che la Musica sia trattata da Lalande con la maiuscola non fa che moltiplicare questo desiderio.
Fra i mondi musicali perduti, Napoli è quello su cui maggiormente soffro. Ma so anche che si doveva perdere: troppo effimero il suo carattere, troppo incomplete e fragili le sue partiture, troppo dominante l’improvvisazione. E per cogliere il senso di questa seducente ma fragile produzione italiana, invece d’immergersi in una monografia accademica, sono sufficienti le affilate parole che Beniamino Dal Fabbro annota in quel grande diario musicale che volle chiamare Musica e verità: «La qualifica di gioiello si dà immancabilmente a tutti quei minori melodrammi del Settecento che ogni tanto ci vengono riproposti, non si sa bene se per farci amare un secolo perduto o per farci odiare il secolo presente; di certo si vuole alludere, con la parola “gioiello”, alla materia preziosa e alla minuta maestria con cui sono fabbricati. Purtroppo, la maggior parte di tali operine, serie o buffe, non è d’oro e neanche di similoro; sono dei mobiletti costruiti con legno ben stagionato, più o meno panciuti, più o meno adorni di stucchi dorati, ricchi di simmetrie disposte con esperta artigianeria, con smorfiosa proporzione e con molto rispetto al gradevole uso a cui erano destinati. I cassetti s’aprono e si chiudono scorrevolmente, le incorniciature e le balaustre seguono una pulita linea decorativa, i trofei sono graziosamente lavorati… Ma cosa ci troviamo dentro, oggi, in questi vecchi mobili di stile, riverniciati per una sera e trascinati alla luce della ribalta sulle loro esili zampe intorte?»
Esili zampe; graziose ma esili: «Di tutti questi bei legni arricciolati e coperti di dorature Rossini farà un gran fuoco allegro, per riscaldare gli amori di Rosina e di Almaviva», conclude sconsolatamente Dal Fabbro. Ha sommamente ragione, anche se ci resta sul palato l’aroma della privazione.

Pergolesi, o della levità italiana
La serva padrona è un miracolo, e per più di una ragione. Perché nacque come intermezzo comico – da intercalare cioè fra un atto e l’altro di un dramma serio – e perché, in quanto tale, è riuscito a emergere dalla massa di intermezzi comici di cui il Settecento italiano dev’essere stato alquanto prodigo.
Un’operetta sorta dunque come “secondaria”, e una fra le tante: c’erano tutte le condizioni affinché cadesse nell’oblio. Alla sua prima esecuzione (tra fine agosto e inizio settembre del 1733 al teatro San Bartolomeo di Napoli), funse da interludio a un “dramma per musica” il cui titolo ne fa già presagire la seriosità: Il prigionier superbo.
Erano entrambi del ventitreenne Giovanni Battista Pergolesi, che, essendo trapassato a ventisei anni, nel 1736, non ebbe affatto sentore di quel che sarebbe capitato alla Serva: la conquista dell’intera Europa con una carriera indipendente… Ciò avvenne – credo – pure perché egli era ben consapevole che i caratteri della sua operetta (la semplicità e il brio, la linearità delle arie e il vigore comico dei recitativi) erano i medesimi delle centinaia d’intermezzi che, all’epoca, circolavano e venivano cantati dagli stessi personaggi delle scene comiche dell’opera seria.
Come che sia, grazie alle compagnie italiane itineranti, la Serva sbarcò nel 1738 a Roma e a Parma, nel 1739 a Bologna e a Graz, nel 1740 a Venezia e a Dresda, nel 1742 a Firenze, nel 1743 a Praga e ad Amburgo, nel 1746 a Parigi e a Vienna, nel 1748 a Potsdam, nel 1749 a Copenhagen, nel 1750 a Londra e a Barcellona.
Ma il colpo di fortuna stava giungendo sulla via di Parigi, ove la prima del 1746 era passata di fatto inosservata: una ripresa nel 1752, quale mero intermezzo del “vecchio” Aci e Galatea di Lully, agì da fulcro del destino. L’epoca era giusta, gli animi infiammati, e così quel semplice evento si trasformò in un’animata e, in più casi, animosa disputa polemica tra chi sosteneva la tradizione della tragédie lyrique, da Lully a Rameau e chi rimase colpito dall’effervescenza sfavillante dell’intermezzo: scoppiò proprio in tal modo – imperversando in una Francia sempre più pervasa d’Illuminismo – la “Querelle des bouffons”, la celeberrima controversia fra diversi modi di vedere la musica, a favore o contro il gusto all’italiana. E la minuscola Serva padrona assurse a manifesto della levità e della cantabilità italiana.
Di costruzione musicale discontinua, ma di perfetta armonia tra musica e libretto, la Serva dipana una storiella lieve, anzi lievissima: l’intraprendente Serpina, serva del ricco scapolo Uberto, trama per esser lei la prescelta del padrone, utilizzando il più antico metodo del mondo: sollevare la gelosia, facendo credere d’esser corteggiata da capitan Tempesta. Alla fine vincerà, andando in moglie a Uberto, sicché, se già si comportava in casa da padrona, Serpina lo diventerà per davvero.
Dimostrabile questa levità italiana? Una sola notizia: siamo sempre nel 1733, e siamo in Germania, quando Rathgeber pubblica l’Augsburghishes Tafelkonzert, collezione di Lieder primitivi, canti rozzamente luterani. Era lo stesso anno della Serva e la scelta – come fu per i “bouffons” – s’impone.

Cimarosa: vince la musica o il libretto?
Un’affettuosa ingenuità sembra abitare Domenico Cimarosa, autore di una sessantina di opere buffe e tragiche, per il quale nutro l’immediata simpatia che sento per tutti i destini miserabili che il caso e il talento riscattano.
Era nato ad Aversa nel 1749, in un “basso” campano, una camera al piano terra di un palazzo nobiliare in cui la madre faceva la lavandaia; il padre, muratore alla Reggia di Capodimonte, era caduto da un’impalcatura, lasciando orfano il piccolo: ci sono tutti gli estremi per fare di Domenico null’altro che un anonimo “accattoncello” destinato a sparire.
Ma qui scocca la scintilla del caso: la madre lava i panni anche a certi padri conventuali, uno dei quali, l’organista, nota che il bambino è attirato dalla tastiera e gli dona i primi rudimenti, fino a quando, a dodici anni, viene accolto gratuitamente al Conservatorio di Loreto. Era l’inizio di una fama in cui quell’affettuosa ingenuità fu capace di collegarsi alla grande bellezza della musica, fino alla morte altrettanto sfortunata della nascita: per “colica epatica” sulla via della Russia.
E tra le sue sessanta opere – ben foderate, ahinoi, dall’oblio – una s’è salvata: Il matrimonio segreto. Traversata da un fluido cui non si attagliano indolenti aggettivi, l’opera è fatta di bella musica, è un minuscolo capolavoro di equilibrio tra gioia e afflizione. Ci si sente anzitutto il cuore, e non è un caso che Cimarosa, a chi gli chiedeva quale fosse il segreto della sua musica, si portava una mano al cuore e rispondeva: «È ’nnicessario chistu’ ’cca!».
Anche perché, forse, questo dramma giocoso vide la luce negli anni ultimi del Settecento, sembra toccato da un fremito ulteriore rispetto alle ansie trepidanti dei due protagonisti amanti infelici e, soprattutto, rispetto alle ciarle del coretto di barbogi e di zitelle pettegole. Sta di fatto che, commissionato dall’Imperatore (Leopoldo II d’Asburgo-Lorena), il melodramma ebbe una fortuna clamorosa alla prima rappresentazione del 7 febbraio 1792 al Burgtheater di Vienna: il despota illuminato ne rimase entusiasta, invitò a cena gli artisti e chiese loro di replicare subito l’opera intera.
Certo, il fatto che Leopoldo disdegnasse Mozart rende sospetto il suo gusto musicale (insomma, il Mozart delle Nozze di Figaro, di appena sei anni prima, resta sempre il pur sublime macigno con cui questo Cimarosa deve storicamente confrontarsi…), ma sta di fatto che volle ascoltare di nuovo Il matrimonio segreto, e forse questa è una delle poche volte in cui un evento del genere si è verificato nella storia della musica.
Non è tanto il testo, è la musica ad aver fatto restare in piedi l’opera di Cimarosa, nonostante che a fine secolo, in pieno declino dell’opera comica, si profilasse all’orizzonte il nemico più pericoloso: il dramma di sensibilità romantica. Pur antiquata, resse e raggiunse – cantata dalle grandi voci dell’epoca (la Malibran, ad esempio) – le piazze europee: Dresda, Lisbona, Milano, Madrid.
Da qualche giorno in Italia, Stendhal ne rimase folgorato a Novara, ai primi di giugno del 1800: l’atmosfera musicale in cui fu adagiato quella sera fu il segno di una rivelazione che lo legò per sempre all’Italia. Scrisse anni dopo, nelle ultime pagine dell’Henry Brulard, di aver provato, in quella circostanza, una sensazione indimenticabile, che la sua vita ne era uscita «rinnovellata, e sparì per sempre il disinganno di Parigi. Avevo chiaramente compreso dove fosse la felicità». Era lì, nel Matrimonio segreto, che da quel momento Stendhal collocò ai vertici del melodramma.
Altro grande estimatore di Cimarosa fu Napoleone, che lo sentiva sempre paragonare a Mozart; ne chiese lumi un giorno a Grétry, che gli rispose con una similitudine un po’ affannosa, non del tutto consona alla nitidezza illuminata di una mente francese: «Cimarosa colloca sempre la sua statua sulla scena e il piedistallo nell’orchestra, mentre Mozart pone la statua nell’orchestra e il piedistallo sulla scena».
Mi piace pensare che il piedistallo di Cimarosa sia nella fossa dell’orchestra. È la musica che salva la mediocrità di un libretto, mai il contrario.

Alla ricerca del Buranello
Beniamino Dal Fabbro era andato un giorno a Burano per cercare la casa di Baldassarre Galuppi (1706 – 85), detto “il Buranello”, colui che era addirittura stato chiamato a San Pietroburgo, da Caterina II, come compositore di corte. Nessuno aveva saputo indicarla, perché tutte le case di Burano sono casa di Galuppi: da tutte può provenire la surreale magia del pizzicato di un cembalo.
Memore di questo tenero ricordo letto nel Diario musicale di Dal Fabbro, a Burano ci sono venuto pure io, per trovare ostinato quella casa. Questione di simpatia: ricordo di aver percorso il lungo catalogo dei drammi mitologici e giocosi di Galuppi con un groppo alla gola; decine e decine di titoli scomparsi dalla storia; opere procurate alle scene di Venezia e a tanti teatri italiani, tra 1730 e 1770, titoli sonori, goldoniani, squillanti, da cui si solleva odore di talco e letizia di piccola nobiltà: L’ambizione depressa, Il povero superbo, Il mondo alla roversa, Il filosofo di campagna, Il puntiglio amoroso
Su uno di loro ho trascorso non poco tempo meditativo: L’uomo femmina, dato al San Moisè di Venezia nel 1762: ecco un’opera buffa che avrei voluto vedere dal vivo, e alla “prima”! Per il resto, titoli non più ripresi, non più eseguiti, vibranti dentro le partiture che ancora ne accolgono il segreto e che marciscono in chissà quanti archivi italiani.
Maestro di arte cembalistica, Galuppi era scappato a Venezia ancora adolescente e aveva deciso di sopravvivere facendo l’organista in varie chiese, cosa che all’epoca permetteva ancora a qualcuno di vivere. Pur inesperto, fece montare la sua prima opera a sedici anni: La fede nell’incostanza, ossia gli amici rivali, messa in scena al teatro Boegan di Chioggia e sonoramente fischiata. Ecco, quei fischi sollevano la mia simpatia: chapeau al coraggio di un sedicenne, che diventò uno dei compositori d’opera più grandi e più ricchi d’Italia, tanta e tale era stata la sua produzione messa in scena, e guidata dalle famose tre regolette che secondo lui erano necessarie per la musica di un buon dramma: «vaghezza, chiarezza e buona modulazione». Ed ora la sua casa nativa, che qui a Burano pare si sappia qual è.
Ci arrivo col traghetto; ne percorro le strade, fatte di case a colori vivi e multiformi, come fossi dentro un pan-tone. Si sbuca nella piazza dedicata al compositore. Su una facciata una lapide indica la casa nativa. Sarà proprio quella? Qualcuno deve aver consultato catasti e archivi, sciogliendo il bandolo. Sullo slargo il mezzo busto di Galuppi: un prominente naso aquilino, i boccoli, la marsina azzimata su un corpicino di esile persona. Sì, proprio un uomo di quel nostro Settecento così assurdamente negletto, se non obliato.

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