Bibliomanie

GRID: Gay Related Immune Deficiency
di , numero 51, giugno 2021, Saggi e Studi, DOI

GRID: Gay Related Immune Deficiency
Come citare questo articolo:
Salvatore Cecere, GRID: Gay Related Immune Deficiency, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 51, no. 10, giugno 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.5958

Fin dalla sua scoperta, il fenomeno dell’Aids è stato accompagnato da significati metaforici, ideologici e politici. L’Aids, come sostiene Paula Treichler1, si innesta in un punto d’intersezione tra molteplici narrative – trovando così posizione in una rete già dotata di senso. La “carriera discorsiva” del fenomeno si rivela, ad un’attenta lettura, molto consistente: non solo il senso circolante nei vari contesti sociali si rivela molto diversificato (con competenze variabili sull’argomento da parte dei diversi attori sociali) ma, ben più profondamente, sono proprio i discorsi specialistici delle discipline interessate ad adottare, nei riguardi del tema, diversi approcci e chiavi di lettura.
Il silenzio accademico nel contesto italiano denunciato da Luigi Lombardi Satriani2 nel 1995 può in effetti dirsi di gran lunga superato: a partire dagli anni novanta, l’Aids è stato oggetto di studio privilegiato in numerosi campi del sapere, tanto da condurre Eileen Moyer – in un saggio che si propone di offrire una cornice teorica degli studi in merito – a definire il compito di offrire una ricostruzione di tali studi come «un’impresa di Sisifo.3» Tale campo di studi si sviluppa soprattutto nella fine degli anni novanta, quando l’effettiva efficacia dei farmaci anti-retrovirali dona una nuova visione dell’immagine della malattia. Moyer mette così in luce come sia possibile riscontrare, negli studi da parte delle scienze sociali sul tema, un cambiamento di prospettiva: l’attenzione viene così spostata sul significato attribuibile, nell’era dei trattamenti, al vivere con l’Hiv.
È tuttavia possibile rintracciare, quantomeno in ambito sociologico, simili tentavi di concettualizzazione teorica già dai primi anni dell’epidemia. Molto interessante, in questa sede, appare il contributo di Josh Gamson nel suo studio sul gruppo di attivisti americano Act Up. Il sociologo americano mette in luce le aporie riscontrabili all’interno delle azioni dimostrative degli attivisti: «Aids activists find themselves simultaneously attempting to dispel the notion that Aids is a gay disease (which is not) while, through their activity and leadership, treating Aids as a gay problem (which, among other things, it is).4» Tale dinamica è, secondo Gamson, riconducibile al processo di lotta che Act Up porta avanti contro le procedure di normalizzazione, da parte della società, che conducono ad una inevitabile inseparabilità tra “attivismo Aids” e “attivismo omosessuale”; in tal modo, le forme di repressione combattute dal primo vengono fondate – in una radicale continuità epistemologica – sulle forme di repressione e dominio combattute dal secondo.
Alcuni tentavi, seppur guidati da differenti domande di ricerca, vengono compiuti anche nel panorama sociologico italiano. A fronte della confusa e troppo tecnica comunicazione medica, Renato Stella si propone, nel 1992, di redigere «un esercizio di traduzione dalla lingua degli esperti a quella dell’esperienza concreta.5» Quello che viene realizzato a partire da quest’esercizio è un vero e proprio manuale sulle tecniche di sopravvivenza sessuale in tempi di Aids: spogliando la realtà dell’Aids dalla sua veste da laboratorio, il lavoro di Stella vuole andare in una direzione di “naturalizzazione” delle componenti sessuali inevitabilmente implicate nella trasmissione del virus affinché, chi si ritrova a convivere con questo particolare inquilino, non debba esser sottoposto al «criterio dello spionaggio e del pettegolezzo, invece che della trasparenza.6» Nutrito da un diverso impianto metodologico è invece il lavoro condotto da Fabio Ferrucci7, un vero e proprio tentativo di “mettere alla prova” l’applicabilità degli strumenti sociologici alla «fenomenologia dell’Aids.8» Molto interessante è il suo invito a riconsiderare la coppia salute/malattia (quali sono i confini tra una persona sana e una persona malata?) alla luce delle difficoltà incontrate dagli approcci di matrice biomedica nel tentativo di offrire una categorizzazione degli individui sieropositivi asintomatici9– sollecitazione questa ancora rilevante nel dibattito contemporaneo10.
In un momento che, nella particolare “cronostoria” della malattia, si pone come tutt’altro che contemporaneo, l’analisi di Ferrucci sembra anticipare le direzioni di ricerca adottate dalle scienze sociali in seguito. Ponendo fin da subito il fenomeno dell’Aids nei termini di una relazione sociale, il sociologo cerca di scorgere, nell’esperienza del dialogo con le soggettività affette dal virus, la possibilità di una «positività ultima.11»
Sebbene si ritiene sia questo il terreno su cui occorre continuare interrogarsi, fare qualche “passo indietro” nella ricerca potrebbe risultare vantaggioso. A quarant’anni dalla scoperta del «barbaro invasore,12» tornare a riflettere sui meccanismi che hanno portato a privilegiare determinati significati e non altri potrebbe rivelarsi utile al fine di una maggiore comprensione dei vissuti delle soggettività sieropositive oggi.
Questo contributo si propone di indagare il possibile apporto che uno sguardo semiotico può dare al tema in questione: attraverso l’analisi testuale di alcune delle più importanti campagne sociali italiane a tema Aids/Hiv, si cercherà di evidenziare, in maniera puntuale e precisa, alcune delle principali logiche che hanno portato alla stabilizzazione di alcuni significati associati al virus che trovano particolare spazio di diffusione ancora oggi.

1. Dare un volto all’Aids

«I am not happy that I am sick. I am not happy that I have Aids, but if that is helping others, I can at least know that my own misfortune has had some positive worth.13»
Con queste parole, circa quarant’anni fa, Rock Hudson – volto ben noto dell’industria hollywoodiana – prendeva posizione sulla questione Aids, rendendo la sua personale esperienza strumento per la sollecitazione dell’opinione pubblica. Quando si pensa all’Aids (e, in particolare, agli anni della sua prima apparizione) si è soliti immaginare una sensibilizzazione generale sull’argomento e un forte stato di allerta da parte della collettività. “Non ci si preoccupa più come una volta”, è il commento che ingenuamente potremmo lasciarci scappare confrontando la situazione di allora con quella attuale. E sarebbe in parte anche corretto, se non fosse che, dal momento della sua prima comparsa e per i primi anni ad essa seguenti, l’Aids ha avuto la possibilità di crescere in modo pressoché inosservato, in una generale indifferenza della popolazione. La malattia si è in effetti “presentata” fin da subito come un problema dell’altro, qualcosa che non attraversava la frontiera dei nostri domini culturali. Uno dei primi articoli a riguardo, pubblicato dal “New York Times” nel 1982, informava i lettori di una «nuova malattia che colpiva giovani omosessuali.14» Sebbene il termine Aid (acquired immunodeficiency disease) fosse già in uso (e veniva tra l’altro citato nello stesso articolo), il nome con cui nel corso dell’intero testo vi si faceva riferimento, era Grid (gay-related immune deficiency). In tal modo, come ha potuto sostenere Ferrucci, «il “luogo sociale” del contagio era assunto come criterio definitorio della malattia.15»
Fu solo con l’annuncio di una celebrità del calibro di Rock Hudson – vero e proprio momento d’esplosione – che il tema acquisì maggiore spessore agli occhi dell’opinione pubblica: la malattia, che era ormai propriamente definita come Aids16, non era più un problema relegabile alle periferie culturali, non riguardava più soltanto una ristretta cerchia di persone ma un bacino più ampio, operando così la sua transizione dallo spazio dei nomi comuni al mondo dei nomi propri.
Con l’intrusione dell’AIDS dallo spazio periferico nelle sfere centrali dell’attività culturale, la sensibilizzazione intorno al tema crebbe notevolmente. Allo stesso modo, tuttavia, ebbe modo di crescere anche la paura, che investì globalmente tutti comprendendo sia «rischi circa pericoli oggettivi che quelli concernenti paure soggettive ma non per questo meno reali.17»
Ben presto, la paura della malattia si trasformò in paura del malato; l’irruzione dell’AIDS nel sistema creò in effetti un vero e proprio momento di crisi: crisi del potere medico di fronte all’irrefrenabilità del nemico che, agevolata anche dalla sostanziale natura della malattia e dalle sue modalità di contagio a carattere «comportamentale», mutò in «crisi del culturale stesso.18» La malattia ha preteso con drammatica forza di essere interpretata fin da subito, finendo così per agevolare l’enorme proliferazione di diversi significati “normativi” ad essa associati.
È in tal proposito che Paula Treichler ha potuto definire la malattia come «un’epidemia di significazione;19» non è possibile, secondo Treichler, seguire il pensiero di Susan Sontag e dichiararci against interpretation, resistere alla metaforizzazione dell’AIDS20. La malattia è una metafora e, in quanto tale, bisogna comprenderla (e combatterla) nella sua origine: il linguaggio.

«La storia dell’AIDS, in altre parole, non è semplicemente la storia familiare dell’eroico discorso scientifico. E finché non comprendiamo la duplice vita dell’AIDS sia come realtà materiale sia come realtà linguistica (semiotica?) – una dualità inerente a tutte le entità linguistiche (o semiotiche) ma straordinariamente enfatizzata e potenzialmente letale nel caso dell’AIDS – non potremmo iniziare a leggere la storia di questa malattia in maniera accurata o formulare interventi acuti in proposito.21»

L’Aids non è una realtà autonoma alla quale si può accedere senza passare per “qualcos’altro” prima. Il punto è che le concezioni che si hanno sull’Aids non si basano su una presunta “realtà” ma sull’informazione che i discorsi su di essa producono. Con la sua comparsa come fenomeno sociale, l’Aids ha messo a dura prova il potere di categorizzazione dell’essere umano sfidando le istituzioni e la comunità medica ad elaborare nuove dimensioni linguistiche; è questo un compito che continua tuttora ad essere una delle principali sfide poste da questa malattia sociale in quanto «i termini linguistici definiscono i confini sociali del “male” e delle sue cause.22»
È nei linguaggi e attraverso i linguaggi che l’Aids ha avuto (e ha ancora) modo di crescere ed esercitare la sua forza stigmatizzante nella vita delle persone sieropositive. Nondimeno, è nell’intreccio tra diverse narrative (medica, religiosa ecc.) che ha avuto modo di innestarsi uno dei “racconti” più longevi ed efficaci: quello del «corpo del maschio omosessuale»23.
L’associazione tra sieropositività e “stile di vita gay” sembra, ancora oggi, agire quasi come una “disposizione naturale”, acquisendo così la natura di un abito che, sebbene renda poco plausibili enunciati come i) tutti i sieropositivi sono omosessuali, continua a consentirne altri come ii) tutti gli omosessuali saranno, a un certo punto della loro vita, sieropositivi.
Ora, tutt’altro che naturali, tali associazioni sono in realtà il frutto di diverse stratificazioni discorsive. È possibile, attraverso gli strumenti che la semiotica mette a disposizione, cercare di ricostruire la genealogia di tali forme di sapere? Cercando di rispondere a tali interrogativi, ciò che questo contribuito si propone è un’analisi del modo in cui il fenomeno AIDS è stato messo in discorso, volgendo lo sguardo a quel particolare discorso sociale che è forse «uno dei luoghi privilegiati in vista della figurazione, nel senso più concreto del termine, di taluni rapporti sociali.24» Per questioni di spazio, l’analisi che qui si tenterà di proporre verterà sul solo contesto italiano con particolare riferimento ad alcune campagne sociali che al suo interno hanno trovato fertile spazio d’azione. Per lo sguardo semiotico che qui si vorrebbe adottare, le campagne sociali rappresentano un privilegiato strumento d’analisi: proponendo una visione di come un determinato mondo dovrebbe essere, esse finiscono col parlarci di come effettivamente è. Non solo. In quanto commissionate dallo Stato, sottendono inevitabilmente una particolare visione che la cultura dà di sé (o che vorrebbe per sé) funzionando in tal senso come degli ideali regolativi, degli automodelli. Si tenterà, in seconda battuta, un confronto di tali comunicazioni con quelle afferenti invece dalle associazioni del Terzo Settore per cercare di far emergere le principali differenze tra temi e valori proposti.

2. Se lo conosci lo eviti

La prima trasmissione televisiva italiana a presentare il problema Aids parla di una malattia d’oltreoceano infiltrata drammaticamente anche nei paesi europei, una malattia che colpisce prevalentemente omosessuali e tossicodipendenti. Dei primi pazienti accertati in Italia, nel 1984, i media italiani sottolineano l’orientamento sessuale e i viaggi all’estero da poco compiuti. Il problema sociale Aids viene tuttavia affrontato dalle istituzioni con netto ritardo rispetto alla reale incombenza del problema. La prima campagna propriamente ministeriale viene infatti commissionata solo nel 1988 dal ministro della Sanità Carlo Donat-Cattin – operante sotto l’allora governo De Mita – e portata poi a termine dal successivo esecutivo tra il 1989 e il 1990. La progettazione della campagna AIDS Se lo conosci lo eviti Se lo conosci non ti uccide prevedeva diverse fasi e un programma di diffusione che si serviva di molteplici strumenti mediali (reti televisive, cartellonistica, stampa quotidiana).
Sebbene la diffusione di messaggi tramite trasmissione televisiva rappresentasse già allora un potente mezzo mediale per raggiugere gli spettatori, il Ministro Donat-Cattin decise di avvalersi di un ben più tradizionale mezzo di comunicazione per entrare maggiormente in contatto con i cittadini italiani: pochi mesi dopo il lancio del primo spot, 20 milioni di famiglie italiane ricevettero presso la propria abitazione una lettera con la quale il Ministro della Sanità esortava la popolazione a mantenere «un’esistenza normale» nei rapporti affettivi e sessuali25.
Non sembrano discostarsi da tali modalità di comunicazione gli spot appartenenti alla prima campagna pubblicitaria; si tratterà adesso di riscontrare, attraverso la loro analisi testuale, quanto di vero e quanto di opinabile ci sia dietro tale pensiero.

«AIDS, oggi non esiste ancora una cura efficace. Ma per fortuna non è facile ammalarsi di AIDS: dipende dai nostri comportamenti. L’AIDS non si trasmette con un bacio, o con una stretta di mano. Scambiandosi un bicchiere o usando le stesse posate. L’AIDS non si trasmette conducendo una normale vita di coppia, ma si trasmette attraverso rapporti sessuali con persone già infette. Per questo è meglio evitare rapporti sessuali occasionali con persone sconosciute, e comunque in quei casi cercare almeno di proteggersi col profilattico. L’AIDS si trasmette attraverso sangue infetto. Per questo mai più siringhe usate. AIDS: se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide.26»

Con un accento disforico sulla temporalità, la prima informazione trasmessa dal testo riguarda l’inaggirabilità della malattia. Il tempo presente della narrazione viene infatti avvertito come una sorta di luogo in cui non ci sono armi efficaci per combattere il nemico. Fin da subito, tuttavia, viene posta un’importante premessa: non è facile ammalarsi di AIDS, dipende dai nostri comportamenti. È possibile individuare in queste battute iniziali un’opposizione semantica riducibile a eludibile VS ineludibile, la quale a sua volta conduce a un primo tema dominante: quello della responsabilità. Come sottolinea Violi, responsabilità e libertà – almeno nella nostra cultura – sono strettamente legate: «a partire da un soggetto “libero”, cioè modalizzato secondo il poter fare e il poter non fare, si potrà attribuire la “responsabilità” dell’azione, che a sua volta si articola nell’opposizione “innocenza” VS “colpevolezza”.27» Il soggetto per cui questo testo è pensato sembra far così parte di un socium in cui, a partire da una consuetudine stabilita, si è liberi di agire allineandosi o meno al collettivo dominante (pena l’assunzione delle conseguenze annesse alla propria condotta). A partire da queste premesse, viene indicata una serie di comportamenti ritenuti “non a rischio” (evidenti testimoni dei luoghi comuni e delle paure fondate sulla scarsa conoscenza circa la malattia circolanti in quella cultura); indicativa è la segnalazione, tra questi, del condurre una normale vita di coppia. D’accordo con Eco nel non riconoscere al linguaggio una presunta ingenuità, si tratterà ora di decifrare il senso prettamente culturale nascosto dietro tale “ingenua” asserzione. All’interno del cotesto, un primo interpretante utile a disambiguare il lessema normale è rappresentato dal visivo: nelle immagini (che svolgono una funzione perlopiù didascalica) sono un uomo e una donna a simulare i comportamenti suggeriti dalla voce off. Ma è anche l’opposizione che segue subito dopo a dirci qualcosa di più. Nella contrapposizione con i rapporti sessuali con persone sconosciute, con le «sessualità periferiche,28» l’universo di discorso sembra meglio delinearsi. La normale vita di coppia rimanderebbe, in questo specifico caso, al rapporto matrimoniale (o comunque monogamo) tra un uomo e una donna29. È in questa stessa contrapposizione che viene ad emergere un ulteriore tema (comune, come adesso si vedrà, anche al secondo spot): il rapporto con l’altro, l’esterno al sistema.

«L’AIDS non si vede ma sta crescendo. Perché si trasmette non solo attraverso sangue infetto – per esempio scambiandosi la stessa siringa. Ma l’AIDS si trasmette anche attraverso rapporti sessuali con persone già infette. Ecco perché più partner si cambiano, più rischi si corrono. Ed è così che l’AIDS può crescere e colpire chiunque. L’AIDS è più vicino di quanto pensi. Pensiamoci prima di avere rapporti sessuali occasionali con persone sconosciute, e comunque in quei casi usiamo sempre il preservativo per ridurre il rischio. AIDS: se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide.30»

Se la prima campagna assolve una funzione perlopiù pedagogica (usufruendo di un discorso di tipo scientifico-informativo) e suggerisce, tra le altre cose, una qualsivoglia possibilità di salvezza per coloro che perseguono una condotta sana, la seconda – realizzata appena l’anno seguente – sembra mutare paradigma comunicativo. Ciò che essa comunica in effetti è che i membri della cultura (quelli che ne abitano il centro) non sono più al sicuro di quelli che occupano lo spazio periferico, bensì da questi ultimi sono persino minacciati.
Una sequenza di immagini in bianco e nero mostra il “tipico” percorso del virus: due ragazzi tossicodipendenti si scambiano una siringa infetta, uno dei due ha poi un rapporto sessuale con una donna, a sua volta questa avrà un ulteriore rapporto con un uomo sposato che, in tal modo, porterà il virus all’interno della sua famiglia. Sfruttando al meglio la scelta stilistica del bianco e nero, attraverso un contrasto cromatico “gli altri” vengono marcati da una linea viola corrispondente (simbolicamente) allo stato di sieropositività. Se, attraverso le immagini, riusciamo chiaramente a distinguere chi è contagiato da chi non lo è, ciò non è altrettanto facile o quantomeno immediato nella vita reale, aspetto sul quale sembrerebbe far leva la parte verbale del documento audiovisivo. L’AIDS è un nemico invisibile, e questa sua invisibilità è la causa maggiore della sua crescita. Dopo aver comunicato le principali modalità di contagio (scambio di siringhe, rapporti sessuali con persone infette), si attribuisce nuovamente una valorizzazione negativa ai rapporti non monogami, “non normali”, aggiungendo subito dopo un nuovo elemento: è così che l’AIDS può crescere e colpire chiunque.
«A dispetto della sua insignificanza personale, quindi, la strega si dedica ad attività suscettibili di intaccare il corpo sociale nel suo insieme31» o, per dirla con Lotman, il singolo «izgoj», relegato ai margini della società, mette a repentaglio l’intero collettivo dominante (indicativa è in tal senso la donna che viene mostrata nelle ultime sequenze, alla quale l’unica colpa attribuibile è quella di avere un marito adultero). Viene quindi rinnovato l’invito ad evitare rapporti sessuali con persone diverse, e, qualora se ne presentasse l’occasione, ad adoperare il preservativo. Il generale tono disforico del documento e la forte presentificazione del “nemico”, sia a livello visivo che a livello verbale (l’AIDS è più vicino di quanto pensi), evidenziano la pericolosità dell’altro, pensato come un vettore di morte.
Entrambi gli spot condividono il claim: AIDS: se lo conosci lo eviti. In base a una regola di coreferenza, il pronome personale lo sembrerebbe riferirsi all’AIDS (grazie anche alla posizione che assume in sintagma). Sembra però che gli autori abbiano fatto uso di un «gioco verbale intenzionalmente plurisignificante.32» In entrambi i testi analizzati il tema dell’alterità assume un ruolo preponderante: se nel primo questo impegna il livello verbale (EVITARE rapporti occasionali con persone SCONOSCIUTE), nel secondo è la componente visiva a farsene carico (l’evidenziazione attraverso la linea viola dei cosiddetti “untori”). La domanda che sorge spontanea è dunque la seguente: chi o che cosa è da evitare? Non si vuole con questo sostenere che i testi suggeriscano esclusivamente la marginalizzazione dell’altro (l’individuo sieropositivo), ma, semplicemente sottolineare come l’intentio operis stessa, per dirla con Eco, non sfugga a questa lettura ambivalente.
Nella loro originaria collocazione, i documenti qui sommariamente analizzati erano chiamati ad assolvere una duplice funzione. Da un lato, loro obiettivo era fornire agli attori di quella cultura conoscenze basilari sulla malattia. Dall’altro, un’esigenza ben più complessa andava a imporsi: in un clima di generale allerta e sovraeccitazione della popolazione, di primario interesse era trovare un modo per placare gli stati d’animo ed esorcizzare la paura di quella che da molti veniva sentita – in linea con il gusto occidentale per gli scenari apocalittici – come la peste del nuovo millennio. La reale incombenza dell’AIDS venne aggirata in favore di una più accessibile causa sociale. Lo stile comunicativo adottato non ricorse unicamente a un discorso scientifico-informativo (anzi, una macchia oscura viene gettata anche sull’uso del profilattico, il cui uso veniva consigliato solo nei rapporti con “l’altro”33) ma si fece soprattutto promotore di un discorso comportamentale, morale e normativo.
Il pedante ricorso alla sessualità usato nei testi34, sembra rispondere a un’esigenza di tipo regolativo-comportamentale: mostrando la giusta prassi da adottare in tale universo di senso, i testi preconizzano i comportamenti accettabili da parte del “noi”, instaurando vere e proprie grammatiche di comportamento all’interno della collettività. Se la logica della vergogna si presenta come arma fondamentale per limitare il contagio, i rapporti dei membri della comunità con l’altro sembrano essere fondamentalmente regolati dalla logica della paura.
Costui, che con i crimini “indifferenziatori” di cui si macchiava metteva a repentaglio l’intero corpo sociale, portò la cultura a rafforzare la propria frontiera, in quanto «la differenza fuori dal sistema è terrificante perché fa intravedere la verità del sistema, la sua relatività, la sua fragilità, la sua mortalità;35» il ruolo dell’altro si rivelò, in questo caso, funzionale alla descrizione che la cultura stessa dava di sé: «non è la minaccia che suscita la paura, ma la paura che crea la minaccia.36»
Posta di fronte all’intrusione dell’AIDS nelle zone centrali dell’attività culturale, la cultura dominante ha reagito costruendo un “soggetto collettivo a rischio” che la affrancasse dal senso di pericolo rappresentato dalla pervasività della malattia. L’ispessimento della categoria del “noi” rispetto al “loro” ha portato all’emersione di fenomeni stigmatizzanti in un sistema culturale dove «l’intero dominio dei non conformi risultava punibile.37»

3. Alcune riflessioni su iniziative non ministeriali

Tuttavia, fin dalle prime notizie circolanti in Italia sulla malattia – e ben prima di qualsivoglia attività ministeriale – diverse organizzazioni afferenti al Terzo Settore hanno iniziato a prendere vita per farsi carico del problema Aids e offrire una diversa cornice di senso nel quale inserirlo. Nel 1985 nascono Anlaids (Associazione Nazionale per la Lotta all’AIDS) e Asa (Associazione Solidarietà AIDS) seguite poi, nel 1987, dalla Lila (Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS); inevitabile anche l’impegno sociale di Arcigay, nata ufficialmente nel 1981 a difesa dei diritti degli omosessuali e tra le voci più significative a schierarsi nella lotta contro l’AIDS. L’attività di Anlaids si è distinta nel corso degli anni per l’interesse agli aspetti economici del problema: numerose sono state le iniziative con cui si sollecitava la popolazione a destinare denaro per i fondi di ricerca della malattia. Gli approcci comunicativi dell’associazione sono infatti perlopiù incentrati sul tema delle donazioni; una delle recenti campagne stampa invitava infatti la popolazione a fare come i protagonisti delle affissioni: “Prendi un bonsai. Condanna a morte l’AIDS”. Il linguaggio della prevenzione di Arcigay si pone invece su un livello provocatorio: pensato per épater le bourgeois38, lo stile comunicativo dell’associazione è volto a scuotere la comunità dei “normali”.
Molto importante è stata anche l’attività della fondazione italiana per la comunicazione sociale Pubblicità Progresso che, nel 1987, è stata la prima associazione europea a realizzare un’efficace campagna a tema AIDS proponendosi come obiettivo l’eliminazione di alcuni fenomeni stigmatizzanti che allora stavano già emergendo.
La campagna sociale in questione sembra essere testimone di una possibile prospettiva altra sul tema, una differente messa in discorso rispetto a quella che era la narrazione mediale dominante di “quella cultura”, e proprio per questo motivo viene a rappresentare, in questa sede, un prezioso strumento per meglio discernere il rapporto dialogico all’interno del quale si inserì.
Il documento audiovisivo si apre con la macchina da presa che avanza lentamente su un uomo nudo raccolto in posizione fetale fino ad arrivare a un primo piano di questi, mentre un narratore extradiegetico recita:

«Chi è colpito dal virus dell’AIDS lotta con un nemico che è dentro di sé e con un nemico che è fuori di sé: la tua paura. Ma il virus si trasmette con rapporti sessuali non con rapporti umani, quindi usa delle precauzioni, ma non essere prevenuto. La solidarietà non è un rischio. AIDS: i rapporti umani non trasmettono il virus.39»

La narrativa del testo sembra essere abbastanza chiara: le persone affette da AIDS devono non solo affrontare la malattia, ma combattere anche contro le discriminazioni cui sono soggetti (eloquente è a tal proposito la nudità che, quasi icasticamente, va a rafforzare l’esposizione all’ambiente esterno e la fragilità delle persone sieropositive). Senza alternative lascia allora l’interpellazione, con la quale il protagonista contrasta «l’oggettità»40 a cui lo si vorrebbe ridurre, ed impone per se stesso il diritto ad un’individualità: reclama un suo ruolo attanziale. Tuttavia, ciò che qui interessa non è solo l’analisi testuale in sé ma anche il lavoro di contestualizzazione compiuto sul documento audiovisivo nell’archivio online della fondazione. Sulla pagina web in cui il video viene trasposto, sono infatti presenti informazioni che vanno a restituire al documento la sua originaria collocazione, il contesto nel quale è stato generato.

«In un momento in cui i grandi mezzi di comunicazione affrontavano il tema AIDS con un’informazione “terroristica” che parlava di “nuova epidemia” [..] Pubblicità Progresso concentra i propri sforzi contro l’acuirsi dei fenomeni di ghettizzazione e di reazioni isteriche da parte della popolazione nei confronti dei sieropositivi.41»

Nel tentativo di superare il «gap culturale»42 che ci separa dalla piena interpretazione del testo, vengono quindi fornite chiavi di lettura utili alla sua comprensione. È solo nella traduzione tra il testo e il suo contesto (e in particolare tra il testo e gli altri testi di quella cultura) che il senso viene propriamente attivato.
Preso singolarmente e staccato dal suo dominio di circolazione il testo perde la sua reale efficacia comunicativa. È solo il contesto originario a dirci qualcosa in più sui suoi meccanismi di generazione: questo testo non ci parla insomma di una cultura altra rispetto a quella generatrice dei testi sopra analizzati, ma, molto più semplicemente, è testimone dell’eterogeneità interna alla stessa. Non si può tuttavia non riconoscere come dominante una tendenza anziché l’altra, non foss’altro che per il lavoro di contestualizzazione cui il documento è stato sottoposto, con cui si sottolinea come la campagna sia nata proprio per contrastare la tendenza opposta e come – ancora oggi – sia questo il tipo di comunicazione al quale è riservato il titolo di corretta informazione sull’AIDS quasi marcando l’esistenza di informazioni stereotipate e scorrette circolanti nella cultura in cui siamo ancora oggi immersi.
Un ulteriore discorso a parte va condotto anche per le iniziative proposte dalla Lila. L’associazione si è negli anni distinta non solo per la qualità dei messaggi di volta in volta veicolati, ma anche e soprattutto per uno stile comunicativo che ha fatto dell’ironia uno dei principali strumenti nella lotta alle narrazioni dominanti che circondavano l’AIDS.
Tra le prime campagne realizzate dall’associazione (e sicuramente tra le più ricordate) c’è quella condotta nel 1997: una serie di poster con delle immagini sarcastiche in rilievo su uno sfondo giallo.
Il primo soggetto qui presentato ritrae in primo piano “zio Gino”, un uomo anziano dall’espressione beffarda con lo sguardo volto direttamente allo spettatore. Il testo che accompagna l’immagine lo presenta come un uomo sulla settantina che ha avuto, nel corso della sua vita, più di ottomila rapporti sessuali senza contrarre alcuna infezione sessualmente trasmissibile. La strategia adottata è chiaramente volta a porre un accento euforico sui rapporti sessuali occasionali in un tentativo di procedere ad una loro normalizzazione: non è più la famiglia, quindi, ad essere la sede più «idonea per un equilibrio interpersonale efficace nella lotta contro l’AIDS», ma l’utilizzo di precauzioni nei rapporti sessuali a candidarsi come strumento efficace di prevenzione.
Ciò che preme sottolineare, fin dall’analisi di questo primo documento, è la diversa modalità con cui si è declinato uno stesso problema (quale, in questo caso, quello della prevenzione AIDS). Pur volendo escludere dalla comparazione il tono allarmistico che ha caratterizzato le prime campagne ministeriali qui prese in esame per volgersi invece verso quelle più recenti, ci si rende conto di come il linguaggio che si è continuato ad adottare, nonché il complessivo messaggio veicolato, differisca nettamente da quello proposto dall’associazione. Sebbene il tono delle comunicazioni ministeriali si sia nel corso del tempo ammorbidito, i valori su cui tali campagne si incentrano fanno tutti perno su tematiche come la famiglia, l’amore, il rispetto per la vita. Difatti, una delle principali critiche rivolte alle campagne ministeriali da parte di esperti di comunicazione è il mancato riferimento esplicito al preservativo come strumento di prevenzione nella lotta all’AIDS; dopo le campagne degli anni novanta, è stato solo con la campagna del 201243 che si è tornato a parlare esplicitamente di preservativo.
Ciò che l’associazione ha allora cercato di fare è stato farsi carico di un problema esistente (la trasmissione sessuale della malattia) e parlarne con un lessico appropriato. È possibile avere rapporti sessuali senza amore, è possibile godere del sesso senza caricarlo di significati morali. Ciò che la Lila sembra voler comunicare è che è possibile condurre una vita sessuale “promiscua” e vivere a pieno la propria sessualità senza per questo dover essere considerati come categoria a rischio: fai come zio Gino. Usa il preservativo e vivi a lungo.
Anche il secondo soggetto si avvale dell’ironia per cercare di combattere i codici enciclopedici sedimentati nella cultura dell’epoca. L’headline del manifesto, Ecco la peste del duemila, ci introduce infatti alla figura che occupa lo spazio centrale del manifesto: un bambino con le gambe divaricate ritratto nell’atto di utilizzare una fionda. Il manifesto, realizzato per celebrare «i dieci anni contro i luoghi comuni» spesi dalla Lila nella lotta all’AIDS, si pone in diretta polemica (sebbene lo faccia in maniera sarcastica) con quel carico di significati che intorno alla malattia si sono sviluppati e che ne hanno definito la natura sociale: l’obiettivo è della campagna è beffarsi, in maniera intelligente, dei luoghi comuni circolanti all’interno delle sfere culturali che identificavano la malattia come la “nuova peste”. Attraverso un abile lavoro di disseminazione semica all’interno del testo, la Lila ci invita ad interpretare il contenuto semantico del lessema /peste/ attivandolo nel suo più appropriato piano enciclopedico (e non senza far riferimento a quello apocalittico da evitare).
Una breve parentesi va dedicata anche al lavoro compiuto da parte dell’associazione negli ultimi anni. Oltre ad essere stata la prima (e per il momento l’unica) ad aver realizzato una campagna d’informazione incentrata sulle nuove scoperte medico-scientifiche che garantiscono la non trasmissibilità del virus in pazienti con carica virale non rilevabile, la Lila ha negli ultimi anni incentrato i suoi sforzi sulla normalizzazione della condizione di sieropositività, considerabile come una semplice caratteristica al pari degli altri tratti di un individuo.

4. Carrier e Pubblic: identificazioni paradossali

Quali riflessioni possono allora prendere vita dall’analisi testuale qui condotta? Appare abbastanza evidente come l’oggetto culturale creato da questi claim maker si distingua nettamente da quelli prodotti dagli organi istituzionali: laddove i testi prodotti dall’alto si occupano di tematiche inerenti la gestione del contagio e la consapevolezza del problema, le comunicazioni afferenti alle libere associazioni sono volte ad affrontare tematiche che realmente si manifestano nella vita quotidiana (dal sesso occasionale, alle concrete discriminazioni cui i sieropositivi sono soggetti nella cultura in cui, di fatto, circolano).
Non ci si inoltrerà allora in un territorio lontano dal vero affermando che tali associazioni siano più sensibili e più vicine alle comunità LGBTQ+. Ciò viene affermato principalmente per i problemi sociali che tali associazioni si apprestano a trasformare in oggetti culturali, per il particolare pubblico di riferimento che i testi stessi, in netta contrapposizione con le comunicazioni ministeriali, costruiscono.
Walt Odets, psicoterapeuta e attivista per i diritti della comunità omosessuale, avanza ad esempio la necessità, da parte della comunità omosessuale, di un ripensamento dei discorsi sulla Salute Pubblica sulla comunità omosessuale. In un saggio fondamentale che si colloca in quell’area di studi conosciuta oggi sotto il nome di Queer Studies, Odets mette in luce il modo in cui i discorsi istituzionali sull’Aids abbiano portato “il giovane maschio gay” alla paradossale identificazione di se stesso e come vettore della malattia (carrier) e come facente parte della popolazione generale da proteggere dall’infezione (public)44.

«The gay community’s identification with the public in public health’s paradigm is relatively understandable. Our public-to-be-protected is after all, gay men who still are uninfected. But our complex identifications with each other as gay men […] and our identifications with culpability and shame for simply being and living as homosexuals have created an indiscriminate identification with the paradigm’s carrier among a majority of gay men, whether infected or not»45.

E in effetti, le campagne ministeriali qui analizzate sembrano prestare poca attenzione a quella parte di popolazione già infetta, mostrandosi più attente a preservare la “popolazione generale” dal contagio, popolazione che coincide, in definitiva, con la coppia eterosessuale. Il maschio gay sieronegativo si sente alieno all’interno di quei documenti audiovisivi: impossibilitato ad identificarsi pienamente con quella parte di popolazione da proteggere dal virus e, allo stesso tempo, non identificabile nemmeno con “l’untore”. Volgendo rapidamente lo sguardo alle comunicazioni che di lì sono seguite, non si può certo affermare che le cose siano migliorate. Sebbene i toni allarmistici siano stati abbandonati già a partire dal 1995, messaggi e lessico rimangono in qualche modo in un’impasse, incapaci di fare riferimento esplicitamente alle dinamiche concrete legate a quella che tutt’oggi si presenta come una malattia a trasmissione principalmente sessuale. I pur solidali messaggi ministeriali che si sono dati negli ultimi anni fanno, per l’appunto, perno sul concetto di solidarietà: una concessione che gli appartenenti della comunità del “noi” rivolge alle figure che incarnano quell’irrimediabile alterità (la comunità dei devianti)46.
D’altronde, scrive Odets, al «responsabile maschio gay» che oggigiorno controlla regolarmente la sua condizione sierologica e che, altrettanto regolarmente, scopre di essere sieronegativo, viene detto di «sentirsi grato, magari immeritevole di tale condizione, ma comunque fortunato.47» Secondo lo studioso si richiede in definitiva, da parte della comunità omosessuale, una riappropriazione della narrativa costruita dalla Salute Pubblica che continua a farli identificare contemporaneamente sia come carrier sia come public.
Tali identificazioni sono, a suo avviso, riscontrabili nell’enorme numero di uomini gay che non hanno contratto il virus ma che continuano a testarsi senza motivo convinti dell’inevitabilità dell’infezione che, prima o poi, sopraggiungerà48. C’è, secondo lo studioso, un profondo sentimento inconscio che porta gli uomini omosessuali a vedere come incompossibili tra loro l’essere omosessuale e il non essere infetti da Hiv.

4.1 Fenomeni di traduzione

Tali affermazioni potrebbero allora essere corroborate, anche in Italia, dalle statistiche sull’incidenza della sieropositività tra omosessuali ed eterosessuali: negli ultimi anni, nei dati trasmessi dall’Istituto Superiore della Sanità si può leggere una diminuzione di contagi tra omosessuali maschi e, per contro, un significativo aumento di contagi causati da rapporti sessuali non protetti tra eterosessuali. Costretta a confrontarsi con le narrative dominanti che la considerano come categoria a rischio, tale comunità è corsa ai ripari considerandosi effettivamente essa stessa come soggetto ospitante privilegiato dal virus e risultando oggi come quella parte della popolazione che risulta essere la più informata in merito al tema AIDS. Effetto inverso si registra invece tra la popolazione eterosessuale che, avvertendo se stessa come esente dal rischio del contagio, appare disinteressata al problema e totalmente sprovvista finanche delle informazioni basilari circa i mezzi di trasmissione del virus.
Questo fenomeno apre allora un importante spazio di riflessione per la semiotica della cultura, offrendo la possibilità di tornare a interrogarsi sui meccanismi traduttivi messi in atto dalle strutture culturali chiamate a confrontarsi con elementi ad esse estranei, così come li aveva teorizzati Lotman:

«L’ introduzione di strutture culturali estranee nel mondo interno di una cultura comporta la creazione di una lingua comune e questo, a sua volta, richiede l’interiorizzazione di queste strutture. La cultura deve cioè interiorizzare la cultura esterna al suo mondo. Questo processo è sempre contraddittorio […ed è] legato alla perdita di certe proprietà dell’oggetto esterno riprodotto, e spesso quelle che sono più valide come stimolatori. Facciamo un esempio. Il fenomeno poetico di Puskin era considerato dalla letteratura e dai lettori del secondo decennio dell’800 straordinario e innovatore. L’assimilazione di questo fenomeno rese necessaria la creazione […] dell’“immagine di Puskin”. […] Questa immagine ha interpretato e tradotto il mondo di Puskin facilitandone la comprensione e nello stesso tempo lo ha semplificato, eliminando tutto ciò che era nuovo, dinamico e che non rientrava nei suoi schemi, generando così l’incomprensione. […] nello stesso tempo, questa immagine ha influito sul comportamento e sull’attività creativa del vero Puskin, spingendolo a comportarsi “come Puskin”.49»

Con la sua irruzione nelle sfere dell’attività culturale, l’AIDS ha costretto ad assimilare – a tradurre – non solo se stesso, ma l’intera comunità degli omosessuali. Allora ancora “sconosciuta”, costretta a vivere nell’ombra e non pienamente legittimata a vivere un’esistenza “normale” come oggi apparirebbe scontato aspettarsi grazie agli abiti acquisiti, tale elemento di alterità è esploso all’interno delle sfere culturali dominanti esigendo di essere assimilato. Ma, esattamente come accaduto con Puskin, ciò non è avvenuto senza semplificazioni, tagli, distorsioni: l’assimilazione di tali comunità ha inevitabilmente richiesto la creazione di un’immagine – da parte della cultura dominante – di queste stesse comunità, un’immagine che fosse leggibile e maneggiabile e che, come Odets ha dimostrato, ha influito sul reale comportamento della comunità assimilata. Nel ritrovare un’esistenza forzata in un sistema culturale che non la implicava e che le ha assegnato poi un ruolo di irrimediabile alterità, tale comunità ha assunto su di sé quella stessa immagine forgiata dalla cultura dominante.
In anni in cui la semiotica sembra riaprirsi al dialogo con le altre discipline – andando così a recuperare quella vocazione politica che ha visto caratterizzare la sua stessa nascita – potrebbe risultare molto interessante uscire dalla fissità delle rappresentazioni testuali già date per dedicarsi invece all’analisi delle pratiche, delle interazioni in atto e delle dinamiche che, di fatto, i sieropositivi affrontano nella loro vita quotidiana. Vedere, attraverso le narrazioni del sé offerte da queste particolari forme di vita, quanto l’attuale “mappa della semiosi” dica loro chi sono e cosa (o come) pensano50.

Note

  1. Paula Treichler, How to have theory in an epidemic. Cultural chronicles of AIDS, London, Duke University Press, 1999.
  2. Luigi Lombardi Satriani, Aids, alterità, silenzi, in Boggio M., Lombardi Satriani L. M., Mele F., Il volto dell’altro. Aids e immaginario, Roma, Meltemi.
  3. Eileen Moyer, The Anthropology of Life After AIDS: Epistemological Continuities in the Age of Antiretroviral Treatment, in The annual review of Anthropology, 2015, n. 44, pp. 259-275.
  4. Josh Gamson, Silence, Death and the Invisible Enemy: AIDS Activism and Social Movement “Newness”, in Social Problems, 1989, vol. 36, n.4, pp. 351-367.
  5. Renato Stella, Laura Corradi, Il rischio dell’amore. Tecniche di sopravvivenza sessuale in tempi di Aids, Milano, Franco Angeli, 1992, p. 13.
  6. Ivi, p. 117.
  7. Fabio Ferrucci, Vivere con l’Aids. Introduzione all’analisi sociologica, Milano, Franco Angeli, 1996.
  8. Ivi, p. 11.
  9. Ivi, p. 14.
  10. Per un approfondimento si veda Caterina Di Chio, Angela Fedi, Katiuscia Greganti (a cura di), Vivere la sieropositività. I giovani, la comunità, l’AIDS, Napoli, Liguori, 2013.
  11. Fabio Ferrucci, Vivere con l’Aids. Introduzione all’analisi sociologica, cit. p. 239.
  12. Susan Sontag, AIDS and Its metaphors, New York, Picador, 1988.
  13. Karen Ocamb, There was an uglier time in America than now , visto il 30 marzo 2021.
  14. Lawrence K. Altman, New homosexual disorder worries health officials, visto il 30 marzo 2021.
  15. Fabio Ferrucci, Vivere con l’Aids. Introduzione all’analisi sociologica, cit., p. 47.
  16. Sulla denominazione, e, in particolar modo sul cambio del nome, si veda Juri Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 166-171.
  17. Luigi Lombardi Satriani, Aids, alterità, silenzi, in Boggio M., Lombardi Satriani L. M., Mele F., Il volto dell’altro. Aids e immaginario, Roma, Meltemi, 1995, p.18.
  18. René Girard, Il caprio espiatorio, Milano, Adelphi, 2018, p. 30 [ed. or. Le Bouc émissaire, Paris, Grasset, 1982].
  19. Paula Treichler, How to have theory in an epidemic. Cultural chronicles of AIDS.
  20. Susan Sontag, AIDS and Its metaphors.
  21. Paula Treichler, How to have theory in an epidemic. Cultural chronicles of AIDS, cit., p. 66.
  22. Ginevra La Rocca, Dall’allarmismo alla prevenzione. Una riflessione sulle campagne di comunicazione sociale contro la diffusione dell’HIV/AIDS degli ultimi trent’anni, in “Mediascapes Journal”, n.8, 2017, pp. 219-250.
  23. Paula Treichler, How to have theory in an epidemic. Cultural chronicles of AIDS, cit., p 69.
  24. Eric Landowski, La società riflessa, Roma, Meltemi, 1999, p. 137 [op. or. La societé réfléchie, Paris, Seul, 1989].
  25. Lettera sull’AIDS di Carlo Donat Cattin, visto il 30 marzo 2021. All’interno della lettera (che suscitò non poco clamore mediatico) veniva esplicitamente dichiarato che la malattia aveva dei destinatari privilegiati: «esistono comportamenti, categorie a rischio». Tuttavia, ad essere poi riportate come esempio erano solo le “categorie” (emofiliaci, omosessuali e tossicodipendenti). L’intero documento pare essere intriso di un discorso fortemente moralistico atto a delineare un genere di condotta standard da adottare per potersi sentire parte della comunità contribuendo così a rendere tabù qualsiasi argomento legato alla sessualità che non coincida con quelli di /amore/ e /famiglia/ (indicata come «la sede più idonea» per combattere la malattia). Proprio su questi temi – rivolgendosi alla “popolazione generale” – il Ministro sembra chiedere, qualora non si fosse in grado di avere una relazione stabile, di attenersi alla castità. In definitiva, tutti i temi messi in risalto all’interno del documento come strategia di difesa a fronte della malattia pongono l’accento sulla sfera della sessualità: declinando temi come quello della famiglia e della moralità religiosa, il ministro sembra voler mettere in primo piano la diffusione (omo)sessuale della malattia.
  26. Hiv/Aids spot Ministero Salute (1988), visto il 30 marzo 2021.
  27. Patrizia Violi, Caché, o il senso nascosto, in “Versus”, 2007, n. 103-105, Milano, Bompiani, p. 30.
  28. Michel Foucault, La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 2017, p. 38 [op. or. La volonté de savoir, Paris, Gallimard, 1976].
  29. Non sfugge tuttavia che, per la piena disambiguazione del termine, si renda necessario innanzitutto un meccanismo di traduzione tra due differenti culture. Il lessema nello specifico assume infatti il significato di “conformità alla consuetudine”; va da sé che le connotazioni assunte dal termine varierebbero da cultura a cultura. Bisogna insomma, per restituire alla parola la reale efficacia che aveva per chi l’ha pensata, «ricostruire in noi la situazione di verginità in cui si trovava chi per primo l’ha avvicinata» Umberto Eco, La struttura assente, Milano, La nave di Teseo, 2016 [1^ ed. Milano, Bompiani, 1968]
  30. Hiv/Aids spot Ministero Salute (1989), visto il 30 marzo 2021.
  31. René Girard, Il caprio espiatorio, cit. p. 36.
  32. Juri Lotman, La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, Venezia, Marsilio, 1985, p. 103.
  33. A conferma di ciò, la già citata lettera che Carlo Donat-Cattin inviò ai cittadini italiani. «Il ministro della Sanità è tenuto a dare indicazioni utili e il più possibile complete per far conoscere e combattere la malattia a chi si attiene alla morale di radice religiosa (di matrice protestante, ci verrebbe da dire) e anche laica e a chi ne vuol essere estraneo. Con i primi il problema è più semplice. Con i secondi è più complesso: campagne di ogni tipo vorrebbero persuadere della perfetta possibilità di prevenire la malattia e, insieme, di praticare stili di vita rischiosi. Le cose non stanno così. Chi afferma, ad esempio, l’assoluta sicurezza offerta dal preservativo, è smentito da quasi tutti gli esperti» (corsivo nostro).
  34. Nonostante si riconosca l’effettivo bisogno di farvi ricorso, ciò che appare ridondante è l’uso eccessivo – e non del tutto giustificato – che ne è stato fatto: che bisogno c’era di ricorrere a delle figure nude per mostrare dei banali comportamenti appartenenti alla quotidianità (la stretta di mano, la condivisione delle posate ecc.)?
  35. René Girard, Il caprio espiatorio, cit., p. 42.
  36. Juri Lotman, La caccia alle streghe. Semiotica della paura, in “E/C. Rivista on line dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici”, 1998, p. 2.
  37. Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 2018, p. 178 [op. or. Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975].
  38. Emanuele Gabardi, Stop AIDS. I linguaggi della pubblicità contro l’AIDS in Italia e nel mondo, Milano, Franco Angeli, 2017, p. 47.
  39. Pubblicità Progresso – Corretta informazione sull’AIDS, visto il 30 marzo 2021.
  40. Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Milano, il Saggiatore, 2014, pp. 305-358 [op. or. L’être et le néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Paris, Gallimard, 1943].
  41. Pubblicità Progresso – Corretta informazione sull’AIDS, visto il 30 marzo 2021.
  42. Edoardo Lucatti, Matteo Treleani, Fare presente. Per una semiotica dell’archivio, in “Versus”, 2013, n. 116, Bologna, il Mulino.
  43. Spot Campagna Lotta AIDS 2012/2013, visto il 30 marzo 2021.
  44. Walt Odets, On the Need for a Gay Reconstruction of Public Health, in Martin Duberman (a cura di), A Queer World. The center for Lesbian and Gay Studies Reader, New York-London, New York University Press, 1997.
  45. Ivi, p. 671.
  46. Resterebbe comunque da chiedersi perché, alla luce di tutte le informazioni che si posseggono (o che si dovrebbero possedere) oggi circa il virus, si rendano ancora necessarie campagne volte a contrastare pregiudizi e fenomeni di stigmatizzazione.
  47. Walt Odets, On the Need for a Gay Reconstruction of Public Health.
  48. Su questo si veda anche Walt Odets, Out of the Shadows. Reimagining gay men’s lives, New York, Farrar, Strauss and Giroux, 2019.
  49. Juri Lotman, La semiosfera, pp. 124-125.
  50. Umberto Eco, Semiotica e Filosofia del Linguaggio, Torino, Einaudi, 1984, cit. p. 54.

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