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Attualità dell’inattuale. Benito Mussolini: variazioni semiotiche di un dittatore
di , numero 49, giugno 2020, Saggi e Studi, DOI

Attualità dell’inattuale.  Benito Mussolini: variazioni semiotiche di un dittatore
Come citare questo articolo:
Mario Panico, Attualità dell’inattuale. Benito Mussolini: variazioni semiotiche di un dittatore, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 49, no. 6, giugno 2020, doi:10.48276/issn.2280-8833.4046

1. Introduzione1

Nel 2018 viene distribuito in Italia “Sono tornato” un film che, sulla scia di quanto già visto in Germania tre anni prima con “Er ist wieder da” (Lui è tornato, 2015), immagina il ritorno di Benito Mussolini nel tempo presente. L’ex dittatore d’Italia si risveglia dal mondo dei morti con l’obiettivo – tra un selfie e l’altro con i suoi fan –di “ricreare l’impero”.
Non considerando lo scarso successo di pubblico e i commenti dei critici che stroncano la pellicola all’unanimità per il revisionismo “soft” che propone, il solo merito da riconoscere a questa produzione è l’aver posto l’accento sulla inattualità dell’estetica e del linguaggio mussoliniano. Il dittatore, interpretato da Massimo Popolizio, parla in modo vetusto, è spesso vittima di equivoci grotteschi dovuti al diverso clima culturale in cui è inserito. Mussolini è inattuale per i tempi contemporanei.
Lasciando da parte il cinema, virando la riflessione verso la politica e il linguaggio, sarebbe impensabile oggi, in democrazia, avere un esponente di partito, per quanto di destra troppo di destra, che segua pedissequamente lo stile comunicativo di Mussolini, proponendo nei discorsi pubblici stessa intonazione della voce, postura e smorfie facciali. Nel giro di qualche presentazione pubblica, il suddetto politico finirebbe con il diventare caricatura di se stesso, replicato in formato meme, ridicolizzato in loop su tutti i canali social. Pur non negando, in alcuni casi, delle rime o delle somiglianze di famiglia problematiche con l’immaginario fascista e mussoliniano, qualche “molti nemici molto onore” citato qua e là in campagna elettorale non trasforma – per fortuna – dei politici che se ne servono in dei dittatori di Piazza Venezia.
Questa inattualità retorica, pur data per assodata, non azzera però gli spazi in cui Benito Mussolini è evocato come esempio di grande statura politica o come riferimento culturale. L’aspetto centrale sul quale riflettere diventa allora non tanto l’inattualità di per sé quanto la conversione di ciò che “non è più” e “non può più essere” in un valore per il presente.
Se è vero, come ha fatto notare Umberto Eco, che nessuno si affaccerà più da un balcone dicendo “voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata nelle piazze italiane”2, perché Benito Mussolini è ancora di moda? Perché esistono spazi urbani in cui gruppi di nostalgici ne rivendicano e variano il potere simbolico?
Il riferimento è a Predappio, piccolo paesino romagnolo che ha dato i natali a Benito Mussolini. Ogni anno questo paese è meta di pellegrinaggio per diversi gruppi neofascisti/nostalgici del regime. In quelle occasioni, l’inattuale – inteso sia come ciò è “fuori dal tempo” presente, ma anche come qualcosa che ad ogni sua manifestazione esplicita caratteristiche di obsolescenza – si valorizza alimentando forme di appassionamento che ne promuovono il ritorno e quindi la ri-attualizzazione.
Pensando a una tipologia proposta da Omar Calabrese tra le pagine de Il Neobarocco, in cui il semiologo parla degli effetti estetici dovuti alla citazione del passato, i nostalgici e neofascisti di Predappio credono di configurarsi nella propria semiosfera come “storici che ricostruiscono, critici che interpretano, divulgatori che spiegano”3, non certo come nostalgici che inventano una forma di passato rendendola il meno anacronistica possibile. Tanto è vero che la tipologizzazione che più rifiutano è proprio quella di “nostalgici”, in quanto prevede una consapevolezza emotiva circa l’impossibilità della riproposizione “com’era dov’era” del passato, data l’irreversibilità del tempo. In questo caso, le suddette invenzioni non sono solo una forma di risemantizzazione edulcorata del passato ma costituiscono l’ingranaggio di una “ingegneria della memoria” che alimenta la formazione di nuovi codici che ne normalizzano la struttura.
In altre parole, un evento come il Ventennio, sedimentato nella memoria collettiva maggioritaria come traumatico, a Predappio viene filtrato, tradotto e immaginato attraverso la magnificazione di particolari che ne narcotizzano la drammaticità, diventando puro feticcio senza conflitti narrativi. Questo genera a cascata un cambio di senso che inverte la dinamica centro-periferia dei valori, sfuma i ruoli attoriali, legittimando la semiotizzazione del dittatore inattuale come santo, umile padre di famiglia e oggetto vendibile.

2. Predappio e la periferia che diventa centro

Predappio, così come la conosciamo oggi, è una città d’invenzione. Si tratta di uno dei tanti centri urbani eretti durante il periodo fascista per esaltare meticolosamente il mito della personalità di Benito Mussolini. In particolare, Predappio Nuova (così chiamata nel 1925 perché la vecchia parte della città della provincia forlivese era solo un agglomerato di poche case di campagna) comprende anche il luogo natale di Benito Mussolini, Dovia, da “duvi” (due vie), il nomignolo in dialetto romagnolo che gli abitanti avevano dato a questo pezzo di terra che aveva solo poche strade di campagna.
Benito Mussolini, salito al potere, decide di cambiare l’assetto urbano della sua città natale, trasformandola in quella che la propaganda definisce la “meta ideale di ogni italiano”. Il paese nasce quindi sotto una stella precisa: essere un luogo di pellegrinaggio, progettato per essere attraversato seguendo il punto di fuga del cimitero4. E così sarà per tutto il Ventennio, quando numerosi italiani raggiungono il paese romagnolo per onorare la tomba della madre di Mussolini, la maestra di Predappio Rosa Maltoni e di suo padre, fabbro, Alessandro.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, Predappio cade nell’oblio e nel disinteresse generale fino al 1957. In quell’anno la salma dell’ex dittatore, vilipesa ed esposta dodici anni prima a Piazzale Loreto a Milano, viene restituita a Rachele Mussolini, su intercessione dell’allora primo ministro democristiano Adone Zoli, anche lui di origini predappiesi. Una delle condizioni previste da Zoli per questo trasferimento è che il sindaco Egidio Proli, comunista, sia d’accordo con il trasferimento permanente. Fa parte degli aneddoti che gravitano intorno a questa vicenda la risposta del sindaco di Predappio alla richiesta di un suo benestare: “Mussolini non ci ha fatto paura da vivo, non ce ne farà da morto”.

Il corpo più amato dagli italiani5 viene quindi seppellito nel cimitero di San Cassiano il 31 agosto dello stesso anno: data estiva scelta per evitare la presenza massiccia di nostalgici. Nonostante questa decisione strategica, quel giorno ad accompagnare la salma ci sono circa tremilacinquecento neofascisti6.
Da quel giorno, Predappio ritorna ad essere sito di pellegrinaggio. In occasione delle ricorrenze legate all’anniversario della nascita e morte di Mussolini (29 luglio e 28 aprile) e della marcia su Roma (28 ottobre), il paese è centro di attrazione spaziale per diversi gruppi di neofascisti, ex-camerata, giovani che rimpiangono il fascismo pur non avendolo mai vissuto. Essi mettono in atto una serie di pratiche dalla forte connotazione cattolica volte a esaltare la figura di Benito Mussolini, trasformando la sua inattualità in un valore necessario all’interno della propria semiosfera d’azione.
Come già detto, infatti, a Predappio si inverte la dinamica centro-periferia, tanto che i valori del fascismo, posti solitamente ai margini della semiosfera, vengono rivendicati come strumento di autorappresentazione. Nei discorsi dei nostalgici chi non è al “passo coi tempi” è l’antifascista. In quei giorni, a Predappio, avviene qualcosa di particolarmente rilevante dal punto di vista semiotico: la formazione di un nuovo equilibrio in cui il pensiero maggioritario antifascista diventa periferico o addirittura extra-semiotico, finendo cioè fuori dai confini semiosfera fascista/nostalgica che lì si va solidificando.

L’inattualità diventa esaltazione comunicabile attraverso la lingua franca della nostalgia, ponte emotivo necessario per trasformare ciò che è ontologicamente passato in un presente da riattualizzare. Convertire l’inattuale in attuale, senza riconoscere e ammettere il cambio di prospettiva, è il tipico atteggiamento di quelli che Svetlana Boym ha chiamato i “nostalgici restaurativi”7, cioè coloro i quali desiderano una ricostruzione à l’identique di un certo passato edulcorato, rinnegando a se stessi la terminatività di quello che desiderano. La costruzione semiotica del gruppo a Predappio si basa espressamente su questo tipo di differenza: tra coloro che “conoscono il passato”, che non lo ritengono sepolto e per questo lo rimpiangono/lo riattualizzano, e coloro i quali (tutti gli altri fuori dalla semiosfera che si dichiarano anti-fascisti o non–fascisti–tanto–quanto–loro) rifiutano questa idea.

In questa occasione, pertinentizziamo solo le variazioni semiotiche della figura di Benito Mussolini che, a seconda dei casi, diventa un santo da idolatrare, un padre da ammirare o un oggetto da acquistare. Per definire questi “diversi” Benito Mussolini a Predappio, è necessario prestare attenzione alle sue traduzioni8 testuali, così come vengono proposte negli spazi connessi alla sua memoria. In particolare:

(i) nella Cripta della famiglia Mussolini, in cui è sepolto il duce;
(ii) a Villa Carpena, detta anche “Casa dei Ricordi”, vecchia residenza di Mussolini ora museo privato;
(iii) nei negozi di souvenir che vendono cimeli con simboli fascisti.

Nel primo caso ci rifacciamo alle tracce di Mussolini presenti all’interno della cripta, interpretate come vere e proprie reliquie dai nostalgici sempre in ricerca di “prove” che confermino continuità e contiguità tra presente esperito e passato desiderato. Il secondo caso riguarda le narrative domestiche connesse a Benito Mussolini attivate attraverso la patrimonializzazione e musealizzazione degli oggetti della vita privata del dittatore e della sua famiglia. Il terzo e ultimo caso, invece, è connesso alla vendita dell’immagine di Mussolini replicata in oggetti souvenir.

3. Mussolini santo

Lo spazio che contribuisce alla costruzione semiotica della santità di Benito Mussolini è la cripta di famiglia che si trova nel cimitero di San Cassiano, poco distante dalla piazza centrale di Predappio da cui partono tutte le manifestazioni e le processioni fasciste. Arrivati davanti l’ingresso del cimitero – dopo aver portato in processione una grande croce di legno e l’immagine della Madonna del Fascio, dopo aver recitato preghiere cattoliche in “versione fascista” in onore dei camerata defunti e osannato il salvatore della patria creando molte omologie tra la figura di Cristo e Mussolini – i partecipanti si preparano per entrare all’interno della cripta per onorare il corpo morto dell’ex duce.
Nello spazio interrato della cripta, in cui sono sepolti anche i genitori di Mussolini, quattro dei suoi cinque figli e sua moglie Rachele, i visitatori – una volta superata la soglia di ingresso – da manifestanti rumorosi si trasformano in pellegrini silenziosi. Prima di entrare nel dettaglio di come avviene la trasformazione attoriale di Mussolini da politico a santo, è necessario prestare attenzione alla “distribuzione geometrica” dello spazio.

La tomba di Benito Mussolini, diversamente da quelle degli altri componenti della sua famiglia, è separata dallo spazio dei visitatori da un piccolo cancello che ne limita l’interazione. La logica semiotica che sottende questo “confine” non riguarda una semplice separazione tra corpi. Il confine regolarizza una vera e propria modalità di visione e di contemplazione, che deve avvenire a debita distanza. Pensando a regole di prossemica spaziale, questo divisorio crea una precisa gerarchia tra chi deve essere contemplato e chi invece deve solo contemplare, quindi tra il dittatore e il visitatore. Nello spazio viene dettata, almeno a livello di progettazione, un regime di visibilità definito, che è quello della visione frontale e contemplativa. Non esiste spazio per lo sconfinamento o per la demarcazione. Il visitatore può solo “affacciarsi” da questa “finestra” sul corpo morto, che sembra separare metaforicamente due diverse forme di realtà, il mondo fenomenico e il mondo della morte.
Questa breve digressione sulla “geometria” dello spazio è rilevante perché dà contezza delle modalità di interazione. Qui il dittatore è da guardare da lontano, come si fa con il tabernacolo in chiesa. Una omologia che viene confermata anche dall’atteggiamento dei fedeli che non danno mai le spalle alla tomba e mai ci passano davanti senza fare il saluto romano, esattamente come il fedele cattolico si inchina davanti al tabernacolo che lui interpreta per fede come il corpo di Cristo in chiesa.

Questa religiosità è inoltre assecondata da altri “arredi” di questo spazio: gli oggetti esposti nelle piccole nicchie dietro la tomba. Le quattro teche incastonate contengono quelle che i visitatori trattano come se fossero delle reliquie sacre, pur essendo solo oggetti appartenuti al dittatore in vita. Partendo da sinistra, la prima teca contiene un cappello con delle piume, la seconda, una camicia nera. La terza teca contiene un modellino in scala del sarcofago di Mussolini, nel quale, secondo delle leggende alimentate dopo il 1957, dovrebbe trovarsi una parte del cervello o del polpaccio del dittatore. La seconda teca invece contiene dei vecchi stivali da equitazione neri sempre appartenenti a Mussolini, un panno nero e un foglio scritto a mano – probabilmente da Mussolini – in una calligrafia non decifrabile.
Il potere devozionale9 e religioso di questi oggetti risiede nella relazione di continuità che hanno intrattenuto con il corpo vivo di Benito Mussolini. Per i nostalgici sono sia l’unico indice terreno che prolunga l’esistenza del “santo” fino a loro, sia segno a cui votarsi per rafforzare la loro credenza fascista. Queste protesi sono sia frammenti appartenenti a un’entità ultraterrena che la materializzazione di una frustrazione: l’assenza del corpo vivo di Mussolini nel loro presente. Da un lato, l’oggetto-indice sostituisce in forma materiale la memoria del corpo, come avviene per le reliquie dei santi nella religione cattolica, dall’altro, questi oggetti sono feticci che esorcizzano e alimentano il desiderio di “rivederlo”, di riattualizzarlo. In altre parole, questi oggetti assumono una funzione compensatoria rispetto al corpo perduto, morto e desiderato.

Il dominio religioso e l’isotopia della santità del dittatore sono desumibili anche dalle frasi scritte nel quaderno delle dediche, che si trova su un inginocchiatoio davanti al cancelletto che separa il soggetto dalla tomba. Stando a quanto viene scritto da chi visita la cripta, sorvolando sui banali slogan quali “viva il duce”, “viva il fascismo”, “viva Benito Mussolini”, all’ex dittatore vengono dedicati pensieri da salvatore della patria, da santo italiano da invocare. Mussolini viene cioè narrativizzato come l’operatore ultraterreno, detentore (anche da morto) del potere risolutorio dei problemi della nazione. Le dediche, oltre a mettere per iscritto la devozione nostalgica e i “turbamenti della memoria” di questo gruppo di persone, ne diventano anche l’interpretazione. Si tratta dell’ennesima narrazione che crea un mito preciso da assecondare per far sopravvivere la semiosfera: quello del Mussolini salvifico.

4. Mussolini domestico

Qualche chilometro più a nord dal cimitero di Predappio, nella località di Crocetta, c’è un altro spazio che si inserisce nel circuito spaziale dell’esaltazione dell’inattuale. Si tratta di Villa Carpena, vecchia residenza della famiglia di Benito Mussolini, dal 2001 trasformata in una casa-museo dall’imprenditore Domenico Morosini e dalla moglie Adele Grana, ora proprietari dello stabile. “Casa dei Ricordi”, così come si chiama oggi lo spazio museale privato, si presenta come una particolare forma di Wunderkammer, in cui oggetti della vita quotidiana della famiglia del dittatore sono esposti senza un coerente criterio museologico. Il solo obiettivo è di manifestare attraverso l’accumulazione la quantitatività materiale su cui tipicamente si accomoda la nostalgia. Nel museo non è esposto tutto quello che serve alla conoscenza, ma tutto quello che è necessario (per eccesso) per provare nostalgia di Mussolini.

In Villa Carpena si esalta il campo semantico della “casa”, declinando la stereotipica frase “Quando c’era lui” in un criterio espositivo. Il racconto dell’uomo domestico Benito Mussolini, del suo essere padre, marito ma allo stesso tempo “eroe d’Italia” viene indirizzato attraverso un doppio canale: quello del racconto storico alternativo a quello proposto dalle scuole (tacciate dalla guida di aver occultato gran parte delle buone opere fatte da Mussolini10) e quello legato alla costruzione del dittatore come marito e padre modello. Procedendo nelle stanze, la guida tratteggia degli aneddoti legati ai gusti culinari, alle abitudini di vita quotidiana, ai vizi e ai difetti (proposti come inevitabile imperfezione umana non certo come caratterizzazione negativa) del Mussolini di famiglia che ha abitato quegli spazi.

Dire, parafrasando la guida, che “Mussolini è stato un bravo padre e un bravo marito e ha salvato molti ebrei” potrebbe essere considerato vero a livello storico se ci fosse una corrispondenza fattuale nel mondo dell’esperienza, meglio se ci fossero prove a favore di questa tesi. Dal punto di vista di chi si occupa di traduzione della memoria, il problema, però, si fa più complesso e più interessante. Quello a cui bisogna prestare attenzione non è tanto la verità referenziale dell’enunciato, ma la sua modalità veridittiva, cioè il mondo possibile arredato da questa enunciazione che è proposta come vera (indipendentemente dal fatto che il loro contenuto corrisponda o meno alla realtà) con l’obiettivo di generare un senso di mancanza. L’obiettivo principale di questo spazio è generare una forma di rimpianto del dittatore guardando alla sua privatezza, edulcorando e esagerando la parte della vita lontana dai riflettori della politica. Il museo propone un Mussolini devoto alla sua famiglia, ai figli e alla moglie Rachele. Nella narrazione proposta, ad esempio, non c’è spazio per le amanti del dittatore, che non vengono minimamente nominate.

Questo spazio enuncia un racconto normalizzato di Mussolini, ripreso da una prospettiva inedita (il dittatore nelle fotografie sparse per la casa è ritratto in posizioni non statuarie come quelle adottate durante i suoi studiati discorsi da balcone, bensì in una nuova veste rilassata, domestica, a-politica). Usando gli oggetti definiti di “umile fattura” come attestazione di un racconto euforico intorno a Mussolini, l’obiettivo è creare una inconsistenza tra il suo umile stile di vita e il racconto di dittatore cruento proposto dalla storiografia ufficiale. È utile precisare che questa missione fallisce se lo spettatore/la spettatrice appartiene a una semiosfera antifascista o comunque possiede un bagaglio enciclopedico tale per cui non prova tenerezza o empatia con il racconto familiare che riguarda uno dei più pericolosi dittatori della storia del Novecento.
Ad esempio, in quello che è presentato come l’ufficio privato di Mussolini, la guida dedica una minuziosa descrizione della semplicità e della modesta fattura degli arredi. La sedia su quale l’ex-duce, parafrasando, “ha preso delle decisioni importanti per il nostro amato Paese” è il trampolino di lancio per un lungo discorso circa la corruzione dei politici contemporanei, interessati solo al potere personale. Il meccanismo discorsivo che si articola parte quindi da un diniego e un’indignazione nei confronti del presente politico, proponendo un vuoto emotivo riempito dal ricordo falsato e domestico del capo del fascismo. Non si tratta solo di una forma di banalizzazione o di revisionismo, ma di un vero e proprio lavoro di post-produzione memoriale. La guida attraverso il museo si fa autrice di un nuovo racconto, usando a suo piacimento tracce dal potenziale documentale. Inventando aneddoti e interpretazioni storiche, introduce il visitatore/la visitatrice in un lessico familiare che dovrebbe generare in lui/lei una sorta di tenerezza dolce amara alla quale far seguire un appassionamento nostalgico e un desiderio di riattualizzazione di quei valori. In questa ottica – citando un lavoro della sociologa Olimpia Affuso – la nostalgia evocata attraverso gli oggetti “coincide con un processo di abbellimento, ovvero con quell’atteggiamento della memoria che la mette al riparo, quasi il suo sistema immunitario, una sorta di cura, che sterilizza il passato e neutralizza il peso della rielaborazione”11.

La consecutio concettuale che segue la guida (e il visitatore/la visitatrice subisce) ha una struttura fissa che viene riproposta in ogni stanza e in relazione ad ogni oggetto sul quale lei posa la sua attenzione. I passaggi associativi che si susseguono sono sempre gli stessi: (i) all’esaltazione della “povertà” e della “normalità” del manufatto che diventa prova provata dell’“umiltà” di Mussolini (ii) si lega a doppio nodo il macro-tema del fascismo come unica forma politica capace di non usare il potere per interessi personali. Questa struttura, che indirizza una escalation nostalgica, aggancia alla descrizione degli oggetti uno sguardo più generale, legato all’impossibile ritorno del loro vecchio proprietario, alimentando la frustrazione nel visitatore predisposto. Frustrazione declinata in desiderio che qualche politico contemporaneo segua lo stesso stile di vita. In altre parole, questa enunciazione connette in una strana forma di causa-effetto la fattura dell’oggetto alla necessità di restaurare il fascismo, concedendo coerenza argomentativa alla nostalgia per il “buon uomo”, che nel contesto del museo diventa passione legittima e legittimata, non più atteggiamento emotivo dettato da un anacronistico desiderio di passato.

5. Mussolini souvenir

Lungo la via principale di Predappio sono presenti alcuni negozi di souvenir che vendono cimeli “autentici”, paccottiglia di plastica e prodotti alimentari che rimandano all’immaginario fascista. In questi negozi, infatti, si possono acquistare calendari con il viso severo di Benito Mussolini, magliette con le più svariate citazioni, da “Me ne frego” a “Memento Audere Semper”.
In questi bazar viene esposta e venduta tra gli scaffali l’ennesima declinazione corporale del duce, elevando a potenza e stratificando la riflessione sull’esaltazione dell’inattuale.
La riproducibilità tecnica della figura di Benito Mussolini su oggetti di bassa fattura si caratterizza come una forma particolare e problematica di mitopoiesi12, non connessa alla creazione di un nuovo mito quando a un suo ringiovanimento. Infatti, il corpo che viene proposto non è quello “morto” e “suggerito” come nella cripta o quello dell’“uomo e padre” di Casa dei Ricordi. Nei negozi di souvenir è venduto il corpo “riconoscibile” di Mussolini, quello che è passato alla storia come il corpo acclamato dalle masse.
Questa continua replica di Mussolini sugli oggetti addiziona un “terzo corpo” alla classificazione binaria proposta da Ernst Kantorowicz ([1957] 1989). Il riferimento è alla teoria dei “due corpi del re” secondo la quale il sovrano dispone sia di un “corpo mortale”, che segue le leggi della natura e del tempo, che di un “corpo politico” senza materialità, che non può essere visto e non può essere toccato, che quindi non invecchia, non subisce il tempo che passa, divenendo puro simbolo13. A Predappio, questo binomio si allarga e diventa una triade, in cui si aggiunge il corpo “riprodotto”. Si tratta di un corpo semiotico che è continuamente esposto negli oggetti. Mussolini viene quindi convertito in una icona pop che, braccio teso e sguardo fiero, “vive” in altri universi che sono quelli del consumo e non solo della (memoria della) politica.
Per quanto concerne le logiche interne di equilibro della semiosfera nostalgica, questi oggetti mediano una forma di relazione umana, ponendo in essere, attraverso la pratica dell’acquisto, una forma di consolidamento identitario collettivo.
Per esempio, il valore d’uso dell’accendino con il volto di Mussolini passa in un piano secondario, diventa corollario di una funzione più complessa fatta di feticismo, nostalgia del corpo del dittatore e richiamo identitario. Quasi tutti gli oggetti venduti nei negozi di souvenir sono sostituibili e commutabili, l’uno vale l’altro. Il discrimine che porta all’acquisto è spesso la convenienza economica più che la loro utilità o il loro valore. Gli oggetti che vengono venduti nei negozi di souvenir non significano tanto quello che possono fare quanto quello che una data collettività decide di sintetizzare attraverso di essi.
Se, a prima vista, sembra generarsi una spaccatura tra la “religiosità” che caratterizza la visita alla cripta e la commercializzazione del corpo di Mussolini, in realtà questi negozi si pongono in una posizione di connessione intermedia, contribuendo a creare una sorta allargamento della cripta, in cui il culto di Benito Mussolini si diversifica espandendosi.

La commercializzazione dell’immagine del dittatore, nutrendosi di contraddizioni e semplificazioni14, alimenta pericolose “norme della rimembranza”15 che permettono la creazione, a effetto domino, di comunità memoriali che si rafforzano nella condivisione e nella diffusione di un immaginario-feticcio che pur non esistendo più, essendo inattuale in senso strettamente storico, attraverso la vendita, viene costantemente riattualizzato, reso appetibile per uno specifico pubblico.
A Predappio, la riproducibilità tecnica di Benito Mussolini viene così assorbita nella pratica dei pellegrini da rendere balorda la possibilità di non poter vendere questi oggetti o il fatto che qualcuno/a possa far notare la problematicità di questo tipo di compravendita. Questo, in ultima istanza, permette di definire i negozi di souvenir a Predappio come degli spazi capaci di avere successo grazie a una “assuefazione” della memoria, in nome di una deriva pop che se da un lato banalizza il trauma del fascismo, dall’altro rende habitus una dimenticanza e trasmette erroneamente la gloria di un mondo che non dovrebbe essere più.

Note

  1. Questo contributo riprende alcune questioni presenti nella mia tesi di dottorato “Spazi della nostalgia. Approccio semiotico a una passione spazializzata” in “Philosophy, Science, Cognition, and Semiotics” discussa il 19 marzo 2020 presso l’Università di Bologna.
  2. Umberto Eco, Il fascimo eterno, Milano, La nave di Teseo, 2018.
  3. Omar Calabrese, Il neobarocco: forma e dinamiche della cultura contemporanea, Firenze, La casa Usher, 2013, p. 201.
  4. Per approfondimenti storici sulla storia di Predappio si veda in particolare Sofia Serenelli, ‘It was like something that you have at home which becomes so familiar that you don’t even pay attention to it’: memories of Mussolini and Fascism in Predappio, 1922–2010, in Modern Italy, 18 (2), 2013, pp. 157-175.
  5. Sergio Luzzatto, Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, Torino, Einaudi, 1998.
  6. Paolo Heywood, Fascism, uncensored. Legalism and neo-fascist pilgrimage in Predappio, in Terrain Anthropologie & sciences humaines, 72, 2019, p. 5.
  7. Svetlana Boym, The Future of Nostalgia, New York, Basic Books, 2001.
  8. Il concetto di traduzione è da intendere secondo l’accezione che Juri M. Lotman propone nei suoi lavori di semiotica della cultura (in particolare si veda La semiosfera. L’asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, 1985). La traduzione, meccanismo regolatore della significazione, è strettamente connessa all’idea di filtraggio culturale dei testi. Filtraggio che avviene sia tra diverse zone interne della semiosfera, con segni che fanno parte di uno stesso sistema, che in una dinamica esplosiva (si veda La cultura e l’espolsione, 1993) tra esterno-interno tramite i confini porosi della semiosfera. La traduzione è, quindi, da un lato un meccanismo di modellizzazione e stabilizzazione, dall’altro un processo di crescita e sviluppo della cultura.
  9. Michelangelo Giampaoli, La tombe de Benito Mussolini à Predappio. Le culte d’un anti‑héros, in Ethnologie française, XLVII, 2016, 2, pp. 347-358.
  10. Ci riferiamo allo stereotipo “Mussolini ha fatto anche cose buone”, diffusissimo nel contesto neofascista. Questa costruzione narrativa, che rappresenta una delle espressioni più palesi di come la nostalgia riesca a condizionare e filtrare la narrazione del passato, è stata organicamente e storicamente analizzata dallo studioso Francesco Filippi (2019). Nel suo libro, Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare intorno al fascismo, viene dimostrato come ogni credenza su possibili bonifiche della pianura padana, sulla fondazione del fondo pensionistico, ecc… siano il risultato di narrazioni inventate consolidatesi e diventate credibili nella ripetizione.
  11. Olimpia Affuso, Nostalgia: un atteggiamento ambivalente, in Sociologia italiana – AIS Journal of Sociology, 1 (0), 2012, p. 117.
  12. Mario Panico, Repetition, Recognition, Remediation. Or Benito Mussolini after Benito Mussolini, Ocula, 2020, p.72.
  13. Ernst Kantorowicz, The King’s Two Bodies: A Study in Mediaeval Political. Theology, Princeton, Princeton University Press, 1957 (trad. it. I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino, Einaudi, 1989, p.7)
  14. Tim Cole, Selling the Holocaust: From Auschwitz to Schindler; How History is Bought, Packaged and Sold, London: Routledge, 1999.
  15. Anna Maria Lorusso, Semiotica della cultura, Bari-Roma, Laterza, 2010, p. 95.

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