Bibliomanie

Sulla conversione di Alessandro Manzoni
di , numero 27, ottobre/dicembre 2011, Saggi e Studi,

Come citare questo articolo:
Ezio Raimondi, Sulla conversione di Alessandro Manzoni, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 27, no. 3, ottobre/dicembre 2011

Per quanto la conversione costituisca un fatto determinante, capitale, nel destino di uno scrittore e di un uomo, Manzoni non amava parlarne. Restano solo poche allusioni: una, ellittica, a san Paolo, e alcuni racconti riferiti, ma probabilmente degni di fede, su ciò che accadde in quel famoso 2 aprile 1810, quando Manzoni con la giovane moglie, Enrichetta, si trovò a Parigi, nel pieno dei festeggiamenti per le nozze di Napoleone. Si sa che a un certo punto, nella confusione generale, la moglie svenne, e i due restarono divisi. E finalmente Manzoni si ritrovò nella chiesa vicina di San Rocco, con una sorta di nuova epifania.
È probabile che in tutto questo pesi l’umiltà dello scrittore: vi sono pagine straordinarie, nelle Osservazioni sulla morale cattolica, intorno alla modestia e all’umiltà. All’uso della parola «io», Manzoni preferiva il «noi». Non aveva neppure l’inclinazione straordinaria di Newman, a cui pure può essere avvicinato, nelle omissioni o nel gioco malizioso dei riferimenti agli scrittori. Il rapporto di Manzoni con i lettori non è mai semplice, e viene da chiedersi come mai, da un evento di cui non ha mai parlato, abbia ricavato due temi principali del romanzo.
Nei Promessi sposi vi sono due storie di conversione: quella di padre Cristoforo, già Ludovico, e quella dell’Innominato, due personaggi tra i più significativi del romanzo. La parola «conversione» rimbalza una volta nelle pagine su padre Cristoforo, e più volte – con un gioco straordinario di riferimenti, di giochi di punti di vista – nella vicenda dell’Innominato. Paradosso dei paradossi, sono due conversioni che hanno un effetto pubblico, mentre quella manzoniana resta nascosta nella vicenda dei suoi libri: spesso ce ne dimentichiamo, con conseguenze che, qualche volta, portano probabilmente a un fraintendimento delle ragioni, e forse anche delle ambizioni dello scrittore con cui dobbiamo fare i conti.
Occorre dunque chiedersi che rapporto si dà fra queste due affabulazioni e ciò che accadde al Manzoni. Verrebbe da pensare che quanto avvenne allo scrittore fosse garanzia di quello che raccontava – e raccontava travestendo –, riferendolo ad altri elementi.
Pure il suo amico più intimo, che leggeva insieme con lui il Fermo e Lucia – la prima redazione (1821-23), si sa, dei Promessi sposi –, la pensava probabilmente così. Alludo, va da sé, a Ermes Visconti, di cui restano sui vivagni del Fermo e Lucia postille straordinarie per capire Manzoni. Visconti è attentissimo alle pagine relative all’Innominato, e avverte Manzoni di prestare attenzione a non mettere troppo «ascetismo» in un romanzo, perché questo porta «parole troppo solenni e tecniche, proprie di libri relativi allo spirito cristiano». Gli interessa il ‘caso umano’, in fondo, ancora non la partecipazione cristiana. Non è persuaso di certi passaggi: giudica che manchino certi elementi del discorso narrativo. Ma a questo punto, per troncare il discorso, conclude: «Perché non sarei capace, mi rimetto al parere di chi sa meglio di me che sia convertire ed essere convertito» (corsivi miei). È evidente che quei racconti trasfigurano dunque una vicenda diretta – siamo nel 1822, a dodici anni di distanza –, e rappresentano una sorta di elemento specifico dello scrittore, almeno per quelli che lo conoscevano più da vicino.
Manzoni, per parte sua, tiene conto di queste considerazioni, giacché introduce una parte della storia che mancava nel Fermo e Lucia: la notte dell’Innominato, la pagina probabilmente più shakespeariana – avrebbe forse detto Gadda – dei Promessi sposi, ove si descrivono sensazioni acutissime, in particolare un sentimento del disagio definito come «il tempo… voto di ogni intento».
Ma che cos’è il «tempo vuoto»? Che cos’è il «vecchio lui» che viene discusso terribilmente da un «nuovo lui»? Chi è il torturato esaminatore di se stesso? Sono sensazioni, queste, che Manzoni non può che aver derivato dai suoi ricordi. A questo punto, allora, ciò che il Cardinale comincia a dire all’Innominato va preso come una sorta di archetipo.

Siamo abituati a leggere i Promessi sposi in modo semplicistico, perché le figure dei religiosi ci sembrano personaggi più convenzionali degli altri. Viceversa, il personaggio religioso fa proprie le parole che dice, come elemento della propria personalità. I Promessi sposi sono un romanzo dove – Hofmannsthal l’aveva capito benissimo – i laici sono accanto ai religiosi, ma i temi religiosi vengono trattati con ragioni laiche che hanno a che vedere con la vita civile.
Ascoltiamo dunque la drammatizzazione del dialogo fra il cardinale e l’Innominato (ed è subito da osservare come nel Fermo e Lucia Manzoni aveva usato la parola «spiritato», che poi rifiuta in quanto censurata da Visconti): «Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?», dice l’Innominato, e gli risponde il cardinale:

Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate.

È probabilmente questa la rivelazione dell’evento che inizia il lungo processo di trasformazione dello scrittore. Un archetipo che avrà poi i suoi sviluppi nella grande poesia successiva alla conversione; pensiamo alla Pentecoste: «…ne’ languidi / pensier dell’infelice / scendi piacevol alito, / aura consolatrice», e ancor più al finale straordinario, quasi disarmante del Cinque maggio: «il Dio che atterra e suscita, / che affanna e che consola,/ sulla deserta coltrice/ accanto a lui posò».
D’altro canto, trattandosi di qualcosa che riguarda la verità vissuta, Manzoni non può inventare, anzi inventa ciò che è garantito dalla sua esperienza, ma proprio perché è così geloso non può parlarne (come avrebbe detto Newman «secretum meum mihi»). Ma resta aperta una questione estremamente complessa e delicata: come viene garantita al non credente questa sorta di trasformazione? Manzoni si rendeva conto del problema, in quanto sapeva di scrivere un libro cattolico anche per i non cattolici, soprattutto quelli della tradizione italiana.
E quanto alla storia della conversione di Padre Cristoforo, senza di essa non si può intendere la missione del personaggio nel romanzo, e in particolare il rapporto con Renzo. Di Ludovico si descrive la giovinezza, si parla della sua indole «onesta» e insieme «violenta», delle sue «abitudini signorili». Il padre lo aveva fatto educare al sistema feudale, ma quando non viene accolto dai «principali della sua città», quasi per «rancore», diviene difensore animoso degli oppressi. Nondimeno, nel momento in cui deve sostenere le buone cause, si accorge che è costretto a fare uso dei bravi: nella sua coscienza, quindi, sussiste imperiosa una contraddizione non risolta, una sorta di inquietudine profonda.
Dopo aver descritto siffatta tensione senza cui la storia successiva perde forza, il narratore aggiunge che quella di farsi frate, «che sarebbe forse stata una fantasia per tutta la sua vita», divenne una «risoluzione», una scelta per un «accidente» che gli accadde, ossia l’uccisione del signore che ha incontrato per strada, in uno scontro in cui trova la morte anche il suo compagno Ludovico.
Risoluzione, scelta: una scelta che però ha precedenti di rilievo. È una giustificazione di ordine psicologico, ma pure una costruzione probabilmente più profonda. Anche qui si potrebbe dire – ma per stabilire rapporti fra l’Erlebnis e la parola affabulante occorre, beninteso, grande circospezione –, che l’episodio di San Rocco è l’incidente che fa precipitare una decisione, una risoluzione, l’inizio di un lungo cammino.
Abbiamo due dichiarazioni dirette del Manzoni a ridosso dell’evento di Parigi; ed è importante ricordare che si tratta di Parigi, perché nella scelta del Manzoni vi è qualche cosa che riguarda quella grande città, la sua vera patria – come diceva, certo non solo per convenienza, agli amici francesi.
La prima dichiarazione si trova in una lettera del settembre del 1810 a Claude Fauriel, quindi a pochi mesi dal ritorno da Parigi, nel «tempo vuoto», in questa sensazione straordinaria ove conta anche il fatto che proprio in quel periodo – lo stesso Manzoni lo dichiara – erano comparsi quei disturbi nervosi che gli creavano problemi nella deambulazione, e diventavano – diceva Enrichetta – «angosce nervose», che Manzoni sottovalutava, mentre erano tanto gravose da ridurlo spesse volte al silenzio. Quindi il disagio ha persino una base fisica, oltre che una dimensione spirituale.
La lettera del 1810 riprende il Leitmotiv di tutto quanto il carteggio con Fauriel, lo studioso francese de race che, di fatto, ha scoperto il giovane scrittore italiano: un epistolario vastissimo, ove però sono andate perdute le lettere di Fauriel che Manzoni non conservò, e nel quale si discute di tutto quel che riguarda il destino letterario, e non solo, manzoniano.
La lettera del 1810 è singolare, specie perché apre una serie di dimensioni ermeneutiche che portano nel vivo di una storia della cultura e – probabilmente – della religiosità europee. «Continuerò sempre la dolce abitudine di parlare con voi di ciò che m’interessa», scrive Manzoni. «Vi dirò dunque che anzitutto mi sono occupato dell’oggetto più importante seguendo le idee religiose che Iddio mi ha mandate a Parigi, e che quanto più ho progredito, tanto più il mio cuore (coeur) è stato contento e il mio spirito (esprit) soddisfatto».
Fauriel, per parte sua, era un razionalista impenitente, un deista pronto però ad accettare il problema della moralità, quando era rigorosa, anche di una fede rivelata. A questo punto Manzoni soggiunge: «posso esprimere, caro Fauriel, la speranza che anche voi ve ne occupiate»: è quasi un invito a fare lo stesso passo. E ancora, citando Matteo: «mi fa paura per voi la parola terribile Abscondisti haec a sapientibus et prudentibus, et rivelasti ea parvulis». Infine: «ma non ho in realtà timore perché la bontà e l’umiltà del vostro cuore non è inferiore né al vostro spirito (esprit) né ai vostri lumi (lumières). Scusate la predica che un parvulus si prende libertà di farvi».
Si tratta di un testo straordinario, se lo si considera in una certa luce: è denso di significato, perché intanto Fauriel è un lettore dei migliori moralistes del Seicento e del Settecento e, a differenza di altri intellettuali della tradizione illuministica, ha il senso della personalità di Pascal.
Del resto, Manzoni sta per l’appunto citando Pascal, nella speranza che l’altro capisca al volo. Coeur ed esprit sono due termini determinanti nel mondo di Pascal. Potremmo chiamare coeur la coscienza incarnata, quella che sente Dio: «non lo sentite nel cuore» del cardinale (ecco le rispondenze verbali). Esprit è la ragione, l’esprit géométrique che non può aspirare al sentimento diretto della presenza divina: questa riguarda tutta la realtà profonda dell’uomo.
Però Manzoni sta al tempo stesso rettificando Pascal, in quanto non contrappone radicalmente la ragione al coeur, ma vede che pure la razionalità può avere una parte nel momento in cui si dà un’esperienza diretta, un incontro con l’aura benefica.
Qualche anno dopo, nelle Osservazioni sulla morale cattolica, Manzoni traccerà un ritratto di Pascal in contrapposizione a quello del Settecento illuministico e razionalistico. Pascal, si legge, ha «osservati profondamente i mali dell’uomo». Ma egli «non respira che compassione di sé e degli altri, rassegnazione, amore, e speranza; egli riposa ogni tanto con gioia e con calma nel cielo lo sguardo turbato e confuso della contemplazione dell’abisso del cuore umano guasto com’è dalla colpa originale».
È un singolare illuminista, Manzoni, perché accetta il mondo della razionalità che gli viene dagli idéologues, ma avverte quello che qualcuno ha chiamato il «disagio dell’immanenza». Anche Chateaubriand aveva affermato che gli ultimi idéologues, come per l’appunto Fauriel, erano caduti nel grave errore di separare la storia dello spirito umano dalla storia delle cose divine.
Ma le cose divine sono per Manzoni l’esperienza diretta, qualcosa che risiede nel profondo. Con queste frasi allusive, egli ha lasciato intendere all’amico le scelte che ha compiute: ha scelto Pascal e ha scelto il Dio – come diceva, si sa, sempre Pascal – «di Abramo, Isacco, Giacobbe», il Dio «di amore e consolazione», che si unisce nel profondo dell’anima e la riempie di umiltà, di gioia, di speranza e di fiducia. Un Pascal non cupo ma intenso, profondo, sta dunque alla base della opzione manzoniana, che dimostra come la scienza morale non segue la progressione delle altre scienze, sicché si può tornare indietro verso il Seicento per ricuperare una prospettiva più ampia di quella settecentesca. Non dimentichiamo, d’altro canto, che Voltaire aveva fatto di Pascal un «misantropo sublime», perché l’intensità razionale faceva paura anche ai razionalisti.
Manzoni sceglie invece un’altra direzione, e a questo punto si arriva alla seconda lettera cui alludevo, del settembre di un anno dopo (1811), indirizzata da Manzoni ad uno degli illuminati sacerdoti che curavano la sua ‘rieducazione religiosa’, l’abate Eustachio Degola:

Preghi Ella perché piaccia al Signore scuotere la mia lentezza nel suo servizio e togliermi da una tepidezza che mi tormenta, e mi umilia; giusto castigo per chi non solo dimenticò Iddio, ma ebbe la disgrazia e l’ardire di negarlo.

Con queste parole Manzoni sta facendo una dichiarazione estremamente importante, poiché parla di una deviazione della sua giovinezza, che non va peraltro – con ogni probabilità – condotta oltre un’avventura deistica, implicante, va da sé, l’idea di un Dio anonimo e impersonale.
Tecnicamente, infatti, se si adottano i criteri che una studiosa di storia delle religioni come Danièle Hervieu-Léger ha illustrato in un libro intitolato per l’appunto Il pellegrino e il convertito, la conversione manzoniana non è il passaggio da una religione a un’altra: è la riscoperta di una religione dell’origine, quella della sua educazione catechistica nel collegio – anche se in termini non molto lusinghieri lo aveva chiamato un «sozzo ovil di mercenario armento». Manzoni ricupera qualcosa del passato con nuove ragioni, che coinvolgono anche direttamente la trasformazione della scrittura e dello stile verso una nuova coerenza e un nuovo rigore.
È chiaro che la «tepidezza» indica un processo che, come tutti i processi, attraversa tensioni e rilassamenti. In questo caso, è il discorso specifico dell’esperienza religiosa, a cui si sta aggiungendo – poiché Manzoni è e resta uno scrittore – il sentimento della parola fondativa e creatrice, ossia di una nuova scrittura.
Anche con questi caratteri quella di Manzoni rimane, per usare la nozione di Newman, una rivoluzione interiore ove il «vecchio lui» è visto da un «nuovo lui», da un nuovo scrittore, che decide di cambiare i suoi referenti. Wittgenstein, che ha affermazioni spesso intelligentissime su questo versante, dichiarò una volta che una fede religiosa è come un decidersi appassionato per uno schema di riferimento, con la possibilità di vivere e di giudicare in modo nuovo.
Si tratta, in una parola, di una trasformazione affatto radicale che solitamente non consideriamo peraltro comme il faut allorquando parliamo di Manzoni scrittore, anche per via anche dei suoi silenzi e del suo understatement.
Il passaggio a questo punto si muove su due linee: da una parte, il processo della religiosità che continua e si approfondisce con letture e meditazioni; dall’altra, la riflessione sul proprio fare poetico che comporta l’abbandono di quella che potremmo chiamare la «classicità» e la sovrapposizione di un nuovo sistema che chiamiamo, per intenderci, «biblico-evangelico».
Il linguaggio apparentemente non muta, ma i significati, le cadenze, le ragioni sono trasformate profondamente. La conversione ha portato a un arricchimento della scrittura, e il primo atto di questo nuovo status è la stesura degli Inni sacri, che mettono in atto un’operazione straordinaria con il ricupero della liturgia, quella che Pavel Florenskij chiama «il fiore della vita della Chiesa», il suo «seme». E così lo intende certamente Manzoni, poiché la voce della liturgia non è più la voce retorica letteraria, ma è una voce parlata, una preghiera che diventa discorso, l’apertura di una nuova possibilità. La costante preoccupazione manzoniana di liberarsi dall’uso retorico e astratto della parola trova qui la sua prima realizzazione, cancellando le gerarchie, avvicinando l’alto e il basso nella preghiera verso l’«aura consolatrice».
Il momento della riflessione religiosa procede così in parallelo con quello della riflessione poetica, ma l’una si proietta nell’altra. Lo scrittore di cose religiose ha fortissimo il sentimento della parola, tanto più viva quanto più è propria dell’uomo comune: la preghiera non considera più gli eroi, bensì gli uomini che supplicano, uniti da un fervore che li affratella.
Per di più, scegliendo un cristianesimo innanzitutto evangelico, Alessandro Manzoni sa di andare contro il proprio tempo, di essere contro (come dichiarerà nelle Osservazioni) lo spirito del secolo. Sa in anticipo che siamo nell’epoca del «disincanto», come diremmo oggi, o della secolarizzazione. E ritorna invece alle parole intense che valgono per l’uomo contemporaneo. Anche la presenza del Seicento nel romanzo, di lì a poco, allude in realtà al tempo dello scrittore. Manzoni quindi si rende pienamente conto di essere, da un certo punto di vista, in minoranza rispetto alla tradizione razionalista da cui è uscito, ma sente che si può parlare ugualmente del presente da un altro punto di vista.
Qualcuno osserva oggi che la posizione dei convertiti consente una critica leale del proprio tempo. Può essere che qualche cosa di questo tipo valga anche per Manzoni; certo, quando, nelle Osservazioni sulla morale cattolica, egli giunge a dire che «l’intenzione di affliggere un uomo è sempre un peccato», dichiara qualcosa di radicale: e si intende bene che la Chiesa, come l’ha in mente, deve essere in pace con il proprio secolo, deve rappresentare uno stimolo critico dove la razionalità diventa «riflessione sentita», una riflessione cioè piena di emozione, di forza, di ricerca dell’uomo e della protezione degli «oppressi» – parola che Manzoni pronuncia sempre con profondo rispetto.
E vale dunque anche per lui quello che nelle Osservazioni viene detto del cristiano «affamato» (parola straordinariamente intensa nel lessico discreto di uno scrittore come Manzoni) «di giustizia e di certezza, d’autorità e di speranza». Sono parole che danno da riflettere, poiché indicano una coscienza critica che ha ricuperato nel passato i fermenti di un nuovo presente, appartengono a uno scrittore della generazione post-rivoluzionaria che ha meditato sopra le distruzione dei princìpi e si è posto il problema di quale sia il senso della storia giungendo alla conclusione – con la conversione – che il senso si dà perché imperfetto. Il secolo non si giustifica da sé solo, ma deve reiterare ragioni più ampie che tengano però conto, pascalianamente, ma diciamo pure cristianamente, della dignità e nello stesso tempo della miseria dell’uomo.
A questo punto, si direbbe, tutto cospira perché, con questo nuovo senso della letteratura, Manzoni trascorra da una sfida all’altra: appena reduce dagli Inni sacri scopre da cristiano conflittuale il mondo del dramma, e il Carmagnola è l’inizio di un tragitto dalla liturgia alla dimensione drammatica, shakespeariana. Dal Carmagnola si passa all’Adelchi; dall’altra parte, ci sono le Osservazioni sulla morale cattolica, poi la Lettre à M. Chauvet e le pagine sui Longobardi; e tutto questo gran travaglio creativo, peraltro, ha come movente nuovo una sorta di cristianesimo implicito, non dichiarato, con un punto di approdo complementare che consiste nella cancellazione della società divisa in nome di un’analisi dell’uomo comune, del personaggio basso.
E allora ben si comprende perché tutto, proprio tutto, in questo gioco di sfide silenziose, porti verso un romanzo inteso come luogo della realtà e della storia. D’altro canto, per Manzoni, come per Visconti, la storia era il contrassegno della realtà. Ed era l’attualità che chiedeva un’analisi dell’uomo all’interno di queste dimensioni. Il romanzo dunque è apparentemente storico; in realtà è un romanzo di genere più complesso, con ideologie che vengono dal profondo del testo.
Se proviamo a leggere Manzoni come uno scrittore che non si adegua ma che sfida il proprio tempo, allora, probabilmente, qualcosa può valere ancora per noi. D’altronde, le stesse Osservazioni potrebbero (dovrebbero?) esser lette come un’apologia non già del cattolicesimo, bensì dell’Italia cattolica, nonché della possibilità per l’Italia cattolica di essere moderna, così come Sismondi, da protestante, riconosceva negli altri Paesi europei.
Vale forse la pena di ricordare, in chiusura, quello che sempre Visconti rilevava intorno alla conclusione del dialogo fra il cardinale e don Abbondio. Ermes Visconti amava un don Abbondio che oggi, a onor del vero, appare a diverse coscienze critiche di valore – per fondate ragioni di vario ordine – odioso, e lo giudicava una delle invenzioni più straordinarie del romanzo: del resto, Hofmannsthal dirà un giorno che il parroco manzoniano è un villain degno della tradizione shakespeariana, quindi un personaggio complesso e radicato. Erano proprio questi riferimenti che spingevano Visconti ad osservare che il manoscritto anonimo non pareva opera di un secentista, ma piuttosto «di Pascal che lo fece redigere da Shakespeare».
Un romanzo che nasceva con queste ragioni era dunque una sfida; ma forse è lo stesso Manzoni che rappresenta una sfida per la tradizione italiana: a ben guardare, lo scrittore che parlava del «fracasso» delle passioni può servire altrettanto per invitare di nuovo al silenzio, che è a sua volta, dopo tutto, una sfida.

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