Bibliomanie

Albert Caraco, Il salterio della rovina
di , numero 27, ottobre/dicembre 2011, Saggi e Studi,

Come citare questo articolo:
Antonio Castronuovo, Albert Caraco, Il salterio della rovina, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 27, no. 1, ottobre/dicembre 2011

Pessimismo e nichilismo vanno a braccetto, ma solo in Albert Caraco raggiungono quella tonalità oscura che impedisce ogni speranza e chiude ogni spiraglio d’illusione. Dalle sue pagine si esce guariti da ogni miraggio sul mondo, preparati per il macello prossimo futuro – e definitivamente redenti da ogni viziosa idea di soavità dell’uomo e della realtà. Rispetto a lui, i grandi pessimisti sono roba dolciastra, profeti zuccherati, voci infiacchite dalla chimera che “l’uomo ce la farà”.
Non altro che questo può succedere con chi ha scelto la strada di una scrittura ossessiva e disperata, un uomo che rifiuta ogni ottimismo delirante – simile secondo lui all’erezione dell’impiccato –, un dandy solitario i cui gesti misurati celano una soffice contiguità col tragico, che egli accetta come segno della libertà («Il rifiuto del tragico è proprio degli schiavi», annotava). Tentare di classificare Caraco lascia sgomenti per i tanti aspetti che incarnò: invasato che impreca contro tutto e tutti; barbaglio gnostico nelle tenebre del mondo; creatura garbata in devota attesa che lo spirito femminile affranchi l’orrore maschile; ebreo convertitosi per convenienza familiare al cristianesimo, ma del quale disprezza la viltà e la bassezza; cantore di una fulgida sterilità che finalmente impedisca all’uomo di perpetuarsi.
Un’intelligenza che medita su tutto questo genera infine una sola requisitoria: quella sul male e sull’apocalittica fine della storia. Caraco infatti si rivolge a chi ancora s’illude che qualcosa possa impedire la fine e lo fa in libri i cui titoli abrogano ogni residua serenità: Il desiderabile e il sublime: fenomenologia dell’apocalisse (1953), Otto saggi sul male (1963), La tomba della storia (1966), Saggio sui limiti dello spirito umano (1982) e tanti altri.
Nato a Istanbul nel 1919 in una ricca famiglia ebrea, ne segue la vita errante tra Vienna, Praga, Berlino, Parigi e, col crescere dell’inquietudine europea, Honduras, Brasile, Uruguay. Al rientro in Europa nel dopoguerra, stabilitosi a Parigi, Caraco si abbandona alla scrittura come a una sorta di bisogno fisico, osservandone i rigori di una quotidiana disciplina, grazie alla quale produce titolo su titolo, un’opera di impressionante vastità che, per lo sfrenato impulso nichilista, resta ai margini dell’interesse comune.
La disperazione di Caraco ha un fascino assoluto e azzardato, rapisce in un gorgo di lucida visione, nel quale ogni cosa appare nuda, ma anche tersa. La sua voce declama l’orrore che fatalmente ci attende, in ottemperanza a un verdetto che è già stato espresso. Ridicole sono le illusioni, insensate le fedi, scellerati gl’ideali, efferati i valori: ci attende il baratro, che è molto più vicino di quel che pensiamo, intontiti come siamo dal clamore dell’imbecillità.
Tutto si è fatto nitido in relazione alle tenebre che salgono, tanto che è possibile schedare i fenomeni, strutturarli in una visione coerente, declinare il nulla in ogni sua variazione, redigere un diligente salterio della rovina. Caraco lo ha fatto col corrosivo Breviario del caos uscito a Losanna nel 1982 o con l’Abbecedario di Martin-Batôn, del 1994: collezioni di nitide sentenze che estasiano per come il nulla possa trovare una così imperturbabile forma espressiva, possa risuonare in frasi serene pur camminando sul ciglio del vuoto, possa essere narrato come una volta le fiabe ai bambini per farli serenamente addormentare.
Il suo edificio nichilista è di solido fondamento. Se ne potrebbe scorgere il debutto nell’osservazione che il mondo non può più essere salvato da nessuno, che l’idea di salvezza è semplicemente sbagliata. Ma anche nel rilievo che la catastrofe è necessaria: il mondo è a brandelli, il suo riassetto inattuabile, perché impossibile arrestarne il movimento e considerare tutto con metodico distacco: non è in nostro potere frenare il flusso che ci travolge, è troppo tardi, da decenni ormai stiamo andando verso il caos, stiamo allestendo la colossale catastrofe che estinguerà la storia.
E non sarà viaggio lieve. Nella catastrofe l’uomo diventerà atroce: verrà a mancargli acqua e terra, forse anche l’aria, e per campare sterminerà e divorerà il suo simile, azione alla quale daranno manforte quelli che oggi si allietano della propria spiritualità. Sarà inoltre una catastrofe completa: essendo annunciata e inevitabile, coglierà anche i «reggitori da strapazzo» e gli «impostori mitrati». Esultante sapere che moriranno anche loro assieme a noi, che non ci sarà sotterraneo in cui barricarsi, isola dell’oceano in grado di accoglierne la fuga, valle alpina esente da luridume canceroso: nelle tenebre rotoleremo tutti assieme, e se rimarrà un ricordo della nostra immonda civiltà sarà quello del modello da non imitare.
Civiltà immonda, come attestano le città. Organismi disumani, incubi di perfida bruttezza, mostri che divorano quel che producono, ricettacolo di frastuono e di tanfo, caos di fabbricati assurdi, catasta di corpi sciaguratamente vivi, ammasso incoerente di criminali, accozzaglia di sventurati senza scampo: questo sono le città, scuole di morte, covi di una proliferazione che ha il solo fine di fomentare morte di massa, come per gli sciami di animali troppo numerosi: topi, scarafaggi e cavallette. Il solo modo di cambiare le città è distruggerle, assieme agli uomini che le popolano, e un giorno qualcuno plaudirà a questo olocausto.
Tutto sorge dall’orrore dell’universo: i pianeti sono inabitabili, sono miriadi di bolge, inferni di ghiaccio e inferni di fuoco. Nella creazione la vita si profila come un fenomeno accidentale. E che razza di creazione è? che razza di ordine naturale quello in cui a una buona riuscita equivalgono mille aborti e mille agonie? Se Dio esiste, il caos e la morte sono nel novero dei suoi attributi; se non c’è poco importa, non cambia nulla: «Il caos e la morte basteranno a se stessi fino alla consumazione dei secoli». La fede diventa, così, una vanità tra le tante: qualunque divinità l’uomo incensi, sarà vittima del disfacimento. A nulla servono le norme morali, delirante credere che giusti e ingiusti possano godere di diversi trattamenti: buoni e cattivi avranno un solo destino. Ma delirante anche credere che l’universo esista per noi: questa la frenetica allucinazione della metafisica. Le religioni non servono a nulla, e nessun motivo di esistere hanno più i credenti.
L’uomo, d’altra parte, è un minorato che, per assurdo caso, circola sulla crosta terrestre. Sparso sul mondo – e ora anche verso i pianeti più a portata di mano della sua miserabile tecnologia – l’uomo infetta come lebbra un angolo di universo, ne rappresenta l’animale rozzo, la bestia idiota, la creatura patologica. È la causa diretta della sua stessa fine, sulla cui fatalità si misura la sua menomazione. Per rinnovarsi, il mondo avrebbe bisogno di un’azione enorme di sfaldamento dell’umano, di ritorno indietro, di disgregazione volontaria. Non essendo realizzabile da parte di una bestia ottusa, il mondo scomparirà assieme all’uomo che lo infetta. La catastrofe è inscritta nel destino della minorazione umana: è necessaria, desiderabile, legittima.
Ma non solo l’uomo è creatura depravata: egli si costituisce persino in forma di massa. Sottoprodotto della morale e della fede, la massa divora e insozza il mondo facendone un inferno, là dove potrebbe essere un paradiso se solo gli uomini fossero pochi, anzi pochissimi. Ne deriva che continuare a moltiplicarsi è criminale: bisogna insegnare all’uomo che «vivere è un abuso, mai un diritto», che vivendo si aumenta la bruttezza del mondo, sempre più gravato dal sovrannumero.
E sulla massa dominano uomini orribili: preti e bottegai. Il danaro e la spiritualità premono affinché la corsa del mondo non si arresti. I bottegai reclamano consumatori, i preti – per il gregge delle anime pecorelle – famiglie e figli. Bottegai e preti approvano la fecondità dell’uomo, solo perché in un caso dissemina acquirenti e nell’altro ne accredita l’ideologia. Profitto materiale dei bottegai e credito morale dei preti fondano la forma più radicale del dominio, dilatato dalla nostra cecità e idiozia: solo il disinganno equivarrebbe alla loro fine, ma la loro fine non giungerà mai da parte di una bestia rozza come l’uomo. Il mondo si sovrappopola di idioti, così reclamano preti e bottegai, e la sovrappopolazione equivale alla fine. La morte trova nei bottegai e nei preti i più solidi sostegni.
Poiché la fecondità conduce alla fine del mondo, è azione criminale. Se un giorno, dopo l’umana catastrofe, un animale intelligente pensasse al flagello della fecondità non potrebbe che giudicare immorale la famiglia (istituzione popolatrice di un universo sovrappopolato), valuterebbe folle la depravazione del pianeta conseguita mediante la riproduzione. Meno miserabile del nostro sarebbe infatti un mondo popolato da onanisti e sodomiti, vettori di precetti molto meno distruttori di quelli che spronano alla catastrofe: «Miseri coloro che, in preda alla follia, generano! Beati i casti! Beati gli sterili! Beati anche coloro che preferiscono la lussuria alla fecondità! Oggi gli Onanisti e i Sodomiti sono meno colpevoli dei padri e delle madri di famiglia, perché i primi distruggeranno se stessi e i secondi distruggeranno il mondo, a forza di moltiplicare le bocche inutili».
Una volta riprodottisi, gli uomini compiono la stupidaggine di prestar fede alle ideologie, peggio: agli ideali. La nostra ultima illusione abita nella convinzione che una certa struttura ideale possa, meglio di altre, salvare il mondo. Così, abbiamo creduto di salvarci mediante una fede religiosa, poi abbiamo creduto che una certa impostazione della comunità ci avrebbe redenti. L’ultima illusione dell’uomo: credere che una idea sia “buona” per la società, utile per recuperare la massa di disperazione che avanza. Ancora una volta, le idee cedono al “credere”… Crediamo che sia così, ma appunto lo crediamo, non ne abbiamo alcuna prova o certezza. Siamo condannati. L’ultima illusione che ci resta è un nuovo teatrino ideale.
Un solo lumino resta acceso in questo cimitero delle illusioni; non resta che una sola lusinga, ma cospicua: la donna. Ma non per il suo essere donna, quanto portatrice del principio femminile, il solo che può spazzare via il Padre dal cielo, ormai solo Padre del caos e della morte. Con la fine del Padre, giungeranno i secoli del ripristino completo dell’elemento femminile: madre, vergine e prostituta. Solo allora sarà celebrato il matrimonio tra cielo e terra, solo allora il moto s’arresterà e regnerà la quiete. L’abbandono delle virtù militari, la mollezza, il disprezzo per quel che è rispettabile, l’effeminato: solo il carico immorale di queste cose potrà salvare il mondo dall’incubo fallocratico, guerrafondaio, integralista e tanatologico. Dobbiamo assolutamente uscire dalla storia, e potremo riuscirci solo grazie alle donne: «Voglio che il principio femminile presieda alla fondazione della Città futura». Ma Caraco lo vuole senza illusioni, dubitando che quella luce mai si accenderà.
Resta la morte: la sola mira perfetta, cui tendiamo come una freccia che, diretta al suo bersaglio, non sbaglia mai il centro. La morte è la sola certezza che ci resta: «È per la morte che noi viviamo, è per la morte che amiamo ed è per lei che procreiamo e sgobbiamo, le nostre fatiche e i nostri giorni si susseguono ormai all’ombra della morte, la disciplina che osserviamo, i valori che salvaguardiamo e i progetti che facciamo portano tutti a un solo esito: la morte». E allora, poiché il mondo è ridotto a un aborto perpetuo, ben venga la rovina e la dissoluzione. Ad opera dell’uomo il mondo s’è fatto ributtante, e lo diventerà sempre più: le foreste spariscono, il deserto avanza, il cemento inghiotte ogni spazio, l’acqua e l’aria sono avvelenate. Nella totale laidezza, nel rigoglio dell’orrore, la catastrofe è preferibile.
Anche quella personale. Caraco ritenne infatti di dover mettere in pratica lo spirito che sorregge la prosa apocalittica dei suoi ultimi anni, e di farsi fuori. Lo aveva giurato a se stesso: alla morte del padre – estremo legame che lo univa al mondo – ne avrebbe seguito le tracce. E mantenne la parola: la sera stessa in cui il padre scomparve, nel settembre del 1971, ingoiò un pugno di barbiturici e, prima ancora che il torpore lo privasse di energie, si recise con profondo taglio le carotidi. Dovendo stabilire come presentarsi all’appuntamento del nulla, scelse l’antica festa barbara della morte in cui fiotta sangue.
Per incontrare degnamente il liquido calore del principio femminile.

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