Bibliomanie

Le pievi medievali bolognesi. Note storiche e riflessioni a partire da un libro recente
di , numero 30, luglio/settembre 2012, Saggi e Studi,

Come citare questo articolo:
Gilberto Turchi, Le pievi medievali bolognesi. Note storiche e riflessioni a partire da un libro recente, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 30, no. 1, luglio/settembre 2012

Il libro sulle pievi medievali bolognesi1, edito dall’Istituto per la Storia della Chiesa di Bologna, segue la pubblicazione di due grossi volumi quali lo studio del Codice diplomatico della Chiesa bolognese e quello del Codice Angelico 123.
Alcune ricerche su singole pievi erano già state date alle stampe, ma questo volume “poderoso” (così lo definisce il Cardinal Carlo Caffarra nella Introduzione) risulta fondamentale per ampiezza di visione del quadro d’insieme, per la copiosa produzione di documenti, nonché per un’attenta e approfondita rilettura degli stessi, che porta gli autori a formulare nuove (e fondate) ipotesi sull’origine delle pievi, sulla complessa vita plebana medievale e il suo sviluppo nel tempo.
Il curatore del volume, Lorenzo Paolini, nell’ampia Introduzione, delinea un esauriente affresco del tema delle pievi, precisando anzitutto che, dalla prima era cristiana all’alto Medioevo, il nome “pieve” (plebs) ha subito varie trasformazioni: inizialmente indicava o l’intera comunità dei cristiani (plebs Dei) o la singola comunità dei battezzati laici; infine, verso la fine del VII secolo (in Toscana e, gradualmente, nell’Italia centro-settentrionale), anche la chiesa battesimale fu chiamata “plebe” (plebs baptismalis).
Nell’VIII secolo il nome cominciò a riferirsi al territorio di competenza, al “pievato”, quando Carlo re dei Franchi, con i capitolari del 782 e dell’813, introdusse il pagamento obbligatorio delle “decime” (la decima parte delle rendite agrarie), cioè del tributo che i fedeli pagavano alla propria chiesa battesimale per il servizio del culto e dell’assistenza spirituale. Il sistema pievano è ormai diventato un’istituzione pubblica deputata all’organizzazione della “cura d’anime” nelle campagne: la plebs è simultaneamente chiesa con battistero e circoscrizione territoriale, e la popolazione cristiana ivi residente è tenuta al pagamento della decima.
Le fasi storiche del sistema pievano possono essere raggruppate, “un po’ schematicamente” (Paolini), in quattro momenti.
Nei secoli VI-VIII viene ristabilita la rete delle chiese battesimali dopo le distruzioni barbariche, soprattutto longobarde.
Nella seconda fase (fine VIII-inizio XII) si consolida il “sistema pievano” come sistema pubblico di circoscrizioni territoriali della “cura d’anime”, sostenuto dalla imposizione della decima per legge imperiale. Presto però verrà intrecciato con “il sistema di chiesa privata”, laica e monastica, e le pievi passeranno alle famiglie dell’aristocrazia feudale, ai vassalli dei vescovi, ai signori locali, detentori di una signoria territoriale o di castello, ottenuta talvolta in modo violento. Tutto ciò fu possibile per la frantumazione del potere politico in tanti centri locali senza più quel coordinamento generale (imperale e regio) che aveva promosso il “sistema per pievi”.
Tra la metà del X e la metà dell’XI secolo, si ebbe la fase della “chiesa dell’Impero”, in cui il controllo degli imperatori fu esercitato soltanto sulle alte gerarchie ecclesiastiche, mentre le pievi passavano ai laici con la “patrimonalizzazione” delle stesse, che furono considerate un bene proprio “da smembrare, da trasmettere ai propri eredi, da vendere in parte o per intero; e non solo le proprietà, ma anche la chiesa e i diritti connessi”. L’unità e l’autonomia della pieve si infransero, la selezione del clero subì pesanti condizionamenti, la simonia fu l’espressione di una mercificazione generalizzata.
Durante la Riforma del secolo XI si riaffermò il carattere inalienabile e sacro delle res Ecclesiae e papa Gregorio VII vietò l’investitura laica non solo degli episcopati e delle abbazie, ma anche delle “chiese” tra cui certamente le pievi. Con la conclusione della Lotta per le Investiture (Concordato di Worms, 1122), la dispersione in mano laica delle pievi fu combattuta dai vescovi sostenuti da papi e concili ecumenici del XII secolo, ma non si arrestò, per esempio, l’accaparramento della decima ecclesiastica da parte dei laici potenti, che l’ottennero o riottennero per investitura vescovile.
La pieve era il luogo di una quotidiana “interrelazione fra chierici e laici” con un senso marcato di appartenenza comunitari: essa era custode delle misure e dei pesi praticati localmente, nelle transazioni e nelle attività commerciali; era custode degli atti pubblici, distretto per le attività dei giudici e di notai, custode di consuetudini contrattuali specifiche; sede di stipulazioni di accordi e patti politici, soprattutto in epoca comunale; ambito territoriale di riferimento di appartenenza o residenza delle persone e di ubicazione dei beni immobili negli atti notarili, sede di assemblee pubbliche, di giuramenti e di altro ancora. Giova sottolineare che l’arciprete e il clero pievano mai ricoprirono compiti civili e amministrativi: ne fornirono il supporto, il “prestito”, perché esso rappresentava la struttura territoriale più solida e certa.
Nel terzo periodo (XII-XIII sec.) il sistema plebano raggiunge il suo culmine quantitativo e qualitativo: è quasi una “rinascita”, tanto da venir considerata “l’età più vitale” (Vasina). L’aumento della popolazione, anche di quella rurale, e la conquista del suolo incolto richiesero l’erezione di nuove pievi e la trasformazione delle cappelle dipendenti in pievi autonome, “ma per iniziativa e sotto il controllo del vescovo fin dall’origine” (Violante).
Dopo la lotta per le Investiture, l’autorità vescovile rinunciò al governo della città, ma uscì consolidata nell’ambito giurisdizionale ecclesiastico: il centralismo papale promosse il centralismo diocesano mediante reiterati privilegi pontifici.
Attraverso la formula delle “restituzioni” i signori laici mettevano i beni ecclesiastici, le decime e tutte le loro rendite e diritti nelle mani del vescovo, ottenendone in cambio il diritto di patronato: presentavano al vescovo il chierico o prete scelto dalla stessa famiglia gentilizia e il vescovo lo nominava arciprete investendolo del beneficio concesso.
La ricomposizione del controllo territoriale della diocesi ebbe un importante sostegno politico dall’emergente ordinamento comunale, dalla convergenza di dottrine giuridiche e di forze sociali e politiche. A Bologna le scuole giuridiche, civilistiche e canonistiche (Irnerio e Graziano) delinearono, sempre più netta, la distinzione tra ordo laicorum e ordo clericorum, realizzando un solido legame fra Chiesa e Comune nel perseguire il loro disegno politico urbanocentrico.
In questa cornice di “rinascita”, qual era la qualità della vita del clero plebano?
Vita comune, rigorosi comportamenti morali e religiosi, lo studio e l’insegnamento vennero adottati anche nelle pievi bolognesi sul modello canonicale. La vita comune prevedeva un patrimonio di possessi e diritti unico, come proprietà indivisa, sull’esempio della mensa capitolare unitaria dei canonici della Cattedrale, ma già nel Duecento ebbe corso la divisione delle prebende beneficali, a imitazione di quanto avevano introdotto i canonici di San Pietro in Bologna. In questo periodo nacquero le “parrocchie”, territorialmente assai piccole ma con gli stessi diritti delle pievi di nuova istituzione. Si seguiva un disegno ecclesiologico per cui la “cura delle anime” era di esclusiva pertinenza del vescovo e, a Bologna, del Capitolo della Cattedrale; si tratta di un sistema pastorale “misto” in cui il centralismo vescovile è parzialmente temperato dalla persistenza delle pievi come “istituzioni intermedie”.
Il quarto periodo (XIV sec. – concilio di Trento, 1545-1563) vide una lenta e progressiva crisi del sistema pievano: la crisi del papato avignonese e il Grande Scisma d’Occidente (1378-1417) furono motivi generali ed esterni, a cui si aggiunsero quelli interni: lo scadimento della formazione e selezione del clero pievano (non c’era più vita comune), l’affidamento delle parrocchie a rettori non canonici pievani, il cumulo e la vendita dei benefici ecclesiastici e, infine, la rinnovata aggressione delle famiglie signorili locali (diritti di patronato), che si appropriarono di possessi e diritti (p. es. le decime) e che imposero arcipreti o rettori di parrocchie scelti fra i propri famigliari.
Malgrado la forte contrazione della popolazione (ricorrenti carestie e la “peste nera” della metà del Trecento), le chiese e le parrocchie dei territori pievani aumentarono di numero nel corso del secolo senza apportare benefici o nuove rendite patrimoniali alle pievi stesse; anche la riforma dell’Albergati a Bologna (ripristino del sinodo diocesano annuale, visite pastorali alle parrocchie, riordino dei benefici ecclesiastici etc.) rappresentò una breve discontinuità nel declino pievano. Il degrado era ormai troppo radicato e ramificato nella società e nelle stesse istituzioni, a cominciare dal Capitolo della Cattedrale, modello e parte attiva di molti dei mali che attanagliavano il sistema pievano.
Il Concilio di Trento predilesse il sistema pastorale per parrocchie e, con la nuova struttura territoriale dei vicariati foranei (1596), le sottopose al vicario, diretto rappresentante del vescovo: le pievi perdettero così “autonomia e funzione coordinatrice”.
I documenti ci forniscono labili indizi sulla data di nascita delle chiese battesimali nella diocesi di Bologna. In passato alcuni autori la facevano risalire al V secolo, altri al VII (in base anche a una più ricca documentazione soprattutto toscana), l’epoca in cui fu creato un sistema di pievi – cioè di chiese battesimali sparse nel territorio diocesano – al servizio dell’evangelizzazione e della “cura delle anime” delle popolazioni rurali. Si è quindi resa necessaria, per il “campione bolognese”, non solo un’accurata comprensione “interna” del fenomeno pievano, ma pure un’attenta indagine del suo contesto territoriale e storico; proprio in tal senso hanno egregiamente lavorato Paola Foschi (Le pievi della pianura e la pieve urbana), Renzo Zagnoni (Le pievi della montagna e della collina) e Paola Porta (Architettura, arte e apparati liturgici).
L’origine delle chiese battesimali bolognesi è oggi un tema d’indubbio interesse storiografico, ma resta ancora abbastanza “oscuro” (Foschi), se si esclude il caso della pieve di San Mamante in Lizzano, citata in un documento della metà dell’VIII secolo.
In passato alcuni autori facevano risalire la loro origine al V secolo, ma attualmente si preferisce pensare al VII secolo come all’epoca della creazione di un sistema di pievi sparse nel territorio diocesano, al servizio dell’evangelizzazione e della “cura delle anime” delle popolazioni rurali. Il lento processo di cristianizzazione della popolazione rurale (IV-VII secolo), “promosso dal vescovo e ramificato dalla città”, ha già prodotto l’istituzione delle prime pievi – le più antiche, le più estese e anche le più periferiche – non ancora documentata per mancanza di fonti scritte e di scavi archeologici: su di esse gli autori hanno tuttavia avanzato ipotesi alquanto persuasive.
Si tratta di “un’organizzazione territoriale predefinita e in evoluzione”, il cui assetto definitivo verrà raggiunto solo fra il XII e il XIII secolo. L’organizzazione plebana si sviluppò più facilmente nell’area bizantina, mentre nell’area occidentale di Bologna fu contrastata dal persistente paganesimo e dall’arianesimo longobardo fino all’VIII secolo.
Le pievi più antiche della pianura sono tutte al centro di territori compatti, delimitati da corsi d’acqua, a una certa distanza dalla città di Bologna, con cospicui nuclei di popolamento e d’insediamento, che necessitavano di una struttura permanente di somministrazione dei sacramenti e di “cura d’anime”.
I fiumi centro padani determinarono le vicende e la scomparsa di diverse pievi della pianura. Finché ebbero strutture viarie e una buona situazione idraulica, questi territori furono dotati di strutture pievane, che tuttavia decaddero e scomparvero quando, durante il pieno Medioevo, i corsi dei fiumi affluenti meridionali del Po di Primaro o di Ferrara, dal Panaro al Sillaro, recarono sempre meno acqua, dato che il collettore principale si diresse verso nord.
Il Reno si spostò verso ovest fino a dividere, nel basso Medioevo, Cento e Pieve, mentre il Panaro si spostò verso Modena, per cui i territori civili ed ecclesiastici rimodellarono i loro confini sui nuovi corsi dei torrenti.
Una pieve occorreva e poteva vivere quando vi era una popolazione consistente che accorreva alle funzioni e che, con le donazioni codificate nelle decime, permetteva ai sacerdoti della pieve di vivere. Per quanto riguarda le tipologie insediative delle pievi, occorre osservare che la loro funzione primaria era la cura animarum: era preminente, dunque, il loro rapporto con gli insediamenti umani e col popolamento
Le pievi di pianura, sia sul tratto orientale sia su quello occidentale della via Emilia, si collocavano a una certa distanza da essa; così, mentre gli ospitali e i monasteri sono legati alla viabilità, poiché la loro opera di assistenza è particolarmente preziosa dove mancano gli abitati, l’opera di assistenza alla viabilità della pieve è solo uno dei suoi compiti, sempre però collegato alla presenza del popolo cristiano
Per quanto concerne il caso delle pievi più antiche poste dentro strutture fortificate, viene ipotizzata la loro nascita in un momento di particolare insicurezza nel territorio al di fuori delle mura o di diritti pievani concessi ad una chiesa già esistente all’interno. Alcune fondate in zone bonificate e abitate scomparvero nel corso del Medioevo, in seguito a gravi sconvolgimenti idraulici di territori che solo le bonifiche del XIX secolo resero di nuovo abitabili.
Uno dei risultati principali del saggio sulle pievi di pianura, steso da Paola Foschi, è costituito con ogni probabilità dalla minuziosa ricerca e dalla pubblicazione dei decimari trecenteschi, che ha permesso di riconoscere e delimitare il territorio di competenza di ogni pieve precedente questo secolo, data l’alta frammentarietà delle cappelle comprese in ogni pieve. Con l’aiuto di questi validi repertori, è stato possibile collocare su una carta le chiese ricordate negli elenchi trecenteschi per individuare, almeno approssimativamente, le località scomparse. Le pievi hanno inoltre una “funzione ubicatoria”, in quanto era invalso l’uso dei notai di localizzare i beni oggetto di transizione attraverso la circoscrizione pievana di cui facevano parte. Questo uso è ampiamente attestato nell’XI secolo e in quello seguente, soprattutto nella parte centrale della pianura bolognese.
Le novità introdotte dai Capitolari di Carlo Magno ebbero conseguenze decisive per secoli: “Che ognuno dia alla chiesa la sua decima, come è costume e tradizione… Coloro che si rifiutano (dare nolentes)… siano costretti individualmente dagli ufficiali pubblici”. Così si poteva arrivare alla confisca della casa. Un quarto della decima restava al clero officiante nella pieve e per tre quarti andava nominalmente al vescovo, alle chiese, monasteri e alle famiglie dell’aristocrazia vassallatica.
Precedentemente la decima “sacramentale” (devoluta al clero per l’amministrazione dei sacramenti) e quella “dominicale” (sui redditi di proprietà) venivano equamente ripartite per le quattro finalità canoniche: le esigenze pastorali del vescovo, il mantenimento del clero locale, la conservazione della pieve e delle cappelle ad essa sottoposte e, infine, le elargizioni ai poveri e ai pellegrini. Nel secolo XI, Gregorio VII ordinò ai laici di restituire le decime della chiesa matrice e al vescovado: un quarto doveva restare alle pievi, i restanti tre quarti al vescovo. Numerose furono le liti promosse dagli arcipreti per rientrare in possesso di parti di esazione delle decime, spesso usurpate dai signori del territorio, o vendute e comperate come se si trattasse di un qualsiasi bene mobile.
I beni immobili delle pievi provenivano per la maggior parte da donazioni, da atti di conversione o da lasciti testamentari. Fra i beni di maggiore importanza appartenuti alle pievi risultano i mulini, strutture di grande rilevanza economica sia per le entrate che assicuravano sia, più in generale, per il diretto controllo dei fideles, obbligati spesso a macinare in quegli opifici. Quasi la metà delle pievi collinari e montane ne possedeva uno.
La pieve entra nel contesto sociale e viene trasformata: nasce il “sistema pievano”, che deve coabitare col sistema della chiesa privata (civile ed ecclesiastica) e con la presenza dei monasteri esenti dal pagamento della decima; ben presto però dovrà cedere spazi di autonomia, con la perdita del controllo fiscale e giurisdizionale a favore dei grandi e potenti signori laici.
Dopo la disgregazione dell’impero carolingio (seconda metà del IX secolo), le pievi attirarono l’interesse prima dell’aristocrazia vassallatica, poi dei signori laici e dei signori dei castelli e infine, nel basso Medioevo, anche della ricca borghesia.
Nuove pievi accompagnarono l’aumento demografico (anche se nel bolognese sei pievi decaddero e scomparvero), ma, nonostante le affermazioni conciliari e Capitolari, di fatto i comportamenti abituali non seguivano le norme canoniche e civili. Circa la vita comune del clero pievano, la legislazione carolingia, richiamandosi a Sant’Agostino e addirittura alla vita apostolica, per la prima volta ufficialmente prescriveva che il clero – almeno quello delle grandi chiese – vivesse in comunità di beni e di sede, cercando di difendere l’ideale della povertà della comunità apostolica dalle deviazioni introdotte dalle trasformazioni sociali, che ponevano in mani laiche e potenti i beni delle chiese.
Gli arcipreti diventano figure significative, paradossalmente, quando ricevono la carica solo per la prebenda e quando, dunque, non esercitano più, di fatto, la “cura d’anime” nella pieve: ormai sono personaggi noti a livello politico e sociale, di cui la documentazione più corposa risale al Basso Medioevo. Gli arcipreti del XV secolo risultano impegnati in attività ben lontane dalla “cura delle anime” della loro pieve, tanto da risiedere altrove e da farsi sostituire da cappellani. Nondimeno, alcuni di essi sono ricordati per la loro continua presenza e dedizione al loro ruolo di pastori.
Tra le figure emblematiche di arcipreti dell’ultimo scorcio del XIV secolo, si può citare Matteo di Sant’Angelo in Vado (l’antica Tifernum Metaurense, a pochi chilometri da Urbino). Nominato arciprete di Pieve di Cento nel 1375, fu uno dei più presenti e attivi nella sede designata, come appare in un documento del 1394, quando difese la sua pieve dalle pretese del Comune di Cento di avere un fonte battesimale. Riedificò l’abside, il coro e l’altar maggiore della chiesa, dotandola del famoso “Cristo” di Pieve di Cento, opera di Simone dei Crocefissi oggi perduta.
Umanisti o uomini politici del Quattrocento occuparono cariche, canonicati e arcipretali nelle nostre pievi: Francesco Pizolpassi, canonico della Cattedrale poi vescovo di Milano, scriptor et familiaris nonché oratore di Martino V; l’umanista bolognese Agostino Scanella e addirittura Tommaso Parentuccelli di Sarzana, cappellano e segretario del vescovo Nicolò Albergati e poi Papa col nome di Niccolò V.
Il clero della pieve (arciprete, sacerdoti e chierici) era insediato e retto dalla giurisdizione episcopale, ma il resto – dalla proprietà della chiesa alla riscossione della decima – era in mano ai laici o ai monaci. Tutto ciò provocava tensioni e liti, come si può evincere dalla lettura della corposa ed esaustiva serie di schede su ogni pieve (51 con quella plebana di San Pietro) a cura di Paola Foschi.
Con l’erezione, ad esempio, di un fonte battesimale, le chiese o cappelle diverse da quella plebana quasi sempre tendevano a rendersi indipendenti dall’antica chiesa: fatto di grande rilevanza, poiché questa indipendenza fu causa della scomparsa dell’“antichissima unità battesimale della pieve, con l’inevitabile frantumazione del territorio pievano in molte parrocchie autonome”.
Le numerose controversie tra pievani e abati, in taluni casi, arrivarono a momenti drammatici con attentati e aggressioni, o assunsero aspetti quasi grotteschi, come quella tra il pievano di Guzzano e l’abbazia di Monteplano (seconda metà XII secolo), in cui il primo inique et ingiuste atque maliciose et contra ordinem suum interfecit et interficere fecit atque vulneravit LX porcos ad monasterio de Monteplano pertinentes de quibus porcis extimat damnum XX lib. Bon..
Nell’esemplare repertorio delle pievi di pianura, ogni scheda riporta il nome dei Santi titolari, l’ubicazione, la prima attestazione, la fondazione, gli eventuali promotori, i diritti di patronato, corpose testimonianze da fonti originali meticolosamente rilette e aggiornate sulla vita canonicale, lo sviluppo del territorio pievano e delle cappelle dipendenti e, soprattutto, un paziente e prezioso elenco delle decime e degli estimi ecclesiastici. Il testo è arricchito da disegni, incisioni, acquerelli e fotografie, e concluso da un’ampia, accuratissima bibliografia. In una nota, l’autrice si stupisce che nessuno abbia ancora intrapreso lo studio dell’estimo ecclesiastico del 1392, la fonte più ampia per la ricerca sui possessi delle pievi, né di quello del 1408, edito solo per assaggi. Entrambi queste fonti, tuttavia, accrescerebbero enormemente le nostre conoscenze sulle chiese della diocesi di Bologna fra il XIV e il XV secolo.
Quanto alle pievi della montagna e della collina, Renzo Zagnoni lamenta la mancanza pressoché totale di documentazione nell’Archivio arcivescovile, se si esclude il cosiddetto “Libro dalle Asse”, che riporta documenti del XII e XIII secolo. Tra le fonti alternative è da citare l’Archivio arcivescovile di Ravenna – di cui la diocesi di Bologna fu suffraganea dal V al XVI secolo – per alcune carte relative alle pievi della montagna e della collina bolognesi, nonché altri archivi esterni alla diocesi per quelle, ad esempio, al confine con la Toscana. La maggior parte di questi documenti si riferisce a liti fra i monasteri e gli arcipreti a proposito della “cura d’anime” nelle chiese di dipendenza monastica.
L’archivio notarile bolognese è stato ampiamente utilizzato, ma non in maniera sistematica (ci vorrebbero anni di ricerca!): le sue carte sono state impiegate solo nei casi in cui non è stato possibile reperire documenti più antichi, ai quali tuttavia esse facevano riferimento. Pressoché inesistenti le fonti narrative, scarsissime le epigrafiche e, delle relazioni di visite pastorali, mancano quelle precedenti il 1425. A tutto ciò si aggiunga l’assoluta mancanza di fonti archeologiche per la scarsissima tradizione di archeologia del territorio e di archeologia medievale nella parte montana del bolognese, mentre un adeguato programma di scavi permetterebbe sicuramente di ampliare le nostre conoscenze, data la persistenza delle chiese nel luogo della loro fondazione.
La maggior parte delle pievi prese in esame è documentata per la prima volta fra il X e l’XI, segno evidente di una loro origine almeno altomedievale.
Quanto al problema della terminologia, lo storiografo rileva che il termine plebs entrò in uso solamente nel secolo IX: ancora nell’anno 801 San Mamante di Lizzano viene ricordata come ecclesia baptismalis, termine più adatto per definire queste chiese di diritto pubblico vescovile e per distinguerle dagli oratoria, dai tituli o dalle basilicae, sorte di solito per iniziativa privata e non provviste di battistero né di clero stabile dipendente dal vescovo.
Alcune di queste fonti permetterebbero di collocare la nascita dei primi battisteri rurali agli ultimi decenni del IV secolo, anche se la presenza di chiese battesimali e l’amministrazione del battesimo dovettero ancora avere un carattere eccezionale. Nel racconto di un presunto miracolo (il fonte battesimale si riempiva di acqua durante la solenne celebrazione del battesimo e poi si svuotava rapidamente, pur in assenza di una sorgente vicina) che avveniva ogni anno nella notte di Pasqua in una chiesette di montagna nella zona dell’odierna Marsala, quello che interessa è la celebrazione del battesimo nella notte di Pasqua, in modo simile a quanto accadeva nella cattedrale.
Analoga proposta di datazione è stata avanzata anche per un’altra parte del territorio italiano, il Trentino, diametralmente opposto da un punto di vista geografico: ciò testimonia la faticosa penetrazione del cristianesimo tra la popolazione rurale, che restava in molta parte ancora pagana: una situazione simile, per molti aspetti, a quella dell’Appennino fra l’Emilia e la Toscana.
Poiché la funzione battesimale fu la causa stessa della fondazione delle ecclesiae baptismales, decisiva sarebbe la conoscenza della struttura e collocazione del loro fonte battesimale; va ricordato che, siccome il battesimo avveniva in genere per immersione, le chiese sorgevano necessariamente presso una sorgente o un corso d’acqua che serviva per riempire facilmente la vasca battesimale. Solo in quattro casi possiamo ipotizzare la presenza di veri e propri edifici battesimali esterni alle chiese: Claterna, Baragazza, San Giovanni Battista in Triario e Lizzano, la cui rotonda presso la pieve fu in realtà un edificio battesimale – si tratta, per la precisione, dell’unico edificio battesimale altomedievale ancor oggi esistente in tutta la diocesi e risalente alla metà del secolo VIII.
Nella vicenda delle pievi di montagna e di collina, le valli fluviali risultarono determinanti per la viabilità, nonché per il sorgere e lo svilupparsi dei centri abitati e, di conseguenza, delle pievi: valli parallele che penetrano nell’Appennino, creando itinerari naturali di valico, come la valle del Reno. In molti casi, le pievi sorsero proprio lungo questi itinerari ed offrirono ospitalità gratuita. La chiesa battesimale sorse al di fuori dei centri abitati ma in posizione baricentrica, essendo concepita a servizio della cura animarum e spesso costruite nelle zone cimiteriali cristiane, perciò fuori dai centri abitati secondo le leggi romane. Pochissime chiese battesimali furono edificate all’interno di centri abitati fortificati come quella di Santa Maria di Monteveglio, sorta all’interno dell’omonimo castrum.
I beni immobili delle pievi provenivano perlopiù da donazioni, da atti di conversione o da lasciti testamentari. Fra i beni di maggior importanza appartenuti alle pievi risultano i mulini: strutture rilevanti sia da un punto di vista economico, sia per il diretto controllo dei fedeli, che erano costretti a macinare solamente negli opifici ad esse appartenenti. Quasi la metà delle pievi collinari e montane ne possedeva uno.
Nel territorio pievano sorsero anche alcune chiese annesse agli ospitali, fondate in genere dai monasteri benedettini di dipendenza vallombrosana, con ospitalità gratuita. Anche nei confronti degli ospitali e delle chiese annesse, si verificarono liti fra pievi e monasteri per la giurisdizione religiosa. E conviene aggiungere che, nella parte collinare e montuosa della diocesi, ebbe poche conseguenze la predicazione degli ordini mendicanti.
Fondamentali per il finanziamento delle tante attività della pieve, oltre i possessi fondiari e le decime, furono i diritti di sepoltura per cui ciascun fedele, essendo rinato alla vita in quel certo fonte battesimale, doveva contribuire al suo mantenimento. Da un punto di vista teologico, ogni cristiano doveva essere sepolto nella “chiesa matrice”, ove avrebbe atteso la resurrezione e il giudizio.
Diverse pievi montane e collinari ebbero stretti rapporti con signori del territorio. Gli stessi pievani appartenevano spesso a queste famiglie che, in un periodo in cui il Comune di Bologna aveva conquistato buona parte della montagna, riuscivano ancora a controllare centri come le pievi. Si è già constatato che, fra la metà del secolo IX e la metà del X, si assisté a un periodo di decadenza, che fu caratterizzato dalla prassi dell’assegnazione ai laici, e nel quale la titolarità delle chiese si trasformò in mera fonte di guadagno per i concessionari: l’elemento economico e temporale sopravanzava i fini spirituali Talvolta le concessioni erano fatte a monasteri, per cui alcune pievi furono sottratte a presbiteri spesso ignoranti o concubinari.
Le “comunità canonicali di pieve” sono un nuovo istituto strettamente legato alla riforma ecclesiastica dell’XI secolo per l’eliminazione del concubinato ecclesiastico e della simonia: imposero il beneficio comune, il dormitorio e il refettorio comune, oltre a promuovere il canto collettivo dell’ufficio divino, partendo dal capitolo della cattedrale. Ma per una maggior diffusione di questo nuovo istituto nella parte montana e collinare della diocesi bolognese, occorre aspettare la seconda metà del secolo.
Un elemento architettonico caratteristico, che conferma la presenza di un numero consistente di religiosi e contraddistingue sia i monasteri sia le chiese collegiate, è certamente “il coro”, ben documentato in alcune chiese montane e collinari: a Monteveglio il coro risulta sopraelevato per la presenza della cripta. Le Costituzioni della Chiesa bolognese elencano anche i libri necessari alle celebrazioni: missale, lectionarium et antiphonarium. Altri elementi architettonici che attestano la presenza di un collegio canonicale sono il “chiostro” e il “dormitorio”, laddove mancano testimonianze dirette del “refettorio”. Tuttavia le Costituzioni della Chiesa bolognese del 1310 imponevano che la mensa dei canonici fosse comune, e sicuramente in tutte le chiese battesimali – come alla pieve del Pino – si trovava l’addetto alla dispensa (canavarius plebis) con anche funzione di pistor, mugnaio e fornaio con il compito di prelevare dalla dispensa (scrinium) il necessario alla mensa dei canonici. Lo scaldatorium era invece una stanza apposita con camino, ed è documentato anche nelle abbazie benedettine. La presenza infine di un portico (Guzzano, Pino e Sambro) ci fa pensare ad edifici importanti ed eleganti per cui la Pieve di Casio è definita palatium plebis in un documento del 1211.
A capo della pieve e della canonica ed eletto dal capitolo dei canonici, c’era il pievano, personaggio di notevole prestigio religioso, sociale e politico che portava un particolare tipo di abito che lo distinguesse dai laici e dagli altri religiosi. L’autorità dell’arciprete nei confronti delle cappelle dipendenti si esercitava anche con la visita annuale, di solito a cavallo: era un elemento essenziale per pievi molto vaste come quella di Succida, dove viene ricordato in un documento anche il mantello “de stanforte albo foderato de zendalo”! Egli dormiva in una camera da solo come gli abati benedettini, e a lui spettava in primis la predicazione festiva. Dal momento della decadenza delle pievi e dei collegi canonicati, la nomina degli arcipreti passò in molti casi al vescovo che, nel XVI secolo, troveremo come titolare del diritto di moltissime pievi e chiese parrocchiali.
La vita comune dei canonici era resa possibile dal fatto che essi si mantenevano per mezzo del beneficio comune amministrato da un camerario eletto ogni anno dal capitolo dei canonici, le cui riunioni costituiscono i momenti di maggior rilievo assieme al canto comune dell’ufficio, all’elezione dell’arciprete o alle discussioni relative al patrimonio fondiario: sono, del resto, le sole documentate, oltre a quelle che trattavano presumibilmente la gestione religiosa della pieve.
Grande importanza ebbero i collegi canonicali pievani per quanto riguarda la preparazione dei giovani al sacramento dell’ordine; questi “chierici” dovevano saper leggere bene e cantare; conducendo una vita comune con i sacerdoti pievani, avevano poi la possibilità d’imparare la teologia e la liturgia.
Sull’esempio dei benedettini, è largamente documentata la figura del “converso”, un laico che attraverso il rito della “conversione” donava – com’è noto – se stesso e i suoi beni alla pieve nelle mani dell’arciprete, al quale prometteva obbedienza e stabilità ma non castità: spesso erano coppie di sposi la cui funzione era quella di gestire i beni degli enti religiosi.
Col sorgere e lo svilupparsi delle “cappelle di villaggio”, chiese sostenute da comuni rurali come elemento principale di identificazione di tutta la comunità, si accentuò fortemente l’autonomia dal sistema pievano mediante donazioni e benefici che permettessero il mantenimento autonomo dei loro rettori.
Paola Porta avverte che parlare dell’aspetto artistico-monumentale delle pievi della diocesi di Bologna fra Alto medioevo e Medioevo – cioè, di fatto, della scultura architettonica e di arredo liturgico superstite o della scomparsa delle pievi – significa affrontare “questioni nodali su cui molto c’è ancora da indagare”, nonché ripercorrere la storia del territorio e dei suoi abitanti, che intorno a quelle pievi “sperimentarono le prime forme di aggregazione e di organizzazione ecclesiastica e civile, preludio al futuro sviluppo di autonomie locali”.
Accantonata tutta la pletora d’ipotesi, più o meno suggestive, che fin dalla tradizione erudita settecentesca è fiorita intorno all’origine paleocristiana delle plebi bolognesi, la studiosa vuole occuparsi delle pievi nella loro realtà materiale, ossia nella loro specificità di edifici di culto. Ricordata la ricchezza e l’originalità dei lavori del Rivani, del Fantini e (più recentemente) del Grandi, propone “una prima revisione critica da cui trarre nuove ipotesi e prospettive di ricerca”.
Considerando che la struttura originaria di quelle che non sono state sostituite da nuove costruzioni non conserva forme precedenti l’età romanica e che, tuttavia, le intitolazioni delle stesse in buona parte si rifanno a santi venerati nei primi secoli della Chiesa, si pone il problema dei cicli santoriali e del culto delle reliquie: uno dei temi più interessanti della ricerca sull’Alto Medioevo.
Le “dedicazioni” costituiscono a tutt’oggi un problema complesso e discusso, in quanto non garantiscono dell’antichità degli edifici. D’altra parte, come si constata anche in altre diocesi, non si tratta quasi mai di scelte casuali. Dai decimari trecenteschi, si desume infatti che, fra i titolari delle pievi bolognesi, prevalgono la Vergine, gli Apostoli – in particolare San Pietro, titolare della pieve cattedrale, e San Giovanni – nonché i protomartiri Stefano e Lorenzo.
Altre dedicazioni riprendono devozioni di territori che, in tempi e modi diversi, ebbero relazioni col nostro: in particolare la Chiesa milanese dei primi secoli e la Chiesa di Ravenna, sia dell’età placidiana sia del periodo successivo alla vittoria dei bizantini sui Goti (metà del VI secolo). Si pensi, ad esempio, alla pieve di Budrio, dedicata ai santi milanesi Gervasio e Protasio, o alla chiesa di Sant’Ambrogio in Bologna, distrutta per far posto alla chiesa di San Petronio.
La presenza di Ravenna echeggia nella pieve di S. Apollinare a Calvenzano (Vergato) e in un S. Apollinare petroniano, distrutto per far luogo alla piazza del Nettuno, mentre con S. Andrea, titolare della pieve di Monte Budello, si può ricordare, sempre a Bologna, la scomparsa chiesa di Sant’Andrea dei Piatesi, in angolo tra le vie Indipendenza e Manzoni.
Santi come Mamante, Quirino e Iulitta sono invece di chiara origine orientale. A Mamante di Cesarea è dedicata la pieve di Lizzano in Belvedere, considerata tra le più antiche della diocesi, la parrocchiale di Medicina e, infine, una via, un quartiere e una porta (San Mamolo) dentro le mura di Bologna.
Il culto di S. Cassiano, martire patrono di Forum Cornelii (Imola) si diffuse per tutto l’Esarcato e nel cuore di Bononia tardo antica. All’inizio dell’attuale via Indipendenza (n. civ. 2), sorgeva una chiesa dedicata al santo che dette per un certo tempo il suo nome alla vicina porta sul lato nord delle mura di selenite. Cassiano figura nei primi decenni dell’XI secolo nel celebre Codice Angelico.
Le dediche a San Michele Arcangelo e a San Martino possono avere una doppia valenza: santo nazionale del popolo longobardo e venerato anche nella capitale dell’impero d’Oriente quale protettore degli eserciti. Nella nostra diocesi gli sono dedicati numerosi edifici, quali la pieve di Poggio Renatico (Ferrara) e a battesimale di Baragazza (Castiglione dei Pepoli).
Altro santo caro ab antiquo alla religiosità popolare è Martino, vescovo di Tours. Il suo culto fu introdotto nella penisola in epoca carolingia, durante la lotta per la conversione dall’arianesimo al cattolicesimo delle popolazioni germaniche in Italia. Secondo la testimonianza di Gregorio di Tours, già nel V secolo in Gallia e nella nostra penisola numerose chiese erano dedicate al santo: a Ravenna l’odierna S. Apollinare Nuovo, eretta dal goto Teoderico in onore del Salvatore, dopo la conquista bizantina della città, fu “riedificata” dall’arcivescovo Agnello a San Martino. Di altre rimane solo la memoria in alcuni documenti.
Altro problema ancora poco indagato nel nostro territorio, secondo la studiosa, è quello della circolazione, della collocazione e del “culto delle reliquie”, di cui è noto l’aspetto importantissimo rivestito non solo nel Medioevo: esso in effetti “si radica in un contesto storico e geografico ben preciso, che può avere influito sull’azione esaugurale dei luoghi di culto e del fenomeno dei pellegrinaggi, e che trovò uno degli elementi distintivi negli antichi percorsi lungo i quali si concretizzarono forme di solidarietà e di soccorso, documentate nel bolognese da centri monastici e hospitalia, rendendo così possibili gli interscambi di genti e culture”.
Il presente contributo, puntualizza Paola Porta, non intende proporsi come il corpus dei monumenti dell’agro bolognese, bensì come “un primo approccio di una ricerca in fieri intesa ad offrire nuove prospettive e considerazioni, a riscattare e ricomporre, ove possibile, un passato spesso di oblio e di degrado ed infine ad inserire in una prospettiva culturale ad ampio spettro edifici che, seppure trasformati, conservano comunque con incidenze diverse i segni del mondo religioso e civile che intorno alle comunità plebane si mosse e scandì i propri tempi vitali”.
La ricerca, in questa sede, si circoscrive all’antica edilizia plebana del territorio e delle sculture superstiti ed è focalizzata su di un gruppo abbastanza ristretto di pievi e aspetti – in alcuni casi poco conosciuti, se non inediti – di arte sacra locale, da collocarsi intorno all’anno Mille. Sono espressioni di un’arte maturata attraverso i secoli secondo un processo ora di continuità, ora di innovazione, nei pressi delle ricordate strade dei pellegrini, percorse incessantemente pure da artisti e maestranze.
Infine, di fronte all’evidente degrado a cui vanno inesorabilmente incontro gli antichi monumenti, scopo non ultimo del saggio in discorso è quello di indurre ad attuare adeguati e solleciti interventi di manutenzione di tale patrimonio storico-artistico e archeologico, nella speranza di garantirne la sopravvivenza.
Entrando più nello specifico, uno dei principali problemi è la carenza di indagini archeologiche per confermare o smentire la convinzione ricorrente che le pievi si siano sostituite a edifici di culto pagani e che, nel nostro territorio, si fonda in genere su tradizioni prive di riscontri
Un esempio per tutti la pieve di Santa Maria in Pago Celeri (Montececere) nel Comune di Castel San Pietro Terme, quasi dimenticata nonostante l’importanza rivestita nel Medioevo, e andata distrutta nel 1944 per eventi bellici. Ad avviso degli studiosi del territorio claternate, il toponimo deriverebbe da un santuario della dea Cerere, risalente quindi ad epoca romana. Secondo un recente orientamento, già ventilato dal Calindri, il sito avrebbe visto una frequentazione tra la tarda antichità e l’alto Medioevo e il riutilizzo di laterizi romani. Inoltre, fino almeno al XV secolo, nei documenti appare la dizione pago monte Celeri, che farebbe escludere la dea romana.
Le vicende della pieve di Montecerere sono esemplari di una situazione in cui quasi costantemente ci s’imbatte: i danni arrecati dall’ultimo conflitto mondiale, infatti, hanno comportato per molte pievi pseudo-restauri tali che “gli unici rifacimenti disponibili della facies medievale provengono da indagini effettuate quasi unicamente in occasione di questi lavori. In secondo luogo, la ricostruzione o la trasformazione degli edifici operate in prevalenza tra i secoli XVI e XVIII e gli interventi spesso sconsiderati tra il XIX e gli inizi XX secolo che, nell’intento di restituire le forme romaniche o piuttosto quelle che si supponeva fossero tali, hanno cancellato testimonianze artistiche pregevoli di epoche diverse”.
Fortunatamente ci restano testimonianze cartografiche di età cinquecentesca, costituite da schizzi e immagini di chiese e di rilevanti edifici del contado bolognese eseguiti nel 1578 dal domenicano Egnazio Danti, nonché da acquerelli delle pievi e del relativo piviere realizzati da due disegnatori.
In altri casi è altresì possibile usufruire di disegni che corredano perizie agrimensorie del XVI e XVII secolo – come nel caso di Montecerere – di edifici di culto non ancora trasformati da “invasivi interventi architettonici”.
L’indagine sugli edifici plebani che conservano ancora strutture, resti architettonici e sculture medievali privilegia la pieve cattedrale di San Pietro, “centro focale e coagulo” della diocesi, per poi allargarsi ad altre chiese di pianura, di collina e di montagna, secondo l’ordine cronologico della documentazione. La pieve urbana – Ecclesia Mater col battistero e l’episcopio, presso la cerchia delle mura di selenite – deve distinguersi da altri due loca sacra del cristianesimo cittadino, dislocati in opposti quadranti del suburbio: il monastero dei Santi Naborre e Felice, che accolse le sepolture dei primi vescovi, e il complesso martiriale di Santo Stefano, aggregatosi attorno alle reliquie dei protomartiri Vitale e Agricola.
È solo a partire dalla fine del IX e inizi del X secolo che i documenti d’archivio attestano con sicurezza la presenza dell’edificio e l’intitolazione a San Pietro: dei secoli precedenti resta un’arcata di ciborio in calcare, rinvenuta agli inizi del XX secolo e passata sotto silenzio fino ad epoca recente.
La numerosa e preziosa serie di disegni che il geografo Egnazio Danti “schizzò” nel 1578 con segno rapido ed essenziale restano, talvolta, le uniche testimonianze delle pievi prima dei restauri – se non veri e propri rifacimenti – eseguiti nei secoli successivi. Taluni disegni sono accompagnati da brevi note, come quelli di S. Maria Annunziata e di S. Biagio di Sala Bolognese: “Questa è la più bella e ornata giesa che habbia visto in questa diocesi”.
Sempre del Cinquecento sono i disegni di Johannes Berblochus Roffensis Anglus, un inglese di Rochester (in latino Roffa) che riproduce con nordica precisione le pievi, soprattutto quelle collinari e montane. In altri casi, è anche possibile usare disegni che corredano perizie agrimensorie del XVI e XVII, come nel caso di Montecerere, di edifici di culto non ancora trasformati da invasivi interventi architettonici.
Della fine del Settecento non potevano mancare le immagini bolognesi del marchigiano Pio Panfili, cui vanno aggiunti i romantici ma fedelissimi acquerelli di Giuseppe Fancelli all’inizio dell’Ottocento. Alla metà dell’Ottocento, poi, le testimonianze pittoriche di Enrico Corty hanno riguardato la quasi totalità delle chiese della diocesi bolognese ritratte con segno preciso, quasi “fotografico”; ad esse conviene associare le immagini di chiese cittadine realizzate dal grande Basoli e, sempre della metà dell’Ottocento, quelle di Camillo Guglielmini. Ricchissimo l’apparato fotografico di particolari architettonici, che testimoniano, più volte, elementi delle antiche pievi riutilizzati, con scopi anche diversi, in successive ristrutturazioni.
Un dovizioso elenco di fonti e un’esaustiva bibliografia dimostrano come questi preziosi contributi siano frutto di un lavoro vasto e insieme rigoroso sulle fonti edite e inedite, nonché innovativo nei risultati e nelle ipotesi di ricerca, che meriterebbero di essere raccolte e portate avanti, a onor del vero, sempre partendo da quest’opera di riferimento.
Il significato e l’importanza di questo autentico approdo scientifico – che il lettore potrà peraltro consultare anche solo per una più approfondita conoscenza delle origini della propria chiesa – risiedono essenzialmente nella straordinaria competenza degli autori, che si rivelano – qui come altrove – studiosi eccellenti del territorio bolognese e impeccabili esegeti di testi tutt’altro che agevoli.
Con quest’opera per molti aspetti “imponente” (Paolini), si è così realizzato l’auspicio del convegno di Capugnano sulle ecclesiae baptismales, anche grazie al momento favorevole in cui hanno visto la luce, fra l’altro, edizioni di fonti documentarie emiliane e toscane, nonché per la solida ripresa di studi sulle istituzioni ecclesiastiche bolognesi.

Note

  1. Paola Foschi, Paola Porta, Renzo Zagnoni, Le pievi medievali bolognesi (secoli VIII-XV). Storia e arte, a cura di Lorenzo Paolini, Bologna, Bononia University Press, 2010, pp. 555.

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