Bibliomanie

New Realism. Alcune domande a Maurizio Ferraris autore di Manifesto del nuovo realismo
di , numero 29, aprile/giugno 2012, Letture e Recensioni,

Come citare questo articolo:
Elisabetta Brizio, New Realism. Alcune domande a Maurizio Ferraris autore di Manifesto del nuovo realismo, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 29, no. 8, aprile/giugno 2012

Il suo ultimo libro svolge una energica verifica del rapporto necessario tra realtà e pensiero rigoroso. Tuttavia, rispetto ad altri suoi lavori, Manifesto del nuovo realismo (Laterza, Roma-Bari 2012) mostra un certo margine di eccentricità, e ciò in virtù di un ragionare essenzialmente riflesso sulla evoluzione di una prospettiva filosofica che viene ripercorsa attraverso le varie declinazioni del metodo di ricerca che la sorveglia da vicino: quel realismo che ne costituisce il motivo ispiratore, unificatore e fondante. Una ricerca sterminata e dagli esiti fecondissimi, la sua, che con sistematicità si dilata dall’ontologia dell’opera d’arte al riconoscimento del primato della registrazione sulla comunicazione, dalla focalizzazione degli oggetti sociali alla formulazione per la quale lo spirito è materiale, cioè consiste nella risultanza della lettera e del suo valore documentale, dall’identificazione della verità delle nostre emozioni anche di fronte a oggetti finzionali alla delineazione realistica della finora alquanto sfuggente nozione di anima. Ora, «manifesto» rinvia a un programma teorico e a un criterio metodologico, poiché la parola rimanda a un documento programmatico nel quale vengono esplicitamente enunciati e motivati dei principi normativi. E forse in questo libro lei ha voluto spostare l’attenzione sul metodo (in quanto il programma è stato realizzato con la sua vastissima ricerca volta ad accertare ciò che è reale e ciò che non lo è, una ricerca pertanto in costante avanzamento), facendolo interagire con le sue tesi filosofiche posteriori alla deviazione realistica – più esattamente, «neo realistica», dal momento che, come lei scrisse mesi fa, essa è successiva a un postmoderno filosofico del quale qui si analizzano le origini remote e le espressioni più recenti, e se ne dimostra l’insolvenza nell’inflettersi dei principi dai quali esso inizialmente muoveva. «Nuovo realismo» potrebbe allora designare insieme il principio-guida che ha costantemente sorvegliato l’evolversi della sua riflessione e una prospettiva filosofica già ben definita (il suo realismo filosofico, appunto)?

Ferraris. La domanda è difficile, e gli elogi che lei fa al mio percorso filosofico sono davvero troppo impegnativi, anche se gliene sono molto grato. Realista, direi, lo sono sempre stato, e questo, a ben vedere, è sempre stato il mio punto di divergenza rispetto a Vattimo. Proprio in questi giorni mi è capitato di ricordare un evento remoto, di quasi quarant’anni fa. Era la primavera del 1975 e io davo il mio primo esame di filosofia, fuori facoltà, perché stavo cambiando da medicina, dove mi ero iscritto all’ultimo momento, a filosofia, dove avevo sempre pensato di iscrivermi: forse anche nella faccenda della medicina c’è qualcosa di legato al realismo, me ne accorgo per la frequenza degli esempi medici che mi capita di fare, ma forse esagero nelle interpretazioni. Comunque, eccomi al mio primo esame, con Vattimo. Portavo tra gli altri testi il saggio L’origine dell’opera d’arte di Heidegger, quello che si trova in Sentieri interrotti. A un certo punto, Heidegger analizza la nozione di «cosa». «La cosa – scrive Heidegger –, come ognuno crede di sapere, è ciò intorno a cui le proprietà si raccolgono. Si parla così del nocciolo della cosa. I Greci lo intesero come to hypokeimenon. Questo nocciolo della cosa era per loro ciò che sta nel fondo e che precede ogni determinazione. Le caratteristiche sono invece ta symbebekota, ciò che, nei singoli noccioli, è già sempre incluso, e quindi si presenta sempre con essi. Queste denominazioni non sono casuali. In esse parla (…) la sperimentazione fondamentale dell’essere dell’ente da parte dei Greci. In queste determinazioni trova fondamento la successiva interpretazione della cosità delle cose e in esse si fonda l’interpretazione occidentale dell’essere dell’ente. Questa incomincia con l’assunzione dei termini greci nel pensiero romano-latino: hypokeimenon diviene subjectum; hypostasis diviene substantia; synbebekos diviene accidens. Questa traduzione latina dei termini greci non è per nulla quel processo “innocuo” che è oggi ritenuto. Dietro questa traduzione letterale, e quindi apparentemente garantita, si nasconde invece il tradursi in un modo di pensare diverso dalla sperimentazione greca dell’essere. Il pensiero romano assume i termini greci senza la corrispondente sperimentazione cooriginaria di ciò che essi dicono, senza la parola greca. La mancanza di base del pensiero occidentale incomincia proprio con questo genere di traduzione».
Ecco, il mio dibattito con Vattimo ha inizio qui. Vattimo sosteneva che questo passo dimostra quanto il linguaggio sia costitutivo dell’essere. Io opponevo che se i termini greci, secondo Heidegger, erano più adeguati, questo doveva dipendere dal fatto che si attagliavano meglio alla natura della cosa, sicché era il linguaggio a venir costituito dall’essere. La questione si metteva un po’ nei termini del se sia nato prima l’uovo o la gallina, ma, ripensandoci, in quel lontanissimo dissidio tra un diciannovenne e un trentanovenne (eravamo giovani entrambi) c’è qualcosa che è continuato anche dopo.
La buona domanda a questo punto sarebbe come mai sono diventato postmodernista o decostruzionista, ma non mi sembra sorprendente. Essere realisti non significa essere conservatori o insensibili allo spirito dei tempi. E quelli – gli anni Settanta e Ottanta – erano tempi in cui l’idea di decostruzione, l’idea che non tutto era dato e fisso dall’eternità (i ruoli, le strutture di potere, il sapere) era molto forte, e, aggiungo, sacrosanta. Allora, però, non adesso, in cui ci troviamo di fronte a una realtà totalmente decostruita e messa in crisi come realtà. A questo punto, la vera decostruzione è un’altra, e va in senso radicalmente inverso. La decostruzione non è un equilibrismo da funamboli. È saper riconoscere che cosa è socialmente costruito, e cosa non lo è, oltre che tutte le infinite posizioni intermedie. Il vero lavoro della filosofia incomincia qui, invece di proporre tesi totalizzanti sul fatto che tutto è socialmente costruito.

Nel suo «Invecchiamento della “scuola del sospetto”» (che figura in Il pensiero debole) lei già indicava «i limiti dello smascheramento» nella messa in opera del dubbio infinito e nel conseguente diffrangersi della verità, prefigurando un esito incerto dell’infinitamente interpretabile e indiscriminante in quanto privo di un sostegno referenziale. Nel misconoscere l’autorità della realtà lei intravedeva insomma l’eventualità che l’espletamento delle funzioni critiche del dubitare finisse per estendere il dubbio fino alla stessa verità, la quale potrebbe correre il rischio di esser trattata alla stessa stregua del falso. Era questo il segnale di una vocazione al realismo, di una tensione alla concretezza, alla referenzialità, al significato?

Ferraris. Questa domanda mi fa molto piacere perché spesso si trova paradossale che io sia approdato al realismo dopo aver partecipato al Pensiero debole. In primo luogo, si potrebbe osservare che non c’è nulla di paradossale che nell’arco di un trentennio si possano cambiare le proprie idee (non dimentichiamoci che il Pensiero debole è del 1983!). In secondo luogo, come lei osserva giustamente, non si è trattato di un capovolgimento totale, ma piuttosto di un modo di precisare una medesima istanza che personalmente ho sempre avvertito come prioritaria: non ricevere le filosofie come dogmi, ma confrontarle con la realtà, appunto. In terzo luogo, come sottolineo nel Manifesto, ma come è stato notato da molti, nel Pensiero debole ci sono contributi tutt’altro che «debolisti» (si pensi a Eco e a Marconi), e la stessa idea di «pensiero debole» è qualcosa di talmente indeterminato che l’accusa di averla abbandonata appare di una paradossalità ancora più squisita di quella che mi viene imputata.

Sulla scorta della diversificazione di ontologia ed epistemologia il realismo che lei osserva si atteggia ad antitesi del positivismo, anzi si configura nella funzione di «ponte» – lei dice – tra il senso comune e il mondo del sapere, come percorso atto a «saldare il sapere e le credenze». È forse in questo grado di collegamento che avviene la vera valorizzazione del senso comune nella dimensione speculativa?

Ferraris. Sì. Perché lo speculativo puro, separato dal senso comune, trasforma la filosofia in un ramo della letteratura fantastica, in cui si congettura su cosa facesse Dio prima della creazione. A questo punto, tutto si può dire ma, ovviamente, c’è da chiedersi se ne valga la pena. E anche questo è uno dei motivi del mio realismo. Quando ho incominciato questo mestiere, era molto comune l’uso di termini esoterici e quasi magici in filosofia, parole straniere adoperate in forma superstiziosa e scaramantica, e in genere una pratica di allusioni, come se fare filosofia significasse essenzialmente parlare un certo linguaggio più o meno cifrato. Si veniva a creare un doppio livello, come se ci fosse la lingua in cui si parla di quello che c’è, e la superlingua in cui si parla di quello che non c’è. E non era solo una questione di linguaggio, ma proprio di modo di rapportarsi al mondo. Poco alla volta questa teoria della doppia (o della mezza) verità mi è diventata insopportabile. In particolare – è una storia che mi è capitato di raccontare altre volte – ricordo un’occasione, a Napoli, all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Era l’inizio degli anni Novanta e stavo introducendo un seminario di Gadamer, l’aula era piena e si parlava del ruolo ontologico del linguaggio. Mi chiesi: ma davvero il linguaggio costituisce il Vesuvio? Chiaro che no. Il linguaggio costruisce la parola «Vesuvio», ma il Vesuvio non sa che farsene del linguaggio. Ebbi il sospetto che parlando di «ruolo ontologico del linguaggio» si stesse ingannando, sia pure sottilmente e in buona fede, coloro che ascoltavano. E di colpo tutta quella retorica mi apparve insostenibile, almeno in quei termini, per quanto grande fosse la stima per filosofi come Gadamer, Vattimo, Derrida.

In Manifesto del nuovo realismo lei scrive: «Quello che chiamo “nuovo realismo” è dunque anzitutto il nome comune di una trasformazione che ha investito la cultura filosofica contemporanea e che si è declinata in molti sensi». Esso non è una teoria, «né uno specifico indirizzo filosofico, né una koiné di pensiero, ma semplicemente la fotografia (…) di uno stato di cose» (l’esistenza di un orientamento filosofico diffuso che tiene in conto della verità quale istanza primaria). E men che meno realismo è una forma di revivalismo o un banale affermare l’esistenza della realtà. Il realismo come metodo sembra operare contestualmente in due fronti, nel senso che è antecedente e successivo: mentre nel versante destruens preliminarmente neutralizza le sfasature del postmoderno, a un livello secondo, reattivo e positivo, esso promuove la ricostruzione. Nella scansione della sua analisi e dei giudizi attributivi assistiamo a una esplicitazione pressoché sincrona del nesso tra realismo e i punti focali delle diverse conclusioni teoriche che incrementano il suo sistema. Ora, giacché non tutto è socialmente costruito, realismo è principalmente inemendabilità delle cose (dato di fatto che garantisce una continuità tra percezione e morale); esso è ciò che discrimina essere e sapere e che pone una soluzione alle fallacie del postmoderno filosofico. È possibilità di esercitare quella azione critica consustanziale alla filosofia, di promuovere inoltre un affrancamento dalla dimensione tutt’altro che emancipativa dell’«accertamento-accettazione» nella quale il postmoderno filosofico mostra di essersi arrestato. Realismo è decostruzione, forse la linea-guida della vera decostruzione, che si ridefinisce nell’impervio lavoro del demarcare gli oggetti socialmente costruiti da quelli che resistono e che non possono esser corretti, e come tali non abilitati a un inquadramento concettuale – ed è a questo punto che il realismo diviene sinonimo di ricostruzione. Quale – o quali – di queste facoltà di flettersi del realismo è più determinante delle altre secondo lei?

Ferraris. Anche nella decostruzione «classica», quella di Derrida, le due dimensioni sono contestuali. Ogni decostruzione comporta una ricostruzione, diceva Derrida. Anche se poi, in lui, la dimensione ricostruttiva non era chiara, e prevaleva di gran lunga l’aspetto decostruttivo, che è sicuramente più affascinante. In questo senso, direi che si tratta piuttosto di sostenere che ogni decostruzione è in vista di una ricostruzione, ha di mira una ricostruzione. Per esempio: la critica al costruzionismo generalizzato, all’idea che tutto sia socialmente costruito, è una decostruzione. Ma il suo scopo è la ricostruzione di una classificazione di oggetti naturali e ideali (che non sono socialmente costruiti) e di oggetti sociali (che lo sono).

Il prelievo dalla realtà è il percorso obbligato perché la filosofia riacquisti legittimità. Ma affinché ciò avvenga è necessario che oggettività e verità non siano declassate a fattispecie discrezionali. Che vero e falso, bene e male (e facendo una inevitabile incursione nell’attuale scenario politico, la stessa caratterizzazione ideologica dei termini sinistra e destra, o viceversa) non assumano una configurazione ambivalente o onnivalente. La scienza – lei scrive – non detiene tutte le verità e la filosofia non si situa quale antagonista o alternativa della scienza. Lei sostiene che la filosofia possa dare ancora delle risposte, purché si distolga dall’atteggiamento dominante del secolo scorso, il quale riversava una enfasi eccessiva sul carattere prioritario della domanda, quasi contenesse in se stessa il proprio fine. L’avvenire della filosofia sta nel nucleo comune delle possibilità intrinsecamente critiche e delle facoltà ricostruttive del realismo, che lei definisce «una dottrina critica in due sensi», in quello «kantiano del giudicare che cosa è reale e cosa non lo è», e nella prospettiva marxiana della trasformabilità di «ciò che non è giusto». Quale delle due funzioni è più ardua da realizzare per il filosofo?

Ferraris. Ovviamente la seconda, però va detto che non è una prerogativa del filosofo, ma di qualunque essere umano dotato di morale, e ovviamente in condizione di farlo.

Realismo è insieme principio teoretico e morale, anzi – lei osserva – morale è il suo «argomento decisivo», dal momento che l’etica presuppone un mondo di fatti in assenza dei quali l’azione morale non sarebbe concepibile. Quello che lei chiama «attrito del reale» è il corrispettivo etico della inemendabilità, come nell’esempio della colomba kantiana. Perché riesce così difficile rimettersi all’assunto del nesso tra realtà ed etica secondo lei? Perché ancora prospettive filosofiche totalmente svincolate dalle evidenze dei fatti si accordano una qualche responsabilità morale?

Ferraris. Perché sognare è bellissimo, o almeno si immagina che sia bello. C’è chi sogna di essere pugile, chi generale, chi poeta, chi diva del cinema, e c’è chi si immagina delle etiche ultra-etiche, post-etiche, iper-etiche, e proprio per questo dannatamente etiche. Della raccolta differenziata dei rifiuti e dei posteggi in doppia fila si occuperanno altri. L’essenziale di tutto questo lo troviamo in un memorabile dialogo fra Talleyrand e Napoleone. Il primo gli dice che sta preparando un trattato tra Russia e Francia che poggia su grandi principi diplomatici, e Napoleone risponde: «Principes est bien, cela n’engage point».

Lungo le sue pagine – da Estetica razionale a Anima e iPad – i suoi lettori hanno seguito il suo dissenso nei confronti del primato delle interpretazioni. Tuttavia, il paradigma dell’interpretazione non sembra affatto declassato nella sua ricerca, al contrario è chiamato a intervenire allorché siano preventivamente compiute e testate le debite distinzioni tra mondo naturale e mondo sociale. L’ermeneutica svolge ancora una parte rilevante nel suo lavoro?

Ferraris. Nel mio lavoro come in quello di chiunque: medico, giurista, lettore di giornali, utente di bollettini e moduli, navigatore su internet. In effetti nella «pretesa di universalità dell’ermeneutica» di cui si parlava nel secolo scorso c’erano due cose che non andavano, a mio parere. La prima era, appunto, l’idea che ci fosse ermeneutica in ogni momento dell’esistenza e forse anche della natura, come se per inciampare in uno sgabello fosse necessaria l’ermeneutica. La seconda era, invece, che questa ermeneutica universale fosse qualcosa a cui avesse uno specifico accesso il filosofo. Spesso i profani pensavano che gli ermeneutici avessero speciali tecniche di interpretazione, ignote al resto del mondo. Non era così. Di interpretazione ne sapevano (e ne sapevo) come il resto del mondo, magari anche meno, e il plus filosofico consisteva semplicemente nel dire che dovunque, anche quando non ce lo si aspetta, c’è interpretazione.

Realismo e costruzionismo, una volta demarcati i loro ambiti di competenza, non sono dunque in antitesi…

Ferraris. No, certo, anche se il costruzionismo va sempre tenuto sotto controllo, perché comporta spesso delle estensioni indesiderate. È per esempio molto facile che si confonda il «socialmente costruito» con il «soggettivamente costruito». Il che, ovviamente, è un errore. Non c’è dubbio che l’economia e la politica siano costruzioni sociali, ma è altrettanto indubbio che non dipende dalla volontà di un singolo soggetto di trasformarle. Molto spesso la portata presuntamente rivoluzionaria dell’ermeneutica è consistita proprio in questo: promettere una specie di rivoluzione interiore, per cui un professore o un lettore o chicchessia, interpretando, magari nella sua stanza e in totale sconnessione con l’esterno, fosse un alfiere e un combattente dei tempi nuovi. Sartre aveva detto che tra guidare un esercito e ubriacarsi in solitudine alla fine non c’è differenza, e l’ermeneutica radicale sembra averlo preso in parola…

Il realismo filosofico redime dal solipsismo. Il postmoderno e il pensiero debole – come lei ha più volte sostenuto – sono essenzialmente prospettive tutt’altro che deboli e addirittura dogmatiche. Anche nella gradazione non propriamente filosofica di una radicalizzazione soggettiva, di un soggettivismo estremo dove il mondo si risolve nel solus ipse. Tuttavia, solipsia è inoltre ripiegamento del singolo in se stesso, fuga irrealistica, estraneazione dal mondo, e quindi anche dalla questione della verità. E in questa tendenza a rimuovere la questione della verità un atteggiarsi solipsistico del pensiero rischia di galleggiare in un mondo fittizio. In tal senso la formula «pensiero debole» potrebbe arrestarsi al suo significato letterale, nel senso di una disposizione astrattiva nei confronti del mondo reale con inclinazione a eludere anziché a problematizzare, a ritrarsi dallo scontro o incontro con la realtà, a enfatizzare i propri limiti anziché a prenderne atto?

Ferraris. Direi che è soprattutto rendersi la vita troppo facile, appunto perché, come mi è capitato di dire tante volte, se neghi il valore della verità e della realtà allora sei anche esonerato dal chiederti se stai davvero facendo qualcosa per trasformare il mondo o stai semplicemente dicendo di trasformarlo, pensando di trasformarlo, sognando di trasformarlo…

Rinunciare alla realtà è rinunciare alla ragione. L’equazione realismo-ragione, in riferimento alle istanze emancipatorie sollevate dall’Illuminismo, da lei in più occasioni invocato nel Manifesto (anche con riferimento al principio del sapere aude) per riprendere il filo di un pensiero che postulava il riscatto dall’inconsapevolezza e dalla tutela intellettuale, per ricostruire rimettendosi a un’idea positiva di progresso, è ancora possibile secondo lei? La redenzione (se di redenzione dell’uomo non è insensatissimo parlare in una prospettiva non metaforica) o il percorso di liberazione dell’uomo, in nome del quale il postmoderno filosofico si era affermato, deve passare attraverso un ritorno alle cose, ai fatti, alle loro vincolanti limitazioni, le quali tuttavia ci danno la misura di ciò che siamo. L’«osa sapere» può spingersi oltre il momento della acquisizione dell’attitudine a pensare criticamente per una autonomia in senso più vasto del singolo individuo, oppure in ognuno di noi permarrà un residuo di debolezza, di dipendenza verso qualcosa, o qualcuno?

Ferraris. L’autonomia è ovviamente solo un ideale, da contrapporsi al bisogno compulsivo di dipendenza. Il sapere di per sé non dà salvezza o felicità, ma il non sapere è peggio. Soprattutto, il reale non sempre e non necessariamente è razionale. Perché, come diceva Amleto, «ci sono più cose fra la terra e il cielo di quante ne sogni la tua filosofia», ossia, come diceva quell’eroina di una stagione appena trascorsa, «ne vedrai di ogni».

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