Bibliomanie

Manzoni e “L’invenzione dell’inevitabile”. Il Saggio sulla rivoluzione francese del 1789
di , numero 33, maggio/agosto 2013, Saggi e Studi,

Come citare questo articolo:
Luigi Weber, Manzoni e “L’invenzione dell’inevitabile”. Il Saggio sulla rivoluzione francese del 1789, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 33, no. 1, maggio/agosto 2013



Il Mounier conclude la sua giustificazione con questo argomento: «Perché noi fossimo in colpa, bisognerebbe che avessimo potuto prevedere con certezza tutte le circostanze che dovevano condurre i Francesi sotto il giogo della tirannia popolare». No davvero. Sarebbe troppo iniqua la condizione dell’uomo se per discernere il diritto dal torto, ci fosse bisogno d’esser profeta 1

Confinato in un luogo meno che marginale, al fondo della lunghissima novantesima nota, questo passo, soprattutto con quella chiusa fortemente gnomica, esprime in nuce tutto il senso del vasto lavoro inconcluso di Alessandro Manzoni, il Saggio sulla Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione Italiana del 1859: il suo intendimento e la sua aporia. Di fronte all’evento inaugurale dell’età moderna, al più drammatico laboratorio storico-sociale degli ultimi due secoli, a un fascio di fatti così carichi d’avvenire, l’interrogazione sulle conseguenze dei propri gesti si pone come un crocevia ineludibile. E addita il dramma perenne della condizione umana, che è sospesa tra l’impossibilità di vedere il futuro, compreso quello contenuto nelle proprie azioni, e la necessità, oltre che il desiderio, di provare non diremo a divinarlo, bensì a produrlo. Con tutte le approssimazioni e gli errori del caso.
Ciò che il Manzoni chiede ai suoi lettori, e a se stesso, e a ogni uomo degno di tale nome, è per l’appunto d’esser profeta senza il dono della profezia, di saper e voler distinguere il diritto dal torto, con uno strenuo sforzo di onestà intellettuale, di responsabilità e di chiarezza interiore, che gli individui tutti, e in special modo i detentori del potere, nonché coloro che si trovano nei pressi del potere, o sono desiderosi del potere, ben di rado mostrano di voler applicare ai propri atti. Ma è un’aporia affrontata a viso aperto e non elusa né risolta dall’autore. Perché, di fatto, tutti i protagonisti di questa vicenda, profeti non lo furono davvero. Se è indiscutibile, come si usa dire, che per Manzoni e per i romantici il vero è di ordine storico, bisogna aggiungere che il vero prodotto dalla storia è spesso ricavabile a calco e contrario, dal cavo dell’accaduto.

Ennesima opera frammentaria, ennesima opera pluriennale, il Saggio sulla Rivoluzione francese del 1789, apparso per la prima volta nel 18892, è probabilmente l’ultimo capolavoro manzoniano, nella prosa e nel pensiero, o per dirla altrimenti nella forma e nella sostanza; negletto e dimenticato non in virtù della sua uscita largamente postuma o della sua condizione di non finito (al quale in realtà non occorre una sola parola di più), ma perché più che in ogni altro luogo qui egli si dimostra inattuale. Inattuale già rispetto al suo tempo, e diversamente inattuale anche rispetto al nostro.
All’incompiutezza, e non di meno a questa innegabile inattualità, da parte nostra di interpreti moderni si può reagire, per esempio con una scelta polifonica nell’apparato di note che accompagnano il testo; un commento quasi per interposta scrittura. Costruire, al di là delle essenziali informazioni storico-biografiche che ogni commentario deve ospitare, una sorta di lettura contrappuntistica del Saggio manzoniano, deputando a ciò le voci di due altri giganti della cultura europea, sostanzialmente coevi se non all’autore, certo alla sua opera magnanima.
Ai due lati del lavoro incompiuto della tarda maturità manzoniana si possono infatti collocare, da un punto di vista cronologico, due monumenti della storiografia francese ottocentesca: mentre Edgar Quinet scrive La Rivoluzione3, libro sanguigno e balzachiano, dal 1862 al 1865, pubblicandolo in quell’anno, Manzoni si dedica al suo studio dal 1862-63 al 1867 e di nuovo dal 1869 al 1871, e poco dopo, dal 1875 al 1878, Hippolyte Taine, gelido osservatore flaubertiano della bêtise, stende la prima parte del suo Le Origini della Francia Contemporanea. La Rivoluzione4. Lo scrittore italiano non conobbe il primo autore, e naturalmente non poté avvalersi del secondo, che pubblicò dopo la sua morte, nondimeno questi tre racconti della più importante vicenda della storia europea recente si prestano non poco, anche per le loro prossimità divergenti, a essere letti in maniera intrecciata5. Quinet e Taine costruiscono immensi affreschi, ricchi tanto di ampie campate architettoniche quanto di inflorescenti dettagli; Manzoni invece procede per esclusioni, circoscrizioni di sguardo: osserva da distanza minima un embrione nella sua crescita, solo per pochi mesi, e tuttavia ci mostra che quell’embrione contiene già tutto il corredo genetico dell’adulto che sarà. Peraltro, rispetto alle sue fonti, anch’esse molto selezionate, Manzoni produce qualcosa che somiglia a un commento interlineare: ribatte parola su parola, le setaccia e le saggia una per una, le parole, e non pare arbitrario farlo dialogare a sua volta con due storici-scrittori di grande carattere.
Ecco, se si volesse ragionare in maniera ingenua e quasi per tentativi appunto sulle “fonti” manzoniane, naturalmente si sarebbe tentati di risalire alle opere magne del XIX secolo, alla Histoire de la Révolution française (1823-1827) di Thiers, alla Histoire des Girondins di Lamartine (1846), alla Histoire de la Révolution di Michelet (1847-1853), a L’Ancien Régime et la Révolution di Tocqueville (1856), e tuttavia si scoprirebbe presto che Manzoni non li cita6; ciò peraltro non sorprende, giacché Thiers e Michelet adottavano toni troppo celebrativi, mentre l’opera di Tocqueville non aveva raggiunto ancora la considerazione di cui oggi gode; allora perché non guardare all’amico Cousin, a Fauriel (che fu segretario di Fouché fino al 1802), all’influente Thierry7, e semmai al grande maestro personale di Manzoni, Vincenzo Cuoco, vale a dire al Saggio sulla rivoluzione napoletana del 17998?
Sarebbe certo interessante, soprattutto quest’ultima direttrice di ricerca, e meriterebbe scrupolosi indugi da riservare ad altra sede. Ma in definitiva l’anziano Manzoni, che da un’intera vita coabita con il pensiero e fors’anche con il fantasma della grande rivoluzione, della sua incerta gloria e del suo certissimo sangue, preferisce piuttosto attingere direttamente ai documenti dell’epoca, soprattutto alle cronache del «Moniteur» e alle memorie dei protagonisti della fase assembleare e protorivoluzionaria9: il ministro Necker, il maire Bailly, l’abate Sieyès con la sua «metafisica», il conte di Mirabeau, ritratto a tinte giustamente fosche, i deputati Mounier, Mallet du Pan, Mortimer Ternau, il Guarda Sigilli Barentin, e ancora Rabaut-Saint étienne, il conte Lally-Tolendal, il barone Besenval, e numerosi altri. Pur scrivendo quasi ottant’anni dopo gli Stati Generali, Manzoni non si serve di nessun altro intermediario; il corpo a corpo con la Rivoluzione è qualcosa che attende (o a cui attende) da tutta la vita. E di conseguenza si muove entro il labirinto dei fatti e dei tempi con una disorientante disinvoltura, quasi che tutti i suoi lettori possedessero il suo medesimo grado di conoscenza.
Di fatto, la scrittura del Saggio lotta e si dibatte, senza possibilità di successo, tra due opposte tecniche: la necessità di rispettare un progresso lineare, per così dire cieco sui portati del futuro, e la considerazione degli eventi come tutti relativamente implicati. Il tempo del racconto, così, oscilla di continuo tra il passo lento e perfino lentissimo della microscopia, della cronaca giornaliera, e l’impossibile coesistenza di tutto nel tutto, come nel punto di vista di un dio che guardi al tempo umano integralmente compiuto, come un prisma che contenga tutti gli istanti congiunti, quasi un aleph borgesiano. La pagina, ma meglio sarebbe dire la frase, la classica frase complessa manzoniana, costruita di parallelismi e antitesi, si apre di frequente in folgoranti, rapinose prolessi, come incapace di seguire lo svolgersi dei fatti, mordendo il freno della cronologia10, sì che nell’opera quasi nulla del tragico decennio 1789-1799 vi è, eppure quasi tutto vi è – compresso, sovrapposto, alluso, anticipato. Gli esempi sarebbero una folla; basterà ricordare la magnifica pagina del capitolo IV in cui, muovendo dall’evocazione della minaccia delle «baionette» levata proditoriamente da Mirabeau dopo la prima ingiunzione del re al Terzo Stato (e siamo appena al 23 giugno 1789), Manzoni corre a perdifiato attraverso tutti i momenti in cui, negli anni a venire, autentiche baionette avrebbero minacciato l’Assemblea, fino a quel 18 Brumaio in cui vi fecero irruzione per davvero, mettendo la Francia in mano a Napoleone e di fatto concludendo l’epopea rivoluzionaria.
È difficile, inutile negarlo, giudicare di un’opera che non fu finita, e neanche mai prossima a vedere la fine, così come ardito spendersi in analisi su una forma che era ancora tutta da costruire, e nondimeno occorre farlo, sia per le dimensioni cospicue di detta opera, sia per la sua spiccata e originale personalità, che non si altera in modo significativo fra la prima e la terza stesura a noi pervenute. Così, due son gli aspetti che crediamo sarebbero rimasti inalterati, vale a dire la volontà autoriale di rinvenire tutta la Rivoluzione contenuta (e di seguito solo inverata) nei cruciali primi atti degli Stati Generali, dei Comuni e dell’Assemblea e l’ostinata decisione di «esporre i fatti causali, e di considerarli dal solo lato del diritto» (corsivo nostro). Nel caso paresse programma da poco, occorre invece insistere che no, non lo è affatto, e da tale – naturalmente parziale, parzialissima11, ma dichiarata – ipotesi di lavoro, il Saggio ricava la sua peculiare identità e il suo maggior interesse. Una rivoluzione, La Rivoluzione, considerata dal solo lato del diritto: impossibile? Manzoni è questo che prova a fare12.
Render giustizia all’ultima impresa del “Gran Lombardo” richiede una certa qual sospensione dell’incredulità – e così si scopre che occorre non solo dinanzi al romanzo o al teatro –, come hanno ben dimostrato nelle loro prefazioni gemelle Alfredo Giuliani e Federico Sanguineti; occorre dimenticare l’effetto intimidatorio dell’autore, la sua posticcia sacralizzazione, che si capovolge (ma si continua, proprio perché speculare, rovesciata) nell’anacronistica immagine di un Manzoni senile, stanco, non più lucido e perfino alleato inconsapevole della reazione non solo antigiacobina, ma anche del «partito clericale-gesuitico» che certo avrebbe cercato di piegare l’opera contro la rivoluzione italiana – come già presumeva correttamente il figlio Stefano, leggendo le prime pagine del lavoro13; occorre nondimeno liberarsi della preliminare considerazione che la proposta interpretativa manzoniana sia insostenibile, errata, sbugiardata da qualunque esame storico successivo. Tutto ciò che di critico si poteva dire, su questo Manzoni, da Croce a Salvemini, da Omodeo a Timpanaro, da Bollati a Fortini, è stato detto, spesso con buone ragioni.
A noi interessa altro. Giuliani stesso, che in poche paginette regala osservazioni penetranti, si muove dapprima sul filo di un’ironia compassionevole, nei confronti del suo autore, eppure termina quasi convinto, di certo mutato di sguardo14, come se davvero l’unica cosa che Manzoni chiede nell’introduzione15, ossia la pazienza di prendere in esame una tesi già all’epoca evidentemente impopolare, egli l’avesse inavvertitamente concessa, e si trovasse a considerare alfine trascolorate le proprie certezze.
In questo frammento imponente di quasi trecento cartelle, che nacque dalla volontà di mettere in esame a specchio il perdersi della Francia nelle tenebre rivoluzionarie prima, imperiali poi e restaurative infine, con l’unificarsi vittorioso dell’Italia a partire dal 1859, e che invece copre appena alcuni mesi del 1789, Manzoni combatte per l’ultima volta nella sua lunga vita una battaglia di minoranza, qualcosa che caratterizza tutto il suo percorso di intellettuale che scrive di storia16, qualcosa che avevamo già incontrato nel Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia17, nelle Osservazioni sulla morale cattolica18, e soprattutto nella Storia della Colonna infame: osa armare il possibile etico, logico e giuridico, contro il reale effettuale, mobilitando il dover essere contro l’esser stato, e soprattutto studiando, come ben osserva Giuliani, dov’è che gli uomini «inventano l’inevitabile»19. Che diventa tale, per l’appunto, ossia inevitabile, non dopo essere avvenuto, bensì solo dopo esser stato inventato. Non stupisce che tale partita, sul piano degli eventi storici, sia spesso stata giudicata insensata e inammissibile. Accadde lo stesso – si pensi ai libri astiosi quanto epidermici del pur stimabile Nicolini – perfino per la più compiuta e rigorosa di queste scritture, la Colonna infame.
In estrema sintesi, si afferma che Manzoni nel Saggio sulla Rivoluzione francese del 1789 tenta di dimostrare l’assunto secondo il quale la Rivoluzione non era necessaria, e che non vi fu distinzione o discontinuità tra un nobile Ottantanove e un perverso Novantatrè; scagliandosi insomma contro la tesi dei cosiddetti due tempi, molto cara a numerosi storici soprattutto ottocenteschi, avanzata ben presto, per non dir d’altri, dalla coppia Benjamin Costant-Madame de Staël20. Tale è senz’altro l’intenzione dello scritto, eppure ci pare, a guardarla oggi, in nessun modo comparabile alle mistificazioni dei reazionari, piuttosto la decostruzione di un tipo di discorso – non di una verità – che si era già affermato fin quasi a saturare ogni altro spazio. Tra la lettura demonizzante della Rivoluzione come puro caos e quella idealizzante della dolorosa ma giusta lotta per la conquista della libertà, Manzoni osserva in forma dubitativa che esiste almeno una terza via: era possibile ottenere la libertà e la caduta dell’Ancien Régime evitando il caos, il Terrore, le guerre d’invasione, decenni di instabilità politica? Non è la tesi di Manzoni che va – ancora una volta – discussa: sono interessanti i procedimenti che l’autore mette in campo per avanzarla e sostenerla.
La prima caratteristica che dovrebbe imporsi agli occhi di un lettore è che questo racconto della Rivoluzione è un racconto prevalentemente in interni, e perfino di carte: un dramma parlamentare, burocratico, cancellieresco quasi, un dramma di parole, di dichiarazioni, di interpretazioni tendenziose o miopi, di informazioni distorte, di metafore prese in senso letterale, di tradimenti del senso prima ancora che degli uomini, delle classi, delle istituzioni21; e stupisce, se solo pensiamo che la Rivoluzione fu – lo fu senz’altro, ma soprattutto così viene sempre descritta – un tracimare della plebe affamata, furiosa, rabbiosa, terrorizzata, nelle vie di Parigi e della Francia tutta. Non è il popolo l’«acteur principal» di quest’opera, come voleva e credeva per esempio Michelet, tutt’altro. Non è nemmeno la Rivoluzione di tutto uno stato come la ricostruisce Taine, che per decine e decine di pagine, nel primo tomo del suo lavoro22, informa di disordini grandi e minimi in ogni angolo del paese, prima di arrivare ai cruciali giorni del Jeu de Paume e della Bastiglia.
Quella Rivoluzione la si cercherebbe invano, qui. Solo a partire dal VI capitolo manzoniano, e poi maggiormente nel VII e nell’VIII, compare – si vorrebbe dire – il cielo aperto della città, anzi quasi si scopre che esiste una città, a contraltare del microcosmo isolato di Versailles; quando si fuoriesce dalla sala dell’Assemblea, lo si fa sempre rapidamente, sempre sinteticamente. Anche nei momenti più convulsi, il narratore si rifugia nella parola scritta, nelle delibere che anticiparono o seguirono, nelle dichiarazioni che tentarono invano di dar forma o ridar ordine allo sfascio del corpo sociale e politico, nella contrapposizione tra la carta e il vociare dell’aula. Si rifugia, certo, ma è un ripiegamento strategico alla ricerca del significato degli eventi, in quanto sono un prodotto degli uomini e della loro socialità che si estrinseca nel linguaggio, non una loro negazione. Del turbinoso Palais-Royal e del suo ruolo di acceleratore dei più violenti umori di piazza si fa menzione piuttosto tardi; perfino la presa della Bastiglia è narrata di scorcio, e liquidata come scarsamente significativa23 (oltre che assurda, inutile, atroce, dissennata). I famosi linciaggi di De Launay, del Prevôt des Marchands, di Folon e Berthier sono descritti – e, inutile ricordarlo, siamo in presenza di uno dei più abili narratori di scene di massa dell’Ottocento – in maniera, oseremmo dire, convenzionale, certo non dissimile da tanti altri racconti del luglio Ottantanove.
La prodigiosa intelligenza del Nostro, tutt’altro che appannata, rifulge altrove, segnatamente nella passione ermeneutica. Manzoni sembra quasi limitarsi a un corretto, didascalico, riassunto di fatti che semplicemente non si possono tralasciare, ma le teste spiccate dai corpi e issate sulle picche non ricevono alcun indugio descrittivo, alcuna enfasi, alcuna coloritura o sottolineatura24. A Manzoni interessa altro. Interessa la snervante discussione intorno alla verifica dei poteri25; l’impotenza e l’annaspare nel vuoto di potere dell’Assemblea nel decidere anche di fatti minimi, quando la sua autorità e quella regale sono già irrevocabilmente divorziate26; il dissidio dell’unico Martin d’Auch27, che volle esser inserito come opposant al giuramento della Pallacorda; gli interessano le parole abusate, i significati rovesciati28, le voci infondate o incontrollate – la più famosa, forse, ma davvero non l’unica, è l’allarme per una nuova Saint-Barthélemy, a cavallo del quale fa il suo tragico ingresso sulla scena della storia Camille Desmoulins – e ancora le incredibili cecità o connivenze o opportunismi di uomini che non potevano non sapere, non capire, non vedere, e che non seppero non capirono non videro, spesso nemmeno quando a loro volta salirono sulla carretta fatale che li portava al patibolo.
In quest’opera si danno la mano definitivamente le due anime del Manzoni maturo, lo storico e il linguista. La sua cronaca è una tragedia, classicamente intessuta di hybris e di ate, di superbia e di accecamento che continuamente si involvono l’una nell’altro. Parrà incredibile, ma alcune delle parole fondanti, di quella vicenda, qui non compaiono: non compare «miseria», né compare «povertà», né tantomeno «fame»29. Quelle formidabili spinte che gli uomini della Rivoluzione assecondarono, facendone bandiere di ogni loro estrema decisione, e che certo furono all’origine del grande sovvertimento, restano fuori dal racconto manzoniano. Il quale, invece, ci offre il punto di vista su una lotta per il «potere», condotta in maniera così dissennata e imprevidente da trasformarsi in una lotta tra le parole e le cose, con le parole inevitabilmente sconfitte30.
Anche l’apparente prossimità, o addirittura filiazione diretta, tra la Dichiarazione di Indipendenza Americana e la Dichiarazione dei Diritti Universali dell’Uomo e del Cittadino viene smentita31 nel capitolo XI con un’analisi molto sottile e infine con una potente sintesi: «Il congresso di Filadelfia parlava di eguaglianza di diritti tra i diversi popoli; non già, come l’Assemblea di Versailles, di eguaglianza tra gli uomini componenti uno stesso popolo; trattava di società formate, non di formazione di società. Negava la legittimità del predominio di un popolo sopra un altro, che era la sola cosa in questione. L’eguaglianza a cui alludeva era quella stessa che le colonie avevano già posseduta rimanendo unite alla madre patria, e che oramai non potevano più ottenere, che col separarsene e costituire un nuovo Stato. Non era, come quella contemplata nella Dichiarazione francese, una eguaglianza di un nuovo genere, soggetta ad interpretazioni, anzi bisognosa di interpretazioni, una eguaglianza da intendersi in un certo modo e non in un certo altro. La dichiarazione di Filadelfia proclamava una soluzione; quella di Versailles, colle stesse parole, proponeva un problema».
Alessandro Manzoni si volle, profondamente, storico. E, a modo suo, lo fu. Ma si volle storico disancorato dalla schiavitù dell’avvenuto, e ricercatore in profondità, nella profondità comunque perlustrabile e censibile dei documenti, del possibile. L’ultima persistenza del suo essere narratore, il più alto del nostro Ottocento – oltre che in numerose, bellissime, pagine di racconto parlamentare contenute nel Saggio sulla Rivoluzione Francese del 1789 – si trova, niente affatto minoritaria, qui.

Note

  1. Corsivo nostro.
  2. Alessandro Manzoni, La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859: saggio comparativo (frammento), pubblicato per cura di Pietro Brambilla, da Ruggiero Bonghi, Milano, F.lli Rechiedei, 1889. Il libro uscì in simultanea in due stampe: una in ottavo grande di 362 pagine, l’altra come VI volume delle Opere inedite e rare.
  3. Edgar Quinet, La Rivoluzione, a cura di A. Galante Garrone, Torino, Einaudi, 1974.
  4. Hippolyte Taine, Le origini della Francia contemporanea. La Rivoluzione, Milano, Adelphi, 1989. L’opera si concluderà con il secondo e il terzo tomo nel 1884.
  5. Cfr. lo studio di Luciano Guerci Alessandro Manzoni e il 1789, in «Studi Settecenteschi», X, 1988, pp. 229-253, che rileva soprattutto le prossimità del lavoro manzoniano con il pensiero di Taine, e Angelo Fabrizi Il saggio sulla Rivoluzione Francese, in Id., Manzoni storico e altri saggi sette-ottocenteschi, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2005, pp. 53-66.
  6. Cita, in realtà, il solo Tocqueville, e una sola volta.
  7. Cfr. Cesare De Lollis, Manzoni e gli storici liberali francesi della Restaurazione, Bari, Laterza, 1926.
  8. Nell’Introduzione Manzoni allude senza nominarle proprio alle insurrezioni italiane del 1799, tra le quali l’esperienza partenopea fu forse la maggiore, certo la più tragicamente istruttiva: «E fu una tanto breve, quanto povera illusione quella d’alcuni Italiani che, sulla fine del secolo scorso, sperarono la libertà di questa o di quella parte d’Italia da una forza straniera, senza la cooperazione, anzi malgrado la repugnanza delle diverse popolazioni; le quali, se erano pur troppo lontane dal conoscere qual fosse la cagione primaria de’ mali, e come la salute delle parti non potesse venire che con la salute del tutto, avevano però la mente libera da fantasie rettoriche e da false analogie storiche, tanto da vedere in quel finto aiuto ciò che c’era in effetto, cioè null’altro che una nova e più strana forma di dominazione straniera».
  9. Manzoni lo dichiara già dall’Introduzione.
  10. Scrive a tal proposito Claudio Varese: «nel saggio storico [Manzoni] non può, per la stessa struttura e impostazione dell’opera, rinunciare al tempo continuo e successivo come tempo unitario, giuocato insieme sulla prospettiva e sull’anticipo dei tempi impliciti, di un futuro incombente e connesso nell’immediatezza irrimediabile dei fatti in quanto tali. In un’opera come questa il tempo non è solo necessario come struttura del racconto ma, in modo molteplice e funzionale, oggetto, ragione e giudizio del racconto stesso», cfr. Claudio Varese Manzoni uno e molteplice, Roma, Bulzoni, 1987, p. 131.
  11. «Se pure talvolta nel saggio trascorrono in ossessione legalistica, il legittimismo e l’esigenza di una solida fondazione del potere racchiudono una questione tutt’altro che irrilevante» osserva Stefano Giovannuzzi nell’articolo Il «Saggio» manzoniano sulla Rivoluzione Francese, in «La rassegna della letteratura italiana», a. XCII, 1988, n. 2-3, pp. 318-339: 328.
  12. «Nessuno prima di Manzoni aveva dipinto con altrettanta penetrazione e precisione da costituzionalista raffinato e con pari efficacia, gli effetti devastanti dell’improvviso scontro, nella Francia dell’89, di due opposti principî di sovranità, l’uno dei quali (il principio ‘nazionale’) riesce d’un colpo a fiaccare mortalmente l’altro (quello ‘monarchico’) ma non a sostituirglisi, così da garantire con le sue forze il mantenimento dell’ordine pubblico», cfr. Giovanni Bognetti, Introduzione a Alessandro Manzoni, La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, Dell’indipendenza dell’Italia, premessa di S. Romano; introduzione, cronologia e regesto di G. Bognetti; testi a cura di L. Danzi, XV vol. dell’Edizione Nazionale ed Europea delle Opere di Alessandro Manzoni, Milano, Centro nazionale studi manzoniani, 2000, p. XXXIX.
  13. Cfr. Stefano Stampa, Alessandro Manzoni: la sua famiglia, i suoi amici, appunti e memorie, Milano, Hoepli 1885, pp. 439-441.
  14. «Nel raccontare la presa della Bastiglia, e direi nell’intero VIII capitolo […] il nostro narratore raggiunge con stupenda sicurezza e con la più lucida malinconia gli estremi del diseroico, se di estremi si può parlare a proposito di un racconto che è dal principio alla fine un abbassamento di motivi e di toni. […] Chi legge con attenzione questo libro, potrà pure pensarla diversamente da Manzoni, dal vecchio Manzoni illuminista liberale, ma si sarà troppo divertito per guardare d’ora in poi, con le stesse opinioni di prima, la Rivoluzione dell’Ottantanove», cfr. Alfredo Giuliani, Presentazione, in Alessandro Manzoni, La Rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, a cura di F. Sanguineti, Genova, Costa & Nolan, 1985, p. 11.
  15. «Non possiamo non prevedere – avverte Manzoni – che, nella parte che riguarda la Rivoluzione Francese, questo scritto, malgrado la sua imparzialità, si troverà a fronte d’opinioni contrarie, che, essendo, per lo più, rinchiuse in formule brevi e assolute, sono tanto più facili a entrar nelle menti, e più tenaci a rimanerci. Non pochi […] credono di possedere, nella parola “Ottantanove”, una sintesi tanto sicura, quanto vasta, di fatti complicatissimi, e che svolta in alquante parole di più, viene a dire: un gran conflitto tra la libertà che voleva stabilirsi e il dispotismo che voleva mantenersi; conflitto, nel quale la libertà rimase vittoriosa, e furono insieme promulgati princìpi universali della libertà de’ popoli, e dei diritti dell’umanità; con l’inconveniente, è vero, di vari eccessi deplorabili, ma inevitabili in una così grande impresa, e provocati da una resistenza ostinata e ancora forte. Per affrontare delle opinioni così ferme e ben guardate, nessun’arme è più impotente di quella de’ fatti, i quali impongono il peso d’un esame non prevenuto e paziente; e tutto ciò per sostituire lo stato molesto del dubbio alla cara quiete della certezza. Lucro cessante, e danno emergente. Siamo troppo ammaliziati […], per figurarci che i fatti, soprattutto esposti da noi, possano combattere con vantaggio una tale persuasione; e crederemo di toccare il cielo col dito, se ci riuscirà d’attirare un piccol numero di lettori, non già ad accettare le nostre conclusioni, ma a prenderle in esame».
  16. «Comune a tutti gli scritti storici di Alessandro Manzoni è la genesi polemica»: è il giusto rilievo di Arnaldo Di Benedetto nella Prefazione a Alessandro Manzoni, La Rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, a cura di A. Di Benedetto, Torino, Fogola, 1990, pp. 7-25: 9.
  17. «Fu un’importante e feconda operetta di scienza storica, condizionata com’è ovvio dallo stato della cultura del suo tempo, la quale – accettata o contestata che fosse la sua tesi – promosse un notevole approfondimento della nostra conoscenza dell’Alto Medioevo e rese problematiche quelle che parevano delle certezze. […] Per contrastare gli argomenti manzoniani si dovette dimostrare ciò che prima sembrava non avere bisogno di prove», ivi, p. 10, corsivo nostro.
  18. «Probabilmente è stata proprio la lettura del Sismondi – scrive Bollati in un celebre saggio – a consentire al Manzoni di mettere a fuoco le sue idee sulla storia in generale e su quella italiana in particolare. Dove il Sismondi esalta nella vicenda dei comuni e dei principati l’energia competitiva, la lotta fertile dei particolarismi, Manzoni vede l’anarchia insensata e la mancanza di un principio unitario; dove quello si entusiasma al coraggio, questo esecra la ferocia; ciò che per il primo è splendido orgoglio, per il secondo è stolta superbia», cfr. Giulio Bollati, L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Torino, Einaudi, 2011, p. 91.
  19. Cfr. Alfredo Giuliani, loc. cit., p. 10.
  20. Manzoni annotò scrupolosamente e polemicamente con circa centotrenta postille le Considérations sur les principaux événements de la Révolution françoise di M.me de Staël, cfr. Sergio Romano, Un conservatore liberale, pref. all’ edizione Bognetti-Danzi, op. cit., pp. XIII-XXV.
  21. E non stupisce dunque che una delle più attente e illuminanti letture del Saggio l’abbia data proprio un grande linguista; si veda Giovanni Nencioni, La lingua del Manzoni, Bologna, il Mulino, 1993, nel capitolo Storia e politica, pp. 103-130; si veda anche Gilberto Bardazzi Sineddoche. Strutture del pensiero in Manzoni analista della Rivoluzione, in Aa.Vv. Dénouement des Lumières et invention romantique, a cura di G. Bardazzi e A. Grosrichard, Geneve, Droz, 2003, pp. 87-113.
  22. Cfr. il capitolo dall’eloquente titolo L’anarchia spontanea, in Hippolyte Taine, Le origini della Francia contemporanea, cit., pp. 15-60.
  23. «Ho detto – riassume Manzoni nel capitolo VII – che, se a levar di mezzo l’arbitrio sulle persone, che regnava allora in Francia, la presa della Bastiglia era superflua, fu poi anche inefficace ad impedire che un tale arbitrio vi regnasse di nuovo in altre forme. […] Crediamo […] si possa dire che la libertà individuale promessa dalla Rivoluzione, non esistette in fatto sotto nessuno di quei governi. E ciò per cagioni diverse nei particolari, ma derivate tutte egualmente, come da causa prima e permanente, dalle condizioni create alla Francia dai primi atti arbitrarj dei Comuni. Diversi non meno tra di loro, e per la qualità e per la quantità, furono gli atti di arbitrio esercitati da quei governi […]; ma certo, nessuno di quei governi, […], ebbe occasione di dolersi che il non esserci più la Bastiglia gli avesse creata una difficoltà per esercitare gli atti di arbitrio che trovava opportuni».
  24. Singolarmente opposta l’interpretazione di Ugo Dotti in Il savio e il ribelle. Manzoni e Leopardi, Roma, Editori Riuniti, 1993, nel cap. La critica etico-storica di Manzoni, dove si sostiene che quelle sul Palais-Royal, sulla Bastiglia e sui primi linciaggi compiuti dalla folla parigina siano le pagine più efficaci e incisive dell’opera. È un giudizio diffuso, eppure basterebbe leggere, in parallelo, ancora una volta Taine e Quinet, o Michelet, per trovare in quelle descrizioni manzoniane nient’altro che il minimo comune denominatore dell’avvenuto.
  25. «Nello scalzare i piccoli eventi, nello scoprire tutte le pieghe logiche e psicologiche di una lotta per il potere non priva di risvolti grotteschi (basterà ricordare il balletto delle deputazioni che vanno e vengono tra le sale delle riunioni nel III capitolo), credo che pochi se la caverebbero tanto bene senza rivelarsi pettegoli», cfr. Alfredo Giuliani, loc. cit., p. 10.
  26. Illuminante nel capitolo V il racconto di ciò che avvenne la sera del I luglio, con l’arresto prima e la liberazione poi dalle prigioni dell’Abbaye per mano di gente del Palais-Royal di alcune guardie-francesi, liberazione che si chiede all’Assemblea Nazionale di ratificare: «Alcuni sconosciuti che si dicono mandati dal pubblico, ricorrono in un affare di disciplina militare ad una Assemblea che protesta di non avere altro incarico, che di fare una costituzione. E se non basta, il ricorso è in una tale forma, da non esser ricevuto nemmeno da una autorità competente, e quando fosse presentato dalle persone più competenti. Nessuna informazione del fatto: si contentano di chiamar severità inaudita l’arresto, e vittime infelici del dispotismo gli arrestati. L’Assemblea, dal canto suo, dopo aver ricusato per la ragione più ovvia, di ricevere quegli sconosciuti, gli incarica di portare un’ambasciata alla capitale, e manda così a parlare in suo nome quelli che non aveva giudicati abili a parlare in nome altrui. Invoca poi la clemenza del re, senza entrare neppur essa nel fatto; quasi che la clemenza si dovesse usare senza una ragione, a buon conto […] In un frangente che richiedeva più che mai l’attività e la forza di un governo, vediamo dunque un’Assemblea che “geme” e “scongiura”, e un re che cede e spera. Né questo né quello è governare».
  27. «Manzoni ne parla a lungo, nel suo saggio; e si capisce che per il coraggio di quella minority of one egli non abbia che parole di ammirazione. Anzi lo si capisce tanto più in quanto Martin d’Auch sosteneva, opponendosi al giuramento collettivo, una posizione che, secondo Manzoni, era quella legalmente corretta e dalla cui violazione, per logica e fatale conseguenza, sarebbero venuti tutti gli errori e i delitti della Rivoluzione». Così scriveva Franco Fortini in Extrema Ratio. Note per un buon uso delle rovine, Milano, Garzanti, 1990, pp. 26-27.
  28. Nel cruciale momento – è il 28 maggio – in cui Malouet propone di deliberare a porte chiuse, senza la presenza del pubblico (des étrangers), Volney si inalbera per l’abuso, a suo dire, della parola; e Manzoni commenta: «Voleva forse dire il Volney, che i deputati del Terzo Stato fossero stati eletti tutti quanti da quei tanti o quanti cittadini che si trovavano presenti a quella seduta; e non fossero davvero altro che i rappresentanti, i procuratori di quelli? Che! voleva solamente fare una figura di rettorica, quella che consiste nel prendere una parte per il tutto: figura che applicata poi alla parola “popolo”, fu uno de’ più adoprati e de’ più validi istrumenti della Rivoluzione, servendo, in tanti casi di prima importanza, a trasportare, con piena riuscita, tutta l’efficacia di quel gran nome a delle piccole e, spesso alle più indegne parti del popolo».
  29. Si veda, per una brillante analisi in merito, specie del tema della fame, il grande saggio di Hannah Arendt Sulla rivoluzione, introd. di Renzo Zorzi, Torino, Einaudi, 2009, che meriterebbe di esser letto in parallelo all’opera manzoniana.
  30. Un passo paradigmatico dal cap. IV: «Dove si vede che, per riunione, intendevano il venire a fare un corpo solo con loro, che era il punto di diritto in questione; e, per concordia, l’ubbidire alla loro volontà».
  31. Per un magistrale confronto tra le due Rivoluzioni, si veda ancora Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, cit. La lettura dell’una in forma speculare all’altra era già nella Storia della guerra dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America, l’opera di Carlo Botta nata in casa Imbonati, a Parigi, e seguita appassionatamente dal giovane Alessandro, prima sul manoscritto e poi nelle sue traversie editoriali, conclusesi nel 1809.

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