Bibliomanie

Luigi Galvani, scienziato, miles Christi e homme de lettres europeo. La ricerca come stile di pensiero e di vita
di , numero 34, settembre/dicembre2013, Saggi e Studi,

Come citare questo articolo:
Davide Monda, Luigi Galvani, scienziato, miles Christi e homme de lettres europeo. La ricerca come stile di pensiero e di vita, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 34, no. 4, settembre/dicembre2013



Fu quella [di Galvani] un’età felicissima per la dotta Bologna, e che toccò il sommo allorché il Galvani coronavala colla immortale scoperta, meravigliosa in se stessa, e come origine e principio di tanti portentosi trovati che apportarono vantaggi d’ogni guisa, e che per tutti i secoli venturi ne apporteranno.
C. Malagola (a cura di), Luigi Galvani, 1879
1.

L’opposizione del Volta alla teoria galvaniana diede occasione a una vivace e feconda polemica e a un allargamento di ricerche da cui venne la scoperta della pila e, soprattutto, quella conoscenza e quel dominio delle forze elettriche, che dovevano trasformare così profondamente non solo il campo teorico della Fisica, ma in molti lati anche la vita stessa dell’umanità. La scoperta dell’elettricità animale rimane il vanto di Galvani e della scuola bolognese.
L. Simeoni, Storia dell’Università di Bologna. Vol. II: L’età moderna (1500-1888), Bologna, Zanichelli, 1947.

Epitaffio dal pugno di Galvani?
Legherete a me rane e fatti elettrici,
Utili passi per critiche tesi.
Indubbiamente – sempre – resto un medico,
Gioioso solo quando salva vite,
Immortalate altrove e qui fra i ceppi.

Già è noto il mio calvario per la scienza,
Avallato da furbi e da baggiani;
Lucia, però, rimane fra comparse!
Vero, assoluto affetto era mia moglie,
Amata oltre l’amare in queste lande,
Nonché i malati, i poveri, gli afflitti;
In cielo l’ineffabile Signore.


1. Premessa

Non solo nell’iperuranio vieppiù algido delle élites intellettuali, ma, più in generale, nel mondo laico e pluralista ove viviamo – o dovremmo vivere – non sembra francamente troppo agevole patrocinare l’attualità della lectio, del messaggio complessivo consegnatoci da Luigi Galvani (1737-1798).
Medico, professore e studioso per più aspetti esemplare, di cui restano quasi proverbiali, fra l’altro, il pudore, l’introversione, la mitezza, la generosità incondizionata di stampo squisitamente cristiano, l’indole melanconica che andò via via accentuandosi negli anni estremi, nonché il rispetto sincero per le norme e le tradizioni accademiche e istituzionali, Luigi Galvani fu indubbiamente uomo dell’Ancien Régime: non certo a caso, si oppose, al crepuscolo opaco e cruento del secolo, a Napoleone Bonaparte ed ai nuovi paradigmi di pensiero e di vita che si andavano via via diffondendo e imponendo dopo la Rivoluzione francese.
Pure a motivo di tali sue inflessibili posizioni, già all’alba dell’Ottocento, fu considerato – ma a torto, come rammenteremo fra breve – un rispettabile e rispettato sostenitore di idee obsolete e pressoché infondate, ch’erano state brillantemente superate dal genio irrefrenabile, sorprendente, seducente di Alessandro Volta.
Fu inoltre, sin dalla giovinezza, un cristiano schietto, zelante, fedelissimo a tutti i dogmi del Cattolicesimo, al punto di farsi, oramai in età matura, terziario francescano.
Infine, egli non ebbe (né volle forse avere) alcun rapporto con una Massoneria che peraltro, nel Settecento, aveva già raggiunto – com’è da tempo risaputo2 – larghi, rilevanti e, non di rado, autorevoli consensi anche a livello nazionale. La ragione effettiva di tale sua distanza, per ogni storiografo minimamente informato, è pressoché evidente: la Chiesa del tempo aveva condannato claris verbis la Libera Muratorìa, e il “cristianissimo” Dottor Luigi Galvani, di conseguenza, non poteva non adeguarsi a tali ordini perentori e, presumibilmente, irreversibili.
Come che sia, Galvani era certo un uomo libero e di ottimi costumi: si spendeva indefessamente, certo, per il bene dell’Umanità e alla gloria di Dio; amava certo toto corde e tota mente la Libertà, l’Uguaglianza e la Fratellanza universale, ma era nel contempo persuaso che l’unica Verità completa e perfetta fosse quella elargita da un Cristianesimo che, secondo la sua Weltanschauung e la sua Stimmung, coincideva con le dottrine proprie della Chiesa di Roma.
Resto comunque persuaso che una riflessione attenta e paziente sull’eredità più viva (e vivificante?) di Luigi Galvani possa dire e dare parecchio a ogni cittadino europeo del terzo Millennio, così come, del resto, a ogni persona realmente disposta ad operare a beneficio degli altri – di tutti gli altri, beninteso.
L’esempio magnanimo offerto dal valoroso, geniale intellettuale felsineo può essere utile, anzitutto, per rafforzare virtù etico-civili determinanti: fra le altre, la disciplina, la sobrietà, l’umiltà, la dedizione ferrea al proprio lavoro, nonché la fedeltà e la lealtà, tanto verso le persone che ci stanno a cuore quanto verso il prossimo tout court.
Ho pensato opportuno articolare questo percorso sul tema della ricerca – tanto proficuo e affascinante quanto, ahinoi, vago e sfuggente – in tre parti (ricerca scientifica, religiosa e “amorosa”), poiché sono persuaso che, di là da quel ch’è più famoso e indagato del celebre fisiologo bolognese (l’impegno scientifico, va da sé), convenga ponderare anche aspetti della sua personalità e della sua produzione assai meno studiati e divulgati.
Mi riferisco, precipuamente, al cristiano e al marito; tali momenti del tragitto scientifico ed umano del Nostro, come cercherò di mostrare con prove adeguate e assai poco frequentate, meritano un’attenzione non epidermica né effimera: tuttora – per quanto mi consta – essa permane, se non assente tout court, perlomeno languente.
In tutti i modi, siffatti volti della proteiforme figura di Galvani mi sembrano degni di quelli che un illustre, stimatissimo storico della filosofia e della filologia antiche del Novecento, Pierre Hadot (1922-2010), ha definito “esercizi spirituali”; nella globalità dei suoi lavori decisivi, Hadot ragiona – si noti bene – di una pratica di pensiero e di vita che ci è stata trasmessa, anzitutto, da filosofi pagani (in primis stoici, s’intende), e solo dopo – parecchio tempo dopo – dal Cristianesimo: e solo dal Cristianesimo più sottile, esigente, adamantino.
«Io credo che, in un àmbito filosofico – ha dichiarato Hadot pochi anni or sono – l’“esercizio spirituale” possa considerarsi come una pratica volontaria, tutta personale, destinata a provocare una profonda trasformazione dell’individuo, una profonda metamorfosi del sé. Per alcuni filosofi antichi, questa pratica potrebbe essere messa in relazione con il prepararsi ad affrontare le difficoltà della vita: la malattia, la povertà, la mancanza del necessario, la variazione improvvisa della fortuna impongono un esercizio interiore, che ci aiuta nella quotidianità e, nello stesso tempo, ci insegna a ragionare e a interiorizzare il sapere»3.
Tra gli officia principali della filosofia, ad avviso di Hadot, non c’è affatto quello di costruire «discorsi nuovi» o «edifici concettuali fine se stessi»: «Il sapere – afferma – deve soprattutto insegnarci ad andare al di là di noi stessi, a superare il perimetro limitato del nostro io, e a farci prendere coscienza del nostro appartenere alla grande comunità degli esseri umani. Solo così pensiero ed azione possono aiutarci a cercare il bene comune, rinunciando ad inseguire i piccoli egoismi e le miserie legate al nostro “particulare”»4.
Una tale coscienza ci propone, fra le altre cose, di osservare da una prospettiva alquanto diversa la realtà nella quale – volenti, nolenti o… dolenti, per riprendere un’espressione coniata da un altro inobliabile maestro bolognese, Roberto Roversi (1923-2012) – siamo tutti quanti immersi: «Si tratta di cercare – conclude – una vita più razionale e ragionevole, che ci consenta di aprirci agli altri e di sentirci parte integrante dell’immensità del mondo. È un processo che non prevede un punto di arrivo. Siamo di fronte a una sfida infinita che, pur non producendo sempre risultati di alto livello, ci aiuta comunque a misurarci con i grandi misteri dell’esistenza» 5.

2. Ricerca scientifica6

La potenza di un Dio si appalesa in ogni istante agli sguardi del Fisiologista nelle stupende molle della meccanica animale7.

Nel 1763 l’Università di Bologna nominò Luigi Galvani lettore di medicina all’età di soli ventisei anni- non molto tempo dopo, dunque, la laurea in medicina e in filosofia (1759). Maestri delle scienze mediche di risonanza europea come il Molinelli, il Beccàri, il Monti, il Galeazzi, il Galli ed altri che avevano intuito, con ogni probabilità, il valore e le potenzialità di questo giovane serio, posato e operoso.
Le sue ragguardevoli doti di chirurgo gli valsero tosto la cattedra di ostetricia presso l’Istituto delle Scienza, di cui era nominato alunno sin dal 1761 e di cui sarebbe diventato presidente nel 1772. Questi sono soltanto alcuni dei molteplici incarichi di prestigio che, nel corso degli anni, ottenne nei (già allora) complessi e complicati labirinti accademici e culturali di Bologna.
Le sue ricerche sulla struttura degli organi di diversi animali lo portarono rapidamente a quelle scoperte determinanti per cui sarebbe stato riconosciuto, a giusto titolo, come uno dei ‘padri nobili’ dell’elettrofisiologia, insieme coi suoi contemporanei Henry Cavendish, Benjamin Franklin e Alessandro Volta- tre massoni ‘militanti’, si badi.
Egli fu il primo, di fatto, ad approfondire in maniera rigorosa e sistematica l’azione fisiologica dell’elettricità e, nel 1791, il suo capo d’opera, il De viribus electricitatis in motu muscolari commentarius, che comprendeva circa dieci anni d’intense e pazienti ricerche, fece parecchio rumore (e scalpore) nell’ambiente scientifico internazionale, tanto che il suo effetto venne addirittura paragonato a quello della Rivoluzione francese.
I prolungati, tenaci, instancabili esperimenti galvaniani sulla contrazione dei muscoli e dei nervi delle rane- ognora compiuti con l’ausilio della moglie, dei parenti e di amici- giunsero finalmente a provare, in primis ai suoi occhi, che nei tessuti animali sono presenti forze bioelettriche. La spiegazione del fenomeno lo portò obtorto collo, come già s’è accennato, a una disputa- tanto animosa quanto, a onor del vero, civile, moderata, signorile- con Alessandro volta, una disputa ove ragione e torto possono tuttora stimarsi egualmente distribuiti. E lo mostreremo fra breve, anche con prove conformi alla miglior scienza ed esperienza attuali.
Come che sia, le tesi di Galvani contribuirono sensibilmente alla scoperta, da parte di Volta, della prima batteria elettrica, ovverosia di quella pila di cui pure noi, in maniera più o meno consapevole ci serviamo ogni giorno.
Come s’è detto di anzi, Galvani fu allontanato dalla propria cattedra del 1797, dopo ben trentatré anni d’impeccabile, aggiornatissimo, liberale magistero; durante l’occupazione napoleonica, rifiutò infatti – con fermezza davvero paragonabile a quella di uno stoico antico (greco o romano qui poco rileva…) – di prestar giuramento alla Repubblica Cisalpina8. Morì l’anno seguente, fra acuti mali fisici, fosche amarezze etico-civile e politiche, insidiose delusioni intellettuali: si questi eventi finirono ‘sfortunatamente e dolorosamente’ per ‘troncare entro pochi mesi la vita di Galvani’9.
Da tutte le ultime, migliori indagini (2012) sull’opera galvaniana si evince, inter alia, non solo la finezza mirabile del suo talento sperimentale, che tese a vedere nella rana una vera e propria “bottiglia di Leyda” (o, come si soleva dire allora, “boccia di Leyden”: si trattava, di fatto, del “condensatore” più in voga), ma emerge altresì uno dei princìpi ispiratori dell’intero suo itinerario sperimentale: l’idea che i risultati della ricerca sugli animali si dovessero impiegare nell’interpretazione della fisiologia umana; ciò lo distingueva da quel che andavano sostenendo parecchi scienziati suoi contemporanei, i quali, di là da generali (e sovente generiche) dichiarazioni di orientamento illuministico, si professavano, alla fine, accaniti fautori della superiorità assoluta, dell’alterità incommensurabile dell’uomo rispetto alle bestie. Cattolico osservante e attivissimo qual era, Galvani riteneva peraltro – dal suo rispettabile punto d’osservazione – che tali sue posizioni fossero in toto compatibili con l’esistenza di un’anima, ch’egli interpretò sempre come la sapiente amministratrice dei fluidi animali.
Va poi aggiunto che, dopo un temporaneo abbandono, conseguente agli sfolgoranti successi riportati da Volta nella famosa e famigerata, nel bene e nel male, controversia col Nostro (o meglio, soprattutto con le ossa del Nostro: attenzione alle date!), le esperienze galvaniane furono riprese e approfondite da studiosi quali Giovanni Aldini – carissimo nipote e collaboratore ognora leale – Leopoldo Nobili, Carlo Matteucci e, specialmente, Emil Heinrich Du Bois-Reymond.
Nel quarto decennio dell’Ottocento, questi sostenne, avvalendosi di esperienze affatto nuove, che sussiste davvero un’elettricità propria degli animali, capace di spiegare, insieme con l’elettricità dei conduttori indagata da Volta, le contrazioni osservate da Galvani nelle rane dei suoi celeberrimi esperimenti.
Circa l’eredità che questi ultimi consegnano alla ricerca scientifica del mondo contemporaneo, ebbene, studiosi di fama internazionale ne hanno illustrato, pure di recente, la rilevanza inconfutabile, la portata rivoluzionaria, la sorprendente fecondità, che appaiono d’altronde evidenti in più campi, dalla neurofisiologia alla neurologia.
Ma, in merito alla celeberrima, tormentosa disputa fra Galvani e Volta, conviene ascoltare attentamente talune considerazioni vergate, oltre un decennio fa, da Luigia Melillo Corleto, che sintetizzano, con penna insieme semplice e precisa, tanto la natura effettiva del dibattito quanto la sua straordinaria, fruttuosa, ancor vivissima “ricezione” (Wirkungsgeschichte):

In realtà, quella che allora fu vista come una controversia sullo stesso fenomeno fu, invece, una duplice scoperta, che apriva il campo a due settori di ricerca completamente diversi: da un lato, l’impiego pratico dell’elettricità nella fisica e nella chimica; dall’altro, la conferma sperimentale dell’esistenza di un’elettricità animale, che, solo in questo secolo, sopite le intemperanze di quella polemica, può essere riconosciuta in tutta la sua validità e proficuamente impiegata in medicina, sia nello studio del sistema neurovegetativo, sia nell’applicazione di strumenti di diagnosi (a partire dall’invenzione dell’elettrocardiogramma e dell’elettroencefalogramma) 10.

Sia come sia, in merito all’effettivo, originale contributo recato da Luigi Galvani ai temi e ai problemi, a un tempo epistemologici, scientifici e medicali, che più gli stavano a cuore, le conclusioni proposte con eleganza rara da un maestro di respiro internazionale come Raffaele A. Bernabeo permangono – almeno a mia conoscenza – tuttora insuperate:

In definitiva, fu da questi “innovatori” [si allude, beninteso, a Beccàri, a Galli e, soprattutto, al diletto Galeazzi] che Galvani, affinate le virtù naturali della concretezza e della riflessione, acquisì quell’orientamento positivo, che, portandolo a razionalizzare la dottrina con l’ausilio sistematico dell’esperienza e della ricerca applicata, fa di lui non solo una delle personalità scientifiche più brillanti del Settecento bolognese, ma anche uno degli artefici di quel processo anatomo-clinico, in cui si riconosce l’origine della moderna medicina europea11.

Ma, pure per chiudere degnamente sull’annosa e faticosa quaestio, giova forse ascoltare, in parallelo, il giudizio secco, calibrato, pressoché invincibile di una filologa e linguista de race come Maria Luisa Altieri Biagi: «Il sedentario Galvani e il mobilissimo Volta, l’uomo schivo e l’abile stratega culturale di se stesso, lo scrittore che tutela il latino e l’uomo insofferente di esso, rappresentano bene, con i loro risultati geniali, le due facce di questo secolo [il Settecento, ça va sans dire]: quella orientata verso un passato da sviluppare con originalità senza soggezioni, e quella protesa verso l’Europa e il nuovo mondo»12.

È opportuno rammentare, ancora, che le tesi propugnate dall’insigne clinico di Bologna influirono sensibilmente pure sull’intelligenza, la fantasia e la creatività di numerosi filosofi e letterati perlopiù dell’Ottocento, fra i quali mette conto evocare almeno Goethe, Schelling, Schopenhauer e, in generale, i più valenti cultori della Naturphilosophie, nonché Mary Shelley, l’autrice del fortunatissimo, immortale Frankenstein (1818), il cui debito cospicuo verso l’opera galvaniana è stato da più parti evidenziato a dovere13.
Mi sta a cuore, tuttavia, concludere questa prima sezione con una poesia, insieme amarognola e perspicace, di un rispettabile, lucidissimo homme de lettres italiano: alludo a Primo Levi – non per caso rispettabile scienziato, oltre che scrittore –, per il quale ogni presentazione risulterebbe superflua.
Si tratta, a onor del vero, di un testo pressoché dimenticato del 1984, intitolato Casa Galvani, ove a parlare è un immaginario servo dei signori Galvani, cortesemente costretto a catturare un’infinità di rane senza capir nulla delle ragioni di una richiesta, all’apparenza, così bizzarra e strampalata: «Al mio padrone piacciono le rane: / Ogni notte mi manda in riva al Reno, / Ma non le dà alla Gegia che le frigga. / Invece di curare i suoi malati / le appende alla ringhiera del balcone, / Le pela, le tormenta con un chiodo, / Passa il giorno a guardare come ballano / E scrive delle lettere in latino: / Chissà mai cosa spera di cavarne! / […] I signori son quasi tutti matti»14.

3. Ricerca religiosa

Amò la sua Religione sino a praticarne le cerimonie più minute, ma non ne abusò giammai per farne uno strumento di malizia, perché la coltivò con un cuor semplice: ed essa anzi gl’ispirò la qualità più degna del saggio, vale a dire la pazienza in mezzo a’ colpi dell’avversità15.

La devozione costante e incondizionata a Cristo e alla Chiesa di Roma rappresentano – s’è detto e ripetuto – uno dei tratti distintivi nell’intera parabola esistenziale e creativa di Luigi Galvani.
Pure di recente è stato rimarcato con lucida forza che il Nostro fu profondamente devoto agli ideali cristiani più limpidi e, de facto, condivisibili: l’umiltà, la moderazione e, soprattutto, la carità (agàpe), vale a dire quell’amore severo, disinteressato e inestinguibile nei confronti del prossimo che lo portò, in primis, a svolgere la sua professione di medico con disponibilità, filantropia, abnegazione rarissime e, comunque, encomiabili – oltre qualsivoglia pensiero o parola.
Ma sentiamo ancore le eloquenti, coinvolgenti parole del Barone Jean-Louis Alibert, uno dei “padri fondatori” della moderna dermatologia: «Facea egli rispettar la grandezza dell’arte sua con la grandezza de’ suoi beneficj, e tutti gli ammalati trovavano in lui i lumi di un Esculapio, e la tenerezza di un amico»16.
Stiamo discorrendo d’ideali che, com’è ovunque risaputo e riconosciuto, egli fece propri sin dagli anni della prima formazione, avvenuta nell’àmbito del “cattolicesimo illuminato” bolognese, come ha acutamente osservato uno storiografo:

A quindici anni, verso il 1752, frequentava assiduamente l’Oratorio dei Padri filippini e partecipava con fervore alle attività ricreative e religiose che vi si svolgevano, spinto da una crisi religiosa e misticheggiante, che lo investì per un periodo imprecisato: fu un’esperienza che lo segnò profondamente per il resto dei suoi giorni e gli lasciò in retaggio, insieme con una eccezionale modestia e semplicità di costumi, un saldissimo sentimento religioso17.

Giunto alla maturità, si sforzò senza risparmio di restar fedele a tali aspirazioni etico-spirituali sia nell’esercizio della medicina, che svolse di continuo con spirito autenticamente cristiano, sia in precise, inflessibili scelte di vita, come la ponderata decisione di abbracciare il francescanesimo. E si può ben dedurre, a questo punto, che il nostro miles Christi abitò l’intero suo percorso terreno come una sorta di missione volta ad amare il prossimo come se stesso – se non di più…
In merito al suo magnanimo, incrollabile engagement, tutto volto a salvare – quasi ogni giorno – tenere vite umane, in un dei molti elogi postumi e adespoti a lui dedicati si legge: «[a Galvani] devono più madri alleviamento e sicurezza ne’ parti, a lui tante famiglie i figli, a lui Bologna l’accrescimento di braccia utili, e laboriose, e forse ancora l’onore di alcuni geni, che per ignoranza e per negligenza sarebbero periti nel momento di apprestarsi alla vita, o monchi e storpi avrebbero dovuto strascinarsi al sepolcro»18.
A ogni modo, rimane certa e inconcussa la sua devozione incondizionata verso la Chiesa di Roma, cui lo legava, oltre alla fede, il fatto di essere suddito dello Stato pontificio: come s’è accennato dianzi, ragioniamo di un vincolo profondissimo che Luigi Galvani ricusò di rescindere anche negli anni più turbolenti, caotici, cruenti che seguirono la Rivoluzione d’Oltralpe.

4. Ricerca “amorosa”

La più alta forma d’amore è, probabilmente, l’amore coniugale che, nell’uso, è spesso una delle più basse19.

Luigi Galvani non fu devoto soltanto a Dio: lo fu anche – variatis variandis, si capisce – verso i parenti, gli amici e i maestri. Nondimeno, fra tutti questi nobili affetti umani largamente manifestati e dimostrati dall’alba al tramonto del suo percorso esistenziale e poietico, spicca senza dubbio l’amore insieme lucido, sublime e senza fine nei confronti della moglie, Lucia Galeazzi, la donna di multiforme ingegno e “d’ottimo cuore” – come si soleva dire allora – con cui il Nostro costruì e consolidò, un passo dopo l’altro, una mirabile, forse esemplare relazione amorosa, fondata in primis sulla piena, appassionata condivisione di una ricerca nel contempo umana e divina.
A parlar schietto, tale unione d’anime e d’intelligenze durò ben oltre la vita dei corpi: Lucia, com’è noto, scomparve a soli quarantasette anni il 30 giugno del 1790, lasciando il Nostro in preda a un dolore abissale, pressoché ineffabile, da cui, con ogni probabilità, non riuscì più a svincolarsi, nonostante la fede autentica, fervida, inconcussa, che, ad ogni modo, resto sempre disposta a manifestarsi anche in termini d’impegno etico-civile ed etico-spirituale fino alla sua dipartita.
Circa le pene atroci e (davvero) inconsolabili patite dal nostro clinico durante e, soprattutto, dopo la malattia irreversibile e inesorabile della diletta consorte, ha osservato finemente Bresadola: «Immaginiamoci lo strazio provato da Galvani, abituato come medico ad assistere i moribondi e del tutto consapevole della sua impotenza contro la malattia, di fronte all’agonia di una persona che aveva tanto amato, che era stata sua compagna nella vita e nel lavoro, che aveva costituito tutto il suo mondo affettivo e che stava per abbandonare a un’età tutto sommato giovane, anche per quei tempi»20.
A onor del vero, in questa stupenda coniunctio amoris, eros (in accezione essenzialmente platonico-cristiana) e agàpe (l’amore oblativo, donativo, consustanziale al Cristianesimo, ch’è stato egregiamente illuminato, inter alia, nel commento di Agostino alla prima lettera di Giovanni21), sembrano davvero fondersi meravigliosamente.
Figlia amatissima del prediletto fra i suoi mèntori, Domenico Maria Gusmano Galeazzi, questa fanciulla provvista di mirabile paideia (basti por mente alla sua padronanza delle lingue straniere, allora rarissima avis, o all’aiuto fedele, costante, infaticabile ch’ella elargì al marito, ognora alla ricerca di prove che avallassero, una volta per tutte, le sue tesi) e di virtù etico-spirituali singolari e, per certi versi, sorprendenti riuscì ad essere – senza particolari sacrifici, pare – la compagna ideale di Luigi Galvani per ben ventisette anni – cioè, come s’è or ora ricordato, fino alla morte.
Qualche lustro fa Bruno Basile, con formidabile intensità di sintesi e con capacità di penetrazione psicologica non comuni, ha affermato: «È probabile, come dicevano i Bolognesi – e il Galvani non si curò di smentirli –, che il particolare della rana morta guizzante accanto alla ‘macchina elettrica’ se toccata con la punta di una “lancetta”, gli venisse indicato dalla moglie, ma è certo che da quel microscopico segno il dottore seppe creare tutta una teoria, quasi anticipando il celebre aforisma di Pasteur che il “caso, nel campo delle osservazioni, favorisce solo le menti preparate”»22.
Conviene, credo, indugiare un poco su questi elementi, non foss’altro poiché giovano a far luce sulla personalità del nostro scienziato, sempre così riservata, discreta, quasi segreta.
Il naufragio (forse) impreveduto di tale straordinario, intensissimo dialogo a un tempo affettivo e scientifico, fondato essenzialmente su un amore inespugnabile e su un’intesa completa (pure in campo stricto sensu epistemologico), rappresentò per il Nostro un vulnus terribile e inguaribile, che neppure i formidabili successi internazionali delle sue scoperte elettrofisiologiche poterono alleviare.
Se – dal nostro punto d’osservazione – gli otto anni in cui Galvani sopravvisse alla morte di Lucia risultano i più intensi e rilevanti sotto il profilo del suo effettivo contributo al progresso dei saperi e della civiltà in età moderna, dal suo punto di vista furono con ogni probabilità, per molti rispetti, anni cupi e amari – o persino, come ha asserito a giusto titolo Marco Bresadola, «otto anni di troppo da vivere senza l’amata compagna»23.
Invero, quel periodo estremo della suo percorso esistenziale fu – con ogni probabilità – così duro non solo e non tanto a motivo delle dispute e delle delusioni di vario ordine (scientifico, accademico, nobilmente politico) cui dovette far fronte, ma soprattutto a motivo della mancanza dolorosa e struggente di quella diletta compagna con la quale aveva condiviso tutto quello che più amava: oltre – va da sé – a sentimenti intimi quanto ineffabili, alludo a vari e vasti interessi culturali, ai travagli scientifici, a un’autentica fede cristiana.
Comunque sia, Luigi Galvani consacrò alla moglie un alto, memorabile, a tratti struggente elogio in prosa24, nonché talune poesie, fra le quali spicca, probabilmente, quella che trascriverò fra brevissimo: a parlar schietto, le forme adamantine e, più ancora, il senso reale e fondo di tali testi mi paiono ben più utili ed efficaci di qualsivoglia altra chiusura, specie onde far luce su questi aspetti tutt’altro che marginali del grande medico petroniano.
Così, ci è forse dato affermare, riprendendo talune felicissime espressioni di Giulio Cesare Pupilli, che l’encomio dell’amatissima moglie «è tutto un inno alla virtù che eterna sopravvive, un elevato e ispirato componimento in cui Galvani ha reso con umanità commossa un’immagine viva e vera di quanto è perfezione di vita cristiana. Vita che è amore e sacrificio insieme; e nella quale due anime generose, unite da scambievole inclinazione che rispecchi l’amore di Cristo per la Chiesa, avanzano di pari passo, toccate dal desiderio di darsi interamente a Dio»25.
Quanto invece alla poesia testé promessa, si tratta di un sonetto d’indubbia, inconfondibile ispirazione platonico-cristiana, che non per caso si rivela perfettamente in armonia non solo col petrarchismo sui generis che dominava pressoché indiscusso nell’Italia settecentesca, ma, più specificamente, con un petrarchismo tutto petroniano, che già all’epoca vantava penne (anche) poetiche di primissimo ordine: Eustachio Manfredi, il fecondissimo Pier Iacopo Martello – il più laborioso, poliedrico, geniale e, forse, europeo fra gli homme de lettres bolognesi: basti por mente solo, in questa sede, al “verso martelliano” e alla sua non comune valenza euristica e zetetica – gli Zanotti e tanti, tanti altri.
Ed ecco, di là da ogni contestualizzazione storico-letteraria, il testo in discorso… un testo che, forse, vince molti vincoli spaziali e temporali, assurgendo (pur modestamente) a quell’universalità che, come già sottolineava Schopenhauer, dovrebbe caratterizzare ogni autentica poesia: «Poiché tu mi lasciasti a pianger solo, / Dolce Consorte, e del tuo fral disciolta / Alla Magion del Ciel ten gisti a volo, / Quai sien miei giorni per pietade ascolta.// Gemo, e per volger d’ore non consolo / L’alma, che ho sempre al tuo partir rivolta; / E pace ho sol allorché sfogo il duolo / Quella tomba in baciar, che t’ha raccolta. // Non però chieggo al mio penar s’accordi / Fine, ma sol che tu pietosa a Dio / L’offra, ond’i falli miei più non ricordi. // Questo, or che il puoi, e il vero ben discerni, / M’impetra, o cara, onde un dì venga anch’io / Teco i lieti a goder begli anni eterni»26.

Orientamenti bibliograficI essenziali

Testi di Luigi Galvani

Opere edite ed inedite del professor Luigi Galvani, Bologna 1842 (contiene, inter alia: S. Gherardi, Rapporto sui manoscritti del celebre professor Luigi Galvani legati all’Accademia delle Scienze, pp.3-106; G. Venturoli, Elogio del celebre professor Luigi Galvani (1802), pp. 109-119).
Luigi Galvani, Opere scelte, a cura di G. Barbensi, Torino, UTET, ‘Classici della scienza’, 1967.
L. Giardina (a cura di), Lezioni inedite di ostetricia di Luigi Galvani, Bologna, Clueb, 1989.
M.L. Altieri Biagi, B. Basile ( a cura di), Scienziati del Settecento, Milano-Napoli, Ricciardi, “La letteratura italiana”, 1983, pp. 915-988 (ospita, fra l’altro, un’eccellente traduzione del capolavoro galvaniano).
L. Galvani, Un laboratorio sperimentale di ostetricia, a cura di M. Focaccia, Bologna, Pendragon, “Studi e ricerche”, 2009.

Studi su Luigi Galvani

G. L. Alibert [J.-L. Alibert], Elogio storico di Luigi Galvani, Bologna, Stamperia di San Tommaso d’Aquino, 1802.
A. Bacchi, Bologna al tempo di Luigi Galvani, Bologna, Gamberini e Parmeggiani, 1887.
R. A. Bernabeo (a cura di), Luigi Galvani (1798-1998) fra Biologia e Medicina, Bologna, Clueb, “Atti dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna”, 1999.
Id., La Scuola di Medicina al tempo della formazione di Luigi Galvani, in Id. (a cura di), Luigi Galvani (1798-1998) fra Biologia e Medicina, cit., pp. 11-19.
M. Bresadola e G. Pancaldi (a cura di), Luigi Galvani international workshop. Proceedengs. Bologna, 9 October 1998, Bologna, Università, Dipartimento di Filosofia, Centro internazionale per la storia delle università e della scienza, “Bologna studies in history of science”, 1999.
M. Bresadola, Luigi Galvani. Devozione, scienza e rivoluzione, Bologna, Compositori, “Quadrifogli”, 2011.
C. Farinella, Luigi Galvani, in DIB, vol. 51 (1998), pp…
F. Leoni, Etica e morale in Luigi Galvani, in R. A. Bernabeo (a cura di), Luigi Galvani (1798-1998) fra Biologia e Medicina, cit., pp. 123-128.
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Appendice

ELOGIO DI LUCIA GALEAZZI GALVANI27
Luigi Galvani

Da illustrissimo Padre, medico di grandissimo valore e anatomista celeberrimo, Domenico Gusmano Galeazzi e da Madre di chiaro lignaggio, Paola Mini, nacque Lucia Galeazzi Galvani. Vide la luce il 3 giugno 1743. Nella prima fanciullezza manifestò grande alacrità e prontezza d’azione, animo oltremodo misericordioso, e mirabile acutezza d’ingegno, nonché una particolare forza mentale superiore alla sua età, e segnatamente maturità di giudizio: per tali doti riuscì cara a tutti. Anche per la bellezza e per una certa soavità del volto, e per la vivacità degli occhi e per l’attitudine a manifestare, pur a quell’età, i sentimenti dell’animo, era a tutti cara. Ancor molto più cara fu non solo per queste doti, ma anche per le splendide virtù, di cui poi, come si vedrà, fu arricchita, col procedere della giovinezza, specialmente nell’età matura e rassodata dagli anni.
Fu affidata alle suore di San Pietro Martire, ove accrebbe ampiamente e grandemente con la preghiera, nella dimestichezza con le suore, la pietà e la religiosità, dimostrata fin dai teneri anni, sicché sembrava loro di ravvisare nella fanciulla un’anima molto cara a Dio, e che a Dio si sarebbe legata con i voti religiosi. Trascorso appena un anno nel monastero, viene richiamata alla casa paterna dal Padre non solo perché egli l’amava tanto da sopportare (a malincuore) che gli venisse sottratta, ma perché aveva maritato tutte le altre figlie. Solo, senza la compagnia e la familiarità di un figlio, era gravato dal peso della vita. Tornata a casa, ella non abbandonò affatto la grandissima pietà e la consuetudine alla preghiera, anzi tanto la coltivò che soleva, ogni settimana, lavare le proprie colpe con il sacramento della Penitenza e della sacra Eucaristia; e pregando nelle chiese si mostrava in tal modo alla pietà e alla devozione da attirare a sé gli occhi di tutti, e da suscitare in me tanta stima verso la sua pietà che, pure per questa ragione, non solo bramai fortemente, ma decisi di sposarla.
Il Padre frattanto, osservando tali qualità nella figlia diletta, nulla tralasciò di quanto potesse meglio imprimerle nell’animo la pietà e, in special modo, a quel che suol riferirsi a quelle virtù sommamente proprie di lei e d’ogni altra donna di alto sentire.
Quindi curò con ogni mezzo che si dedicasse allo studio delle Sacre Scritture e dei Sacri Libri, nonché alla lingua italiana e tedesca, alla ortografia, alla prosodia, alla storia sacra e profana. Anzi, allo scopo che ne traesse autentico profitto, non solo l’affidò all’insegnamento di ottimi maestri, ma egli stesso, uomo coltissimo, egli stesso dico, la esercitava personalmente assai spesso nei medesimi studi. E quanti reali progressi avesse fatto in ogni disciplina, lo si potrebbe appena dire: furono tanti da suscitare l’ammirazione di tutti. Fu dottissima in storia sacra e profana, in Sacra Scrittura, e in ortografia fu espertissima sicché suo marito, medico, anatomista e professore, non esitava ad affidare alla sua correzione quanto aveva scritto, né poteva rileggere, certissimo che nessun errore di tal genere sarebbe sfuggito, nei suoi scritti, alla sua dottissima moglie. Infine, scriveva con rara eleganza in dialetto e in lingua italiana, come provano le sue lettere familiari ed altro che di lei resta scritto. Parlava il tedesco con tanta facilità e chiarezza, e così naturalmente, che persino nei Tedeschi destava spesse volte meraviglia.
Con queste virtù e con tale cultura, da molti fu chiesta in sposa, ma a me fu concessa col favore del Cielo; ma a questa condizione: che non si allontanasse, quantunque sposata, dai suoi ottimi genitori, e che io stesso, inoltre, vivessi con loro ed esercitassi la mia professione di medico in primis all’insigne genitore. Ma, una volta così convenute le nozze, accadde quella gravissima disgrazia per cui il Padre, ammalatosi d’improvviso all’estero, in pochi giorni si ridusse – almeno così pareva – in fin di vita, e quasi spirò fra le braccia di lei, che lo accompagnava nel viaggio. E perciò ella si vedeva oramai tolto, in un istante, il carissimo Padre e l’innamoratissimo Sposo. Da questa circostanza davvero tragica, fu colpita e travolta – era oltremodo sensibile – da così grande e struggente dolore che contrasse una malattia assai grave, che la tormentò per tutta la vita, la condusse sovente in pericolo di morte e, alla fine, come diremo, la uccise. E che dire dell’asma, prima convulsiva, quindi umida e catarrale?
Ma infine, per grazia divina, il Padre si salva; non molto tempo dopo, a seguito delle molte preghiere di lei, e delle continue vicissitudini patite e delle insidie e controversie sollevate da invidiosi e da parenti, finalmente si sposò con me.
Dopo questi eventi, vivemmo in straordinaria armonia, per dieci anni, presso i suoi ottimi Genitori, da me a più riprese ricordati. Ci fu infatti tale sintonia d’affetti tra loro e noi e tale benevolenza che essi mi trattavano e mi amavano come un figlio; io peraltro li consideravo Genitori. È quindi ineffabile la gioia – tanto sua quanto mia – di vivere in famiglia con loro, e quale sollievo e rifugio, sia nelle avversità sia nelle gravissime malattie, dalle quali ella fu spesso, in questi anni, torturata. Ma, come spesso succede nelle cose umane, passato quel tempo, d’improvviso le cose si ribaltarono. Nella famiglia, infatti, sia per ragioni legate all’epoca sia per l’astuzia degli invidiosi, si verificarono le note vicende per cui dovetti allontanarmi dai suoi e prender casa altrove.
In un momento così grave e doloroso ella mi diede una prova straordinaria del suo amore, e alle donne sposate un esempio davvero memorabile.
Stento a dire – e per il profondo dolore e per la delicatezza della cosa – quale moglie sia stata per me, quante virtù meravigliose conobbi ed ammirai in lei. Ne ragionerò tuttavia brevemente, ma con sincera fedeltà e verità.
Mi volle tanto bene da amare me solo, e intensamente, per ventisei anni, e se avesse notato che qualcuno – cosa non rara né difficile, a motivo dei suoi rari meriti e della sua grazia non comune – se, dico, avesse notato che qualcuno la corteggiava, l’allontanava con mirabile accortezza e cortesia, ma con animo costante e risoluto, non solo l’escludeva dalla sua consuetudine e familiarità, quantunque onestissima, ma poco a poco non era più disposta ad accoglierlo in casa. Inoltre, sopportava tutto, tranne la mia collera, e se per caso vi fosse stata coinvolta anch’essa, si sottometteva di buon grado ad ogni cosa grave e difficile pur di tornare nella consueta armonia.
Fummo sempre concordi: volontà, costumi, aspirazioni. Quando ero depresso, mi dava, con garbo e soavità, un indicibile conforto. Quando avevo bisogno di sollievo e aiuto, me li dava a profusione tanto che ascrivo anzitutto alla cura e all’attenzione, con cui ora mi porgeva i rimedi ed ora mi confortava nell’abbattimento, l’aver più volte riacquistato ed essere tornato in salute da gravissime malattie.
Se mi allontanavo da lei, era presa da così acuto dolore che l’anima stessa diceva esserle strappata, e viveva mestissima tra lacrime e sospiri finché non tornavo.
Infine, nutriva per me un tale amore da desiderare fortemente di morire fra le mie braccia e prima di me, e da rivolgere a tal fine molte e fervide preghiere a Dio, avendo il presentimento – e lo diceva – che, se fossi morto prima di lei, non avrebbe potuto vivere. Ciò avvenne per disegno e volontà provvidenziali del Sommo Iddio; quale angoscia, però, nel mio animo, e quale ferita per la mancanza di una sposa del genere, a stento lo posso esprimere.
Ma, poiché il devoto affetto delle donne verso i mariti non consiste solo nei doveri fin qui esposti, e che sono comuni persino tra gli amanti, ma ben più nella pazienza, nella sottomissione e nell’ubbidienza, tratterò in breve delle sue virtù, affinché si sappia quanto eccellesse anche in queste. Quand’ero lamentoso, in affanno, inquieto, tedioso, ostinato, arrabbiato, non solo mi sopportava con animo costante, ma mi veniva incontro benigna, dolce e sorridente, e lo faceva con un tatto, una gentilezza e un’accortezza capace di vincere, spesse volte, la mia ostinazione, la mia indignazione, la mia ira – o comunque di mitigarle molto. Nulla però faceva, neppure gli stessi doveri della Pietà e della Religione, senza aver prima sentito il mio parere, né le stesse elemosine donava ai poveri senza avermi (prima e per prima) chiesto e ottenuto il permesso.
Quanto poi non avrebbe voluto fare – o per un senso di modestia o per indisposizione o, semplicemente, per amore di Pietà e di virtù – subito lo faceva con prontezza, nonché con gioia affatto singolare.
Ma tanto amore per me non l’allontanò mai dall’amore di Dio, dalla Pietà, dalla preghiera assidua e dal fervore: di continuo parlava con me del Regno di Dio, o della sua infinità e bontà, e mi spingeva con forza e dolcezza di parola a onorare ed amare Dio. Quando la salute glielo permetteva, frequentava i Sacramenti della Penitenza e dell’Eucarestia, tutte le settimane, due o tre volte – oltre alle principali festività della Chiesa – sacramenti ai quali, non appena in salute, si accostò sempre. Mantenne tutta la vita la stessa devozione che, negli ultimi anni, non poté conservare per la salute compromessa; pendeva peraltro dagli orientamenti spirituali del confessore, il quale, col permesso del Vescovo, poteva ascoltare la sua confessione in casa.
Spessissimo pregava ogni giorno, e poiché, negli ultimi anni, aveva una piccola cappella domestica, ove si poteva celebrare, col permesso vescovile, l’incruento Sacrificio, spessissimo vi si recava e ogni giorno, quasi sempre di mattina, dopo aver atteso alle cure domestiche e necessarie, e più volte nella stessa giornata, soprattutto se era tormentata da qualche tentazione o da qualche avversità, in essa si sottraeva agli occhi dei domestici. Ma, che vi si ritirasse per una ragione o per l’altra, è arduo dire con quanto fervore, con quanto trasporto pregava, tanto da emettere ardentissimi sospiri, e da bagnarsi spesso di lacrime; nondimeno, le asciugava subito non appena un domestico, o altri, o io stesso la chiamassi, e manifestava letizia e affabilità per celare completamente, con la massima attenzione possibile, la sua pietà e il suo fervido modo di pregare non solo agli altri, ma anche a me stesso. Così grande era in lei l’umiltà e il desiderio di nascondere le sue azioni più belle! Compiuta con tanta pietà e devozione la sua preghiera vocale e mentale, vi aggiungeva la lettura di libri sacri, della Sacra Scrittura, delle vite dei santi, e vi si dedicava tanto spesso che quasi non c’era giorno in cui trascurasse tale lettura sacra: era molto brava nel narrare con chiarezza ed eleganza le cose mirabili del vecchio e del nuovo Testamento, o gli atti dei santi, e sapeva suscitare ammirazione negli animi di coloro che l’ascoltavano.
Sentiva un profondo, rarissimo amore verso Gesù Cristo Crocefisso, tanto che ben di rado le riusciva di dire a lungo di lui, senza commuoversi. Venerava moltissimo la Vergine Madre di Dio, sicché aveva in grande stima le sue immagini, e ardentemente le venerava, e dinanzi ad esse si confortava mirabilmente, e le onorava non solo con profondo sentimento, ma, il più delle volte, baciandole e abbracciandole.
L’Immacolata Concezione della Vergine teneva in sommo onore e fede e pregio, sicché per tutt’un anno si vestì per voto. col mio consenso, come volle, delle vesti che son soliti portare quanti Le si votano. E lo fece pure onde ottenere, se a Dio piacesse, quella salute di cui peraltro godé per qualche tempo.
E fu talmente amorevole verso il prossimo che si preoccupò di aiutare in ogni modo gli afflitti, in parte compatendone le sventure, non solo con parole molto affettuose e tenere, ma spesso con lacrime. E quando poteva consolarli da sé, mai esitò a consolare gli ammalati con ogni sorta di attenzione e di pietà, spesse volte, se mi vedeva, una volta chiamato presso qualche ammalato, avviarmici lentamente o rifiutarmi, mi esortava con modi insieme decisi e deliziosi, affinché gli recassi subito il mio aiuto; anzi, quando era informata che il paziente era grave, mi pressava e mi spingeva, adducendo gravi motivi e quasi arrabbiandosi, se non fossi tosto accorso a soccorrerlo.
Bisognosi e poveri sollevava ora con elemosine, ora col mangiare, ora con vesti, sempre tuttavia dopo avermi chiesto ed ottenuto prima – come si è detto – il permesso: li ristorava con autentica, mirabile compassione cristiana e, quando le era possibile, con delicatezza e tatto tali che i beneficiati ignoravano da chi mai avessero ricevuto quei beni e quegli ausili – ed anche, ora ben si capisce, per sfuggire ella stessa ad ogni lode verso la sua pietà, nonché per impedir loro di ringraziare o di palesare la propria indigenza.
Ma poiché capiva di non amare abbastanza quel Dio che per suo amore aveva sofferto atroci patimenti – e volentieri – , ben arduo è dire la costanza e la serenità con cui dovette sopportare casi gravi e avversi. Nonostante fosse per ventotto anni afflitta da una cattiva salute, non solo per le febbri perniciose, ma specialmente per l’asma – dapprima convulsiva e quindi umorale, da cui di frequente, durante l’anno, era presa, e con tale violenza da respirare spesso con difficoltà ed esser condotta in fin di vita – cionondimeno nessuno dei suoi domestici la sentì mai lagnarsi, pur fra dolori così frequenti ed acuti, né mai la vide abbattuta. Tutt’al contrario, era manifesto con quale volto sereno e tranquillo sopportasse la malattia e ringraziasse Dio: attendeva il divino aiuto, dichiarandosi pronta a morire o a non ricevere il minimo sollievo dal male, se lo richiedesse la volontà del Sommo Iddio, a cui solo desiderava piacere.
C’erano peraltro alcune provvidenze che avrebbero potuto ovviare non senza grande apparenza di verità e tanti mali, ma perché non li poteva avere, Dio così volendo, ebbe tale grandezza d’animo e tale delicatezza da non desiderarle o, una volta desiderate, da rifiutarle.
E poi, oltre alle sofferenze del corpo, sopportò pure con animo invitto affanni ed afflizioni morali, ossia le malattie del suo carissimo marito – parecchie, gravi e piene di pericolo e di cure – le sue vicissitudini, nonché la morte e le disgrazie dell’affezionatissimo Padre, delle sorelle, dei consanguinei, degli amici, per tacere di quanto già s’è narrato.
Ma grandissima pure fu la sua umiltà e il disprezzo di sé, e straordinario l’amore e la diligenza nel coltivare l’esercizio della povertà.
Invero, pur avendo nel parlare uno stile appropriato, leggiadro e accurato, lo utilizzava tuttavia con modestia e di rado, e non vi introduceva quasi mai un pensiero che andasse al di là delle consuetudini delle donne. Anzi, pur parlando il francese con tale dolcezza ed eleganza da sembrare che non l’avesse appreso con lo studio ma che le fosse naturale, nondimeno usava tale lingua sempre a malincuore e controvoglia e, per quanto le era possibile, cercava di nascondere a tutti questa eccellente abilità.
Con le persone più illustri si comportava con umiltà di spirito, e nei confronti dei suoi pari con molto rispetto, come un’inferiore, e con gli inferiori come un’eguale, insomma con ciascuno era affabile e dolce tanto da riuscire assai gradita a tutti. Anzi, quando doveva trattare con i domestici, e ammonirli o riprenderli, lo faceva con serietà, ma mai con offese, durezza o ira, benché da loro fosse stata provocata, come spesso accade, con aspre e ostinate parole e ragioni.
Ebbe un tale culto della povertà da rifiutare totalmente non solo le vane ostentazioni del secolo e gli ornamenti femminili, nonché una pettinatura elegante, ma da usare queste cose soltanto quando lo richiedesse l’occasione o il desiderio o il gusto dell’uomo a cui solo cercava di piacere, adornandosi però soltanto esternamente di vesti appropriate e corrette, mentre sotto era solita e non disdegnava indossare sottovesti e biancheria lacere addirittura.
All’amore della povertà aggiunse pure quello della castità, nella cui custodia fu tanto diligente e severa da non pronunciare mai, neppure per scherzo, e da non permetterlo agli altri, parola che sapesse in alcun modo di disonesto o di erotico, di impudico o dissoluto, di modo che se qualcuno si fosse casualmente lasciato sfuggire nel discorso qualche espressione di questo genere, subito diventava seria per ricordargli benevolmente che tali parole erano indegne di un cristiano, e che lei le aborriva. E se qualcuno, non per caso, ma di frequente o per vezzo usava tali espressioni, lo ammoniva con modi cortesi e buone ragioni ad astenersene; e se quello non avesse proprio desistito, a poco a poco l’allontanava con destrezza e gentilezza davvero singolare dalla sua casa e dalla sua familiarità.
Non dava mai occasione ad alcuno di farle carezze, anzi mal tollerava persino il baciamano, benché fosse d’uso, e con discrezione e a tempo debito lo rifiutava.

Note

  1. Si vedano, per ragguagli più completi su tutti i testi citati, gli Orientamenti bibliografici essenziali che chiudono queste paginette.
  2. Cfr., per tutti, C. Francovich, Storia della massoneria in Italia. Dalle origini alla Rivoluzione francese (1974), Firenze, La Nuova Italia, 1989.
  3. N. Ordine, Il segreto di famiglia del filosofo Hadot, in “Il Corriere della sera”, 28 febbraio 2008, p. 37.
  4. Ibidem. Di Pierre Hadot, non solo a parere di chi scrive, andrebbero lette – anzi studiate – tutte le opere maggiori, in primis per motivi di ordine epistemologico e metodologico. Come che sia, mi limito in questa occasione a segnalare, nell’ultima ristampa a me nota, taluni dei suoi capi d’opera disponibili in valide edizioni italiane: Esercizi spirituali e filosofia antica (1981), a cura e con una prefazione di A. I. Davidson. Nuova ed. ampliata, Torino, Einaudi, “Piccola Biblioteca Einaudi”, 2005; Che cos’è la filosofia antica? (1995), Torino, Einaudi, “Piccola Biblioteca Einaudi. Nuova serie”, 2010; La cittadella interiore. Introduzioni ai «Pensieri» di Marco Aurelio (1992). Presentazione di G. Reale, Milano, Vita e Pensiero, “Temi metafisici e problemi del pensiero antico. Studi e testi”, 2006; Plotino, o La semplicità dello sguardo (1997), Torino, Einaudi, “Piccola Biblioteca Einaudi. Nuova serie”, 1999; Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura (2004), Torino, Einaudi, “Biblioteca Einaudi”, 2006; La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con J. Carlier e A. I. Davidson (2001), Torino, Einaudi, “Piccola Biblioteca Einaudi. Nuova serie”, 2008; Ricordati di vivere. Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali (2008), Milano, Raffaello Cortina, “Scienza e Idee”, 2009; La felicità degli antichi, Milano, Raffaello Cortina, “Scienza e Idee”, 2011.
  5. Ibidem.
  6. Questo paragrafo molto deve alle eccellenti, insormontate – a mia scienza – ricerche di Marco Bresadola, che da decenni, oramai, scandaglia e illustra egregiamente il lungo, variegato, quasi inafferrabile travaglio scientifico ed esistenziale del Nostro.
  7. J.-L. Alibert, Elogio storico di Luigi Galvani, 1802, Bologna, San Tommaso d’Aquino, 1802, p. 35.
  8. Su tale delicatissimo momento della parabola esistenziale e politica galvaniana, si veda, in primis et ante omnia, G. Tabarroni, Il mancato giuramento di Luigi Galvani, in R. A. Bernabeo (a cura di), Luigi Galvani (1798-1998) fra Biologia e Medicina, Bologna, Clueb, “Atti dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna”, pp. 129-135.
  9. G. Tabarroni, Ivi, p. 129.
  10. L. Melillo Corleto, Tra Galvani e Volta: oltre la “disputa”, in R. A. Bernabeo (a cura di), Luigi Galvani (1798-1998) fra Biologia e Medicina, Bologna, Clueb, “Atti dell’Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna”, 1999, p. 151. Nello stesso volume, ha da essere ponderato, a mio sentire, l’egregio, illuminante saggio di Marco Piccolino (Luigi Galvani e l’elettrofisiologia dimenticata, pp. 45-55), che ha peraltro svolto pienamente altrove gli esiti più fecondi delle proprie ricerche in tale determinante direzione (Cfr. gli Orientamenti bibliografici finali).
  11. R. A. Bernabeo, La scuola di medicina al tempo della formazione di Luigi Galvani, in Id. (a cura di), Luigi Galvani (1798-1998) fra Biologia e Medicina, cit., p. 16.
  12. M. L. Altieri Biagi, Introduzione, in M. L. Altieri Biagi e B. Basile (a cura di), Scienziati del Settecento, Milano-Napoli, R. Ricciardi, “La letteratura italiana. Storia e testi. Volume 45”, 1983, pp. XLII-XLIII.
  13. Cfr., per tutti, M. Spark, Mary Shelley. Una biografia (1951), Firenze, Le Lettere, 2001. Muriel Spark (1918-2006), scrittrice scozzese raffinata, feconda e stimatissima a livello internazionale, è tuttora apprezzata anche nel nostro Paese, ove è vissuta a lungo. Non casualmente, diversi suoi libri (romanzi, racconti, saggi, monografie) sono stati dati alle stampe da prestigiosi editori italiani. Cionondimeno, sui rapporti fra il best seller ottocentesco e l’effettiva riflessione galvaniana restano tuttora insuperate, per quanto ne so, talune pagine di Marco Bresadola. Cfr. M. Bresadola, Luigi Galvani. Devozione, scienza e rivoluzione, Bologna, Compositori, “Quadrifogli”, 2011, pp. 286-291.
  14. P. Levi, Altre poesie, in Id., Opere, a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, vol. II, p. 606.
  15. J.-L. Alibert, Elogio storico di Luigi Galvani, Bologna, San Tommaso d’Aquino, 1802, p. 129.
  16. J.-L. Alibert, Elogio storico di Luigi Galvani, cit., pp. 127-128.
  17. C. Farinella, Luigi Galvani, in DBI, vol. 51 (1998), p. 317, ora (2013) in “Treccani.it”, DBI, ad vocem.
  18. Orazione funebre in morte del Dottor Luigi Galvani bolognese [1799], “Archivio dell’Accademia delle Scienze di Bologna”, Fondo Galvani, busta 5, plico 12, fasc. 5.
  19. G. Ceronetti, La fragilità del pensare. Antologia filosofica personale, a cura di E. Muratori, Milano, BUR, “La scala”, 2000, p. 216.
  20. M. Bresadola, Luigi Galvani. Devozione, scienza e rivoluzione, cit, p. 207.
  21. Cfr. Agostino, Amore Assoluto e «Terza Navigazione», a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, “Testi a fronte”, 2000.
  22. B. Basile, Nota introduttiva [a Luigi Galvani], in M. L. Altieri Biagi e B. Basile (a cura di), Scienziati del Settecento, cit., 1983, p. 916.
  23. M. Bresadola, Luigi Galvani. Devozione, scienza e rivoluzione, cit, p. 10.
  24. Ne si offre qui, in appendice, una nuova e, “diis faventibus”, più convincente traduzione.
  25. G. C. Pupilli, L’umanità del Galvani, Bologna, 1960, p. 7.
  26. C. Malagola (a cura di), Luigi Galvani, cit., p. XVI, n. 1.
  27. Notula al testo. La presente versione dell’Elogio – densa ed intensa prosa vergata, con ogni probabilità, nell’anno stesso in cui Lucia Galeazzi Galvani scomparve (il 1790) – si fonda sull’edizione critica dell’originale latino (un manoscritto galvaniano assai arduo, per più ragioni, da trascrivere) allestita da un celebre ed insigne filologo classico, Pietro Ferrarino [1907-1985]: L. Galvani, Elogio della moglie Lucia Galeazzi Galvani. Testo latino con la traduzione italiana(Bologna, Cooperativa tipografica Azzoguidi, 1937-XV); essa è stata poi ristampata in anni non lontani (Bologna, Arti grafiche Tamari, 1988). Quanto alla traduzione fornita dallo stesso Ferrarino a fronte dell’edizione testé citata, conviene forse osservare che, di là dalla qualità indubbia di parecchie scelte nella resa, appare talvolta (almeno) discutibile e oggi, comunque, piuttosto obsoleta e, di conseguenza, non troppo efficace. Questa nuova versione dell’Elogio vorrebbe essere insieme più libera, “giovane” e fedele alla volontà consapevole dell’autore.

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