Bibliomanie

Il delitto Matteotti visto dai quotidiani statunitensi
di , numero 36, maggio/agosto 2014, Saggi e Studi,

Come citare questo articolo:
Mercedes Leonardo Lo Vecchio, Il delitto Matteotti visto dai quotidiani statunitensi, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 36, no. 4, maggio/agosto 2014

Il rapporto tra Mussolini e l’opinione giornalistica internazionale – in particolare statunitense – si può dire caratterizzato da una profonda ambiguità. In effetti ciò che più sorprende ad una rapida lettura del materiale cronachistico internazionale dell’epoca, è la sostanziale ammirazione che per un lungo periodo di tempo Mussolini e il fascismo riuscirono a godere presso le grandi testate giornalistiche internazionali. Il fascino della sua leadership non si configurò esclusivamente come un fenomeno locale, ma ottenne consensi ben oltre i confini nazionali, riuscendo a conquistare per lungo tempo non solo gran parte dell’Europa, ma anche gli Stati Uniti. In particolare la stampa americana, francese, inglese e norvegese parteciparono unitamente al coro di elogi che in gran parte dell’Italia si innalzava verso le doti carismatiche del dittatore.
Appena dopo la marcia su Roma, gli apprezzamenti verso Mussolini si intensificarono presso tutte le grandi testate giornalistiche internazionali, e in particolar modo presso quelle statunitensi. Il 3 novembre 1922 il New York Herald lo definì, al pari di Garibaldi, un autentico rigeneratore della società italiana, meritevole di conservare un posto speciale nella storia del popolo italiano. Nell’autunno dello stesso anno il New York Tribune si interrogava se Mussolini somigliasse più a Garibaldi o a Cesare e il New York Times profetizzava che il mento di Mussolini sarebbe rimasto giustamente celebre per la sua forma squadrata e virile, che rifletteva la personalità di un grande lottatore.
La stampa americana di quegli anni fu in effetti tra le più dedite alla costruzione di un’immagine internazionale grandiosa del dittatore italiano, dipingendolo come un uomo dotato di un temperamento straordinario, una forza organizzatrice eccezionale e una meravigliosa capacità di dominio. Tale ammirazione proseguì più o meno inalterata anche dopo l’instaurazione della dittatura nel 1925 e fino agli anni Trenta, alimentando presso l’opinione pubblica internazionale l’immagine di Mussolini come dittatore “giusto”, dai modi eleganti e aristocratici, sebbene egli fosse di umili origini. In effetti, proprio le origini modeste di Mussolini contribuivano a generare il grossolano equivoco esistente presso alcune teorie politiche, che postulavano un legame diretto tra democrazia e nascita di nuovi leader politici. Secondo queste teorie, a differenza della monarchia ereditaria – inconciliabile con i principi democratici – il cesarismo poteva ancora considerarsi una forma di democrazia, in quanto scaturiva dal consenso che un leader riscontrava presso le masse, e attraverso la cui volontà egli ne diveniva il rappresentate. Mussolini dunque, in quanto nuovo Cesare, rispecchiava la volontà della massa italiana, garantendo nel contempo stabilità e unità alla nazione.
Se una tale visione dei principi democratici può in qualche misura giustificare il consenso che il fascismo ottenne presso la stampa e l’opinione pubblica internazionale, bisogna ricordare che esisteva un’altra più stringente ragione per la quale Mussolini riuscì a generare un duraturo consenso presso le altre nazioni, e in particolare presso quella statunitense: il fascismo si configurava come un movimento politico di istanza fortemente anti-comunista. Fu questo aspetto in particolare che rese Mussolini particolarmente benvoluto presso l’elite politica e intellettuale americana. Egli rappresentava un valido baluardo in opposizione alle dittature continentali rappresentate da Lenin o Stalin. Nel 1926, l’americano Will Rogers del Saturday Evening Post scriveva che il governo dittatoriale può essere considerato la migliore forma di governo, sempre a patto che si avesse – come in Italia – un dittatore giusto. Tra il 1925 e il 1928 vennero pubblicati negli Stati Uniti oltre cento articoli su Mussolini e solo quindici su Stalin. Nel 1928 sempre il Saturday Evening Post pubblicò una biografia in otto puntate interamente dedicata al dittatore italiano, contribuendo a creare un’immagine internazione di Mussolini come uomo rispettabile.
La classe media americana temeva moltissimo l’ombra socialista, e si orientò verso Mussolini come simbolo di un uomo europeo nuovo in grado di contrastare la diffusione in Europa del modello politico sovietico. Nel 1932 Lowell Thomas, noto giornalista americano, partecipò addirittura alla produzione di un film interamente dedicato al dittatore – Mussolini Speaks! – che presentava immagini di repertorio e alcune interviste rilasciate dal Duce in persona. Il commento di Thomas era decisamente iperbolico e mirava ad esaltare la grandezza del leader italiano, presentato come modello di uno stile di governo ideale, nato dall’armonia tra cittadini e politica, popolo e fascismo. Si trattò di una curiosa e paradossale infatuazione, nata in un contesto culturale che favoriva dal punto di vista politico la scelta di leader forti caratterizzati da una grande personalità. Tale paradosso contribuì a generare un insolito fenomeno mediatico, che mirò per moltissimo tempo a dissociare i giudizi sul leader Mussolini da quelli verso il partito di cui era rappresentante.
Il caso Matteotti rappresenta certamente un emblema di tale situazione. Le vicende dell’uccisione del deputato socialista scossero l’opinione pubblica e la stampa internazionale in modo profondo, generando una grave distonia tra l’esaltazione della figura di Mussolini e il giudizio negativo riservato alle pratiche politiche del partito fascista. Ciò che è singolare rilevare è che – come si vedrà nelle pagine seguenti – la stampa internazionale, e in particolar modo quella statunitense, tesero per lungo tempo a scagionare Mussolini da qualunque responsabilità verso il delitto, e tentarono di presentare l’azione criminosa come indipendente dalle direttive del dittatore. L’accento fu lungamente battuto sulla buona fede di Mussolini e sulla rapidità con la quale si impegnò a smascherare i colpevoli e ripulire il partito dai presunti mandanti. La storia – come è noto – dimostrò poi la determinante complicità di Mussolini nella macchinazione dell’omicidio, ma ciò non è rilevante ai fini del nostro discorso.

Notizie dell’Altro Mondo: il «Wall Street Journal» e il delitto Matteotti.
Il «Wall Street Journal» il 4 settembre del 1924 pubblica un lungo articolo, di notevole interesse. Si tratta di un autentico gioiello informativo che contiene una sintesi perfetta degli elementi essenziali del nostro discorso. Vi si ritrovano tutti gli aspetti essenziali del regime, la visione dei sostenitori e degli oppositori italiani, il ruolo svolto dalla vicenda di Matteotti, le connessioni dell’assassinio con l’alta finanza, e infine la visione dei rapporti tra Italia e Stati Uniti, tanto dal punto di vista degli italiani quanto da quello degli americani. Il titolo dell’articolo è: What the “Old World” is saying of America, e si apre con il racconto dell’incontro tra il giornalista e Benito Mussolini, pochi mesi dopo l’incresciosa vicenda del rapimento e dell’omicidio di Matteotti1. La prima colonna descrive l’incontro privato dello scrittore con lo Statista. Mussolini è presentato come un uomo dal volto duro e dai modi determinati. Questa la descrizione del loro incontro:

Mussolini talked with me freely. Part of the time I was the interviewed, and not the interviewer. He revealed a keen curiosity about various phases of current events in the United States. He has an abundant knowledge of our system of government. On all American questions touching Italian interests, Mussolini holds unequivocal opinions. But as our interchange of views was not an interview, his contribution to the discussion cannot be reproduced2.

In questo breve estratto si evidenzia come Mussolini appaia al giornalista un uomo colto ed informato, capace di discutere lungamente degli aspetti del sistema politico statunitense e sulle questioni che lo connettono agli interessi italiani. Dopo questo rapido preambolo il giornalista si dilunga notevolmente su un piccolo screzio diplomatico in atto, alquanto malvisto negli ambienti fascisti tanto quanto acutamente analizzato dalla stampa antifascista. Si tratta della mancata visita all’Italia da parte del Segretario di Stato americano Charles Evans Hughes. Proprio nei giorni in cui Wile si trova in Italia per la sua indagine giornalistica, il Segretario di Stato Hughes sta facendo il giro dell’Europa per salutare le nazioni alleate saltando vistosamente Roma.Il giornalista nota come l’episodio sia stato taciuto dai media fascisti, e come sarebbe certamente passato sotto silenzio se il quotidiano Il mondo, fieramente anti-fascista, non avesse approfittato dell’episodio per alludere al rifiuto da parte del governo degli Stati Uniti di riconoscere il regime antidemocratico di Mussolini.
L’episodio di Hughes presta il fianco a Wile per trattare la dura opposizione che si sta verificando negli ambienti intellettuali e politici italiani rispetto alla definizione da attribuire al governo realizzato da Mussolini. L’opinione degli “amici di Mussolini” è limpida: il Segretario Hughes non aveva alcun motivo per disdegnare di far visita al governo italiano, in quanto in Italia non esiste alcuna dittatura e alcun regime nel quale siano state abolite le leggi di un normale Stato costituzionale. Tutto ciò di cui l’Italia si sta fornendo è semplicemente un governo forte capace di evitare alla nazione la prigione del bolscevismo. Nonostante i pareri contrastanti delle due fazioni al giornalista appare evidente che Mussolini è circondato tanto da fieri oppositori, quanto da numerosi estimatori. Come pure indubbio sembra allo scrittore che egli abbia acquisito il potere con metodi illegali e violenti, e che persista nonostante le apparenze una linea nascosta di malcontento nella popolazione italiana, ben visibile agli Americani.
A questo punto Wile non lesina di elencare con precisione certosina i metodi utilizzati dal fascismo per ottenere il pieno controllo del governo e dell’opinione pubblica. La prima parte della dominazione fascista è stata indiscutibilmente accompagnata da numerosi atti anti-costituzionali e illegali, tra i quali spicca la creazione di una milizia volontaria posta alle dipendenze del partito, e legittimata a sostenerne l’ascesa anche attraverso metodi “ruvidi”. Agli antifascisti, ben lungi dall’apparire un liberatore e un normalizzatore della situazione pubblica, Mussolini appare come un basso e violento usurpatore, per la cui eliminazione si auspica l’arrivo di un uomo coraggioso, capace di eliminarlo. L’idea di una eliminazione fisica del dittatore, come si è visto, serpeggia sempre più frequentemente dopo il delitto Matteotti negli ambienti antifascisti. Wile dichiara limpidamente come secondo numerosi antifascisti, a meno di non essere assassinato, Mussolini avrebbe governato il paese per almeno altri dieci o dodici anni (cosa che, in effetti, accadrà).
Eppure Mussolini ha certamente lasciato il segno sull’Italia, ottenendo alcune essenziali conquiste che non possono essere ignorate neppure dai suoi oppositori. Tra esse spiccano alcune acquisizioni che si pongono agli occhi degli Italiani come autentici miracoli. Mussolini, pur nella discutibilità dei suoi metodi, ha senza dubbio apportato alcuni significativi benefici all’Italia, configurandosi come una delle grandi figure politiche dall’epoca dell’unificazione. Questo aspetto è molto sentito dai contemporanei (tanto italiani quanto stranieri). L’avvicinamento di Mussolini a storiche figure politiche è in effetti uno degli elementi più tipici della costruzione del suo mito, al quale – come è possibile evincere da questo articolo – contribuirono ben più che i suoi stretti ammiratori. La stampa straniera in più di un’occasione enfatizzò tale aspetto nel tratteggiare i connotati del dittatore. In questo articolo Wile lo descrive agli occhi degli italiani al pari di un nuovo Cavour, Garibaldi o Crispi. I meriti che la maggior parte degli italiani riconosce a Mussolini non sono pochi: primi fra tutti aver allontanato dalla nazione il pericolo di una rivoluzione bolscevica e aver risanato le casse dello Stato riassestando il bilancio. Ma accanto a questi non vengono dimenticati la sospensione degli scioperi che avevano paralizzato per due anni industria e servizi pubblici, aver riorganizzato un’efficiente linea ferroviaria, aver annesso Fiume evitando la guerra, aver portato dalla sua parte l’alta finanza e aver assestato i rapporti tra Stato e Vaticano.
Eppure a tali pur utilissime opere i suoi oppositori affiancano i ben più gravi atti di detrazione perpetrati a danno della libertà e della giustizia italiana. Mussolini si è servito del terrore suscitato dalle rappresaglie delle sue squadre armate volontarie per trasformare le elezioni in un gioco di apparenze. Wile non esita a descrivere come, in particolare nelle provincie, le camicie nere abbiano attuato un’opera di repressione tale da trasformare i dibattiti elettivi in autentiche buffonate. Non ultimo incredibile atto del dittatore è la promulgazione delle scandalose leggi contro la libertà di stampa, secondo le quali ogni giornale o rivista che fosse stato menzionato più di due o tre volte per linguaggio offensivo nei confronti del governo poteva essere soppresso.
Ed è proprio l’accenno sulle difficoltà attraversate dalla stampa italiana sotto il regime ad offrire a Wile la possibilità di addentrarsi nella descrizione del complesso caso Matteotti, del quale descrive le linee essenziali per soffermarsi più approfonditamente sui pareri e le reazioni che esso sta suscitando tanto nei sostenitori quanto negli oppositori del regime:

It is the tragic events of the present summer that gave Fascismo its gravest setback, and made many Italians, friend and foe alike, think that Mussolini sits on a volcano. Mussolini’s most unterrified foe in Parliament, the young Socialist leader, Matteotti, let it become known that upon the reassembling of the chamber on june 12 he within the Mussolini government. In particular, Matteotti was supposed to possess incriminating documentary evidence adducing wholesale graft among the highest officials of Department of the Interior. Mussolini himself, at the time, was Minister of the Interior along with the other offices he held, including the premiership.
On June 10, two days before the opening of Parliament, Signor Matteotti was seized in broad daylight near his home in the fashionable quarter abutting the Tiber, spirited away in an automobile, and, presumably, thereupon murdeed.
The riddance of so courageous a foe as Matteotti immediately turned popular suspicion in the direction of Mussolini. It was considered unlikely that a capital crime of the sort could or would have been dared without the knowledge, if not the authority, of the omnipotent personage higher up
3.

Il passo riassume brillantemente gli aspetti essenziali della vicenda: dopo i tragici fatti dell’estate del ‘24 molti sono convinti che Mussolini sieda su un vulcano pronto ad esplodere e travolgerlo. Wile – e sarà questa l’opinione prevalente presso la stampa straniera – enfatizza il legame dell’omicidio con l’intento preannunciato da Matteotti di denunciare alcune gravi irregolarità del governo nella gestione dei rapporti con alcune grandi imprese industriali internazionali (oggi sappiamo che si trattava del cosiddetto scandalo della Sinclair Oil Company4), minacciando di fare nomi e cognomi di leader di spicco del governo e del partito fascista (tra cui, naturalmente, lo stesso Mussolini). L’opinione del giornalista statunitense è inequivocabile: il significativo coraggio del leader di opposizione Matteotti, che aveva direttamente esposto il governo fascista al pericolo di una crisi politica, diffondeva presso l’opinione pubblica la certezza che dietro il suo assassinio dovesse esserci l’accondiscendenza, se non il diretto e pieno coinvolgimento, del potente capo del governo (e dei suoi più fedeli e autorevoli collaboratori).
L’articolo precisa con sintesi e puntualità che la strategia mussoliniana prevede che il partito non interferisca nelle indagini e nei doveri della magistratura, anche se questi dovranno coinvolgere personaggi del calibro di Cesare Rossi, capo dell’Ufficio Stampa del Ministero degli Interni, Filippo Filippelli editore del «Corriere Italiano» (principale organo di stampa fascista), e Giovanni Marinelli, principale finanziatore e manager del fascismo. Le reazioni delle diverse parti in gioco sono contrastanti. Gli oppositori al regime non esitano a considerare la vicenda come l’inizio del declino del potere di Mussolini, il quale avrebbe subito una compromissione e un danno d’immagine tale dalla vicenda da poterne difficilmente venirne fuori. La storia dimostra invece che sotto questo punto di vista l’opposizione sottovalutò le capacità di ripresa del partito fascista. Ben diversa è l’interpretazione dei sostenitori del regime, i quali sono pienamente convinti che Mussolini non si lascerà intimidire dalla situazione controversa, riuscendo piuttosto a trarre dalla vicenda i frutti migliori. Tali previsioni erano tutt’altro che peregrine. Il governo fascista si apprestava in effetti ad infliggere l’ultimo colpo allo Stato liberale, proprio incentivato dalle vicende del delitto Matteotti, che lungi dal rappresentare un deterrente a tale processo di affermazione, ne costituirono il tramite principale di affermazione, fornendo a Mussolini tutti gli elementi argomentativi per il noto discorso del gennaio del 1925.
Il lungo articolo del «Wall Street Journal» si conclude con alcune considerazioni preoccupanti, che ben sintetizzano il paradosso che Mussolini rappresentò in seno all’Italia di quegli anni: la vicenda dei primi anni di affermazione del fascismo, che si conclude con il delitto Matteotti, è la perfetta manifestazione di un’Italia confusa e divisa, per la quale l’ipotesi fascista rappresenta – pur nel terrore suscitato dalla violenza delle sue manifestazioni – la soluzione più rassicurante. Persino gran parte dell’opposizione si rivela debole ed incerta nei suoi attacchi al fascismo, incapace di reagire significativamente alle violente provocazioni del partito. La cosiddetta secessione aventinese costituirà un inutile gesto simbolico che in nulla scuoterà gli intenti del partito. Come in numerosi casi prima di questo, il potenziale fascista fu sottovalutato, ci si illuse a lungo e colpevolmente che tale violenza potesse essere arginata o indirizzata esclusivamente verso scioperi e rivendicazioni sociali. Fu questo il grave errore italiano, che rese nel complesso l’Italia tutta ugualmente vittima e ugualmente colpevole dell’avvento del regime. Come sostiene acutamente lo stesso Wile dunque, semmai un uomo di Stato ha potuto rappresentare nello stesso tempo il demone da combattere e il messia da venerare, questi è stato certamente Mussolini.

Impressioni d’oltreoceano: il «New York Times» e il Delitto Matteotti.
Le considerazioni espresse nel lungo articolo del «Wall Street Journal» forniscono un’illuminante premessa al modo in cui l’omicidio di Matteotti fu vissuto e interpretato fuori dall’Italia. La stampa americana dedicò moltissimo spazio agli sviluppi della vicenda iniziando molto presto ad accusare esplicitamente il governo fascista di coinvolgimento diretto nell’assassinio. L’opinione pubblica internazionale venne condizionata moltissimo dalla stampa statunitense, generando un clima di generale pressione psicologica attorno al caso. Gli americani furono i primi a dedicare sui loro quotidiani numerose pagine alla vicenda, inizialmente seguendo la scia delle informazioni contenute sui giornali italiani come «Il Sereno» e «Il Messaggero».
Il 6 luglio del 1924, il «New York Times» pubblica un articolo dal titolo «Matteotti killing traced to five men», nel quale per la prima volta il quotidiano statunitense descrive la vicenda del deputato italiano e le sue prime essenziali implicazioni, dando il via ad una lunga serie di articoli che si protrarrà con grande costanza almeno fino a dicembre dello stesso anno, per poi riapparire con puntuale periodicità anche nel corso del 1925 e del 1926 (anno nel quale si apre definitivamente il processo contro gli esecutori del crimine). Il «New York Times» non abbandonerà il caso neppure a distanza di anni, continuando a pubblicare articoli inerenti ad esso persino negli anni ’40, in pieno clima bellico. Questa la prima descrizione dei fatti:

At precisely 3 o’ clock on the afternoon of Tuesday, June 10, Giacomo Matteotti, the and some, youthful General Secretary of the Socialisti Unitari, or moderato Socialists, left his home in one of the streets of the Tiber embankment5.

La descrizione dei tratti essenziali della vicenda è molto accurata: al di là degli eventi specifici, colpiscono alcune puntualizzazioni del giornalista. La prima riguarda proprio Matteotti, definito come un socialista moderato. La precisazione non è peregrina. Anche l’America infatti, come l’Europa, sembra mostrare negli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra, una particolare preoccupazione per l’affermazione del Comunismo in Russia e il timore che esso possa diffondersi anche in altre nazioni del Vecchio Mondo. In più di un’occasione gli articoli del «New York Times» che tratteranno della vicenda, enfatizzeranno l’orientamento politico moderato del deputato, rimarcando costantemente la differenza tra questi e le posizioni del partito comunista o gli eccessi del partito fascista, facendo assurgere la figura del giovane socialista a simbolo del valore delle forze politiche moderate. Il delitto produsse in effetti negli ambienti americani una grande indignazione, proprio in quanto l’onorevole Matteotti vi era diffusamente molto stimato per le sue doti di studioso, e di politico moderato e assennato. Esattamente qualche mese prima del rapimento, egli si era recato a Bruxelles, Parigi e Londra dove aveva appunto denunciato i crimini fascisti esponendo addirittura i suoi sospetti sulla collusione illecita tra il governo e la Sinclair Oil Company.
L’articolo del «New York Times», subito dopo aver elencato nomi e cognomi degli esecutori del delitto, si sofferma lungamente a precisare lo stretto legame esistente tra alcuni dei sospettati mandanti e i vertici del partito fascista. Il testo evidenzia come ai vertici del delitto debbano collocarsi gli uomini più potenti del regime, dai quali dipendono tanto le forze dell’ordine (e la milizia irregolare del regime) quanto l’Ufficio Stampa e la direzione degli Affari Interni. Nel delitto di Giacomo Matteotti sarebbe dunque implicato – secondo le parole del «New York Times» – l’intero Quadrumvirato del potere fascista. Tuttavia, l’identificazione immediata del crimine nei più stretti collaboratori del regime non porta il quotidiano a concludere l’implicazione di Mussolini nel delitto. Diviene anzi uno degli elementi di più strenua difesa della non implicazione del capo del governo nelle vicende che hanno determinato il rapimento e l’uccisione del deputato socialista. A partire da questo primo articolo, in effetti, il «New York Times» assesterà la sua interpretazione attorno all’idea che esista nel partito fascista una forte corrente di aderenti dallo spirito bellicoso, che mal sopportano i tentativi da parte di Mussolini di ridimensionare il fascismo conducendolo alla legalità costituzionale, e che destabilizzerebbero attraverso continui atti anti- costituzionali i tentativi del loro leader di ricondurre l’Italia alla pace interna:

When Bonaparte was made First Consul of France, in 1799, he found his efforts to restore tranquillità to the country obstructed from two quarters: on the skirts of the new Government there still survived those secret society which had prolonged the Revolution: in the country were their undisciplined bands of former republican soldiers who pillaged, robbed and murdered. But France was than at war with half of Europe so the Consul found work for these intransigeants at the front, and country was relieved.
After the revolution of October, 1922, Italy was afflicted in almost the same way. But Mussolini could not dispose his intransigeants as Bonaparte had disposed if his, for Italy was not at war. So Mussolini tried to discipline […] and incorporate in his new political scheme. It has proved to be an impossible task, although the generous memorial uttered by the Matteotti family may still contribute to its ultimate success:
«Praise God that Matteotti will be the last vistim, and may his sacrifice conduce to the redemption and peace of the country» 6.

Il passo è davvero sorprendente: Mussolini viene paragonato a Napoleone all’epoca del passaggio dalla Rivoluzione al Consolato (e in seguito all’Impero). Anche Napoleone era salito al potere grazie all’appoggio delle sue bande armate, e dunque ad un’ampia componente guerrigliera che lo aveva sostenuto nell’ascesa. Quando divenne necessario consolidare il governo e ricondurlo sul terreno della normalizzazione, Napoleone riuscì a convogliare la base più intransigente e violenta dei suoi sostenitori fuori dalla Francia, nella guerra contro l’Europa. Mussolini si troverebbe invece nella difficile condizione di un’Italia pacificata con i nemici esterni e, dopo la repressione delle forze socialiste e comuniste, anche con i nemici interni. La massa degli intransigenti che ne ha garantito l’ascesa al potere rimane dunque all’interno delle dinamiche statali costituendone un fattore di disequilibrio costante, che mina ogni tentativo di istituzionalizzazione legale da parte del capo del governo. Persino la volontà da parte di Mussolini di trasformare lo squadrismo fascista in una regolare milizia di Stato viene interpretato dal quotidiano come una conferma dei suoi tentativi di ricondurre le bande armate lungo i binari della legalità.
Che la realtà non sia propriamente quella descritta dal «New York Times» è cosa ormai troppo nota per dibatterne in questa sede, esistendo numerose documentazioni private7 che attestano senza ombra di dubbio il diretto coinvolgimento del dittatore nell’omicidio, e individuano in lui il primo mandante del delitto8. La posizione del quotidiano americano si spiegherebbe piuttosto con il tentativo di indulgere sugli aspetti positivi dell’azione politica di Mussolini, in particolare per ciò che concerne la sua lotta contro il Comunismo e la rivoluzione socialista (vero spettro dell’Occidente del dopoguerra). Secondo il «New York Times» esisterebbero differenti fazioni all’interno degli stessi aderenti al partito, e ne evidenza accuratamente le diversità, in particolare per ciò che concerne la volontà di riportare l’Italia ad un periodo di normalità costituzionale, piuttosto che trattenerla in uno stato di costante agitazione politica interna:

Irrespective of its generally known departments, the whole Fascismo had psychologically developed three classes known as the Neri, the Bianchi, and the Grigi Fascisti – the White, the Black and the Gray. The Black are those who have no faith in parliamentary government, except as a vehicle of public opinion, and have the Fascista Government perpetuated with all its discipline and autocratic power. The Whites believed that the Fascismo was an expedient and that now, that it has stamped out the Red peril, the country should return to its Democratic organization and the Fascismo become merely a political party trusting its future to its work in the past and in its patriotic ideals. Finally, there are the Grays, the product of the frays witgh the Reds, rough, untamable, unredeemed ex-soldiers and criminals, who would still continue the war on society even though their original enemy had disappeared. The use the Fascismo merely as a means for private gain or private revenge. They form the majority of the youths in those unites of the Fascista Militia which are apparently still beyond all discipline and restraint the “squadre d’azione” 9.

In questo passo esemplare il fascismo viene suddiviso in tre correnti di pensiero, alle quali corrispondono sentimenti diversi per quanto riguarda lo stato di cose da mantenere in Italia e il modo in cui intendere l’azione del governo. Il fascismo nero è quello costituito da tutti coloro che ritengono che il partito debba conservare un potere di tipo autocratico e dittatoriale, facendo del parlamento uno strumento di consultazione fascista o di contatto con l’opinione pubblica, non credono dunque nel mantenimento di un perenne stato di guerra, ma ritengono che il governo debba essere fondato su una base di tipo dittatoriale. Appartiene a questa categoria evidentemente lo stesso Mussolini e gran parte degli esponenti politici di maggior rilievo del partito. Al fascismo bianco appartengono tutti coloro che hanno appoggiato di buon grado gli interventi anti-costituzionali effettuati dal fascismo durante il «biennio rosso», ma ritengono che – una volta estirpato il pericolo di una rivoluzione socialista – esso dovrebbe rientrare nell’alveo della tradizione costituzionale e liberale, e porsi alla guida di uno stato democratico. Infine esistono i cosiddetti fascisti grigi, bande di guerriglieri che utilizzano l’ideologia fascista come mero strumento ideologico delle loro vendette e violenze personali, e producono in Italia il permanere di un perenne stato di guerra. A questa categoria appartengono soprattutto gli aderenti più giovani al partito, e precisamente la masnada che va a costituire gli schieramenti di quella Milizia Nazionale alla quale Mussolini deve molto del suo potere. L’articolo del «New York Times» non casualmente enfatizza come una larga maggioranza degli uomini coinvolti nel delitto Matteotti appartenesse a quest’ultima tipologia.
Proprio a questa pericolosa corrente interna al fascismo appartengono due dei principali esecutori del delitto, Dumini e Volpi, entrambi leader di quei gruppi d’assalto che in numerose occasioni avrebbero disseminato il panico attraverso atti di violenza su oppositori politici e senatori. Essi sarebbero inoltre a capo di una sorta di cheka fascista, alla quale devono essere attribuiti il terrore, la corruzione e la vendetta politica e privata che da anni insanguinano l’Italia. In un articolo del 7 luglio del 1924 il «New York Times» si dilunga ulteriormente nella descrizione degli stati d’animo di questa categoria di fascisti, e dei loro oppositori, e del pericolo che la loro irrequietezza rappresenta per i propositi di normalizzazione di Mussolini. La spiegazione del grave stato di tensione che si vive in Italia va spiegato, secondo il «New York Times», nell’atmosfera vissuta principalmente nelle provincie, in particolare in quelle del nord, dove il sentimento di repulsione contro gli oppositori è particolarmente sentito, e le asserzioni della stampa socialista (che dipingono i fascisti tutti indifferentemente come assassini) non aiuta a raffreddare gli animi. Il maggior terrore dell’Italia, a detta del giornale statunitense, sarebbe il comunismo, e il timore che nell’ombra esso possa organizzare una rivolta armata contro il fascismo. In questo stato di cose ancora una volta Mussolini appare come l’uomo dal grande prestigio e dalla grande carica carismatica, l’unico in grado di trattenere – seppure con sempre maggiore difficoltà – i suoi bellicosi fedeli dall’intento di avviare una guerra civile. Anche in questo breve passo la responsabilità dello stato di tensione viene interamente scaricata sulla base della piramide governativa, i giovani fascisti dallo spirito inquieto, a loro volta provocati dal nemico “rosso”, il cui estremismo appare velatamente come l’indiretto responsabile dello stato di allarme dell’Italia.
Nelle righe successive l’argomentazione del quotidiano si fa ancora più esplicita: non è possibile comprendere la situazione che l’Italia sta vivendo se si prende come modello di riferimento dell’intera Italia la situazione socio-politica di Roma. I romani – e più in generale il sud – non hanno conosciuto mai effettivamente e direttamente il comunismo, e dunque non hanno la percezione che il fascismo è nato essenzialmente come lotta al comunismo. La loro adesione al fascismo resta dunque, in certa misura, superficiale (e dunque moderata). A dimostrazione di ciò l’articolo ricorda come all’indomani della scoperta del rapimento e dell’omicidio di Matteotti a Roma siano scomparse tutte le divise nere fino a quel momento sfoggiate. La situazione delle province del centro-nord è invece molto diversa. In questi luoghi il comunismo ha regnato incontrastato per anni, disseminando nelle campagne e nelle cittadine il terrore. Essere fascista nei tre anni che hanno preceduto la Marcia su Roma significava per chi abitava in questi luoghi una sicura condanna a morte. I fascisti del centro-nord hanno forgiato la loro violenza e il loro spirito bellicoso nei tre anni di lotta contro il comunismo, e credono dunque nel fascismo come in una religione a capo della quale riconoscono la presenza di Mussolini, venerato come un semidio dai poteri soprannaturali. Indossare la camicia nera è per costoro una questione d’onore, in quanto vessillo di un’azione politica che essi reputano votata alla difesa della nazione contro le forze anarchiche e sovversive.
Di fronte a questa folta massa armata in preda ad un furore collettivo Mussolini fa appello a tutto il suo prestigio e a tutta la sua autorità affinché essi rimangano in uno stato di attesa e non reagiscano alle provocazioni generate dal delitto Matteotti, che rischierebbero di innescare una catastrofe civile. Lungi dunque dall’essere considerato il mandante e l’istigatore di tale violenza, Mussolini appare come il preservatore dell’ordine costituito, colui che ha il potere di innescare la violenza e invece tenta di arginarla, per il bene superiore della nazione e della pace.
In un articolo del 13 luglio 1924, il «New York Times» riporta un discorso di Mussolini alla Camera risalente al 24 giugno, nel quale tanto l’originale responsabilità dei socialisti nella generazione del clima di disordini e violenze degli ultimi anni, quanto il non coinvolgimento del capo dello Stato nella tragedia di Matteotti e al contrario il suo tentativo di fare rapida e piena giustizia, vengono perentoriamente ribaditi10. Il primo elemento sul quale Mussolini pone l’attenzione rispetto alla posizione ufficiale assunta dal Fascismo è che esso ha condannato fin dal primo istante il crimine perpetrato ai danni dell’onorevole Matteotti. E riporta a dimostrazione di ciò il fatto che la giustizia è stata agevolata dal regime in ogni modo affinché fosse fatta rapida luce e giustizia su esecutori e mandati del delitto: nell’arco delle prime quarantotto ore Mussolini dichiara che erano già stati fermati i primi sospetti, e che la giustizia continua ad indagare col pieno appoggio del partito chiunque possa essere coinvolto, senza alcun riguardo verso la posizione ufficiale o politica che questi ricopre. A questo punto Mussolini accusa la stampa e i partiti di opposizione di star perpetrando una campagna mediatica diffamatoria verso il governo, insinuando un possibile coinvolgimento del suo leader nella vicenda di Matteotti.
È singolare osservare come il «New York Times» abbracci interamente le opinioni ufficiali di Mussolini in merito all’atteggiamento del partito. Anche Mussolini descrive le posizioni delle correnti di Sinistra come diffamatorie, soprattutto per ciò che concerne la presunta connivenza del vertice del governo con l’assassinio di Matteotti. Mussolini sostiene che la Sinistra, italiana e internazionale, stia cercando di approfittare dell’atroce episodio per farne prova di un presunto stato di terrore esistente nella nazione, determinato dai metodi violenti e anticostituzionali attuati dal fascismo per conservare il potere e ridurre al silenzio gli avversari politici. Il modo col quale controbatte a queste opinioni somiglia molto a quello contenuto in numerosi articoli del «New York Times», e consiste proprio nel ricordare come l’escalation di terrore sia iniziata dal socialismo e dal comunismo nel corso degli ultimi cinque anni di storia, quasi che ad essi vadano indirettamente attribuite anche le attuali intemperanze politiche e gli eccessi di una parte della Destra.
Sul clima di tensione politica proveniente dalla base della piramide sociale, quasi indifferentemente alimentato tanto dai fascisti grigi quanto dai socialisti, pongono l’accento moltissimi articoli del quotidiano americano almeno fino al dicembre del 1924. Nel seguente, pubblicato il 18 giugno 1924 leggiamo:

Several thousand Fascista militia from the Provinces of Rome and Tuscany marched into Rome today singing their war songs. An official communication issued by the commander of the militia says the concentration is in no way connected with a necessity for the maintenance of public order to Rome to render honors to Ras Tafari, Regent of Abyssinia, who is ecpected to arrive tomorrow to be received by King Victor Emanuel and Premier Mussolini and Pope Pius in Saturday.
[…] In Catania, Sicily, there was a scuffle between Socialists and Fascisti because the Socialists desired to place in the window of their club house the red flag draped in mourning as a protest against the disappearance of Matteotti. […].
In Naples an attempt at disorder also was easly repressed. […]
At Lecce a group of anti-Fascisti attempted a demonstration. Marching through the streets they raised shouts of “Long live free Italy!”, “Long live Matteotti?” and “ We want the assassins arrested”
11.

Si tratta di un lungo articolo nel quale vengono dettagliatamente descritti i disordini verificatesi in occasione dell’arrivo del Ras Tafari, reggente in Abissinia. L’accento viene posto sul clima di guerriglia determinato dal confluire verso Roma di migliaia di fascisti appartenenti alla milizia del partito, armati e inneggianti a canzoni di guerra, e nel contempo i numerosi scontri a fuoco verificatisi tra i gruppi fascisti e antifascisti in più città italiane. Le sparatorie e le guerriglie si susseguono in tutta Italia, e si mescolano con tributi al deputato Matteotti, indicazione utilissima a comunicare la sensazione che il caso Matteotti rappresenti una bomba esplosiva per la pace interna del Paese, pronta ad innescarsi nel caso in cui il capo del governo non fosse capace di mantenere la situazione sotto controllo. Articoli come questo hanno la precisa funzione di riversare la prima responsabilità dei disordini alla base per così dire “elettorale” del partito fascista e non secondariamente all’analogo atteggiamento anarchico e rivoluzionario di una parte dell’opposizione.
Il «New York Times» non intende certamente inneggiare al Fascismo, ma tende a de-responsabilizzare Mussolini rispetto agli atti più sanguinosi perpetrati dal regime. Numerosissimi sono invece gli articoli nei quali si evidenzia con tono assai meno conciliante la corruzione e il coinvolgimento dei suoi più fedelissimi collaboratori (come Finzi, Rossi, Marinelli, e il Generale Del Bono). A questa categoria di articoli appartengono anche quelli nei quali viene esplicitamente suggerito il movente del reato: una raccolta di prove effettuata dal deputato socialista della quale egli avrebbe parlato a breve in Parlamento, e che avrebbe rischiato di far collassare il regime, in particolare coinvolgendo alcuni dei mandati dell’omicidio. In numerosi articoli del giugno 1924 il dito viene puntato contro il sottosegretario Finzi per evidenziare il suo coinvolgimento in numerosi casi si speculazione finanziaria e corruzione del Governo. L’opposizione accusa Finzi di aver accettato denaro impropriamente, di essere coinvolto in concessioni illegali all’azienda americana Sinclair Oil, e di aver preso parte sempre illegalmente negli affari di alcune banche italiane. Le prove della corruzione di Finzi secondo l’opposizione, sarebbero state contenute in alcuni documenti di Matteotti, dei quali egli aveva già dato comunicazione alla Camera. Per tale motivo l’omicidio del deputato apparirebbe assolutamente premeditato e attuato al fine di impedire la diffusione dei documenti. In un articolo del 17 giugno 1924 troviamo riferimenti ancora più precisi alla vicenda:

Signor Matteotti, when he left his home in Rome, carried a portfolio containing full details of the failure of the Banco Italiano di Sconto two years ago – a great crash in which the savings of hundreds of thousands of Italians citizens were lost. The Fascist chieftains, Aldo Finzi, who just resigned as Under Secretary of the Interior, and Cesare Rossi, who has just given up the post of Director of Publicity of the Interior Department, were closely allied with the bank and participated in the reorganization which followed the bankruptey.
Signor Matteotti left his house with a dossier containing material for a slashing exposure of this gigantic scandal involving scores of millions of dollars. He was on the way to Parliament to deliver the greatest speech of his career, in which he intended directly to accuse the Government
12.

Quando Matteotti aveva lasciato il suo appartamento il 10 giugno del 1924, egli avrebbe portato con se una valigetta contenente alcuni essenziali documenti che dimostravano il coinvolgimento di Aldo Finzi e Cesare Rossi nel fallimento del Banco Italiano di Sconto, uno scandalo finanziario nel quale avevano perduto i loro risparmi centinaia di migliaia di cittadini. La stampa estera fu impressionata dalla vicenda di Matteotti, in particolare a causa di questo aspetto. Ma fu in particolare la stampa statunitense ad avanzare l’idea che Matteotti fosse stato vittima di un complotto più affaristico che politico, dichiarando che se il deputato non fosse stato assassinato avrebbe certamente smascherato delle gravi irregolarità finanziarie nell’operato del governo, alla seduta in parlamento dell’11 giugno 1924.
Proprio l’accanimento della stampa straniera sui moventi del crimine preoccupavano particolarmente Mussolini. Nella seconda metà di giugno egli sentì necessario andare a rassicurare gli ambasciatori stranieri i quali chiedevano maggiori garanzie da parte del capo dello Stato italiano riguardo la sua volontà di restaurare ordine e legalità in Italia, sulla scia dei propositi che avevano garantito la sua ascesa al potere e il suo prestigio dopo il «biennio rosso». Proprio al fine di limitare gli enormi danni causati all’immagine internazionale del partito dalla vicenda Matteotti, il Ministro degli Esteri scrisse a diverse legazioni italiane affinché tentassero di limitare il più possibile gli attacchi della stampa straniera.
Non fu tuttavia solo la gerarchia fascista ad essere presa di mira dalla stampa statunitense ed estera. I quotidiani e le riviste come il «New York Times» presero ampiamente di mira anche le leggi contro la libertà di stampa imposte dal governo nel luglio del 1924, e la strana passività del Partito socialista italiano di fronte alla gravità degli eventi. Tra i numerosi articoli che si occuparono in particolare di questo aspetto della questione, riportiamo l’estratto di uno firmato da Arthur Livingston nel quale tali considerazioni risultano particolarmente esplicite:

In the past five years Mussolini has accomplished under as a political organizer. He has worked miracles as general manager and repairer of collapsing State. But he is still confronted by one failure that threatens at any moment to upset him. He has failed to “pacify” Italy. He has failed to discipline the elements to which he owes his power. He has failed in that supreme task which sooner or later puts all revolutions to the test – the task of legitimizing the new order by confining its fresh and tireless energies inside legal institutions 13.

In questo intelligentissimo articolo viene magistralmente affrescata la situazione politica italiana degli ultimi anni: nei passati cinque anni Mussolini ha compiuto dei veri e propri miracoli politici, evitando alla nazione quello che il giornalista statunitense definisce come un vero e proprio collasso dello Stato. Eppure, nonostante un tale straordinario successo, Mussolini avrebbe fallito su un punto essenziale del suo programma politico: il progetto di “pacificazione” dell’Italia. Ha fallito nella convinzione di poter disciplinare quegli elementi sociali che gli hanno consentito di prendere il potere, e che ne costituiscono la scomoda base. Tale fallimento non è imputabile all’incapacità o alla ferocia di Mussolini. Secondo Livingstone si tratterebbe di una contraddizione insita in tutti i sistemi di potere nati su base rivoluzionaria: e cioè la difficile prova del nove con cui si scontrerebbe ogni governo sorto per vie illegali, nel momento in cui diviene necessaria l’istituzionalizzazione in un ordine che riesca a far confluire tutte le forze rivoluzionarie all’interno di organi legalmente riconosciuti. L’Italia degli ultimi due anni ha mostrato un’immagine di se molto lontana dalla normalità politica: ogni cosa è stata sottoposta ad un continuo e confuso movimento. Mentre ciò che restava del vecchio ordine politico perdeva mese dopo mese la sua capacità di incidere significativamente nella vita politica e sociale dei cittadini, delle forze nuove, forgiate dalla guerra e desiderose di fornire nuove risposte al Paese, si facevano via via più pressanti. Esiste ancora un re, un Consiglio, un Parlamento e un sistema burocratico centralizzato, nei quali gli Italiani riconoscono gli elementi tradizionali della legalità nazionale, ma che sono diventati ormai nulla più che fantasmi politici, ombre.
Dall’altro lato c’è il governo reale dell’Italia, manifestazione delle nuove forze in atto. Un governo sorto per vie illegali, attraverso un colpo di Stato e che esercita il potere in virtù delle sue armi, del consenso tacito o dell’indifferenza della maggioranza degli italiani. Questo nuovo governo è pienamente parallelo al vecchio, il potere reale affianca e si nasconde dietro quello fantasma: affianco ad un re ombra, c’è il vero dittatore dell’Italia; affianco ad un Consiglio di Stato fantasma, c’è il Direttorio fascista; affianco al Parlamento fantasma c’è il partito fascista e i suoi sostenitori politici; affianco all’apparato burocratico statale c’è il capillare controllo dei funzionari fascisti in tutte le regioni, le provincie, le città e i villaggi, che governano con l’appoggio locale o con il regime del terrore; affianco alle forze dell’ordine legalmente costituite, esiste la Milizia Fascista, tanto illegale quanto potente.
Di fronte ad un simile stato di cose, non sembrano esistere per il giornalista americano molte soluzioni: o il governo reale distrugge e rifondare il governo fantasma oppure tenta di rianimarlo, fondendolo con esso. La prima di tali ipotesi deve essere scartata, in quanto definitivamente esclusa con il fallimento del progetto socialista del 1920, e l’opposizione di Mussolini ad ogni tentativo di “russianizzare” l’Italia. Non resta dunque che la seconda ipotesi: quella di un difficile matrimonio con il vecchio sistema di potere. Ed è proprio sul terreno dell’incontro con la legalità costituzionale che si attua il fallimento del programma di Mussolini: egli ha ottenuto l’appoggio della maggioranza del vecchio sistema di governo, soprattutto in funzione di un ritorno alla normalità, dopo i fatti turbolenti del «biennio rosso». E questa normalità, promessa ai cittadini e alle forze politiche filo-fasciste, è proprio ciò che ora si scontra con le esigenze bellicose e illegali dei suoi più fedeli adepti. All’interno di questo precario equilibrio, ancora tutto da costruire si fa ad incuneare con pericolo l’incresciosa vicenda di Matteotti. Esso infatti rischia di far precipitare il fascismo in una crisi che minaccia di farlo collassare proprio perchè mette davanti agli occhi di tutti i cittadini italiani il fatto di essere governati da un illegale manipolo di guerriglieri feroci, che si ammanta di false parole.
Tuttavia, a detta dell’acuto giornalista, il caso Matteotti potrebbe non segnare la fine della fortuna di Mussolini. Avendo infatti portato clamorosamente all’attenzione pubblica gli eccessi anticostituzionali di una parte essenziale del partito, esso può fornire l’occasione per attuare quell’opera di legalizzazione e istituzionalizzazione del colpo di Stato necessaria ad ogni rivoluzione che termini col successo. Potrebbe essere per Mussolini l’occasione giusta per allontanare dalle fila del fascismo gli elementi meno desiderabili e preservare le sue forze migliori. Livingstone definisce questo stadio – della “contro-rivoluzione” – assolutamente necessario ad ogni rivoluzione che abbia vinto, pena il collasso del nuovo sistema politico.
Su una cosa Livingstone ebbe ragione: la vicenda di Matteotti non comportò la fine del potere di Mussolini, ma l’avvento della fase pienamente e apertamente dittatoriale. Ciò in cui il «New York Times» si sbagliò grossolanamente fu il ritenere che Mussolini non fosse parte del medesimo violento sistema, o che da esso avrebbe presto preso le distanze avvicinandosi ad orientamenti di tipo democratico e parlamentare. Qualche mese dopo, in un celebre discorso alla camera, egli dichiarò l’inizio dell’applicazione delle cosiddette «leggi fascistissime» e, ciò che più conta ai fini del nostro discorso, la sua piena appartenenza al sistema illegale il cui esito estremo era stato l’esecuzione di Matteotti.

Note

  1. F. W. Wile, What the “Old World” is sayng of America, in «Wall Street Journal», 4 settembre 1924, New York.
  2. Ibidem.
  3. Ibidem.
  4. Per una ricca ricostruzione del legame tra l’omicidio di Matteotti, il regime e l’alta finanzia imprenditoriale, rimandiamo all’accuratissima ricostruzione di M. Canali, Il delitto Matteotti. Affarismo e politica nel Primo governo Mussolini, cit.
  5. W. Littlefield, Matteotti killing traced to five men, in «New York Times», 6 luglio 1924, New York.
  6. Ibidem.
  7. Per approfondimenti si rimanda alla ricchissima documentazione riportata in M. Canali, Il delitto Matteotti, cit.
  8. Tali documentazioni non lasciano adito a dubbi neppure riguardo al fatto che l’omicidio fosse premeditato dal primo istante, secondo esplicita richiesta di Mussolini.
  9. W. Littlefield, Matteotti killing traced to five men, in «New York Times», 6 luglio 1924, New York.
  10. Mussolini defends policies of party, in «New York Times», 13 luglio 1924, New York.
  11. Fascista militia march into Rome singing war song, in «New York Times», 18 giugno 1924, New York.
  12. Link case to bank failure, in «New York Times», 17 giugno 1924, New York.
  13. Power of Mussolini is shaken by murder, in «New York Times», 29 giugno 1924, New York.

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