Bibliomanie

Il “Caso Pulci”
di , numero 45, gennaio/giugno 2018, Saggi e Studi,

Come citare questo articolo:
Marco Albertazzi, Il “Caso Pulci”, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 45, no. 2, gennaio/giugno 2018

Primo concetto, a margine del caso: la disinvoltura comica ed epica di Pulci. Primo specimen, ad uso dell’investigatore: «Ma ben ­che nel giardino le triste aguria / apparisin di fuori non fu sentito / per la città né da’ baroni in curia» (La Morte di Orlando II 79, 1-3).
Iniziamo da questa intenzione disinvolta, da leggere con la mede­sima disin­voltura. Per Pulci, non si tratta solo di divertire (l’antichis­simo delectare romano) il pubblico, ma di incarnare il più possibile il sentimento civile, inserendo nel racconto personaggi nuovi e curiosi: così nascono Morgante, Margutte e Asta­rotte. Se è così, El Famoso Morgante non deride la cavalleria per partito preso, ma serve ad un’intenzione quasi teatrale: il poeta vestirà i panni del cantastorie, che ravviva una materia già sedimentata e a rischio di banaliz­zazione (per intenderci: Andrea da Barberino e Feo Belcari, giusto per citare chi si rivolge ad una diversa tradizione e ad altri generi).
Pulci coinvolge le auctoritates più solenni per sottrarre il libro al destino: «Chi negherebbe a Gallo già mai versi?» traduce Virgilio (Buc., X 3: «Neget quis carmina Gallo?»). Uno degli esempi possibili. Per il resto, Pulci riformula tutti i tópoi medievali, e racconta le necessità contemporanee con espressioni fortuna­te, a giudicare dal successo editoriale. E oggi? Molti ragionamenti del Morgante sem­breranno paradossali: lo erano ieri e lo sono oggi. Si tratta solo di capire e di saper leggere: iniziamo da qui.

Rieccoci nel cuore del secolo breve, in cui ci siamo informati. Qui Sapegno ritrae il volto dei cantari:

Un metro aperto e fluido; un linguaggio alieno da ogni com­piacimento formale e tutto rivolto ad una rappresentazione rapida e incalzante dei fatti: estrema semplificazione, o addirit­tura elementarità degli elementi espressivi, in funzione del valore preminente assegnato al con­tenuto, all’intreccio, alle varie e imprevedibili peripezie; finalità divulgative e di lettera­tura amena, quasi di romanzo d’appendice…; massimo rilievo concesso agli elementi favolosi o meravigliosi, di forza, di corag­gio, d’avventura, attenuati per altro dal non infrequente inter­vento di uno spirito ironico popolano, che riporta il racconto di volta in volta sul piano di un divertimento immediato e non troppo impegnativo, che non esclude l’evasione fantastica, ma non implica la piena partecipazione a un ideale eroico di vita1

Questa visione – che è anche un repertorio di litoti (non infre­quente, non esclude, non troppo), per dire trattenendo e trattenendosi – ha fatto scuola. Rileggiamola una volta: l’«elementarità degli ele­menti espressivi» è «in funzione del valore pre­minente assegnato al contenuto».
In effetti, la struttura elementare e la fortuna pubblica sono i primi punti di forza della Comedìa di Dante. Non solo: le opere di spicco della cultura italiana sono elementari, cioè espressioni rappresen­tative dello straordinario popolare, che tra­scende l’individuo e si esprime con la voce di un singolo.
E allora: quale epica? Un genere orale e diffuso, tramandato per forza di scrit­tura e con tutta la strumentazione mnemotecnica e formulare del caso. Un genere diffuso in ogni luogo: dunque diversi cicli epici, e anche variazioni sopra la stessa narrazione. Ma non basta rifarsi al genere, e non basta incanalare le affermazioni in negazioni non infrequenti.
In primo luogo, Pulci è un caso a sé, in attesa di un giudizio separato e per­sonale. Lo richiede la destinazione autonoma del poe­ma, che andrà di piazza in piazza, non di sala in sala: eppure la piazza sedurrà il Palazzo, se il Morgante «dagli dottissimi Signori della Crusca è preferito alla Gerusalemme del Tasso».

L’Orlando Innamorato di Boiardo è perfettamente contem­poraneo al Morgante. Così avviene uno stacco fondamentale nel genere, per segnare l’epica futura: ciclo amoroso e ciclo cavalleresco, Artù e Carlo Magno, si fondono e si immor­talano nell’incipit del Furioso:

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto.


C’è dell’altro. Dove il genere era sostanzialmente diacronico, nell’Italia di fine Quattrocento lo stacco avviene in maniera simul­tanea. Ad esempio: l’ordine logico del ciclo arturiano non corrispon­de alla scrittura dei testi che lo com­pongono, all’incirca negli anni 1215-1230. La tradizione dei cinque romanzi della vulgata arturiana – Histoire du Saint Graal, Merlin, Lancelot, La queste del Saint Graal e Mort le roi Arthur – è stata adattata alle esigenze funzionali del ciclo. Questo vuol dire che la materia epica è altamente soggetta a innova­zioni. Il ciclo carolingio presenta un’ampia diffrazione degli episodi, a partire da un solo evento della storia reale: la rotta di Roncisvalle del 778. Eginardo ne dà testi­monianza (Vita Karoli Imperatoris, 9), secondo la brevitas asettica degli storici:

Cum enim assiduo ac pœne continuo cum Saxonibus bello certaretur, dispositis per congrua confiniorum loca præsidiis, Hispaniam quam maximo poterat belli apparatu adgreditur; saltu­que Pyrinei superato, omnibus, quæ adierat, oppidis atque castellis in deditionem acceptis, sal­uo et incolomi exer­citu reuertitur; præter quod in ipso Pyrinei iugo Wasconicam perfidiam parumper in redeundo contigit experiri. Nam cum agmine longo, ut loci et augustiarum situs permittebat, porrec­tus iret exercitus, Wascones in summi montis uertice positis insidiis – est enim locus ex opacitate siluarum, quarum ibi maxima est copia, insidiis ponendis oportunus – extremam impedimentorum partem et eos qui nouissimi agminis inceden­tes subsidio præce­dentes tuebantur desuper incursantes in subiectam uallem deiciunt, consertoque cum eis prœlio usque ad unum omnes interficiunt, ac direptis impedimentis, noctis beneficio, quæ iam insta­bat, protecti summa cum celeritate in diuersa disperguntur. Adiuuabat in hoc facto Wascones et leui­tas armorum et loci, in quo res gerebatur, situs, econtra Fran­cos et armorum grauitas et loci iniquitas per omnia Wasconi­bus redditit impares. In quo prœlio Eggihardus regiæ mensæ præpositus, Anshelmus comes palatii [et Hruodlandus Brit­tannici limitis præfec­tus] cum aliis conpluribus interficiuntur. Neque hoc factum ad præsens uindicari poterat, quia hostis re perpetrata ita dispersus est, ut ne fama quidem remaneret, ubinam gentium quæri potuisset.

Da qui in poi Big Bang retorico ed evoluzione secolare, anche nelle intenzioni. Il passaggio dall’evento storico all’opera d’arte – e dal Cristianesimo di Gesù a quello dei cristiani che uccidono – è stato analizzato da Auerbach:

Il cristianesimo dei cristiani è un puro dato: esso si esauri­sce nella sua professione e nelle formule rituali ad essa rife­rentesi; è inoltre posto totalmente al servizio della volontà caval­leresca di lotta e dell’espansione politica. Ai Franchi a cui prima della lotta viene impartita l’assoluzione, è dato per peni­tenza di menarle sode; chi cade in combattimento è un martire e gli è riservato un posto in Paradiso; le conversioni fatte con la violenza, con l’uccisione dei recalcitranti, sono opera gradita a Dio. Questa concezione, sorprendente per essere cristiana e che prima non esisteva in veste cristiana, nella Chanson de Roland non trova la sua motivazione in una determinata situa­zione storica come in Spagna; essa è quella che è, una struttu­ra paratattica di dati che sono molto semplici, ma insieme spesso pieni di contraddizioni tra loro e di un’estrema limita­tezza2

Il ciclo bretone coinvolgerà la cavalleria celeste – ordine metafisico –, assente nelle imprese di Orlando, immerso nell’ordine temporale. All’Augusto virgilia­no – con la mediazione della Comedìa di Dante – si sostituisce l’imperatore Carlo, capo di una nuova pax romana:

Dodici paladini haueua in corte
Carlo e ’l piú sauio e ’l piú famoso Orlando
gran traditore lo condusse a morte
in Roncisualle un tractato ordinando
là doue el corno sonò tanto forte
“dopo la dolorosa rocta quando”
nella sua comedìa Dante qui dice
et méctelo chon Carlo in ciel felice
(El Famoso Morgante I 8)


Orlando preferisce il campo al bosco e al giardino, nella loro esclusiva accezio­ne simbolica. Così nella Queste del Saint Graal3 la reclusa espone la visione dell’intero ciclo bretone:

Lancelot, Lancelot, tant come vos fustes chevaliers des che­valieries terrianes fustes vos li plus merveillex hons dou monde et li plus aventureus. Or premierement quant vos vos estes entremis de chevalerie celestiel, se aventures merveilleuses vos aviennent, ne vos en merveilliez mie.

L’amore per il campo non cancella la trascendenza, ma si riferisce ad un pub­blico alternativo a quello dei capitoli bretoni. Anche la figura-chiave dell’ere­mita, fondamentale nel ciclo graaliano, trova la propria ragion d’essere anche nel ciclo carolingio, ad esempio nell’Entrée d’Espagne:

«Amis – ce dit l’hermite, je su de la mort prés;
Onques [n’]encontrai mais nulle si pesant fés.
Dit t’ai les grant pechiés e cruaus et ingrés
e de cels e des autres sui contrit e confés.
Prant cist pein, si m’an done, puis morrai tot adés.»
(Entrée d’Espagne 15198-15202)


Ma la differenza è nel ruolo: nel ciclo arturiano l’eremita è la guida verticale del­l’ascesa al Divino, nel ciclo carolingio è la guida orizzon­tale della lotta al Saracin felon. Nel ciclo del Graal il nemico è tutto interno4, nel ciclo carolingio l’avven­tura è totalmente dichiarata e agisce verso l’esterno dell’individuo, contro i pagani/ saraceni/ infedeli. La dimensione è di un fondamentalismo cristiano in espan­sione e la sacralità del Re è plausibile col rito sacrificale incarnato da Orlando. Il paladino diviene dunque exemplum del Cristo, ma proprio perché sacrificato nel mondo, egli diviene riferimento per gli uomini che ne sentiranno la storia. Distante, finalmente, dall’ascesi sempre cristiana di Galaad, che ha incarnato Cristo. Queste esigen­ze sono presenti nel Famoso Morgante dove il sacrificio di uno – Orlando – e la redenzione di tutti sono un’espressione cristiana: ora le creature e la redenzione sono connesse una volta per tutte.

Nella Chanson de Roland, le sospensioni della narrazione corrispondono ai tratti più materiali dei personaggi, in cui Orlando – in particolare – è pieno di dolore e ira («Rollant ad doel, si fut malta­lentifs»5). In effetti nel ciclo carolingio le avventure terrene sono ambientate all’interno della corruzione del mondo. Non sarà inutile ricordare che il traditore Gano era stato inviato (su proposta di Orlando) come ambasciatore di Carlo Magno alla corte del re saraceno Marsilio. Così Gano e Orlando sono i due opposti che lottano per rovinarsi a vicenda. Le loro morti sono divaricate: una gloriosa, l’altra infame.
Tra i due opposti umani è in scena la realtà. E l’ago della bilancia, il Pilato della situazione, è Carlo: indeciso di fronte alla proposta – che viene dalla bocca visibilmente ambigua di Gano – di spostare Orlando dall’avanguardia alla retro­guardia dell’esercito in ritirata. Alla fine, il vero scopo del sacrificio di Orlando non è soltanto l’evo­cazione di ciò che è avvenuto all’alba della nuova vita con l’avvento del Messia, ma di ricostruire l’integrità della divinità divisa, com­presa la figura dello stesso sacrificatore, identificato con la divinità e con il sacrificio. Orlando e Gano partecipano alla riunificazione di ciò che è scisso, incarnando i princìpi opposti della realtà. E il lettore sarà coinvolto: potere catartico del­l’opera.

L’intera produzione ciclica deve la propria fortuna all’estrema semplifi­cazione della realtà. Eppure: nessuna caricatura, come può apparire a prima vista. Nemmeno nel Famoso Morgante.
Al contrario: la rappresentazione degli eventi, dopo la riduzione di molte istanze spirituali, ha trovato il motivo principale nel resoconto delle imprese e nelle descrizioni delle varie battaglie. Il Famoso Morgante inserisce le gustose vicende dei nuovi personaggi, extravaganti rispetto alla storia principale. Nella Morte di Orlando, vale a dire negli ultimi cinque canti del poema noto come Morgante, questo gioco viene meno: le tessere sono scoperte e si nota per­fettamente che la loro disposizione è alternata. Alla fine, il quadro testuale riceve un carattere insistito, volutamente apocalittico, e l’uditorio non è più allietato dalle gustose divagazioni: siamo di fronte all’Apocalisse che termina nel Sacrificio di Orlando. La rappre­sentazione del Nuovo testamento dei quattro Vangeli più l’Apocalisse, appunto, contro l’imporsi del neoplatonismo di matrice ficiniana.

Nel 1478 Ercole I d’Este scrive da Ferrara ad un commis­sionario fiorentino: chiede «un libro chiamato Morgante». Nel 1480 è edito un opuscolo intitolato Morgante e Margutte del quale non si conserva copia6. Del 1482 è l’edizione che riporta la seguente rubrica:

QUESTO LIBRO TRACTA DI CARLO MAGNO traducto di latine scripture antiche degne di auctorità et messo in rima da Luigi de’ Pulci ciptadino fiorentino. Ad petitione della nobilissima donna Monna Lucrezia di Piero di Cosimo de’ Medici. Et dallo originale proprio di mano di decto auctore ritracto et gittato in forma a Firenze… Et poichè così si contenta il volgo che e’ sia appellato Morgante derivato da un certo gigante famoso che in molte cose interviene in esso per non opugnare a tanti concedesi che così sia il suo titolo cioè EL FAMOSO MORGANTE.

Il titolo è popolare e sostituisce quello autoriale: Carlo Magno. El Famoso Mor­gante è l’ultimo esempio di una tradizione epica rivolta a celebrare coralmente le gesta degli eroi; nello stesso tempo il poema innesca il rinnovamento della tradizione epica, incentrata sul nome dell’autore. Di solito, la tradizione epica non ha autore, o il nome non sopravvive alla sua opera: se l’opera incarna uno spirito extra­individuale e collettivo – Gilgamesh, Mahabharata, Chanson de Roland – non è necessario che l’autore si distanzi dal suo mondo. Più la sua opera sarà collettiva, più la collettività vivrà in lui.

Anche il Medioevo epico non conosce l’asocialità dell’autore. Molti poemi franco-veneti e toscani non hanno autore, o il loro autore è quantomeno incerto: Spagna in rima e in prosa, l’Entrée d’Espagne, Prise de Pampelune, Li fatti di Spagna, Orlando, Rinaldo da Monte Albano, Uggieri il Danese, Falconetto, ad esempio7. Con El Famoso Morgante il genere subisce una trasformazione: si sposta dalle piazze ai salotti. Di conseguenza, l’anonimato è sostituito dal nome e cognome degli autori: dai Signori si va per chiedere, e chi deve dare ha bisogno di dati certi. Al Pulci andò però male, poiché i Signori oltre a chiedere i dati preten­dono le prestazioni e Pulci era popolare, non esclusivo: piuttosto inclusivo, al pari del genere adottato.
D’ora in poi i nomi sono presenti, come dati bancari: l’Orlando innamorato di Boiardo, l’Orlando furioso di Ariosto, l’Orlandino dell’Aretino, la Gerusalemme liberata di Tasso, L’Italia liberata dai Goti di Trissino.
E Pulci? Sta in mezzo: sia come autore (non si conosce ad oggi il suo effettivo apporto al Cyriffo Calvaneo) sia con la sua opera maggiore, anche se priva di unità:

Chi ben guardi s’avvedrà di leggieri che il Morgante consta di due parti affatto diverse, le quali in nessun modo non si ponno ridurre ad unità. Gli ultimi cinque canti, che si possono assai bene intitolare la rotta di Roncisvalle, non hanno che fare coi primi ventitrè, e nel concetto stesso del poeta tra i casi narrati negli uni e quelli raccontati negli altri, trascorre uno spazio di tempo non minore di venticinque o trent’anni. Gli eroi che noi abbiamo trovato per l’addietro nel fiore dell’età, sono ormai vecchi, e solo per un artifizio del poeta le donne conservano ancora qualche cosa dell’antica freschezza 8.

La ragione del doppio stile sarebbe dovuta ad una doppia fonte: per i primi XXII cantari, il poema anonimo e anepigrafo che Rajna intitolò Orlando; per gli ultimi cinque cantari, La Spagna in rima. Rajna esprime, d’altra parte, la piena autonomia di Pulci rispetto alle fonti:

Insomma quante volte noi troviamo nel Morgante lunghi ragionamenti, possiamo senza timore di errare considerarli come farina schietta del sacco di Pulci. E invero che questa fosse propriamente una tendenza del suo ingegno noi lo vediamo chiaro dall’abbandonarvisi ancor più in quelle parti dove egli stesso in luogo di rifare inventa: lo vediamo, io dico, nei vivacissimi discorsi tra Morgante e Margutte, e in quelli non meno singolari di Astarotte con Malagigi e con Rinaldo negli ultimi canti del poema (op. cit., p. 40).

Dobbiamo solo rettificare la seconda asserzione, per ribaltarla. Pulci non inventa, perché la sua mens è e resta schiettamente medievale: il richiamo a Cecco d’Ascoli è eloquente, fino alle pieghe della polemica tra Pulci e Ficino sull’im­mortalità dell’anima. Una sintonia – aggiungo – umana lega Cecco a Pulci: il pri­mo è autore del sonetto Io non so ch’io mi dica s’io non taccio (cieco non sono e cieco convien farme) corrispondente al sonetto del secondo Sempre la pulcia muor, signore, a torto, entrambi sottovalutati dalla ragioneria accademica. Pulci non inventa, ma ricorre al calco, al tópos epico adespoto, e lo ravviva in ragione della sua umanità, sofferente nell’esclusione. Sono ben note le personalizzazioni topiche, sempre per contrapposizione: contro il re Marsilio (Marsilio Ficino), fautore dell’inganno, combatte Orlando (Pulci), l’innocente da sacrificare9. Il gioco è tanto reale da imporre una divisione netta tra un prima ed un dopo, il bene e il male. In realtà, Domenico De Robertis aveva le sue ragioni:

l’opera del Pulci non consisté nel dare veste e dignità lette­raria alla espressione innocente di un mondo di fantasmi sgor­ganti dal cuore del popolo (questi saranno semmai stati i termi­ni del suggerimento di madonna Lucrezia), bensì nel riscattare giorno per giorno dal tedio dell’abitudine, dalle pastoie delle formule, dalla prolissità e dalla generale parificazione un pro­dotto di pura convenzione, di serie si direbbe, costituito di ma­teriali di repertorio ormai istituzionalizzati 10.

Dalla Spagna in rima Pulci riprende la promessa fatta da Orlando in terra d’Aspromonte: restituire la Durlindana a Carlo Magno:

o se tu hai di me nel ciel mercede
come soleui al mondo alma dilecta
rendimi se dio tanto ti concede
ridendo quella spada benedetta
come tu mi giurasti in aspramonte
quando ti fec’ e cavaliere e conte.
(La Morte di Orlando IV 205, 3-8)

Una promessa soltanto? Perché no? Anche il viaggio verso la Terra Promessa si basa sulla fede. E poi:

[…] donna è costì, che forse ascolta,
che mi commise questa istoria prima,
e se per grazia è or dal mondo sciolta,
so che tanto nel ciel n’è fatta stima,
ch’io me n’andrò con l’una e l’altra volta
con la barchetta mia, cantando in rima,
in porto, come io promisi già a quella
che sarà ancor del nostro mare stella
(La Morte di Orlando V 2)


Donna? È Lucrezia Tornabuoni. Eppure nel Salve regina fina­le il Pulci rende esplicitamente omaggio a monna Lucrezia: c’era bisogno di insistere sull’even­tuale committente all’interno della nar­razione? Nel medesimo cantare, alla stro­fa 131, vv. 3-4 è un rife­rimento dantesco: «donna è nel ciel che mi fia sem­pre schermo; / ma non pensai che innanzi al fin morisse». Alla strofa 136, il possibile epilogo:

E s’io ho satisfatto al suo desio,
basta a me tanto e son di ciò contento:
altro premio, altro onor non domando io,
altro piacer che di godermi drento.
E so ch’egli è lassù Morgante mio:
però, s’alcun malivolo qui sento,
adatterà il battaglio ancor dal cielo
in qualche modo, a scardassargli il pelo.


E se Dante è presente, altrettanto lo è Cecco, come è testimoniato dalla seman­tica della strofa 140:

convien che varie cose al mondo sia
come son varii volti e vario ingegno,
e piace all’uno il bianco, all’altro il perso,
o diverse materie in prosa o in verso.


Ma il più presente nel Famoso Morgante è lo stesso Pulci, capace di esprimere l’umanità molto più compiutamente dell’epica che lo pre­cede e che lo seguirà:

E s’io non ho quanto conviensi a Carlo
satisfatto co’ versi e col mio ingegno,
io non posso il mio arco più sbarrarlo
tanto ch’io passi il consueto segno;
e dicone mia colpa, e ristorarlo
aspetto al tempo del figliuol suo degno,
ch’io farò in terra più che semideo,
dove sarà Ciriffo Calvaneo.
(La Morte di Orlando V 129)


E le parole sono sufficienti? L’intero edificio speculativo non può fondarsi sulle supposizioni. Ecco un esempio, certo tra i migliori, rinvenibili in sede critica: “Il Pulci cominciò indubbiamente il rifaci­mento dell’Orlando popolare come un giuoco. In principio non dovet­te avere altro intento che quello, pro­postogli da Lucrezia, di dare veste dignitosamente letteraria a un’opera rozza e ingenua”.
Lasciamo sùbito da parte l’indubbiamente, perché ogni tesi dovreb­be far tesoro del suo opposto, con la leggerezza di Zarathustra. Si è voluto ricondurre il Morgante alla commissione della Tornabuoni: è un fatto certo, ed è certo che Pulci voleva più compiacere il Magni­fico che piacergli.
Benedetta l’assenza dell’autografo, allora. Anzi, di Pulci è incerta anche la bi­bliografia. Dunque: si può tranquillamente disporne a volontà, criticamente ed ecdoticamente: per esempio, ingabbiare Pulci in un regime sintattico e grafico che non gli appartiene. Sì, Pulci è un caso isolato, come Cecco. La normalità? La normalità è Dante, che diventa Duca della poesia; non Cecco, non chi asso­miglia a Cecco.
E così Pulci. Ed ecco, appare la parola magica: iperbato (in realtà raro), che di­mostra tutti i limiti dell’autore. Ma noi amiamo comun­que un popolano che vuole parlare. Lo perdoniamo e lo assolviamo. Ma da che cosa? Chi rileva la pochezza culturale di Pulci ha mai aperto un libro di epica italiana? Facciamolo noi:

Atanto lo sclarito el zorno, e li Lombardi fezeno ponere ban­dere e confanoni sopra le murre, a l’arma lombarda e croxe ver­meglie. Ora se percorse Malzarixe, Isolere e Corsarbrino, e cor­seno alla pyaza con sova zente per la guardare la piaza; e lo re Desiderio, quando avé fornido la porta, corse alla pyaza con sova zente, cridando: “Moira, moira la bruta gesta sarazina!”

L’esempio è tratto da Li fatti de Spagna, cap. XLIII. E così l’Orlando o la Spagna in rima, il Morgante e qualsiasi testo epico sono cano­vacci capaci di permettere gli inserimenti più vari, contemplando anche i più scortesi.
El Famoso Morgante aveva riscosso un successo di pubblico che la seconda parte contraddice. Pulci deve divertire, perché il suo ruolo non è quello di far pensare. Sì, ma – dicevamo – la conoscenza fa tesoro del suo opposto, e così ogni opera. Alla fine, tra la comica e l’epica, Pulci voleva far pensare.

Note

  1. Natalino Sapegno, Storia letteraria del Trecento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1963, p. 387 sgg.
  2. E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. di A. Romagnoli, Torino, Einaudi, 1964, vol. I, p. 113.
  3. Ed. A. Pauphilet, Paris, Champion, 1984, p. 143.
  4. Lancillotto è una figura memorabile, in questo senso: a causa del peccato contratto in precedenza, si trova estromesso dalla conquista ultima dell’avventura.
  5. ed. Joseph Bédier, Paris, Piazza, 1930, v. 2056.
  6. Per una più estesa questione dei rapporti tra il Morgante e i cantari: V. Branca, Il cantare trecentesco e il Boccaccio del «Filostrato» e del «Teseida», Firenze, 1936; G. Mariani, Il Morgante e i cantari trecenteschi, Firenze, 1953; Paolo Orvieto, Pulci medievale, Roma, Salerno editrice, 1978 (utilissime le appendici); Enrico Carrara, Da Rolando a Morgante, Torino, Edizioni de “L’erma”, 1932.
  7. P. Rajna, La materia del Morgante in un ignoto poema cavalleresco del secolo XV, Bologna, Fava e Garagnani, 1869, p. 19.
  8. Si vedano per esempio i passi della Morte di Orlando II 116-117 e IV 41.
  9. D. de Robertis, Storia del Morgante, Firenze, Le Monnier, 1958, p. 94). Cfr. anche Un tópos della tradizione dei cantari e una lacuna dell’Orlando laurenziano, «Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino», 89 (1954-1955), pp. 187-203.

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