Bibliomanie

La concezione del linguaggio di Giambattista Vico e l’opposizione alla cultura francese
di , numero 37, settembre/dicembre 2014, Saggi e Studi,

Come citare questo articolo:
Gaetano Antonio Gualtieri, La concezione del linguaggio di Giambattista Vico e l’opposizione alla cultura francese, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 37, no. 3, settembre/dicembre 2014

1. Lo sfondo storico e le istanze della cultura francese riguardanti il problema del linguaggio

Uno dei problemi che maggiormente giungono a maturazione nel contesto dei secoli XVII e XVIII, suscitando vivo interesse sia sul piano teorico sia su quello delle implicazioni pratiche, è costituito dalla questione del linguaggio e del suo ruolo nell’ambito della conoscenza. Più in generale, nel corso del tempo, il problema della lingua era stato sentito, almeno negli ambienti di livello culturale più elevato, come uno dei più importanti e significativi. Data la complessità del fenomeno linguistico, va chiarito che non è possibile parlarne come se fosse un problema unitario, ma esso ebbe molteplici risvolti e vari piani di discussione. Non a caso, Umberto Eco elenca una serie di problematiche linguistiche sviluppatesi durante i secoli1 ed originatesi dall’assunto che, in primo luogo, con il peccato originale, l’uomo avesse perso la capacità di formulare un linguaggio che fosse capace di esprimere la vera natura delle cose (onomathesia) e, in secondo luogo, che da quel momento si era originata una confusione di lingue alla quale occorreva porre rimedio, ricercando una lingua comune a tutti gli uomini. Le difficoltà dell’impresa furono tali che, ad un certo punto, la ricerca di una lingua che doveva aspirare in qualche modo alla perfezione, si intrecciava con quella più modesta ma non meno ambiziosa di una lingua universale e spesso i due aspetti furono impropriamente confusi2.
In Italia le preoccupazioni che, a livello erudito o sperimentale, investono un po’ tutta l’Europa sulla lingua perfetta e sulla lingua universale, si intrecciano con questioni linguistiche ben più scottanti e urgenti, riassumibili in primo luogo nella ricerca di una lingua comune ed in secondo luogo nel rapporto fra l’italiano e le lingue straniere, in particolare il francese3. Quest’ultimo punto è molto sentito ed è oggetto di numerosi dibattiti che, a loro volta, intersecano temi culturali apparentemente distanti, come ad esempio la querelle des anciens et des modernes, ma che sono legati all’accettazione o meno sia della mentalità razionalista e illuministica sia dei vocaboli provenienti d’oltralpe. È d’altro canto noto che il francese nel Settecento è considerato, almeno negli ambienti di corte, la lingua universale o internazionale per eccellenza4. La colta borghesia che, nei vari Stati italiani, cerca uno spazio per una lingua nazionale, vista come il preludio per il formarsi di una nazione in senso sociale e politico, viene investita dall’interrogativo concernente l’opportunità di accogliere i vocaboli provenienti dal francese o di derivazione francese5. La francesizzazione dell’Italia, in quel periodo, diviene un vero e proprio fenomeno di costume che investe vari settori della società, accompagnandosi alla penetrazione della filosofia cartesiana e illuministica6. In questo contesto si finisce col considerare i neologismi ed i costrutti linguistici importati dalla Francia non come il risultato di una moda o di un capriccio, ma come una necessità storica, conseguente all’influsso di una cultura superiore7. Certamente non si deve pensare che tutti gli intellettuali si uniformino all’entusiastica accettazione dei francesismi; la polemica fra Orsi e Bouhours attesta infatti una certa resistenza ai condizionamenti provenienti dalla Francia8. Tuttavia, nella generalità dei casi vi è uno spirito decisamente favorevole alla penetrazione della cultura transalpina ed una disponibilità a farla propria, sbandierandola come modello di riferimento, al punto che un po’ tutta la vita intellettuale e sociale finisce col modellarsi su quella francese, imitandola persino nei difetti9.
Napoli non è immune dal fenomeno della francesizzazione; lo dimostrano sia la cospicua colonia di cartesiani presenti nella città sia la presenza di personalità che favoriscono tale processo10, non ultima quella di importanti editori francesi, come Raillard, Gravier e Bulifon11. L’attenzione per la cultura francese favorisce l’irrigidimento in chiave logicizzante dei processi linguistici, ragion per cui, anche sul piano del linguaggio, oltre che su aspetti più complessivi, il cartesianesimo in quegli anni va sempre più accentuando una tendenza verso un razionalismo mentalistico ispirato a Malebranche e alle teorie di Port-Royal, manifestando l’esigenza di restaurare una metafisica nella quale siano compresenti le impronte di Platone e di Malebranche12.
La Logique di Port-Royal fa da sfondo allo svilupparsi e diffondersi della lingua francese in Europa13. La lingua francese, nel XVIII secolo, è vista infatti come la sola lingua parlata capace di mettere in evidenza l’ordine naturale e il carattere logico, impersonale e comunicativo del linguaggio, unitamente alla chiarezza e alla razionalità sintattica, secondo i dettami delle teorie portorealiste14. Il francese, in conclusione, incarnerebbe quell’ideale di pulizia e di sobrietà che, stando a queste teorie, sono quanto di più conforme si possa trovare all’ordine naturale dei pensieri umani e, al tempo stesso, quanto di più distante possa esserci dalla concezione retorica del linguaggio15.

2. La posizione assunta da Vico: dalle Orazioni Inaugurali al De Antiquissima italorum sapientia

Vico risente fortemente di questo clima culturale improntato alla accettazione della cultura francese. Le lettere al padre De Vitry16 e a Francesco Estevàn17 attestano una insofferenza unita al timore per l’invasione della cultura cartesiana e francese di quel tempo. Certamente non deve passargli inosservato il fatto che la cultura francese avanza anche grazie al dominio della sua lingua. Non si vuole qui sostenere che Vico abbia partecipato attivamente al dibattito linguistico in corso in quegli anni18; si vuole però affermare che il filosofo partenopeo abbia ricevuto dal problema della lingua e, soprattutto, dalla preoccupazione per la sempre più massiccia penetrazione dei francesismi e dei costrutti linguistici francesi, una spinta propulsiva per la sua speculazione filosofica. A preoccuparlo maggiormente sono le implicazioni anti-retoriche insite nella lingua e nella cultura francese del Settecento19.
Nonostante non sia un linguista stricto sensu, Vico prende comunque posizione contro la lingua transalpina, a partire dalla sua prima opera veramente significativa, il De nostri temporis studiorum ratione20. Non è un caso che egli intervenga sul problema del rapporto francese-italiano in un testo nel quale i propositi sono soprattutto di tipo pedagogico. La formazione dell’individuo, infatti, non può prescindere dalle attitudini fantastiche ed immaginifiche dei fanciulli, per i quali è consigliabile tener conto prima della topica e poi della critica. Allo stesso modo è doveroso tenere in considerazione l’indole dei vari popoli, che si forma con le lingue21 e gli italiani, da questo punto di vista, si distinguono per il fatto di possedere «una lingua, che rievoca sempre immagini, […] per cui gli Italiani, dopo gli Spagnoli, sono il popolo più acuto»22. Vico insiste sul fatto che l’italiano è una lingua «acuta» proprio perché è intessuta di procedimenti retorici23 che hanno permesso agli italiani di superare «tutte le nazioni della Terra nella pittura, nella scultura, nell’architettura e nella musica»24, mentre il francese è una lingua ricca «di sostantivi, e di quelli stessi che, come dicono gli scolastici, significano sostanze ‘astratte’»25 ed è quindi poco «acuta» e tutta volta a percepire le sottigliezze dei procedimenti matematici, ma inadatta a comprendere lo svolgimento della vita umana e della società civile. La conclusione del discorso è tutta tesa ad esaltare le doti della topica, che ci consente di cogliere le molteplici sfumature della quotidianità, grazie all’importanza che essa attribuisce al probabile e al verosimile, quando la critica ed il modello cartesiano si soffermano solo sul vero.
Vico è già, nella sua fase giovanile, un pensatore in cui vengono in luce le intersezioni fra i problemi teorici del linguaggio e i problemi della prassi pedagogico-linguistica. Si registra infatti in lui quasi l’impossibilità di tenere ferma questa distinzione, anche se non si è ancora evidenziata quella che sarebbe stata la scoperta della Scienza nuova, vale a dire l’intrinseca retoricità di ogni atto linguistico. Del resto, negli anni in cui scrive il De ratione il filosofo napoletano, nonostante abbia già intravisto i pericoli provenienti dalla cultura francese, non ha ancora costruito un compiuto sistema mirante a contestare i propositi anti-retorici dei filo-gallici. In questo periodo, in effetti, i suoi interessi sono ancora volti ad interpretare la retorica come strumento fondamentale del rapporto fra intellettuali e moltitudine in una chiave sociale e politica.
La retorica, in parte ancora intesa come disciplina dotata di capacità persuasive, deve servire ai sapienti per domare la multitudo, distogliendola dagli errori con la prudentia, evidenziando le principali caratteristiche di una sapienza capace di buona eloquenza che ha a cuore i destini della società civile. Vico si muove, dunque, in questo contesto ancora secondo modalità tradizionali, richiamandosi alle virtù classiche della retorica e a quegli autori, come Cicerone, che avevano posto le basi dello sviluppo della disciplina. Come ha ben intravisto Lia Formigari, in questa fase la retorica vichiana è concentrata sull’efficacia del discorso e sull’incidenza che questo può avere sul piano sociale, per cui «le funzioni del discorso passano attraverso l’irriducibile contrapposizione fra il sapiente e la moltitudine»26 e pertanto una lingua intessuta di strutture retoriche, come l’italiano, può ottenere risultati di tipo civile se solo viene coltivata seguendo le sue specifiche caratteristiche.
Vico sente il bisogno di ribaltare la concezione mentalista – profondamente avversa alla retorica, in quanto non sa coglierne tutta la dimensione sociale – proponendo, per contro, una visione che pone al centro la corporeità nella struttura della mente umana. Nel perseguire questo scopo, egli oppone, sin dalla Prima Orazione Inaugurale (1699), una lettura filosofica della retorica ciceroniana in cui traspare il bisogno di affermare, accanto alla mente, anche il valore del corpo27. La potenza della mente umana evidenzia tutta la sua ricchezza nel momento in cui, anziché ripiegarsi su se stessa, si proietta nel mondo esterno, coinvolgendo la sfera sensoriale e i vari stimoli corporei. La vera divinità della mente si coglie proprio tenendo conto della complessità del suo modo di interagire col corpo; in questo modo emerge pure l’importanza di quelle facoltà, come la fantasia, la memoria e l’ingegno, che sono messe da parte nel momento in cui si concede spazio unicamente alla ragione astratta. Persino la matematica, in un discorso allargato riguardante il linguaggio, non sfugge alla sapienza retorica, dal momento che essa, allo stesso modo del linguaggio naturale, è costituita dalla mente umana, che è comunque sempre caratterizzata dal limite. Vico studia la complessità del linguaggio, sottoponendolo ad una indagine semiotica nella quale il linguaggio matematico e quello naturale vengono mostrati nella loro comune appartenenza alla stessa radice immaginativa28. È insito proprio nella debolezza e nel difetto della mente umana il bisogno di elaborare dei sistemi segnici di carattere empirico che sopperiscano a quelle carenze ontologiche29.
Vico si cala nella profondità dell’universo umano per coglierne le strutturali lacune ontologiche, con le quali l’uomo deve necessariamente misurarsi, se vuole giungere alla conoscenza delle cose. Scopre così una dimensione discorsiva che permette, per esempio, al fisico che «non può definire le cose in conformità con il vero, cioè attribuire a queste la loro intrinseca natura», di definire «i nomi», in modo tale che ad imitazione di Dio possa creare «dal nulla il punto, la linea, la superficie»30. L’universo conoscitivo viene allora reso possibile da una costruzione discorsivo-semiotica fondata sulla dimensione immaginativa, contrapposta ad una metafisica logicizzante e presuntuosa, in quanto incapace di capire i limiti umani.
Alla data corrispondente alla formulazione del De Antiquissima, Vico ha già definito le prime basi gnoseologiche ed epistemologiche mediante le quali opporre un netto rifiuto alla logica mentalistica dei francesi. Egli, tuttavia, ha anche compreso che per opporsi al dilagare del razionalismo deve allargare i suoi propositi e deve ampliare il raggio d’azione della retorica. Le prime avvisaglie di questa intuizione si colgono nella Seconda Risposta al Giornale de’ Letterati d’Italia, nel contesto della quale, parlando di Descartes, Vico dice:

Si dee certamente obbligazione a Renato, che volle il proprio sentimento regola del vero, perché era servitù troppo vile star tutto sopra l’autorità […]. Ma che non regni altro che ’l proprio giudizio, non si disponga che con metodo geometrico. Questo è pur troppo. Ormai sarebbe tempo da questi estremi ridursi al mezzo: seguire il proprio giudizio, ma con qualche riguardo all’autorità; usare l’ordine, ma qual sopportan le cose. Altrimente, s’avvedranno tardi però, che Renato egli ha fatto quel che sempre han soluto coloro che si son fatti tiranni, i quali son cresciuti in credito col parteggiare la libertà; ma poiché si sono assicurati nella potenza sono divenuti tiranni più gravi di quel che oppressero 31.

L’estendersi di queste considerazioni e riflessioni porterà alla svolta successiva del pensiero vichiano, che si compie a partire dagli anni ’20 del XVIII secolo.

3. La posizione assunta da Vico dagli anni ’20 del Settecento in poi

Il principale elemento di novità della filosofia di Vico a partire dal 1720, anno in cui egli scrive il De Uno universi iuris principio et fine uno, è costituito, sul piano metodologico, dalla conquista di un punto di vista genetico. Agisce in lui la convinzione che ogni fenomeno sia conoscibile veramente solo quando venga colto nel suo formarsi32. Vico estende così il discorso da un ambito legato alla quotidianità del presente ad un contesto di carattere storico. Egli probabilmente pensa di poter combattere meglio la cultura razionalista estendendo la sua speculazione fino a toccare le origini dell’umanità. Tuttavia, se Vico avesse mantenuto la concezione imperante al suo tempo, secondo la quale i popoli antichi erano depositari di una antica e arcana sapienza, non avrebbe fatto più di tanto passi avanti rispetto alla fase giovanile. Determinante risulta, infatti, la convinzione che i primi popoli fossero caratterizzati dalla bestialità e dalla ferinità; ciò implica la conseguenza dell’affermazione di un movimento della storia, per mezzo del quale l’umanità non rimane sempre uguale a se stessa, ma subisce dei cambiamenti mentali e fisici. Il dato rivoluzionario di questa concezione è rappresentato dall’aver messo in evidenza: 1) che l’umanità non può essere analizzata prendendo come campione l’individuo singolo, in quanto quest’ultimo modifica le sue caratteristiche nel momento in cui si relaziona al mondo collettivo; 2) che l’umanità è un fatto complesso ed è irriducibile a qualsiasi tentativo di ingabbiarla all’interno di semplicistiche definizioni di stampo razionalistico.
La nuova prospettiva nella quale Vico si pone rispetto agli anni del De Antiquissima porta anche ad un cambiamento nella analisi dei procedimenti etimologici, che da seguire un modello “intellettualistico” finisce con il seguire una impostazione di tipo “fantastico”33. Questi cambiamenti fanno registrare pure uno spostamento di interesse dalla sfera semantica alla sfera del diritto e della religione. Da questo momento in poi, per Vico, l’etimologia non si limita più a risalire alle parole originarie, ma diventa una chiave ermeneutica del processo storico, potendo ricostruire, mediante le trasformazioni semantiche di un termine, le diverse fasi della civiltà34. Rispetto al De Antiquissima, quindi, in cui Vico risale direttamente ad una matrice originaria, dal De Uno in poi il filosofo napoletano intende l’etimologia come un processo che segue il cammino diacronico delle parole, tenendo a mente che tale cammino deve procedere parallelamente con il grado di sviluppo mentale degli uomini nelle diverse fasi storiche.
La ricerca tradizionalmente più diffusa, nel campo etimologico, è quella che procede, metodologicamente parlando, dall’identico all’identico, cioè per accostamenti verbali fondati sulla somiglianza delle radici35. In realtà, secondo Vico, tutto questo ignora che la storia umana ci pone di fronte a forti trasformazioni istituzionali e linguistiche, che rendono molto problematica l’identità fra gli uomini di varie epoche e rendono necessaria l’integrazione con un più difficile, ma anche più realistico, principio di diversità. Ragion per cui, se ci proiettiamo in un’epoca remota non possiamo presumere di trovare là un termine linguistico equivalente a quello della nostra epoca. Vico parte appunto dall’ipotesi che oltre un certo limite temporale non esista più un linguaggio articolato simile al nostro, anche perché non esiste ancora una mente strutturata secondo procedimenti logico-discorsivi. L’etimologia, perciò, non deve fornirci la storia della parola come se l’originaria radice fosse passata da un significato all’altro fino a giungere all’attuale e ognuno di questi significati transitori potesse essere espresso da qualche altro dei nostri termini36. Per quanto possa esservi, infatti, una naturale consequenzialità terminologica che si richiama ad una comune radice, nel passaggio da un periodo storico all’altro il divario fra il mondo moderno ed il mondo oscuro delle origini è tale da non permettere di azzardare ipotesi di continuità, sul piano etimologico, se per etimologia intendiamo un accostamento fra parole accomunate da una certa rispondenza fonica. Tra il parlare prosaico dell’era moderna e il parlare poetico delle origini vi è una diversità così profonda che non può essere colmata con ipotesi riguardanti una comune radice fonetica.
L’attenzione per le etimologie, a partire dal 1720, si potenzia anche in virtù della ormai acquisita necessità di ampliare la retorica, includendo in essa l’unione del vero col certo attraverso il gemellaggio fra filosofia e filologia. Il certum consiste nelle manifestazioni storiche che si susseguono determinando il corso della storia nella sua dinamica concretezza. L’immissione del certum nell’indagine vichiana produce proficui cambiamenti anche sul piano linguistico. In particolare nell’opera successiva al De Uno, il De Constantia, Vico potenzia quella particolare analisi del linguaggio secondo la quale lingua e poesia, originariamente, si identificano e non sono distaccate come voleva la tradizione37.
L’unificazione dell’origine delle lingue e dell’origine della poesia mette in risalto le facoltà extra-razionali, come l’ingegno, la cui caratteristica essendo quella di stabilire somiglianze ed unificare ciò che è distante, consente di correlare il linguaggio con la spiegazione dei fenomeni e di far sì che espressione e spiegazione siano tutt’uno. Nel De Constantia Vico organizza un sistema ordinato intorno al principio che il dato poetico è qualificante in antitesi al dato logico-razionale. La poesia primordiale, in quanto linguaggio creativo, operante mediante tropi e immagini, è ben al di là di una struttura linguistica formalizzata, anche perché il linguaggio originario è un linguaggio muto, determinato dai gesti, dalle azioni e dalla mimica e pertanto esso è un sistema di segni più che un linguaggio parlato.
L’innovazione vichiana riguardante la formazione del linguaggio è stata ben inquadrata da Jürgen Trabant che, nel confrontare Vico con Cartesio, sostiene che «[l]a scoperta vichiana è la svolta linguistica della filosofia cartesiana, mediante la quale alla res extensa e alla res cogitans viene aggiunta una terza res, una res linguistica, che media tra le due sostanze. […]. Qui è già chiaro che la favella – o lingua o parlare (non è stato possibile stabilire alcuna differenza tra questi termini) – non è tanto linguaggio nel senso del linguaggio fonico, bensì è “semiosi” nel senso più ampio dell’espressione moderna»38. Il primo pensiero umano, in altri termini, fu una grandezza semiotica nella quale idea e significante materiale non erano ancora separati, per cui il segno poetico è una unità corporeo-spirituale. Il parlare, per Vico, è pensare e comunicare, ed è un volgersi all’esterno della significazione. Di conseguenza, il linguaggio nasce come sistema di segni che si incide nel pensiero umano; non a caso, per sottolineare questa caratteristica, Vico usa il termine carattere poetico, con il quale egli intende evidenziare la forza dei segni usati dai primitivi, una forza che è analoga ai veri e propri caratteri della scrittura moderna.
La principale innovazione della concezione vichiana del linguaggio consiste nel pensare che quest’ultimo sia una attività formatrice39. Nel momento in cui gli uomini primitivi vengono scossi dalla visione del primo fulmine e dal fragore assordante del primo tuono, essi non reagiscono percependo la realtà per come si era manifestata, ossia nuda e cruda, ma interpretandola come manifestazione di una entità sovrannaturale. In un certo senso, anticipando la concezione cassireriana di simbolo40, Vico sostiene che il linguaggio, in stretta unione col pensiero, sia una attività spirituale che dà luogo ad una autonoma configurazione simbolica della realtà. Ciò che chiamiamo realtà non è infatti qualcosa di semplicemente dato, ma è sempre il risultato di una complessa strutturazione simbolica e di conferimento di senso. La logica portorealista e cartesiana viene sovvertita in quanto, nella speculazione del pensatore partenopeo, la percezione di un “dato” non si limita ad una mera ricezione passiva di ciò che lo costituisce, ma si traduce in una attività costruttrice di ampi e forti significati. In altre parole, la sensazione e la percezione si trasformano in espressione41.
Si scardina così la teoria secondo la quale il linguaggio sia solo frutto di una convenzione sorta per scopi solamente comunicativi. Per poter affermare con forza questa idea, Vico deve presupporre che gli albori della storia vedano all’opera uomini dotati di scarsissima razionalità e privi della capacità di porre delle convenzioni. Il linguaggio è enérgeia, ossia attività vivente e storica, soggetta a mutazioni frutto delle umane necessità, e non érgon, cioè opera compiuta una volta per tutte. Il fondamento del linguaggio non va pensato in modo statico, come se fosse un a priori invariante, ma va rintracciato nel processo attraverso cui la funzione linguistica si manifesta e si arricchisce, percorrendo stadi via via più complessi di realizzazione del suo carattere simbolico e articolandosi attraverso diversi sistemi linguistici, da quelli primitivi a quelli più evoluti, ciascuno dei quali costituisce un particolare punto di vista sul mondo.
Vico ha in mente sia di rintracciare l’origine dell’espressione umana sia di cogliere lo sviluppo e l’evoluzione dei linguaggi dell’uomo. La formulazione di queste istanze lo porta a costruire una struttura semiotica che, a tutta prima, potrebbe parere esclusivamente di tipo diacronico, come sottolinea Eugenio Coseriu, che nella sua interpretazione ha insistito sulla lettura diacronica del linguaggio vichiano, mettendo in guardia da una interpretazione «funzionale»42. Quest’ultimo aspetto viene colto soprattutto da Antonino Pagliaro che, concentrandosi sul capoverso 446 della Scienza nuova del 1744, spoglia la teoria linguistica vichiana del suo carattere diacronico, per ridurla ad una sorta di origine eterna o verità eterna che, avvicinando Vico a Kant, darebbe vita ad una origine trascendentale delle lingue e della semiosi43. Tuttavia, come suggerisce Trabant, sarebbe opportuno eseguire una lettura che tenga insieme contemporaneamente le due prospettive. Infatti, nell’esaminare la XIV degnità, Trabant, a differenza di Coseriu, non legge questo assioma nel senso che l’esame della natura di una cosa si risolve completamente nel racconto della sua genesi, assimilando il tutto alla prospettiva diacronica, ma ritiene «legittimo leggere questo principio come se il nascimento venisse “superato” nella natura. È pur vero che l’esame funzionale dovrà ricorrere alla storia in modo che la natura trovi spiegazione a partire dalla storia; l’esame della natura resta tuttavia funzionale»44. Trabant, inoltre, non ritiene di escludere del tutto la prospettiva funzionalistica anche perché, in linea di massima, nel XVIII secolo le teorie sulla formazione dei linguaggi non poggiavano su documenti del passato che testimoniavano storicamente lo sviluppo linguistico dell’uomo, ma al contrario si fondavano su una conoscenza sincronico-funzionale del linguaggio, proiettata su una sorta di diacronia congetturale45.
Il processo linguistico si sviluppa in tre tappe fondamentali, rispecchianti la scansione in età degli dèi, età degli eroi, età degli uomini, in cui si passa da una massima aderenza al mondo sensibile, ossia da una fase mutola46, a una fase di più libera espressione dei significati. All’inizio di questa progressione si passa dal gesto imitativo47 al suono articolato e poi da un suono di tipo onomatopeico a un linguaggio che esprime, mediante opportuni suoni, rapporti di luogo, di spazio e necessità varie, fino a superare una dimensione puramente mimetica e analogica per conquistare una più libera funzione simbolica.
Soprattutto nelle prime due fasi della storia il segno e il significato del linguaggio sono strettamente uniti. Il segno sensibile non è un puro involucro esteriore, non funge da semplice veicolo di comunicazione di un significato autonomo: quest’ultimo infatti può costituirsi solo per il tramite del segno. D’altro canto, il segno non esiste indipendentemente dal significato, ma solo in quanto viene investito di un significato vero e proprio. Non si dà quindi soltanto una stretta correlazione fra contenuto e segno, ma anche una certa produttività dello spirito umano rispetto alla sensibilità.
Il primo pensiero o linguaggio è l’universale fantastico che si configura come la realizzazione mentale di un’immagine potente che assorbe al suo interno altre immagini potenzialmente affini. Proprio per la materialità dei significanti – cenni o corpi – e per la peculiarità dei rapporti fra significanti e significati, definiti “naturali” da Vico, questa prima lingua, o semiosi che dir si voglia, risulta la più difficile da comprendere ed è al tempo stesso la più importante per capire la radice dei processi mentali umani.
I corpi sono oggetti già dati in natura, cui vengono attribuiti specifici significati che consentono di erigere quei corpi al rango di segni, che sopperiscono alla mancanza di un linguaggio articolato e di una capacità raziocinante da parte degli uomini48.
Il cenno è invece un movimento umano determinato da un indicare con le dita delle mani il corpo o l’oggetto che richiama l’attenzione dei primitivi49. Il cenno, che implica di per sé un’azione corporea, può anche essere accompagnato da una azione più decisa, come per esempio quella che si determina con l’atto del falciare un certo numero di volte, per indicare un certo numero di anni50 e pertanto produce una metodologia comunicativa che coinvolge tutto il corpo dell’uomo, dando vita ad una sorta di mimica che, a lungo andare, può produrre anche una sorta di danza, anch’essa fortemente comunicativa ed espressiva.
La lingua della prima età è anche sacra o divina, in quanto è una lingua fatta di dèi, nel senso che ogni oggetto elevato a segno significativo è, per i primi uomini, una sostanza animata creduta divina. In questo senso essi colgono, nella loro spontanea ingenuità, e pur se sottoposti al giogo della paura, il significato più autentico della religiosità51, anche se la loro è una religione idolatrica e pagana52. Un’altra caratteristica del pensiero vichiano, allora, consiste nell’aver sostenuto che il primo linguaggio dell’umanità non solo è costituito da gesti e immagini, ma anche che esso è strettamente congiunto con il senso del divino.
Gli universali fantastici della prima età sono le dodici divinità delle «genti maggiori», mentre le figure più emblematiche della seconda età sono desunte dai poemi omerici. Achille ed Ulisse, in particolare, sono i personaggi mitici che meglio esplicitano le caratteristiche della seconda fase, in cui le regole e le leggi sono stabilite da costumi «collerici e puntigliosi»53 e da un diritto «della forza, ove non sono, o, se vi sono, non vagliono, le umane leggi per raffrenarla»54. Il più consistente cambiamento si ha nel passaggio dalla seconda alla terza età, nella quale la lingua «fu la lingua umana per voci convenute da’ popoli, della quale sono assoluti signori i popoli, propia delle repubbliche popolari e degli Stati monarchici, perché i popoli dieno i sensi alle leggi, a’ quali debbano stare con la plebe anco i nobili»55. Vico fa capire che, con l’avvento dell’età degli uomini, tutto cambia, a cominciare dal fatto che il mezzo privilegiato della comunicazione non è più l’occhio ma la voce56. In questo cambiamento il linguaggio da espressivo-visivo si trasforma in linguaggio articolato, in cui a contare sono soprattutto le parole, che solo a tratti si avvalgono dell’apporto delle immagini.
Il passaggio dalle prime due età all’ultima avrebbe infatti determinato l’introduzione dei linguaggi arbitrari e convenzionali di tipo aristotelico-cartesiano. Vico, tuttavia, ritiene che la convinzione, ormai sedimentatasi nella tradizione, secondo la quale i linguaggi si sono costituiti in base ad accordi convenzionali, non sia del tutto giusta. Se si guardano infatti con attenzione le lingue volgari, si può facilmente intuire come in essi siano presenti quei processi metaforici che i linguaggi convenzionali non hanno eliminato57. Se è vero che i significanti delle lingue moderne variano da Stato a Stato, in base ai costumi e ai climi diversi, è altrettanto vero che alla radice vi sono le stesse necessità e utilità che hanno prodotto analoghi processi mentali58. Se quindi si scava nella profondità dei vari linguaggi, si giunge inevitabilmente alla conclusione che tutti i linguaggi hanno avuto una origine comune, di tipo metaforico-retorico. In base a questa comune origine è possibile ricavare un Dizionario Mentale Comune dell’umanità, che costituisce la base dei procedimenti linguistico-cognitivi di tutta la specie umana59.
Troviamo espresso per la prima volta in forma compiuta il concetto di un «Dizionario di voci mentali comune a tutte le nazioni» nella Scienza nuova del 1725, alla fine del terzo libro, che rappresenta un po’ il nucleo della prima stesura del capolavoro vichiano60. La collocazione stessa fa capire quanta importanza Vico attribuisse al concetto di Dizionario Comune dell’Umanità, e non è un caso che tale aspetto sia ripreso nell’ultima stesura della principale opera del pensatore napoletano, attestandone così la pregnanza filosofica e gnoseologica61.
Nei capoversi 387, 388, 389 della Scienza nuova 1725 Vico, dunque, espone le caratteristiche di questo Dizionario Comune, enumerando dodici «qualità eterne» dei fondatori delle nazioni62. Ciascun popolo e quindi ciascuna lingua hanno messo in evidenza una o più qualità suddette, cosicché, ad esempio, i padri degli ebrei

furono detti «leviti» da «el», che significa «forte». Dagli assiri furono detti «caldei» o sieno sapienti. Da’ persiani detti «maghi» ovvero indovini. Dagli egizi, come ognun sa, «sacerdoti». Si dissero variamente da’ greci ora «poeti eroi» dalla divinazione […] ed «eroi» dalla loro creduta origine di figliuoli degli dèi […] dalla infinita potestà detti «re», col qual aspetto gli ambasciadori di Pirro li riferirono aver essi veduto in Roma un senato di re […]. Alla stessa fatta appunto delle genti latine si dissero «quiriti» o sacerdoti armati d’asta, detta «quir», che sono i cureti saturni osservati in Italia da’ greci63.

L’elenco intende sottolineare il fatto che ogni popolo, in base ad una serie di elementi geografici, climatici, culturali, ha evidenziato uno specifico aspetto dei “padri fondatori”, rimandando però sempre a quelle «umane necessità o utilità comuni a tutte»64, che consentono di stilare l’elenco delle caratteristiche comuni ad ogni nazione. Il carattere messo in evidenza da ciascuna lingua è relativo all’aspetto che maggiormente incarna, in ciascun luogo, il significato di una persona rappresentativa. Dal momento che il carattere precipuo di un popolo è fondamentale per coniare il termine atto a definire il proprio padre fondatore, se ne desume che il momento filologico-empirico è la fonte di queste lingue e che il procedimento utilizzato sia quello induttivo65. Ciò non toglie, tuttavia, che le diverse angolazioni da cui uno stesso concetto viene guardato rimandino ad una comune radice, per cui essi rappresenterebbero i diversi aspetti delle medesime necessità. La diversità dei significanti non è determinata da convenzioni arbitrarie, ma è indotta dalle caratteristiche di ciascun popolo, senza però mai staccarsi dalla radice che ha originato le varie lingue, una radice che è comune a tutti66.
Gli universali fantastici sono la quintessenza del Dizionario Mentale Comune dell’umanità e rappresentano tutto quello che i popoli originari pensavano ed esprimevano. Tuttavia, data la condizione, in un certo senso trascendentale, nella quale Vico si pone67, condizione che trova giustificazione nella «storia ideale eterna», gli universali fantastici rappresentano anche la radice del modo di pensare, di esprimersi e di agire di tutta l’umanità, e quindi anche degli uomini moderni68.
Gli universali fantastici finiscono così con l’attestare la comune matrice “sematogenetica” dell’umanità, nella quale i processi mentali degli uomini sono determinati dalla fantasia, dall’ingegno e dalla memoria, cioè da quelle facoltà che sono connesse con la topica e con la retorica. Gli universali fantastici, del resto, sono partoriti mediante procedimenti di tipo metaforico-metonimico e per associazioni di tipo identitario, nei quali è basilare l’apporto della «topica sensibile»69. La favola di Giove, infatti, si costituisce nel momento in cui i poeti teologi del mondo primitivo, con sublime trasporto della loro fantasia, fanno di un corpo inanimato una sostanza vivente70.
Il Dizionario Mentale Comune dell’umanità costituisce, pertanto, la risposta più significativa alle teorie cartesiane, portorealiste e più in generale alla cultura francese del tempo, in quanto dimostra che la radice del pensiero e del linguaggio umano è costituito non dalla ragione, ma dalla topica71. Di conseguenza, l’ordine naturale del linguaggio non è quello della Grammatica Logica di Port-Royal, ma è quello rappresentato dal Dizionario degli universali fantastici (o miti originari), espressione dei processi mentali dei tropi, che sono fra gli elementi costitutivi della retorica, disciplina sottovalutata e disprezzata dai francesi e dalla filosofia moderna72.
Nel risalire alle origini del mito, noi uomini moderni riusciamo a dare, secondo Vico, anche una spiegazione plausibile intorno alle motivazioni che hanno originato il linguaggio. A differenza di altri pensatori che nel Settecento si posero lo stesso problema, per Vico il fattore scatenante non è né il bisogno fisico e materiale, come pensa Condillac73, né un bisogno morale, come sostiene Rousseau74. Nell’interpretazione del filosofo napoletano i primi uomini sarebbero vissuti nella più totale indifferenza linguistica, conseguente al loro stato ferino, se non si fossero scatenati gli elementi naturali che con forza prorompente scossero i primitivi e li indussero a reagire, mettendo a frutto le poche risorse mentali e corporee da essi possedute.
L’uomo primitivo di Vico non è indotto dalla fame o dalla sete e tanto meno dall’amore a formulare il primo linguaggio. Quest’ultimo nasce, invece, in seguito alla paura delle forze della natura e all’ignoranza, in quanto il primo uomo scambia quelle forze per entità sovrannaturali. Il linguaggio nasce quindi in seguito alla necessità di mettere a fuoco un fenomeno e alla conseguente interpretazione di quel fenomeno. Più che un vero e proprio bisogno materiale e comunicativo, l’uomo dei primordi si crea un proprio linguaggio in seguito alle limitate capacità cognitive che, non consentendogli di mettere a fuoco la vera essenza di un fenomeno, sono equilibrate da quell’insieme di facoltà fantastiche e ingegnose che portano ad immaginare l’esistenza di un essere superiore.
Le motivazioni originarie del linguaggio sono, allora, determinate da un complesso insieme di fattori, in cui giocano un ruolo condizionante l’ignoranza e la situazione psicologica in cui vivono i primi uomini. L’uomo primitivo vichiano incomincia ad esprimersi non a causa di un vero e proprio bisogno, ma in conseguenza di processi mentali che attivano naturalmente il linguaggio75. In questo modo Vico dimostra che il linguaggio è qualcosa di molto complesso, che non può essere analizzato e spiegato solo in base ad una semplice esigenza comunicativa76.
È pertanto inutile tentare di dimostrare logicamente i processi linguistici, dal momento che essi, data la loro complessità, possono trovare una spiegazione solamente se ci si cala nella profondità di meccanismi mentali che nulla hanno a che fare con la sfera razionale e che per poter essere capiti necessitano della fantasia, dell’ingegno e della memoria, cioè di quelle facoltà che presiedono alla fondazione della retorica77.

Note

  1. U. Eco, La ricerca della lingua perfetta, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 8-10.
  2. Ivi, p. 83.
  3. M. Puppo, Critica e linguistica del Settecento, Verona, Fiorini, 1975, p. 23.
  4. Si vedano le riflessioni di F. Brunot, Histoire de la langue française, VIII, Paris, Colin, 1934-1935 [reprint 1966]. Scrive in proposito Andrea Dardi: «[I]l vuoto lasciato dall’atrofizzarsi del latino in settori sempre più periferici o attardati dello scibile venne in effetti riempito dalle lingue nazionali, ma il francese incarnò per tutti, al di là di quelle, lo spirito del nuovo cosmopolitismo culturale, permettendo un’effettiva circolazione del sapere». A. Dardi, Uso e diffusione del francese, in L. Formigari (a cura di), Teorie e pratiche linguistiche nell’Italia del Settecento, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 348.
  5. Un resoconto del problema viene offerto da A. Schiaffini, Aspetti della crisi linguistica italiana del Settecento, in T. De Mauro, P. Mazzantini (a cura di), Italiano antico e moderno, Milano-Napoli, Ricciardi, 1975, pp. 129-165.
  6. G. Folena, L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Torino, Einaudi, 1983, pp. 5-66; S. Gensini, Elementi di storia linguistica italiana, Bergamo, Minerva Italica, 1985, pp. 238-280: Benedetto Croce ha scorto, d’altro canto, la ragione vera del francesismo settecentesco, da noi e altrove, «nel nuovo pensiero francese, che informò di sé la letteratura, la cultura, la società e che diè autorità alla lingua francese e finanche alle fogge del vestire». B. Croce, Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, Laterza, 1931, p. 217; Id., Uomini e cose della vecchia Italia, Bari, Laterza, 1927, pp. 213 e sgg.
  7. M. Puppo, Riflessi culturali delle polemiche linguistiche settecentesche, «Nuova Antologia di lettere, arti e scienze», anno 92°, fasc. 1878, giugno 1957, p. 219.
  8. Sulla polemica Orsi-Bouhours si vedano, fra gli altri, i seguenti testi: G. Toffanin, L’Arcadia, Bologna, Il Mulino, 1947; M. Fubini, Stile e umanità di G.B. Vico, Milano-Napoli, Ricciardi, 1965, pp. 135-146; C. Viola, Muratori e le origini di una celebre ‘querelle’ italo-francese, in E. Elli, G. Langella (a cura di), Studi di letteratura italiana in onore di Francesco Mattesini, Milano, Vita e Pensiero, 2000, pp. 63-90; Id., Tradizioni letterarie a confronto. Italia e Francia nella polemica Orsi-Bouhours, Verona, Fiorini, 2001; A. Cottignoli, ‘Antichi’ e ‘moderni’ in Arcadia, in Aa.Vv., La Colonia Renia. Profilo documentario e critico dell’Arcadia bolognese, II, Modena, Mucchi, 1988, pp. 53-69; E. Graziosi, M.G. Accorsi, Da Bologna all’Europa: la polemica Orsi-Bouhours, «La rassegna della letteratura italiana», 93 (1989), 3, pp. 84-136; S. Gensini, Volgar favella. Percorsi del pensiero linguistico italiano da Robortello a Manzoni, Firenze, La Nuova Italia, 1993, pp. 51-97; F.P.A. Madonia, Osservazioni in margine alla polemica Orsi-Bouhours, «Esperienze letterarie», 23 (1998), 1, pp. 77-89.
  9. Non devono sfuggire, al riguardo, le osservazioni del Magalotti che sottolinea «il grand’affannarsi di tutte [le nazioni] a cercar d’imitare quella [la Francia] nell’abito, nel portamento, nei gesti, nella lingua, nelle maniere, insomma sto per dire insino nei difetti». L. Magalotti, Lettere scientifiche ed erudite, Venezia, Occhi, 1740, pp. 40-41. Cfr. pure A. Dardi, L’influsso del francese sull’italiano tra il 1650 e il 1715, «Lingua nostra», vol. XLI, fasc. 1, marzo 1980, pp. 1-19; 57-68; 120-135. Per un inquadramento generale, riguardante l’influenza della cultura francese su quella italiana e in senso più allargato i rapporti fra Italia e Francia fra XVII e XVIII secolo, si veda F. Waquet, Le modèle française et l’Italie savante (1660-1750), Roma, Ecole française de Rome, 1989. Sull’imitazione dei costumi provenienti dalla Francia esiste una vasta letteratura; sulla moda, ad esempio, si veda R. Levi Pisetzki, Il costume e la moda nella società italiana, Torino, Einaudi, 1978, in particolare cap. IV.
  10. E. Nuzzo, Tra ordine della storia e storicità. Saggio sui saperi della storia in Vico, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2009.
  11. A. Dardi, Uso e diffusione del francese, cit., pp. 353 e sgg.; B. Croce, Aneddoti di varia letteratura, Bari, Laterza, 1953, pp. 299-305; N. Cortese, Cultura e politica a Napoli dal Cinquecento al Settecento, Napoli, ESI, 1965, pp. 185-220; Id., Antonio Bulifon editore e cronista napoletano del ’600, Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, 1932; P. Pironti, Bulifon-Raillard-Gravier editori francesi in Napoli, Napoli, Lucio Pironti Editore, 1982; G. De Caro, DBI (Dizionario Biografico degli Italiani), Napoli, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1965, pp. 57-61.
  12. >A. Pennisi, La linguistica dei mercatanti. Filosofia linguistica e filosofia civile da Vico a Cuoco, Napoli, Guida, 1987, p. 25; E. Garin, Storia della filosofia italiana, vol. II, Torino, Einaudi, 1966, pp. 864-865.
  13. R. Simone (a cura di), Grammatica e logica di Port-Royal, Roma, Ubaldini, 1969.
  14. Mario Puppo sostiene che «[f]ra i problemi più vivacemente dibattuti nelle polemiche linguistiche, in Francia e in Italia, nel Settecento è quello della costruzione ‘naturale’ della frase. La mentalità razionalistica credeva di trovare nella costruzione ‘diretta’ (soggetto-verbo-complemento) il riflesso dell’ordine logico del procedimento naturale della ragione. E perciò esaltava il francese, che a tale costruzione è legato, come la lingua logica per eccellenza, come la lingua della ragione e della verità, contrapponendola ad altre lingue, quali l’italiano e lo spagnuolo e ancor più le lingue classiche, che sono più libere rispetto all’ordine delle parole nella frase e pertanto sono dominate non dalla ragione, ma dalla immaginazione e dal sentimento». M. Puppo, Appunti sul problema della costruzione della frase nel Settecento, «Bollettino dell’Istituto di Lingue Estere», 5, 1957, p. 76. Cfr. A. Schiaffini, Aspetti della crisi linguistica italiana del Settecento, cit., pp. 133-135; M. Fubini, Arcadia e Illuminismo, in Problemi e orientamenti critici di lingua e di letteratura italiana, collana diretta da A. Momigliano, III (Questioni e correnti di storia letteraria), Milano, Marzorati, 1949, pp. 547 e sgg.; F. Brunot, Histoire de la langue française, cit., tomo IV, parte II.
  15. Interessanti risultano, a questo riguardo, le riflessioni di Aldo Scaglione: «I grammatici, che vennero ad essere designati come logiciens, si appellavano direttamente al razionalismo cartesiano […]. Descartes aveva postulato una facoltà a priori del pensiero, l’intelletto puro, situato nello spirito o anima che erano per lui nettamente separati dal corpo. Il pensiero era dunque un processo di astrazione operante sulla base delle forme trasmesse all’intelletto dai sensi corporei attraverso gli intermediari dell’immaginazione e delle passioni. […]. I logiciens […] sostenevano che il processo di espressione e comunicazione si fonda sull’astrazione, operata dalla ragione, dalle idee, componenti singoli e divisibili del pensiero, dall’insieme unitario e indivisibile di un dato pensiero. Questo processo è implicitamente assoggettato al metodo analitico. L’analisi è poi resa esplicita nell’identificazione che il grammatico-filosofo fa delle componenti logiche e del loro ordinamento reciproco. Questo ordinamento, aspetto importante del processo globale di espressione, è anch’esso un prodotto della ragione, quindi è soggetto alla regola fissa che ogni componente deve mostrare il suo rapporto con tutti gli altri, e questo ordine, che si chiama analitico, è sempre identico a se stesso, valido in tutti i tempi e per tutte le lingue. Quando una lingua se ne discosta commette una violazione della regola. La frequenza di tali violazioni è in proporzione inversa del livello di perfezione raggiunto da quella lingua. Il francese è la lingua più avanzata e più perfetta perché è quella che esita più di tutte a staccarsi dall’ordre analytique». A. Scaglione, Ragione contro retorica: la rivolta degli stilisti nel Settecento in Francia e in Italia, «Spicilegio moderno», 5, 1976, pp. 56-57.
  16. «I filosofi hanno intiepiditi gli ingegni col metodo di Cartesio, per lo qual, solo paghi della loro chiara e distinta percezione, in quella essi senza spesa o fatiga ritrovano pronte ed aperte tutte le librarie. Onde le fisiche non più si pongono a cimento, per vedere se reggono sotto l’esperienze; le morali non più si coltivano, sulla massima che la sola comanda taci dal Vangelo sia necessaria; le politiche molto meno, approvandosi da per tutto che basti una felice capacità per comprendere gli affari ed una destra presenza di spirito per maneggiarli con vantaggio». G.B. Vico, Lettera al Padre De Vitry, gennaio 1726, in M. Sanna (a cura di), Epistole con aggiunte dei suoi corrispondenti, Napoli, Morano, 1993, p. 132.
  17. «la più parte de’ Dotti d’oggidì fervono in Studi, che soli reputan severi, e gravi, e di Metodi, e di Critiche. Ma metodi che disperdon affatto l’intendimento». Id., Lettera a Padre Francesco Estevàn, gennaio 1729, in M. Sanna (a cura di ), Epistole con aggiunte dei suoi corrispondenti, cit., p. 143.
  18. Si pensi a quanto afferma Mario Puppo, per il quale «[l]e polemiche linguistiche del Settecento in Italia non si svolgono su un piano filosofico molto elevato […]. Solo marginalmente sfiorò i temi della polemica colui che diede nel Settecento la più alta speculazione sul linguaggio: Giambattista Vico». M. Puppo, Riflessi culturali delle polemiche linguistiche settecentesche, cit., p. 217; si vedano in merito anche le osservazioni di U. Eco, La ricerca della lingua perfetta, cit., pp. 226-244.
  19. Interessanti riflessioni sono contenute in C. Viola, Tradizioni letterarie a confronto, cit., p. 347.
  20. In realtà Vico era intervenuto sulla questione già qualche anno prima, nel 1704-1706, in un passo inserito nelle Institutiones Oratoriae, in cui, a proposito della polemica Orsi-Bouhours, si fa parola di un «doctissimus anonymus italus in observationibus ad Galli item librum in scriptum». In questo testo, Vico riprende un problema posto da Orsi, se cioè le due specie di pensieri ingegnosi imperniati sul verosimile abbiano l’una per oggetto il falso che pare vero, e l’altra il vero che pare falso. Vico nega la ragion d’essere di questa divisione, poiché «[n]am tum in symbolo, tum in paradoxo una est ratio veri pulchrique detegendi». G.B. Vico, Institutiones Oratoriae, testo critico, versione e commento di G. Crifò, Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa, 1989, p. 190-210. Cfr. in proposito S. Gensini, L’identità dell’italiano. Genesi di una semiotica sociale in Italia fra Sei e Ottocento, Casale Monferrato, Marietti, 1987, p. 21.
  21. «Quare, si eius disputationis, summis dignae philosophis, illa pars vera est: linguis ingenia, non linguas ingeniis formari, hanc novam criticam, quae tota spiritalis videtur, et analysim, quae matheseos subiectum, quantum ex se est, omni prorsus corpulentia exuit, uni in orbe terrarum Galli vi suae subtilissimae linguae excogitare potuerunt». G.B. Vico, De nostri temporis studiorum ratione, in C. Faschilli, C. Greco, A. Murari (a cura di), Giambattista Vico. Metafisica e metodo, Milano, Bompiani, 2008, pp. 104-105.
  22. Ibidem.
  23. Cfr. C. Viola, Tradizioni letterarie a confronto, cit., p. 56.
  24. G.B. Vico, De nostri temporis studiorum ratione, cit., p. 105.
  25. Ivi, p. 103.
  26. L. Formigari, Filosofia linguistica, eloquenza civile, senso comune, in Ead. (a cura di), Teorie e pratiche linguistiche nell’Italia del Settecento, cit., p. 63.
  27. «Si avanzi il più eloquente dei sapienti, il più sapiente degli oratori, Cicerone, e, con quel suo nobilissimo parlare, spieghi la divina forza di quel detto: “Conosci te stesso – egli dice – significa questo: conosci l’animo tuo! Infatti il corpo è come un vaso o un qualche ricettacolo dell’animo; qualsiasi cosa vien fatta dall’animo tuo, vien fatta da te […]. Tu dirai però: grande sforzo dell’ingegno è staccare la mente dai sensi e distogliere il pensiero dalla consuetudine. E sia. Ma certo i profitti sono normalmente tanto più grandi quanto più lo sono gli sforzi. Raccogliti e impara a conoscere te stesso, il tuo animo, ed ammetti quanto, se tu non ti inganni, riconosci in esso di poco comune, ammirevole e nobile. Ma l’acutezza della mente, che tutto penetra a fondo, si offusca allorché contempla se stessa […]. L’animo è una chiara immagine di Dio; esso è nel corpo così come Dio è nel mondo». G.B. Vico, Orazioni Inaugurali, in P. Cristofolini (a cura di), Opere filosofiche, Firenze, Sansoni, 1971, pp. 708-711.
  28. A. Pennisi, «Numerare» e «discorrere» nella tradizione italiana del verum-factum, in D. Di Cesare, S. Gensini, Le vie di Babele. Percorsi di storiografia linguistica (1600-1800), Casale Monferrato, Marietti, 1987, p. 39.
  29. G.B. Vico, De Antiquissima italorum sapientia, in C. Faschilli, C. Greco, A. Murari (a cura di), Giambattista Vico. Metafisica e metodo, cit., pp. 202-203.
  30. Ibidem.
  31. G.B. Vico, Seconda Risposta al Giornale de’ Letterati d’Italia, in P. Cristofolini, Opere filosofiche, cit., p. 167.
  32. «Natura di cose non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che son tali, indi tali e non altre nascon le cose». G.B. Vico, Principi di Scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, d’ora in poi Scienza nuova 1744, in A. Battistini (a cura di), Giambattista Vico. Opere, Milano, Mondadori, 2007, p. 500, cpv. 147.
  33. A. Battistini, La degnità della retorica. Studi su G.B. Vico, Pisa, Pacini, 1975, p. 107.
  34. Ivi, pp. 109-110. Pregne di significato sono anche le affermazioni di Vincenzo Vitiello, per il quale Vico, «se nel De Antiquissima analizza il significato delle parole, nella Scienza nuova, invece, si sofferma sull’origine delle parole. […] certo nella Scienza nuova non abbandona la ‘vecchia’ etimologia, ma certo ora il suo interesse è vòlto altrove: a individuare la radice ‘naturale’, sensibile, corporea della parola». V. Vitiello, …Quell’innata propietà della mente umana di dilettarsi dell’uniforme…, in G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna (a cura di), Il sapere poetico e gli universali fantastici. La presenza di Vico nella riflessione filosofica contemporanea, Napoli, Guida, 2004, pp. 74-75.
  35. M. Papini, Arbor humanae linguae, Bologna, Cappelli, 1984, p. 335.
  36. Ibidem.
  37. G.B. Vico, De Constantia philologiae, in P. Cristofolini (a cura di), Opere giuridiche, Firenze, Sansoni, 1974, p. 450.
  38. J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 35-36.
  39. Prendo in prestito questa espressione da Ernst Cassirer, il quale sostiene che «la conoscenza, per quanto universalmente e comprensivamente possa prendersi il suo concetto, rappresenta pur sempre, in tutta la comprensione e interpretazione spirituale dell’essere, un singolo genere di attività formatrice. Essa è un’attività che dà forma al molteplice, ed è guidata da un principio specifico, ma al tempo stesso chiaramente e nettamente determinato in se stesso». E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, Firenze, La Nuova Italia, 1961, p. 9.
  40. «Ogni concetto singolo, ogni simulacro e simbolo particolare è simile alla parola articolata di un linguaggio in se stesso significativo ed espressivo, articolato secondo regole determinate». Ivi, p. 19. Relativamente alla possibilità di rintracciare nelle teorie di Vico alcune anticipazioni di “simbolismo cassireriano” si veda, tra gli altri, G. Cacciatore, Simbolo e storia tra Vico e Cassirer, in J. Trabant (a cura di), Vico und die Zeichen. Vico e i segni, Tübingen, Narr, 1995, pp. 257-269.
  41. Vittorio Hösle, cogliendo le caratteristiche fondamentali della concezione del linguaggio in Vico, le sintetizza con queste parole: «Mentre la filosofia tradizionale si concentrava soprattutto sulla funzione rappresentativa del linguaggio, Vico mostra un interesse particolare per la funzione espressiva e per quella appellativa. […] egli considera il linguaggio come una parte costitutiva della cultura umana. L’unità dell’uomo si fonda, per Vico, sul linguaggio: il linguaggio porta a espressione lo spirito e il cuore, anzi media tra lo spirito e il corpo». V. Hösle, Introduzione a Vico. La scienza del mondo intersoggettivo, Milano, Guerini, 1997, pp. 145-146.
  42. E. Coseriu, Die Geschichte der Sprachphilosophie von der Antike bis zur Gegenwast. Eine übersicht, vol. 2, Von Leibniz bis Rousseau, Tübingen, Narr, 1972, pp. 69-128.
  43. A. Pagliaro, La dottrina linguistica di G.B. Vico, «Accademia Nazionale dei Lincei», Roma: «Memorie», Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, serie VIII, fasc. 6, 1959, pp. 379-486; Id., Lingua e poesia secondo G.B. Vico, in Altri saggi di critica semantica, Messina-Firenze, D’Anna, 1961, pp. 299-444; cfr. J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi, cit., pp. 53-56. Il passo vichiano in questione è in G.B. Vico, Scienza nuova 1744, cit., p. 615.
  44. J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi, cit., p. 55; si veda pure quanto afferma in proposito Lia Formigari, peraltro citata dallo stesso Trabant. L. Formigari, Ermeneutica giuridica e teoria della lingua in G.B. Vico, «Intersezioni», VII (1987), I, pp. 53-71.
  45. J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi, cit., pp. 55-56. Una attenta analisi della questione, con la presentazione delle varie posizioni concernenti il dibattito diacronia/sincronia nella concezione linguistica di Vico, è affrontata in R.M. Zagarella, Le tre spezie di lingue nella Scienza nuova di Vico: interpretazione diacronica e funzionale, «Laboratorio dell’ISPF», VI, 2009, 1/2, pp. 20-36; in particolare pp. 28 e sgg.
  46. Antonino Pennisi sottolinea il fatto che l’espressione lingue mutole, nel contesto della Scienza nuova 1744, assume al contempo un valore ontogenetico, filogenetico, morfogenetico, sociogenetico. A. Pennisi, L’ingenium e i segni muti, in S. Gensini, A. Martone (a cura di), Ingenium propria hominis natura, Atti del Convegno Internazionale di Studi (Napoli, 22-24 maggio 1997), Napoli, Liguori, 2002, pp. 281-294; Id., Vico e i segni muti, in J. Trabant (a cura di), Vico und die Zeichen, cit., pp. 179-195. Sull’argomento si sofferma anche R.M. Zagarella, Le tre spezie di lingue nella Scienza nuova di Vico, cit., pp. 23-28.
  47. Secondo Trabant, Vico, sostenendo la tesi dell’unione di voce e gesti, attribuisce pure un primato cronologico alla “scrittura”. Lo studioso tedesco, infatti, dice: «Con la strana locuzione parlare scrivendo Vico compendia due aspetti differenti della semiosi […]. Parlare significa “comunicare”, “dare segni a qualcuno”, indipendentemente da un determinato medium materiale; gli fa riscontro l’uso generale di lingua. Scrivere significa “produrre segni visivi”, indipendentemente da una precedente lingua verbale articolata e senza nessuna limitazione alla mano in quanto organo dello scrivere». J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi, cit., p. 126.
  48. «Ma essi poeti teologi, non potendo far uso dell’intendimento, con uno più sublime lavoro tutto contrario, diedero sensi e passioni, come testé si è veduto, a’ corpi, e vastissimi corpi quanti sono cielo, terra, mare; che poi, impicciolendosi così vaste fantasie e invigorendo l’astrazioni, furono presi per piccioli loro segni». G.B. Vico, Scienza nuova 1744, cit., pp. 586-587, cpv. 402. Interessanti sono le riflessioni che in proposito formula Gianfranco Cantelli: «I muti atti del corpo, i gesti, i corpi e le loro immagini, non sono affatto i segni che successivamente, in una umanità più progredita, ormai padrona dell’articolazione delle voci, e soprattutto sollevatasi all’astrazione dei concetti, saranno sostituiti dalle nostre parole, ma sono le stesse cose, i contenuti che in seguito, nei nostri parlari articolati, saranno non il linguaggio, ma gli oggetti ai quali si riferirà il linguaggio. Ciò che nel linguaggio muto delle origini è diverso, è soprattutto la relazione che intercorre fra il segno e ciò che con il segno viene detto». G. Cantelli, Mente Corpo Linguaggio. Saggio sull’interpretazione vichiana del mito, Firenze, Sansoni, 1986, p. 91.
  49. «Così Giove, Cibele o Berecinzia, Nettunno, per cagione d’esempli intesero e, dapprima mutoli additando, spiegarono esser esse sostanze del cielo, della terra, del mare, ch’essi immaginarono animate divinità, e perciò con verità di sensi gli credevano dèi». G.B. Vico, Scienza nuova 1744, cit., p. 586, cpv. 402.
  50. Ivi, p. 602, cpv. 431.
  51. Luigi Pareyson sostiene che «[l]a superba pretesa di attingere la divinità con puri concetti è controproducente, e allontana e respinge ciò che si vorrebbe cogliere e penetrare, mentre a tal fine riesce ad essere molto più efficace il fascinoso incanto dell’immagine e molto più captante la delicata concinnità del simbolo». L. Pareyson, Filosofia ed esperienza religiosa, «Annuario Filosofico», 1, 1985, p. 20.
  52. G. Cantelli, Mente Corpo Linguaggio, cit., pp. 143-146.
  53. G.B. Vico, Scienza nuova 1744, cit., p. 861, cpv. 920.
  54. Ivi, p. 862, cpv. 923.
  55. Ivi, p. 439, cpv. 32.
  56. «lo sviluppo del linguaggio va da una prevalenza dell’elemento visivo ad una prevalenza dell’elemento acustico […]. Nella prima fase dello sviluppo del linguaggio umano – caratterizzato da “scrittura” e “canto” – è maggiormente presente l’elemento visivo; nella seconda fase tra i due elementi vi è un equilibrio; nella terza, quando il “parlare cantando” si trasforma in linguaggio articolato, la preminenza è assegnata all’elemento acustico». R.M. Zagarella, Le tre spezie di lingue nella Scienza nuova di Vico, cit., p. 34.
  57. «Ma delle lingue volgari egli è stato ricevuto con troppo di buona fede da tutti i filologi ch’elleno significassero a placito, perch’esse, per queste lor origini naturali, debbono aver significato naturalmente. Lo che è facile osservare nella lingua volgar latina […], che quasi tutte le voci ha formate per trasporti di nature o per propietà naturali o per effetti sensibili; e generalmente la metafora fa il maggior corpo delle lingue appo tutte le nazioni. Ma i gramatici, abbattutisi in gran numero di vocaboli che dànno idee confuse e indistinte di cose, non sappiendone le origini, che le dovettero dapprima formare luminose e distinte, per dar pace alla loro ignoranza, stabilirono universalmente la massima che le voci umane articolate significano a placito, e vi trassero Aristotele con Galeno ed altri filosofi, e gli armarono contro Platone e Giamblico, come abbiam detto». Ivi, pp. 612-613, cpv. 444. Cfr. J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi, cit., pp. 84-86.
  58. «La favella poetica, com’abbiamo in forza di questa logica meditato, scorse per così lungo tratto dentro il tempo istorico, come i grandi rapidi fiumi si sporgono molto dentro il mare e serbano dolci l’acque portatevi con la violenza del corso». G.B. Vico, Scienza nuova 1744, cit., p. 592, cpv. 412. Cfr. J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi, cit., pp. 84-86.
  59. Secondo Roberta Martina Zagarella «la constatazione che le tre lingue – degli dèi, degli eroi e degli uomini – compongono il dizionario mentale comune a tutte le nazioni, il quale a sua volta costituisce il vocabolario della Sn44, è un’ulteriore conferma della tesi secondo cui la prospettiva diacronica nella considerazione dell’evoluzione storica delle lingue non è l’unico punto di vista possibile. Le tre lingue sussistono l’una accanto all’altra nel succedersi temporale e concorrono tutt’ora alla formazione dei pensieri e dei ragionamenti umani, tanto da essere utilizzate dallo stesso Vico». R.M. Zagarella, Le tre spezie di lingue nella Scienza nuova di Vico, cit., p. 33.
  60. Anche se, in verità, il tema del Dizionario Mentale Comune è già vagheggiato nel De Uno, sotto forma di un «tentamen etimologici omnium lingua rum communis». G.B. Vico, De Uno universi iuris principio et fine uno, in P. Cristofolini (a cura di), Opere giuridiche, cit., II, CLXX, 1.
  61. «Perciò da noi in quest’opera la prima volta stampata si è meditata un’Idea d’un dizionario mentale da dare le significazioni a tutte le lingue articolate diverse, riducendole tutte a certe unità d’idee in sostanza, che, con varie modificazioni guardate da’ popoli, hanno da quelli avuto vari diversi vocaboli; del quale tuttavia facciamo uso nel ragionar questa Scienza». Id., Scienza nuova 1744, cit., pp. 613-614, cpv. 445.
  62. Id., Principi di una Scienza nuova intorno alla natura delle nazioni per la quale si ritruovano i principi di altro sistema del diritto naturale delle genti, d’ora in poi Scienza nuova 1725, in A. Battistini (a cura di), Giambattista Vico. Opere, cit., pp. 1164-1166, cpvv. 387-389.
  63. Ibidem.
  64. Ibidem.
  65. Trabant dice, infatti, che «il momento filologico-empirico è la fonte di questa lingua “filosofica” che è a quanto pare l’induzione di un universale dal materiale empirico». J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi, cit., p. 100.
  66. G.B. Vico, Scienza nuova 1744, cit., p. 503, cpv. 161.
  67. Auerbach al riguardo dice: «Qui il Vico progetta quello che, nella concezione di fondo, è il più profondo e ardito di quanti vocabolari universali furono ideati nell’epoca barocca: un’impresa che, muovendo da punti di vista filosofico-trascendentali, subordina le speculazioni etimologiche dell’epoca ad un nuovo grandioso contesto giustificativo e teleologico». E. Auerbach, San Francesco, Dante, Vico ed altri saggi di filologia romanza, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 473.
  68. Cfr. G. Modica, Sulla fondazione del linguaggio in Vico, «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», XVI (1986), pp. 335-344.
  69. «dieder a’ corpi l’essere di sostanze animate, sol di tanto capaci di quanto essi potevano, cioè di senso e di passione, e si ne fecero le favole; talché ogni metafora si fatta vien ad essere una picciola favoletta». G.B. Vico, Scienza nuova 1744, cit., p. 588, cpv. 404.
  70. «i poeti teologi immaginarono i corpi essere per lo più divine sostanze». Ivi, p. 585, cpv. 400.
  71. Relativamente a questo aspetto, mi permetto di rimandare a G.A. Gualtieri, Giambattista Vico: dalla metafisica della natura alla “Scienza dell’umanità”, in D. Felice (a cura di), Studi di Storia della Filosofia sibi suis amicisque, Bologna, Clueb, 2013, pp. 252-253.
  72. Si comprende meglio così quel passo della Scienza nuova 1744, in cui Vico scrive: «Insomma non essendo altro l’uomo, propriamente, che mente, corpo e favella, e la favella essendo come posta in mezzo alla mente ed al corpo – il certo intorno al giusto cominciò ne’ tempi muti dal corpo; dipoi, ritrovate le favelle che si dicon articolate, passò alle certe idee, ovvero formole di parole; finalmente, essendosi spiegata tutta la nostra umana ragione, andò a terminare nel vero dell’idee d’intorno al giusto, determinate con la ragione dall’ultime circostanze de’ fatti». G.B. Vico, Scienza nuova 1744, cit., p. 930, cpv. 1045. Vico, cioè, stabilisce uno stretto rapporto fra mente e corpo, per il tramite della «favella», dove per «favella» egli intende non il linguaggio razionale articolato, ma la «favola», l’universale fantastico o mito che dir si voglia. La favella o favola o mito è l’unica componente che possa superare la distinzione fra mente e corpo, quella distinzione che Cartesio riteneva insanabile. Solo l’universale fantastico, perciò, è in grado di restituire la piena integrità dell’uomo ed una conoscenza a tutto tondo delle sue attitudini, delle sue passioni e delle sue capacità.
  73. A proposito del confronto Vico/Condillac si vedano le riflessioni di J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi, cit., pp. 141-144; Id., Cenni e voci. Saggi di sematologia vichiana, Napoli, Arte tipografica editrice, 2007, pp. 45-46, con le quali concordo relativamente alle differenze fra i due pensatori riguardo alle motivazioni che hanno originato il linguaggio. Si prendano in esame, però, anche le riflessioni di Luigi Rosiello che tende invece a porre il confronto sul piano delle somiglianze, piuttosto che su quello delle differenze. L. Rosiello, Le teorie linguistiche di Vico e Condillac, «Forum Italicum», 1968, vol. II, n. 4, pp. 386-393.
  74. Per quanto riguarda il confronto Vico/Rousseau, si considerino, oltre ai già citati testi di Trabant, anche N. Badaloni, Introduzione a Vico, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 87-93; A. Verri, Vico e Rousseau filosofi del linguaggio, «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», IV (1974), pp. 83-104.
  75. «Il bisogno, cui pone riparo la sematogenesi, non è dunque un besoin physique, ma un bisogno del linguaggio stesso, che corrisponde alla natura sociale dell’uomo. La produzione di segni è un processo per porre riparo alla povertà di parole, per soddisfare il ‘naturale’ bisogno sociale-comunicativo. Così in Vico vengono indicate come cause della sematogenesi entrambe le funzioni fondamentali del linguaggio, quella semantico-cognitiva e quella pragmatico-comunicativa». J. Trabant, La scienza nuova dei segni antichi, cit., p. 67; cfr. Id., Cenni e voci, cit., p. 50, in cui lo studioso tedesco riconduce, invece, tutto al solo bisogno cognitivo dell’uomo primitivo di Vico, sostenendo che «[i] segni divini rendono dunque palese che nella sematogenesi umana non si tratta tanto di comunicare con gli altri, quanto di rielaborare un mondo e un’oggettività estranei, trasformandoli in qualcosa che ci appartiene, cioè nella ‘proprietà dello spirito’, come dirà Humboldt. L’origine del linguaggio è in sostanza creazione della cognizione, non della comunicazione».
  76. Stefano Gensini afferma che «[s]e per Cartesio il linguaggio rimaneva lo strumento della comunicazione di una ragione comunque operante, alla quale ultima spettava il distintivo dell’umano, per Vico il linguaggio è anzitutto macchina di significazione, di creazione di senso». S. Gensini, Linguaggio e natura umana: Vico, Herder e la sfida di Cartesio, in G. Cacciatore, V. Gessa Kurotschka, E. Nuzzo, M. Sanna e A. Scognamiglio (a cura di), Il corpo e le sue facoltà, Napoli, «Laboratorio dell’ISPF», 2005, p. 68. Cfr. G. Wohlfart, Vico e il carattere poetico del linguaggio, «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», XI (1981), pp. 84 e sgg.
  77. La concezione secondo la quale la retorica in Vico ha un ruolo generalizzante e non rappresenta un semplice strumento di conoscenza è evidenziata da una cospicua letteratura critica, nell’ambito della quale occorre segnalare quantomeno i seguenti testi: A. Battistini, La sapienza retorica di G.B. Vico, Milano, Guerini, 1995; Id., La degnità della retorica, cit.; M. Mooney, Vico e la tradizione della retorica, Bologna, Il Mulino, 1991; A. Sorrentino, La Retorica e la Poetica di G.B. Vico, Torino, Bocca, 1927; D.P. Verene, Vico. La scienza della fantasia, Roma, Armando, 1984.

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