Bibliomanie

La cucina italiana patrimonio UNESCO?
di , numero 55, giugno 2023, Saggi e Studi, DOI

La cucina italiana patrimonio UNESCO?
Come citare questo articolo:
Massimo Montanari, La cucina italiana patrimonio UNESCO?, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 55, no. 7, giugno 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.10555

1. Un bene immateriale
Attenzione a questa parola: “immateriale”. È la parola-chiave per cogliere il senso della candidatura della Cucina italiana – presentata dal Governo il 23 marzo scorso – a entrare nella “Lista rappresentativa del patrimonio culturale e immateriale” dell’Unesco, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. Questa Lista comprende, secondo la convenzione approvata nel 2003, «le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale», ricreandolo e rivitalizzandolo di generazione in generazione – giacché le identità culturali sono un prodotto della storia, dunque in continua evoluzione. Il dossier di presentazione della candidatura, che sarà valutato dall’Unesco entro il 2024, è stato redatto da un Comitato scientifico da me presieduto; ritengo quindi opportuno condividere i princìpi di fondo che ci hanno ispirato, oltre ad alcune informazioni di natura procedurale. Intanto è utile precisare che queste candidature sono seguite dal Ministero della cultura e presentate all’Unesco direttamente dal Governo; esse tuttavia nascono da richieste dal basso, avanzate da comunità che praticano l’«elemento» (così l’Unesco definisce l’oggetto candidato) e ne chiedono il riconoscimento quale bene culturale. Nel caso della cucina italiana, trattandosi di un «elemento» praticato ovunque nel paese, a farsi promotori della candidatura non sono state specifiche comunità locali bensì comunità rappresentative ed “emblematiche”, che agiscono a nome della comunità nazionale. I soggetti proponenti sono tre: Casa Artusi di Forlimpopoli, che nel nome del suo più illustre concittadino – Pellegrino Artusi, da molti riconosciuto come padre della cucina italiana moderna – da vent’anni promuove la cultura gastronomica italiana nella sua dimensione più propriamente domestica e familiare, aggregando attorno a sé numerose associazioni che operano a livello locale; l’Accademia italiana della cucina, fondata nel 1953 e oggi riconosciuta come Istituzione culturale della Repubblica italiana, che attraverso una rete di delegazioni territoriali opera in tutto il paese e anche all’estero per la tutela della cultura gastronomica italiana, sia domestica sia professionale; “La cucina italiana”, la più longeva rivista italiana del settore, che dal 1929 rappresenta un solido punto di riferimento culturale sui temi gastronomici di interesse nazionale. Da queste “comunità” è partita l’idea di candidare la Cucina italiana come patrimonio culturale immateriale Unesco.
La cucina sarebbe dunque un patrimonio “immateriale”? L’idea non è così ovvia se stiamo affettando una zucchina o gustando un tortellino. È vero che anche gli «strumenti, oggetti, manufatti e spazi culturali» sono ritenuti dall’Unesco elementi costitutivi del patrimonio immateriale, ma solo in funzione dei gesti, dell’immaginario, della ritualità sociale che li accompagna. È dunque necessario focalizzare l’attenzione sulla parola-chiave da cui siamo partiti, “immateriale” appunto, e avere ben chiaro che a essere candidati non sono i prodotti né le ricette, bensì i saperi, le conoscenze, le gestualità. In definitiva, il modo di pensare e di rapportarsi alla cultura del cibo.
Qualcuno si è chiesto a cosa servirebbe il riconoscimento Unesco alla cucina italiana, che è già tanto diffusa e apprezzata nel mondo. La domanda va rovesciata: in quale misura sarebbe utile all’Unesco promuovere l’immagine della cucina italiana? Uno dei criteri che guidano candidature come questa, relative al patrimonio culturale immateriale, è che esse abbiano un valore non solo rispetto alle comunità che vivono e praticano quell’esperienza, ma anche rispetto all’universo mondo. Certo le esperienze sono sempre localizzate, però in qualche modo si richiede che “escano” dalla dimensione puramente locale per proporsi anche come valori degni di essere universalmente conosciuti. Da questo punto di vista, a me pare che la cucina italiana costituisca un modello culturale interessante da proporre: essa infatti si è costruita attraverso un processo storico che mi piace chiamare “condivisione delle diversità”. Non esiste un modello unico per rappresentare la cucina italiana, che si articola in centinaia, forse migliaia di diversità locali: sono queste specificità locali a costituire la sostanza, l’essenza di ciò che chiamiamo cucina italiana. Per questo, ogni tanto si sente dire che la cucina italiana non esiste; che sarebbe solo la somma di tante culture locali. Effettivamente è questa la cifra distintiva della cucina italiana: non tanto la sua bontà, che diamo per scontata, né il fatto di essere migliore di altre, perché questo ha a che fare con i gusti individuali e collettivi e può sempre essere messo in discussione; ciò che veramente qualifica la cucina italiana è la straordinaria differenziazione locale delle esperienze, dovuta sia a condizioni di natura geografica (suoli, altitudini, climi e microclimi che cambiano di continuo, su distanze ristrettissime) sia alle vicende del paese (il continuo alternarsi e sovrapporsi, nei secoli, di genti e culture diverse). Da questa combinazione di fattori, in parte naturali, in parte storici, è derivato che non solo i prodotti, non solo le ricette, ma anzitutto i pensieri – le idee, i progetti, i sentimenti che orientano ciò che si fa quando si progettano e realizzano le azioni culinarie – sono diversi da luogo a luogo. Ma qui scatta l’ equivoco, concettuale e linguistico: pensare la cucina italiana come una somma di culture locali non aiuta a comprenderne la natura, perché la cucina italiana non è il prodotto di una somma, bensì di una moltiplicazione. Le esperienze locali non sono (non sono mai state) isolate e autoreferenziali, ma fanno parte (hanno sempre fatto parte) di un sistema dinamico, in cui ciascuna dialoga (ha sempre dialogato) con le altre. La condivisione delle diversità è il vero paradigma della cucina italiana.

2. Condividere le diversità Il paradigma della cucina italiana come spazio di condivisione delle diversità risale indietro nel tempo: lo si osserva già nel Rinascimento e prima ancora nel Medioevo. In quei secoli l’Italia non esiste ma tutti parlano di Italia: letterati, artisti, cuochi, gastronomi. In tema di cucina è utile citare un curioso testo del 1548, scritto dal milanese Ortensio Lando: si intitola Commentario delle più mostruose e notabili cose d’Italia ed è un esercizio letterario che simula una guida di viaggio indirizzata a un immaginario viaggiatore orientale, invitato a percorrere l’intero paese da sud a nord, dalla Sicilia alla Liguria, alla caccia di monumenti e opere d’arte ma anche di specialità gastronomiche. Anche queste serviranno a capire la cultura del paese. Evidentemente l’idea del turismo gastronomico non è un’invenzione del marketing contemporaneo… ma ciò che soprattutto importa notare è che questo Commentario si muove in uno spazio, appunto, italiano, incurante di confini e di distinzioni politiche, anzi sottolineando la ricchezza di un patrimonio così diversificato, «secondo la varietà delli costumi italiani li quali più spesso si cambiano che non fa il cameleonte»1. Esiste dunque, da molti secoli, un contesto culturale (e non politico, nonostante le utopie di un Machiavelli o di un Guicciardini) che pensa all’Italia come spazio di condivisione di saperi e di valori, anche alimentari. Come gli artisti e i poeti, anche i cuochi viaggiano da una città all’altra, e con loro i mercanti e molti altri. Persone, cose, idee sono in continuo movimento.
L’Italia a cui pensa Lando non è una realtà politica e neppure (come sarebbe piaciuto a Metternich) una semplice realtà geografica. Questa Italia è uno spazio culturale: le «cose d’Italia» da notare e da ammirare ne costituiscono l’ossatura. Mille specificità locali, «secondo la varietà delli costumi italiani», vanno a definire un paese che può chiamarsi con un solo nome, Italia, proprio perché ci sono quelle «cose» a tenerlo insieme. Quella cultura è italiana ed è grazie a essa (solo grazie a essa) che l’Italia esiste. La gastronomia ne fa parte a pieno titolo. Prodotti diversi, ricette diverse, abitudini diverse, ma condivise entro uno spazio comune: figuriamocelo come una rete, un network di saperi, conoscenze, pratiche, gusti. Al plurale – tutto è plurale nella storia italiana – ma anche al singolare, perché tutto circola, si muove, si confronta.
Credo che sul piano civile, etico, politico questo principio di “condivisione delle diversità” rappresenti un modello forse non unico ma certo originale, importante da ribadire a chi confonde la cucina italiana con un piatto di spaghetti, una fetta di prosciutto, un formaggio da grattugiare. Ciò che è utile far capire è che tutto ciò si fonda su una cultura della diversità, del confronto, dello scambio da cui alla fine è potuto scaturire uno straordinario patrimonio. Un’immagine efficace per rappresentare la cucina italiana potrebbe essere quella del mosaico: un insieme di tessere diverse, ognuna delle quali è sé stessa, e però assieme a tutte le altre va a comporre un’immagine compiuta e coerente, che trascende ogni singola tessera. Non una semplice somma di elementi ma una moltiplicazione, che quegli elementi mette insieme e fa interagire. Questa modalità, con cui la cucina italiana si è costruita nel tempo, credo sia un esempio interessante da proporre all’attenzione dell’Unesco, contrapponendolo a pregiudizi fondati sul localismo autoreferenziale e sulla difesa di presunte “purezze” autoctone.

3. Tra cultura di élite e cultura popolare
Qualcuno ha scritto che la cucina italiana è una creazione dell’ultimo dopoguerra perché un’Italia povera come quella arrivata fino agli anni Sessanta del Novecento non sarebbe stata in grado di elaborare una vera cultura gastronomica2. A me sembra che questa sia una posizione troppo sbrigativa, per almeno due motivi. Anzitutto perché i poveri, anche loro, hanno elaborato nel tempo un proprio gusto e una propria cucina, sia pure scontrandosi con la necessità quotidiana di nutrirsi nel modo più economico e sicuro possibile. L’immagine «miserabilista» dei contadini del passato – mutuo l’espressione da uno storico francese3 – non corrisponde alla realtà e rischia di trasferire sul piano storiografico stereotipi trasmessi dalle fonti, che esprimono la visione distorta delle classi dominanti, ideologicamente interessate ad affermare e ribadire una abissale differenza fra sé e gli altri. Anche nella società della fame (se così vogliamo definire il mondo contadino di ancien régime) esiste una tradizione di cucina. A me piace perfino parlare di una «gastronomia della fame», che si attiva sotto lo stimolo della necessità – non senza piccole attenzioni al gusto – nei momenti di carestia o di maggiore difficoltà alimentare4.
Ma non si tratta solo di questo: se anche volessimo riservare ai ricchi il gusto del cibo (ciò che mi sembra discutibile sul piano etico, oltre che sul piano storico) non possiamo occultare la loro competenza in fatto di cucina. Il ricettario di Bartolomeo Scappi, monumento dell’alta cucina italiana del Rinascimento, pubblicato nel 1570, evidenzia una densità e profondità di cultura gastronomica quale è difficile ritrovare negli attuali libri di cucina. E dunque, che in Italia la cultura del cibo abbia una storia secolare5 mi sembra fuori discussione, né si può obiettare che il gusto da allora è radicalmente mutato e che certi prodotti o certe preparazioni oggi ci disgusterebbero – giacché questo fa parte dell’evoluzione storica del gusto, anch’essa fuori discussione.
C’è di più. Nella tradizione italiana, la cucina destinata alle classi dominanti ha sempre mantenuto un significativo rapporto con la cultura popolare – si trattasse della cucina aristocratica del Rinascimento o della cucina borghese dell’Ottocento. L’esempio di Pellegrino Artusi è illuminante: il suo ricettario, la cui prima edizione esce nel 1891, si rivolge alla borghesia della nuova Italia appena unita, a quelle che lui stesso definisce «classi agiate»6; ma nelle sue ricette è chiarissima la dimensione popolare, soprattutto contadina e in parte anche cittadina. Dall’universo popolare sono attinte le ricette migliori, magari quelle festive, che poi vengono filtrate, “depurate”, affinate, però mantenendo un legame evidente con la cultura di origine. Il motivo per cui Artusi non ebbe successo soltanto tra le «classi agiate» ma anche fra i ceti popolari – nel corso del ’900 il suo ricettario diventò il manuale di cucina più presente nelle case italiane, e tanti contadini usavano regalarlo alle figlie quando si sposavano – è che le classi umili riconoscevano in quel manuale pezzi importanti della propria cultura7. Basti citare la prima riga della prima ricetta – le prime parole con cui si avvia il testo artusiano: «Lo sa il popolo e il comune che per ottenere il brodo buono…»8. Artusi, insomma, avvia il suo ricettario – e par quasi un manifesto, una dichiarazione di intenti – dando per scontato che il «popolo», la gente «comune» sa benissimo ciò che lui sta per raccontare. In questo modo la cucina italiana si delinea come luogo formidabile di connessione sociale, oltre che territoriale. La condivisione delle diversità non agisce solo sul piano geografico, mettendo in gioco i territori in tutte le loro articolazioni. Essa opera anche sul piano sociale, mettendo in gioco esperienze e saperi diversificati: nel caso di Artusi, cultura contadina e cultura borghese. Ecco un altro motivo per spiegare la ricchezza di questa cucina in termini di varietà, ed ecco perché la si può veramente definire “nazionale”: perché tutti, direttamente o indirettamente, in qualche modo hanno contribuito a costruirla nel corso del tempo. La condivisione non è solo orizzontale (geografica, territoriale) ma anche verticale (sociale).
Questa convergenza di culture socialmente diversificate non si osserva solo nell’Ottocento borghese di Artusi ma anche nei ricettari medievali e rinascimentali: destinati a un pubblico decisamente minoritario – talvolta le borghesie cittadine, più spesso i ceti nobiliari o addirittura le corti regie – anch’essi però mostrano significative convergenze con le pratiche di cucina della gente comune. Convergenze inattese, giacché confliggono con i pregiudizi ideologici di cui è infarcita la cultura delle classi dominanti e di cui è coerente testimone la letteratura coeva. I ricettari però riservano uno spazio insolito (rispetto alla cultura carnivora delle aristocrazie europee del tempo) alle verdure, ai legumi, alle minestre di cereali9, prodotti che la letteratura rappresenta come rustici, poveri, “umili”, ma poi vediamo confluire (con le relative preparazioni) nei ricettari delle classi alte, perché i cuochi che lavorano a corte o nei palazzi nobiliari intuiscono quale potenziale di sapori e di piaceri si cela in quegli usi, in quelle pratiche. La carne resta al centro dei loro interessi, quasi per obbligo sociale, perché così è stato, storicamente, in tutte le cucine del potere. Ma nei ricettari elaborati nelle (e per le) corti italiane, alle ovvie e scontate attenzioni a pernici e fagiani, cervi e vitelle si affiancano ricette di cavoli e cipolle, bietole e rape, fave e fagioli. Questo è rimasto, nei secoli, un carattere distintivo della cucina italiana, e gli storici concordano nel riconoscere che la capacità di valorizzare i prodotti vegetali è stato il più significativo contributo dato dall’alta cucina italiana alla cultura gastronomica europea10.
Anche il ricettario di Bartolomeo Scappi, vertice inarrivato di raffinatezze gastronomiche, include tante ricette di evidente estrazione popolare, semplici, “comuni”. Lui stesso riconosce di avere attinto informazioni da incontri con gente del popolo in questo o quel mercato: per esempio dai pescatori di Venezia, di Chioggia, di Ravenna. Dopo aver spiegato come si cucina il rombo «in pottaggio», ovvero in umido, ammette di avere appreso la ricetta «nel tempo ch’io mi son trovato in Venetia e in Ravenna… da pescatori da Chiozza, e Venetiani, li quali fanno i migliori pottaggi che in tutti i liti del mare»11. È ovvio che, nel momento in cui passa sulla tavola di una corte aristocratica, quella ricetta si arricchisce e si “nobilita”, ma ciò non ci impedisce di avvertire la presenza dei cuochi al mercato, in mezzo alla gente e ai venditori. Da Napoli a Milano, da Venezia a Palermo le corti aristocratiche si scambiano il personale di cucina, i prodotti, le idee, costituendo una rete privilegiata di esperienze condivise; ma ciascuna di queste esperienze “alte” mantiene un rapporto con le “basi” locali. In questo modo la cucina italiana si costruisce come esperienza collettiva: qualcosa sale dal basso verso l’alto, il che appare importante da segnalare sul piano metodologico, perché se l’imitazione di ciò che fanno le classi dominanti è pratica normale e abbastanza ovvia, meno ovvia è la disponibilità delle classi dominanti a valorizzare i saperi ordinari (ideologicamente rifiutati, gastronomicamente messi a frutto). Questo è un aspetto distintivo della tradizione italiana, non unico forse, ma certamente caratteristico, legato – credo – alla centralità politica, economica, culturale che le città hanno sempre avuto nella storia italiana: sono le città, infatti, a tenere insieme quei mondi altrimenti separati, configurandosi come spazi di incontro, di mescolamento, di ibridazione fra culture diverse.

4. Sostenibilità e diversità bioculturale
“La cucina italiana fra sostenibilità e diversità bioculturale” è il titolo scelto per presentare all’Unesco il dossier di candidatura della Cucina italiana. Entrambi i temi – sostenibilità e biodiversità – in modi diversi sono collegati alla significativa presenza della cultura popolare nel percorso storico che ha accompagnato la formazione di questo patrimonio.
Quello della sostenibilità è un concetto moderno, attuale perché oggi necessario, ma nel caso della cucina italiana costituisce una sorta di premessa originaria, derivata dalla dimensione popolare di questa cucina, che non casualmente ha trovato i suoi punti forti in elementi come la pasta, le minestre, le verdure, cibi eminentemente popolari, anche se rielaborati nei contesti dell’alta cucina – oggi dai cuochi dei grandi ristoranti, un tempo dai cuochi delle grandi famiglie. Anche rispetto alla biodiversità – intesa non solo e non tanto in senso materiale, cioè riferita alle risorse del territorio, ma anche e soprattutto in senso culturale, come diversità di atteggiamenti, gusti, costumi – è da ritenere storicamente decisivo l’apporto della tradizione popolare, capace di ricavare dalle risorse dei territori invenzioni culinarie ogni volta diverse. Una cultura come quella italiana, caratterizzata da centinaia di varietà di prodotti, più ancora che ai prodotti è legata alla fantasia, ai saperi e alle tecniche, alle abitudini, alle tradizioni che in ogni luogo si sono sviluppate. Da questa diversificazione e varietà di esperienze a un certo punto si sono stagliate le cosiddette “eccellenze”. Ora, è dimostrato che il genio nasce più facilmente là dove c’è un’alta e diffusa scolarità. Analogamente, le eccellenze gastronomiche presuppongono una sottostante ricchezza di esperienze “normali”. È appunto la “normalità” italiana quella che si intende candidare all’Unesco: non l’eccellenza di questo o quel prodotto, di questa o quella ricetta, ma l’attitudine storica a considerare “normale” la diversificazione delle idee e delle esperienze che ne derivano. Questa diversificazione, frutto del lavoro di tanti, è l’humus che quelle eccellenze ha consentito di realizzare.

5. Raccontare senza codificare
La grande ricchezza e varietà della cucina italiana non è compatibile con le proposte di “codificazione” che di quando in quando si affacciano, soprattutto in relazione alle ricette e al modo “giusto”, “corretto”, “autentico” di realizzarle. Ma la cucina è un luogo di vita, di cambiamento, di libertà. Codificare significa musealizzare, scegliendo (con quale autorità?) un momento, piuttosto che un altro, nell’evoluzione degli usi alimentari. Nessuno in Italia, fra quanti hanno scritto di cucina, ha mai veramente cercato di farlo. Due esempi paradigmatici sono quelli di Bartolomeo Scappi (1570) e di Pellegrino Artusi (1891). Il primo include una quantità di varianti per tutte le ricette presentate nel monumentale volume. Il secondo non pretende di avere la verità in tasca e di insegnare come si “devono” preparare i singoli piatti, ma si limita a raccontare come li ha visti realizzare nelle case o nelle trattorie che ha visitato. Senza alcuna ansia di codificazione, anzi appellandosi, sempre, alla libertà di scelta dettata dal gusto collettivo o individuale: «io la ricetta la farei così, liberi voi di modificarla come vi sembra meglio » è il principio esplicito o implicito che regge l’intero ricettario. In questo sistematico richiamo alla libertà del fare, che non esclude la conoscenza di regole condivise, Artusi esprime perfettamente il sentimento della cucina che è proprio degli italiani e che ritengo fondamentale anche rispetto alla candidatura Unesco.

6. Perché gli Italiani parlano sempre di cucina? Si dice che gli italiani parlano sempre di cucina, con toni appassionati e perfino litigiosi. È vero, e lo storico non può non chiedersi perché. Io credo che il fenomeno abbia motivazioni profonde: innanzitutto, la discussione si accende perché le realtà di cui si parla sono mutevoli, instabili e conoscono infinite varianti – e poiché, ovviamente, la “migliore” è sempre la mia, se ne deve concludere che nessuna può veramente dirsi “migliore”. L’aspetto culturalmente significativo del discutere (e anche, paradossalmente, del litigare) è che non si discute (e non si litiga) su qualcosa che non interessa o non si conosce: ogni discussione presume un confronto, presume che in qualche modo si sappia ciò che fa l’altro. La cultura del confronto è tipica del modo di essere italiano perché i vari “localismi” si conoscono e si confrontano. Perfino il dileggio delle abitudini altrui, che caratterizza il folklore contemporaneo ma si ritrova già nei testi medievali e rinascimentali, non sarebbe pensabile – ha osservato Vito Teti – se quelle abitudini non fossero note e magari sperimentate: le “ingiurie alimentari” (mangiapatate, trippecotte, cipollari, scolabrodo, mangiafagioli, mangiapolenta…) stanno ad attestare la varietà culinaria del paese e la sua condivisione in una rete di reciproca conoscenza12. Tutto questo ci dice che nel sentire degli italiani il rapporto col cibo è qualcosa di molto intimo, profondo, essenziale nel modo di pensare e rappresentare sé stessi. Attraverso la cucina gli italiani “leggono” la realtà e raccontano la propria storia, individuale e collettiva, di famiglia e di gruppo. La storia stessa del paese è stata spesso pensata e raccontata con metafore gastronomiche, e di questo vorrei portare alcuni esempi significativi.
Il primo lo traggo dal diario dell’oste Lorenzo Bicchierai, detto Pennino, che per molti decenni, prima e dopo la metà dell’Ottocento, gestì la Locanda di Ponte a Sieve vicino a Firenze, tenendo un minuzioso resoconto di quanto percepiva attorno a sé. Nel 1849, una breve riflessione politica immediatamente si traduce in immagini gastronomiche: «Con tutti questi moti di ribellioni e voglia d’accorpare l’Italia, io che sono oste e poco conosco di quelle faccende ho pensato all’Italia così divisa, ma che tutti vogliono insieme, e me la figuro come un bel pentolone di bollito: zampa, lingua, carni varie, udori!! Così, se l’Italia è un bollito, la Bandiera sarà la salsa di condimento, cioè Salse Tricolori» (seguono le ricette per fare una salsa verde, una salsa bianca e, «ultimo colore della bandiera», una salsa rossa)13. L’Italia di Pennino è un pentolone di bollito dentro cui sguazzano pezzi di carne diversi, ciascuno dotato di una sua propria identità ma che assieme agli altri va a costituire una vivanda unica. È una metafora efficace per pensare l’Italia, ma si potrebbe obiettare che Pennino era un oste, dunque non poteva non ragionare in termini gastronomici. Il prossimo esempio, però, concettualmente identico, sposta la nostra attenzione su un ambiente – culturale, sociale, politico – del tutto diverso.
Siamo nel 1860, mentre sta prendendo forma l’unificazione politica del paese. Nel mese di luglio Garibaldi ha occupato l’isola e attende di sferrare l’attacco decisivo a Napoli. Cavour, mente politica dell’operazione, ritiene che per quest’ultimo passo sia opportuno indugiare un po’ e, per rappresentare la situazione, scrive queste parole al suo ambasciatore a Parigi: «Le arance [leggi: la Sicilia] sono già sulla nostra tavola e stiamo per mangiarle. Per i maccheroni [leggi: Napoli] bisogna aspettare, perché non sono ancora cotti». A settembre Garibaldi entra a Napoli e Cavour scrive: «i maccheroni sono pronti»14. Questo non è un cuoco. Questo è Cavour, primo ministro del Regno di Sardegna. Francamente non riesco a immaginare il primo ministro di nessun altro paese che si esprima in questo modo (e partorisca immagini come queste) in un momento così delicato e importante come quello dell’unificazione nazionale.
Il prossimo esempio è a dir poco commovente. Nel gennaio-febbraio 1918, dopo la rotta di Caporetto, migliaia di soldati e ufficiali italiani sono rinchiusi nel campo di prigionia di Celle, in Germania vicino a Hannover. Due di loro, Giovanni Fiorentino di Agrigento e Giuseppe Chioni di Genova, cercano di combattere l’angoscia scrivendo di cucina. Pescano dalla propria memoria le ricette di casa: un modo per ritrovare gli affetti domestici, il calore della famiglia e del focolare. Ma non lo fanno in forma individuale e privata. Lo fanno assieme ai compagni di prigionia, raccogliendo e confrontando le rispettive esperienze, i rispettivi ricordi. Ne nascono due quaderni, uno dei quali scritto con calligrafie diverse: ogni prigioniero ha annotato di proprio pugno le ricette che gli sono più care15. Entrambi i quaderni mostrano una mescolanza di tradizioni di ogni parte del paese, ed è una prova straordinaria della profondità con cui questi uomini avvertono il rapporto fra cucina e identità nazionale – sempre nella medesima modalità: condividere esperienze senza pretendere di ridurle ad unum. Chioni lo scrive esplicitamente: le ricette sono state raccolte – scrive nell’introduzione al suo quaderno, aggiunta al termine del conflitto – attraverso uno «scambio reciproco di ricordi, rimpianti e desideri»16. Gli stessi comandi militari, per tenere alto il morale delle truppe durante gli ultimi anni di guerra, avevano progettato un giornalino a uso dei soldati (La tradotta) che in un numero del 1918 suggerì un’immagine dell’identità nazionale raffigurata, di nuovo, in senso gastronomico: città e paesi della pianura del Po erano simboleggiati, in una carta, dai loro prodotti alimentari, ricette e specialità (elencate in una divertente poesiola in strofe rimate) che al “nemico” sarebbe piaciuto conquistare con la sua «offensiva culinario-mangiativa», poi respinta dai soldati italiani17.
Io credo che gli italiani parlino sempre di cucina perché nell’appartenenza culturale, prima che in quella politica, riconoscono ed esprimono la propria identità. E credo che di questa cultura la tradizione gastronomica sia parte essenziale.
Che la cultura del cibo trasmetta appartenenza, identità, memoria non è ovviamente un’esclusiva italiana, perché tutte le culture hanno un rapporto forte e profondo con i propri usi culinari; quello che è tipico del modello italiano è (ripeto) il fatto di non avere un modello di riferimento omogeneo, ma di avere costruito un sentire comune attorno alla condivisione dei sentimenti e delle pratiche, dei gesti, dei rituali; di un “sentimento dei luoghi” ovunque diverso, ovunque uguale.

Note

  1. O. Lando [sotto lo pseudonimo «Messer Anonymo di Utopia»], Commentario delle più notabili et mostruose cose d’Italia et altri luoghi, di lingua Aramea in Italiana tradotto, [Venezia], 1548. Ma cito dall’edizione commentata da G. e P. Salvatori, Bologna, Pendragon, 1994, ripresa dall’edizione di Bartolomeo Cesano, Venezia, 1553. Il passo citato è alla p. 4.
  2. A. Grandi, Denominazione di origine inventata, Milano, Mondadori, 2018, pp. 25 ss.
  3. F. Quellier, Le repas de funérailles de Bonhomme Jacques. Faut-il reconsidérer le dossier de l’alimentation paysanne des Temps Modernes?, in “Food & History”, 6/1, 2008, pp. 9-30.
  4. M. Montanari, I racconti della tavola, Roma-Bari, Laterza, 2014, pp. 87-93.
  5. Cfr. A. Capatti e M. Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Roma-Bari, Laterza, 1999.
  6. P. Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, a cura di A. Capatti, Milano, Rizzoli, 2010, p. 24 (Alcune norme d’igiene): «S’intende bene che in questo scritto parlo alle classi agiate…».
  7. M. Montanari, Le ragioni di un successo, in Il secolo artusiano. Atti del Convegno, Firenze-Forlimpopoli 30 marzo-2 aprile 2011, a cura di G. Frosini e M. Montanari, Firenze, Accademia della Crusca, 2012, pp. 7-15.
  8. Artusi, La scienza in cucina cit., p. 54 (ricetta 1, Brodo).
  9. M. Montanari, Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 183-193 (Cucina ricca, cucina povera).
  10. L. Bienassis, A. Campanini, La reine à la fourchette et autres histoires. Ce que la table française emprunta à l’Italie: analyse critique d’un mythe, in La table de la Renaissance. Le mythe italien, a cura di P. Brioist e F. Quellier, Tours-Rennes, Presses Universitaires de Rennes/Presses Universitaires François-Rabelais de Tours, 2018, pp. 29-88, in particolare pp. 59-64.
  11. B. Scappi, Opera, Venezia, Michele Tramezzino, 1570, c. 120.
  12. V. Teti, Le culture alimentari nel Mezzogiorno continentale in età contemporanea, in Storia d’Italia, “Annali” 13, L’alimentazione, a cura di A. Capatti, A. De Bernardi e A. Varni, Torino, Einaudi, 1998, pp. 63-165, a p. 67. Sui precedenti di epoca medievale e rinascimentale cfr. L. Messedaglia, Vita e costume della Rinascenza in Merlin Cocai, a cura di E. e M. Billanovich, Padova, Antenore, 1974, pp. 140-141.
  13. F. Tozzi, Pennino l’oste, Signa, Masso delle Fate, 1996, pp. 105-106.
  14. M. Montanari, L’identità italiana in cucina, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 51. Cfr. F. La Cecla, La pasta e la pizza, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 17; G. Mantovano, L’avventura del cibo, Roma, Gremese, 1989, p. 83.
  15. G. Chioni, G. Fiorentino, La fame e la memoria. Ricettari della Grande Guerra. Cellelager 1917-1918, a cura di Q. Antonelli e G. Bettaga, Feltre, Agorà, 2008.
  16. Ivi, p. 3.
  17. Montanari, L’identità italiana cit., pp. 66-67.

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