Bibliomanie

La nascita della redazione bolognese de “La Repubblica”. L’analisi del contesto e le testimonianze dei giornalisti
di , numero 48, dicembre 2019, Saggi e Studi,

La nascita della redazione bolognese de “La Repubblica”. L’analisi del contesto e le testimonianze dei giornalisti
Come citare questo articolo:
Luca Altieri, La nascita della redazione bolognese de “La Repubblica”. L’analisi del contesto e le testimonianze dei giornalisti, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 48, no. 8, dicembre 2019

1. “La Repubblica Bologna”: un progetto non solo editoriale
Repubblica Bologna nasce nel mese di ottobre del 1980 come terza edizione locale, dopo Roma e Milano, ma come prima edizione locale di una città media. È la prima esperienza in una città non capitale, dopo la capitale del Nord (Milano) e la capitale d’Italia (Roma): ha avuto immediatamente l’imprinting della Repubblica nazionale, nel senso che aveva gli stessi canoni di giornalismo del nazionale, adeguato ovviamente alla realtà locale”1. Aldo Balzanelli, storico caporedattore dell’edizione bolognese di “Repubblica” dal 1997 al 2010, racconta con queste parole l’esordio dell’edizione locale del giornale di Scalfari in Emilia Romagna.
L’“imprinting” di cui parla il direttore è chiaramente dichiarato nella campagna pubblicitaria che ha preceduto fra la fine del 1975 e l’inizio dell’anno successivo l’uscita del quotidiano nazionale nelle edicole: «Il fatto di cronaca è lì, semplice, perentorio. La versione ufficiale, pronunciata con modi conclusivi da persone autorevoli, sembra non lasciare spazio a nessun dubbio. È quella, la verità. Ma si fa strada, poco per volta, nella coscienza dei giovani, delle donne, degli intellettuali, di tutti i democratici, la convinzione che la verità sia un’altra, più scomoda, meno confessabile. “la Repubblica”, il nuovo quotidiano edito da L’Espresso e da Mondadori, si rivolge proprio a loro. Protagonisti delle battaglie più importanti di questi ultimi tempi, essi hanno oggi, con “la Repubblica”, un quotidiano nel quale possono riconoscersi. Perché i loro avversari sono anche gli avversari di “la Repubblica”. E le loro speranze sono anche le speranze di “la Repubblica”. Questo impegno iniziale diventerà poi, giorno per giorno, lo scrupolo di chi intende raccontare, con chiarezza, le sotterranee trame del potere. “la Repubblica” è nelle condizioni migliori per farlo. È un quotidiano indipendente, che si avvale del lavoro di un corpo redazionale molto omogeneo. Lo compongono, insieme, giornalisti molto giovani e giornalisti di grande prestigio personale. Politica, cultura ed economia sono i tre temi sui quali “la Repubblica” concentrerà la sua attenzione. Linguaggio, tono, impaginazione, formato non saranno quelli consueti della stampa quotidiana italiana, legata spesso a formule superate. “la Repubblica” si allinea, piuttosto, ai quotidiani internazionali di maggior prestigio. Per tutte queste ragioni, “la Repubblica” è destinata ad essere un fatto importante nell’editoria italiana. E, forse, non solo nell’editoria. Leggetelo, dal 14 gennaio». Con queste parole, sovrastate da due immagini uguali raffiguranti un momento delle indagini relative alla morte di Giuseppe Pinelli e da una titolazione in nero che recita “Dal 14 gennaio o credete alle versioni ufficiali o credete a “la Repubblica””, il nascituro quotidiano di Scalfari si presenta al pubblico sulle pagine di Prima Comunicazione2.
È un manifesto che declina, in mirabile sintesi, tutti gli aspetti che promettono di fare del giornale esordiente un “fatto importante nell’editoria italiana. E, forse, non solo nell’editoria”, a dire chiaramente di una scelta di militanza di un giornale inteso come strumento di approfondimento culturale e politico.
Si presenta come un giornale di informazione, basato sui fatti, ma ben consapevole che i fatti siano cosa diversa dalla “verità” e che la verità possa essere cosa altra rispetto alla versione che ne viene fornita da fonti pur autorevoli. È convinto di condividere tale consapevolezza con la coscienza “dei giovani, delle donne, degli intellettuali” rispetto ai quali si fa, quindi, compagno di viaggio, sortendo i medesimi avversari e le medesime speranze: dichiarando la propria intenzione di fornire un’interpretazione dei fatti e dei temi in discussione, ispirata in maniera dichiarata al new journalism americano3. La propria condizione di giornale indipendente viene presentata come la garanzia perché sia mantenuto il patto sottoscritto: la necessità è quella di fidelizzare i lettori perché il progetto editoriale abbia successo.
“La Repubblica”, come dichiarato dal suo direttore Eugenio Scalfari, si colloca nel solco che era già stato precedentemente tracciato con “L’Espresso”4, da lui fondato insieme all’amico e collega Arrigo Benedetti nel 1955, un progetto editoriale che ubbidisce a un preciso progetto politico che il nuovo quotidiano continua con decisione a scavare: Scalfari spiega che «L’Espresso è nato per affermare il valore dell’innovazione, d’un accordo produttivo tra gli imprenditori e i lavoratori per portare la sinistra democratica al governo del Paese purché quella sinistra abbandonasse l’ideologia marxista e soprattutto le sue degradazioni sovietiche. Volevamo insomma una forza riformista, con libera Chiesa in libero Stato, la lotta contro la corruzione e l’evasione fiscale»5. Questa era la pietra angolare su cui il settimanale fondava le sue inchieste e i suoi servizi, che rappresenterà anche la cifra caratteristica del nuovo quotidiano, sapendo comunque adeguarsi ai tempi mutati di 22 anni dopo.
Reduce dall’esperienza parlamentare come indipendente nelle fila del PSI e non pago dal punto di vista giornalistico, Scalfari riprende nel 1975 l’idea di imbarcarsi in una nuova impresa editoriale, questa volta affiancato da Carlo Caracciolo, azionista di maggioranza de “L’Espresso”. La preparazione del nuovo giornale entra nella fase cruciale e conclusiva fra l’ottobre e il novembre del 1975, quando Scalfari e Caracciolo arrivano all’accordo con Mondadori, il quale, nell’intervista concessa a Renzo De Rienzo de “L’Espresso”, esplicitò la natura editoriale innovativa del nuovo giornale: «Come editori puri vogliamo proporre al pubblico un giornale che possa sopravvivere con le proprie forze, senza sovvenzioni. Abbiamo calcolato che se il giornale riesce a raggiungere 150 mila copie di vendita, può già coprire le spese.».
Nel panorama difficile e complesso della metà degli anni Settanta, in un Paese profondamente modificato dal punto di vista sociale e spaventato dalla minaccia del terrorismo, in una fase di incubazione di un mutamento politico epocale, il nuovo quotidiano di Scalfari nasceva «con tutti i crismi del giornale di rottura, d’opinione e di battaglia» e – a differenza della condizione di tutti gli altri giornali le cui proprietà erano intestate a gruppi industriali o finanziari – “Repubblica” «incarnava il mito dell’editore puro, l’editore senza interessi estranei, la quintessenza dell’autonomia e dell’indipendenza. Un giornale libero da vincoli e rapporti di subalternità, politica ed economica; dichiaratamente laico, ma non per questo anticlericale. Un quotidiano radical-chic, come allora veniva definito con sufficienza mista a invidia, schierato a sinistra: una sinistra che ambiva, però, a diventare a tutti gli effetti occidentale, moderna, riformista»6. Una sinistra non più legata alle due “chiese tradizionali”7, ovvero PSI e PCI, ma quella nata dalla nuova consapevolezza sociale dei giovani, delle donne e degli intellettuali, frutto dei grandi mutamenti sociali della fine degli anni Sessanta e inizio degli anni Settanta, in cui individuerà il suo pubblico di riferimento.
Diveniva a quel punto quasi obbligato collocarsi nel solco delle «grandi trasformazioni che il paese andava compiendo, facendo riferimento ad una nuova classe (o all’insieme dei movimenti progressisti di quei tempi) che veniva emergendo dalle crisi ideologiche del periodo 1968-1977. “Repubblica” si è rivolta, così, ad un pubblico omogeneo seguendone e promuovendone le trasformazioni, le scelte, comprendendone naturalmente gli interessi»8.
Un pubblico principalmente schierato su posizioni di sinistra, ma di una sinistra che cambia paradigma: i movimenti studenteschi, i giovani e soprattutto le giovani donne che si affacciano nel mutato scenario sociale delle società capitalistiche degli anni ‘60, non si riconoscono più nella “vecchia sinistra”, la sinistra storica di derivazione marxista-leninista, che si presentava impreparata e inadeguata ai compiti di rinnovata rappresentanza che le erano richiesti, anzi «riproduceva, a livello istituzionale ma anche sociale, la vecchia società che diceva di voler cambiare»9. Essi si rivolgono invece a quella area politica che il sociologo americano Charles Wright Mills chiama “nuova sinistra”, per caratterizzarne la contrapposizione radicale rispetto a quella “vecchia”.
Ed è proprio a questi soggetti, fino a quel momento trascurati dal punto di vista editoriale, che si è rivolto il nuovo quotidiano, formulando una scelta non legata esclusivamente ad una specifica area politica, ma anche – se non soprattutto – a degli orientamenti socio-culturali.
Sono loro infatti che, a causa della crescente sfiducia nel mondo dell’informazione, sono alla ricerca di un nuovo tipo di rappresentanza giornalistica: quest’area della società non ne può più, secondo Giorgio Bocca, «del giornale “organo”, del giornale “manifesto”, del giornale “aziendale”, del giornale “di partito”, del giornale di “classe”, insomma di tutti i giornali che per una ragione o per l’altra devono costituzionalmente ignorare o deformare le notizie e vogliono il giornale-giornale che vive delle notizie e per le notizie»10. In un panorama editoriale asfittico in cui i giornali partito (ad esempio “il manifesto”) e quelli spesso strumento della politica (come accade al “Corriere della Sera”) fanno poco o nulla per stare al passo con una società in continua evoluzione, il “giornale-giornale” sognato da Bocca dovrà avere il merito almeno di apparire -esserlo è certamente impresa ancora più difficile- ben lontano da determinati poteri, lusinghe e ricatti, sulla scia dei grandi giornali di informazione esteri, come il New York Times o il Washington Post: «Si tratta in parole povere di adeguare anche da noi lo strumento di difesa che è la stampa alla civiltà industriale che è per sua natura una civiltà autoritaria […] il giornale-giornale deve porsi insieme con la magistratura democratica a difesa della libertà: fornire alla democrazia di base, ai comitati di quartiere, di zona, di istituto, di fabbrica le informazioni, tutte le informazioni di cui hanno bisogno per capire ciò che sta succedendo e come venirne fuori»11.
Al tempo della stesura dell’articolo, Bocca già faceva parte del nucleo embrionale della redazione di “la Repubblica”; nel pezzo, la creatura di Scalfari, non viene mai citata espressamente ma non è certo peregrino immaginare che sia proprio quello il giornale-giornale cui Bocca si riferisce e di cui tratteggia un identikit.
Un profilo che assume con nettezza le sembianze di “Repubblica” quando è proprio il suo direttore, Eugenio Scalfari, ad esplicitare la natura del nuovo quotidiano: «Questo giornale è un poco diverso dagli altri: è un giornale d’informazione il quale, anziché ostentare un’illusoria neutralità politica, dichiara esplicitamente d’aver fatto una scelta di campo. È fatto da uomini che appartengono al vasto arco della sinistra italiana, consapevoli d’esercitare un mestiere, quale appunto del giornalista, fondato al tempo stesso su un massimo impegno civile e su un massimo di professionalità e di indipendenza»12. Con queste parole, stampate a pagina 6 del primo numero di “Repubblica”, Scalfari avverte gli italiani che da quella mattina avrebbero trovato nelle edicole un nuovo tipo di giornale, un “giornale non neutrale”, scritto e pensato da «professionisti “tanto più scomodi quanto più sono liberi da condizionamenti d’ogni sorta, fossero pure quelli derivanti dal desiderio di giovare a una buona causa”. Sembra una presa di distanza dalla “sinistra storica”, con il suo provvidenzialismo edificante. Ma è anzitutto una puntata polemica contro la retorica del quotidiano “indipendente” all’italiana, cioè profondamente ma inconfessabilmente politicizzato. L’immagine che si vuol dare è quella d’un giornale schierato ma senza pregiudizi militanti o, peggio, “di tessera”»13.
A individuare una richiesta da parte dei lettori di stimoli alla riflessione e al confronto, che possano valorizzare anche il loro ruolo culturale di un quotidiano, facendone una sorta di laboratorio.

2. Il contesto sociale e politico dell’Emilia Romagna degli anni Settanta
In direzione dell’esercizio di un ruolo culturale, ma soprattutto in quella di una progressiva espansione editoriale, va interpretata la decisione di Scalfari di pubblicare un nuovo inserto locale del suo giornale, proprio a Bologna, come ricordato con le parole di Aldo Balzanelli. Avendo a mente il pubblico di riferimento cui “la Repubblica” punta, non si certo pensare che sia casuale la scelta di aprire, nel 1980, proprio nel capoluogo emiliano, simbolo del modello di governo del partito comunista, la terza sede del giornale, dopo quelle inaugurate nelle due capitali d’Italia: Roma, la capitale politica, e Milano, quella economica14: «L’Emilia, quella che è oggi, nel bene e nel male, l’ha fatta il PCI»15, con queste parole Carlo Galli, docente di storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna e presidente della Fondazione Gramsci Emilia Romagna, risponde ad una domanda di Lorenzo Capitani, nel suo libro Emilia rossa, a mettere in rilievo la peculiare situazione politica della regione. Dai primi anni del dopoguerra, il PCI in Emilia Romagna ha sempre avuto un ruolo fondamentale di catalizzatore di consensi e di opinioni: in una regione che, fin dall’unità d’Italia, non era mai stata particolarmente avanzata e sviluppata come altre zone del paese (ad esempio il Lombardo-Veneto o il Granducato di Toscana), il partito comunista italiano è stato capace di mettere in pratica, rivitalizzandola, l’avventura socialista, democratica e cooperativa, che era stata sopita dall’avvento del fascismo. Togliatti16 e i suoi successori hanno saputo raccogliere l’eredità dell’esperienza socialista «facendo fare ai comunisti ciò che i socialisti avevano iniziato, ma avevano dovuto interrompere. […] Senza dubbio il cuore di questa strategia può essere individuato […] nella civilizzazione della società. In questo senso si può dire che da Togliatti ha preso il via una operazione complessa che ha fatto di una società povera e anche divisa, segnata da un forte ribellismo, qualcosa di profondamente diverso, trasformandola in una società progressista»17. Un processo che iniziò naturalmente con l’industrializzazione, conseguente al boom economico degli anni Cinquanta, che ebbe il merito di trasformare gran parte del bracciantato in classe operaia18; inoltre, il tentativo di ampliare la sfera di riferimento, al fine di accrescere l’influenza del partito, spinse i comunisti a cercare di coinvolgere nelle attività di governo il maggior numero possibile di donne, che diventarono soprattutto in Emilia Romagna le principali responsabili di iniziative molto apprezzate a livello nazionale19: questa era la base sociale, composta da donne e da forze di lavoratori manuali -prevalentemente contadini- cui il PCI è stato in grado di offrire una rappresentanza. A questo fenomeno, in particolare in Emilia Romagna, il partito seppe rispondere con una stagione particolarmente feconda di politiche di lavori pubblici: bonifiche di territori insalubri, costruzione di grandi infrastrutture, che garantirono nella regione un appoggio al partito comunista percentualmente importante, con un 50% nei capoluoghi e picchi del 60% nelle province, ma soprattutto duraturo, tanto da non risentire del generalizzato calo di consensi che il partito dovette subire negli anni Cinquanta a causa degli scarsi risultati ottenuti contestualmente sul piano nazionale20. Bologna e l’intera Emilia Romagna si configurano come il paradigma del modello di sviluppo e di amministrazione del partito comunista più forte e grande d’Europa; osserva Luciano Nigro, caposervizio della redazione bolognese: «in regione i comunisti avevano fatto molto per lo sviluppo economico, sostanzialmente seguendo alcune logiche principali: la costituzione delle aree artigianali e delle aree industriali, spazi dove si potevano concretamente creare le aziende, e la creazione di alcuni servizi che favorivano lo sviluppo industriale, per esempio gli asili nido che permettevano alle donne di andare a lavorare. Però il contesto generale era tale per cui le associazioni degli industriali erano praticamente schierate con quello che poi diventerà il pentapartito, insomma la Democrazia Cristiana e i suoi alleati. Confindustria aveva questo atteggiamento, ma anche gli artigiani erano divisi fra i rossi e i bianchi, i sindacati fra CGIL, CISL e UIL»21.

3. “La Repubblica” a Bologna
Valerio Varesi, redattore per l’edizione bolognese del giornale, afferma: «le esigenze che hanno portato alla nascita dell’edizione locale di Bologna sono abbastanza simili a quelle che hanno portato alla nascita del giornale nazionale, a maggior ragione in una regione in cui c’era un comunismo già molto socialdemocratico e inclusivo di tutti i ceti produttivi che tradizionalmente erano visti come nemici. Nasce con le stesse esigenze perché tutta la gente di sinistra era cambiata, proprio dal punto di vista antropologico: avevamo avuto il ’77, c’erano movimenti dell’extra-sinistra e il PCI doveva fare i conti con qualcuno che era ancora più a sinistra di lui, che è sempre stato un punto dolente per il partito comunista»22. A partire dal marzo del 1977, infatti, Bologna divenne vero e proprio campo di battaglia per i giovani e le giovani portavoce del movimento studentesco: la città fu teatro di violenti scontri con le forze dell’ordine che cessarono dopo l’intervento dei carri armati, ordinato dall’allora ministro dell’Interno, Francesco Cossiga. Questa fu l’occasione per il crearsi di una profonda cesura fra il movimento studentesco e il campo della sinistra tradizionale, perché i giovani iniziarono a rifiutare l’ormai desueto modello leninista, senza però rinunciare ad essere radicali sia nella teoria che nella pratica23: «i cosiddetti “non garantiti” sembrano richiedere una radicalità che il partito non riconosce, soprattutto mentre è impegnato a sostenere un Governo di intesa nazionale. È perduta la “centralità operaia”, è smarrita la riconosciuta superiorità morale del riferimento alla continuità storica del partito. I fatti del marzo […] segneranno una frattura mai ricomposta. […] Da una parte i soggetti politici e sociali disponibili ad una decisa integrazione nel quadro esistente dei poteri […] accettano […] la rinuncia ad un orizzonte di generale trasformazione. Dall’altra parte separa il proprio percorso una vasta componente di chi era andato maturando l’attesa di una palingenesi, promessa fin dagli anni ’60, nei rapporti sociali come in quelli fra i generi, nella politica come nell’orizzonte personale»24. In linea con le riflessioni di Gad Lerner, i giovani del ’77 rivelarono il loro definitivo distacco dalla tradizionale cultura di sinistra: semplicemente, il PCI in quell’anno subì «il colpo – prima di tutto culturale e sociale, poi anche organizzativo ed elettorale – che gli altri partiti comunisti avevano già incassato altrove»25. Luciano Nigro è concorde nell’affermare che: «“la Repubblica” si inserisce a Bologna nel contesto degli avvenimenti del ’77, che avevano già segnato la scena pubblica e con una platea di lettori non solo comunista. Il giornale era nato con l’obiettivo politico di portare i comunisti nell’area del governo, o quanto meno di inserirli nel panorama dell’alternanza democratica del Paese. L’avvicinamento al governo avrebbe dovuto comportare anche un loro cambiamento, che peraltro si stava verificando: Berlinguer in quegli anni, sul piano internazionale, prima aveva lanciato l’idea dell’eurocomunismo e poi nel ‘76 ha affermato – in una nota intervista rilasciata al “Corriere della Sera” – di sentirsi più sicuro nella Nato che non nel Patto di Varsavia. Ma molti lettori del giornale, quelli del ’77 per esempio, avevano un atteggiamento molto ostile rispetto al PCI, quindi il giornale non si schiacciava sulle posizioni del potere locale, anzi aveva un atteggiamento anche critico: non come il “Resto del Carlino” che era all’opposizione, ma “Repubblica” è un giornale libero. Probabilmente il giornale era un po’ snob, qualcuno diceva radical chic, ma questo accadeva perché interpretava quella parte del movimento del ’77 che aveva criticato i comunisti: in città c’era stata una grossa ferita alla fine degli anni ’70. “Repubblica” si pone come punto di riferimento di entrambi». Continua Varesi: «“Repubblica” a Bologna tentava di rispondere a una polifonia di voci di sinistra alle quali gli altri giornali non riuscivano a rivolgersi. Ma anche a una molteplicità politica che forse era più accentuata in Emilia che altrove: la vecchia stampa di sinistra non bastava più, “L’Unità”, il giornale traino, cinghia di trasmissione, aveva ormai fatto il suo tempo perché i militanti del partito non erano più gli stessi. C’era l’esigenza di un’editoria profilata a sinistra ma priva della connotazione monolitica di chi traduceva ciò che il comitato centrale elaborava e lo trasmetteva senza filtri al proprio lettorato. Parallelamente si sviluppano qui delle forme di imprenditoria abbastanza vicine al modello socialdemocratico che rende evidente la necessità di una voce che sappia coniugare l’imprenditoria più avveduta con un lettorato di sinistra che non era più quello del post-guerra». In questa chiave di lettura paiono univoche anche le parole di Aldo Balzanelli che ritiene che alla base del progetto di Scalfari «c’è sempre stato un progetto editoriale, che si fondava sul fatto che in Emilia Romagna c’era un pubblico potenziale molto favorevole ma anche un sentimento comune con “Repubblica”. E contemporaneamente c’erano anche le condizioni politiche per incalzare il PCI di allora. […] L’elettore comunista che compra “L’Unità” per sapere cosa succede in città, nel momento in cui anche “Repubblica” racconta la cronaca locale, ma soprattutto i fatti che accadono in città dall’angolo di visuale che interessa il lettore comunista, cioè economico e politico per esempio, abbandona più facilmente “L’Unità”, proprio perché trova in un solo giornale le notizie nazionali e quelle locali. A essere un po’ presuntuosi, si potrebbe affermare che tutta una fascia di persone interessata alla politica si trova costretta a comprare “Repubblica”, perché non si può più fare a meno di “Repubblica” locale per sapere cosa accade in città, mentre può evitare di acquistare altri giornali come “L’Unità”, che già stava andando in crisi ed era ridotto a un bollettino ufficiale del PCI»26.
4. I primi passi della vita di redazione
Il progetto bolognese di “Repubblica” si è sviluppato in maniera molto graduale: la prima redazione era composta soltanto da due persone che lavoravano a tempo pieno e che redigevano il cosiddetto “Cartellone”, quattro pagine che trattavano gli spettacoli e gli avvenimenti culturali della regione, pochi pezzi sui fatti e i problemi delle maggiori città; seguendo l’impostazione del nazionale, inizialmente mancavano sia lo sport che la cronaca locale. Nei primi mesi venne inviato come responsabile, seguendo una modalità operativa che poi ha riguardato molte delle nascenti sedi locali, il caporedattore dell’edizione di Milano, Franco Belli, che scelse Marco Marozzi come vice: in quel periodo venne allestita la redazione e furono reclutati i collaboratori e i corrispondenti dalle principali città della regione. Arrivò da Roma anche il segretario della redazione centrale, Rolando Montesperelli, che formò la segreteria locale, composta da Silvia Rubini e Emma Collina. Scalfari aveva un preciso progetto di espansione nazionale e nulla doveva essere lasciato al caso: i suoi collaboratori più esperti avevano il compito di istruire i nuovi colleghi.
Proprio Silvia Rubini fornisce una vivida e partecipe testimonianza della fase di avvio della redazione bolognese: «Quando sono stata assunta, l’8 settembre 1980, non c’era niente, i telefoni erano per terra. Per i primi tempi siamo rimasti praticamente segregati all’interno della redazione, abbiamo dovuto montare tutti gli armadi e le scrivanie, era tutto vuoto. Abbiamo creato anche un archivio giornalistico, perché cominciarono subito ad arrivare tutti i giornali, e abbiamo imparato a tenere l’amministrazione di un giornale o a gestire i rapporti con i collaboratori esterni, come Luciano Nigro da Rimini, Valerio Varesi da Parma o Walter Fuochi da Imola. I primi mesi lavoravo dodici ore al giorno, i miei genitori mi davano praticamente per dispersa. Tieni conto che la segreteria di Bologna è nata con due persone e nel momento di massima estensione è arrivata a sei. Ho lavorato moltissimo. Anche dal punto di vista degli arredi ci siamo arrangiati con quello che avevamo, ognuno portava qualcosa da casa. Un giorno la moglie di Marozzi ci ha chiamato in redazione per sapere se il ferro da stiro era da noi, ed effettivamente c’era: lo stavamo usando come fermaporta. Nonostante la fatica, eravamo come una famiglia, un gruppo molto unito. Nella pausa pranzo, uno dei pochi momenti di relax, fra la porta di Savonuzzi, succeduto come direttore a Belli nell’81, e la porta di ingresso, dove c’era un lungo corridoio, Savonuzzi e Marozzi giocavano a pallone. Un’altra cosa che mi ricordo era il forte inquinamento acustico in redazione, dovuto alle macchine da scrivere e alle continue telefonate che ricevevamo o facevamo. A partire dalle 15.30 si scriveva ininterrottamente, dall’80 all’89, prima della diffusione dei computer, battevamo tutto a macchina e i pezzi dei corrispondenti dovevamo batterli al dimafono, sia quando era ancora “Cartellone Emilia Romagna” ma anche quando diventa “Repubblica Bologna”, comprendente la cronaca, nel 1983»27.
Dopo settimane di intenso lavoro, il 14 ottobre 1980 esordirono nelle edicole le prime quattro pagine locali, sotto la testata “Cartellone – Emilia Romagna”. Dopo sei mesi dall’uscita del giornale, Belli tornò a Milano e, l’1 aprile 1981, prese il suo posto Luca Savonuzzi, con un passato al “Resto del Carlino”. Ancora Silvia Rubini ricorda: «Il clima era di una situazione in divenire e in grande trasformazione. Eravamo tutti giovani e quasi tutti alla prima concreta esperienza nel mondo del giornalismo, ma la fortuna vera è stata di avere della gente molto brava. La duttilità che avevano i giornalisti di quei tempi è stata quella di accettare la variazione totale del modo di fare i giornali, fino all’avvento di internet. Il giornale ha introiettato moltissimo il proprio futuro: in origine per impaginare ogni pezzo dovevamo mandare in stampa dieci fogli diversi, con l’arrivo dei computer si è incredibilmente accelerata la procedura, perché il giornalista doveva scrivere le sue sessanta righe in un menabò già preimpostato. Poi Luca Savonuzzi ha avuto il merito di crederci e di traghettare la redazione fino al raggiungimento di grandi obiettivi. È stato lui che ha fatto esplodere il fenomeno “Repubblica” a Bologna, in concomitanza con una fase particolarmente positiva anche per il giornale nazionale. È stata una particolare alchimia, che ha permesso a entrambe di crescere».
Rapidamente il giornale si espanse, sia dal punto di vista delle copie vendute, sia da quello redazionale che da quello dei contenuti: nel 1982, le copie giornaliere vendute arrivarono a quota 25.00028, la redazione raddoppiò e il “Cartellone” si trasformò in “Repubblica Bologna”, che assunse la veste di vero e proprio giornale regionale, da otto pagine, con uno sguardo a tutto tondo sulla politica, l’economia, lo sport e la cultura29. La correzione di formula si rese necessaria perché il «lettore emiliano-romagnolo era un po’ più esigente, restava un po’ deluso nel passare dal giornale nazionale a pagine fatte unicamente di spettacoli»30; si trattava di un pubblico che, in una regione ricca ed evoluta, acquistava due o più quotidiani, e in cui “Repubblica” riuscì a ritagliare con nettezza il proprio mercato, formato da giovani e dalla classe dirigente. I suoi concorrenti erano rappresentati dal “Corriere della Sera”, dalla “Stampa”, in parte dall’“Unità”, ma non dal “Resto del Carlino”, il giornale storico della città, che difatti nei primi anni non subì un calo di vendite, perché manteneva la sua connotazione di giornale di servizio ad estensione regionale.
Conclude poi Silvia Rubini: «l’idea di “Repubblica” è stata quella di differenziarsi, pubblicando molti commenti ed elevando il livello della notizia accostandola a indagini, presentando la cronaca locale in maniera molto approfondita. Sul piano della cronaca fattuale era impossibile competere, bisognava competere sulla qualità, sull’inchiesta, sull’indagine, sul colore, dando un taglio diverso alla notizia. Tra l’altro non pubblicando lo sport, una grossa fetta di pubblico veniva tagliata fuori. A fare la differenza sono stati i giovani, cui offrivamo sul giornale locale un’idea che avevamo già sul nazionale: il nostro giornale puntava proprio a loro, un pubblico diverso, giovane, colto, che prima un giornale di riferimento proprio non ce l’aveva».
E se Savonuzzi ritiene che “Repubblica” sia il giornale più letto dai comunisti, dopo “L’Unità”, non può che smarcarsi dai rilievi di filo-comunismo, rivendicando le aspre polemiche condotte proprio contro il partito comunista, che era il titolare del potere amministrativo da oltre trent’anni31. «Per essere di sinistra, in Emilia, devi essere critico del PCI, non dico anti-comunista, ma critico del PCI»32: questa era la cifra che ha consentito a “Repubblica” di perseguire nella regione il progetto culturale, ma soprattutto editoriale, che ha rappresentato la ragione della sua fondazione.
Si tratta di una caratteristica di “Repubblica”, perdurante e consapevole, che torna anche nelle parole di Giovanni Egidio, attuale caporedattore dell’edizione bolognese: «Nella mia lettera di assunzione, nel 1994, c’è scritto che il giornale lavora per l’affermazione della proposta liberal nel paese, “Repubblica” l’ha sempre dichiarato e ha sempre detto da quale angolo di visuale guardava i fatti».

5. Il giornale nel dialogo con gli interlocutori del territorio
Con il Direttore è stata affrontata la questione della laicità del giornale e dei suoi rapporti con la magistratura: «Repubblica è un giornale laico, ma il laicismo nella sua accezione classica non è contrario alla chiesa, non ha nei suoi confronti un atteggiamento ostile, abbiamo deciso molto liberamente come porci, a seconda dei suoi messaggi. Per quanto riguarda il rapporto con la magistratura, siamo stati, come è giusto essere, pienamente rispettosi del potere giudiziario, che comunque non significa che non si possa discutere una sentenza, un provvedimento di un Gip o l’iniziativa di un PM, ciò che è successo in singoli e specifici casi»33.
I giornalisti di “Repubblica”, come conviene a chi vuole fare con professionalità un mestiere di servizio, sono chiamati a garantire la loro professionalità giornalistica tenendo separata l’appartenenza politica dal racconto obiettivo dei fatti, proprio nella misura in cui, per dirla con Scalfari, i giornalisti «agiscono come microfoni dell’opinione pubblica che vuole sapere quello che succede all’interno del “Palazzo”»34, sia a destra che a sinistra. Risultano a questo punto significative, ancora una volta, le parole di Valerio Varesi: «Nei confronti dei diversi gruppi sociali e istituzionali di Bologna, l’atteggiamento è sempre stato critico, anche verso l’amministrazione. Ricordo che facemmo, ad esempio, una discreta guerra a Walter Vitali, sindaco di Bologna appartenente al centro-sinistra. A volte eravamo anche più critici di altri. La stessa cosa è stata fatta anche nei confronti della Chiesa. Con il cardinale Biffi c’era uno scontro aperto: era un uomo intelligente, ma che aveva una visione arcaica e tradizionalista del mondo. Noi difendevamo il laicismo nei confronti dell’integralismo cattolico che lui rappresentava. Con l’imprenditoria avevamo un dialogo costante, e con i gruppi sociali “Repubblica” ha dimostrato apertura rispetto alle novità: abbiamo sostenuto le campagne più innovative del paese, come quando “Repubblica” si schierò a favore dell’attribuzione del Cassero all’Arcigay, perché lo ritenevamo un avanzamento sul fronte dei diritti civili; così come il giornale appoggiò l’aborto e tutte le campagne sociali, dando loro ampio spazio sulle sue pagine».
Nigro aggiunge: «I rapporti con le istituzioni e i centri di potere sono sempre più complessi di come uno se li immagina. Diciamo che “Repubblica” ha conquistato presto un ruolo di interlocutore, che può voler dire sia interlocutore amico che nemico. Con le amministrazioni locali abbiamo spesso avuto un rapporto buono e positivo, ma a volte anche conflittuale, e non solo con Guazzaloca, il primo sindaco di destra di Bologna. D’altronde era un atteggiamento di fondo del giornale. Vale lo stesso per gli industriali e per la Chiesa. Con la chiesa di Biffi, il rapporto era interessantissimo, perché lui rappresentava un’altra idea del mondo rispetto a “Repubblica”, ma era un personaggio talmente interessante che dal punto di vista giornalistico era impossibile non parlarne. La vera forza di “Repubblica” è quella di riuscire a dialogare con le istituzioni attraverso le loro figure chiave».
Se per un verso questo è sicuramente vero, non si può pensare che la neutralità sia stato il solo punto di forza di un giornale che è riuscito a inserirsi così profondamente nella trama editoriale degli anni ’80. Tutti gli intervistati concordano nel dire che anche i toni e il linguaggio, innovativi per il periodo, usati da “Repubblica” abbiano contribuito in maniera sostanziale alla sua affermazione, anche a Bologna, dove i canoni di giornalismo del nazionale vengono rispettati e adattati ad una realtà locale: «I pezzi errano scritti in modo un po’ più creativo rispetto alle tradizionali “5 W” inglesi. Il linguaggio che veniva usato in origine era più estroso, ricercato e colto. “Repubblica” ha avuto una titolazione gridata, più icastica e surriscaldata. Con il tempo sono nate delle differenze, ma secondo me dettate da cambiamenti più generali nel mondo, nel senso che se negli anni Ottanta c’era ancora un grande fermento sociale, per cui andavi a cercare i personaggi, il nuovo, adesso i giornali sono molto più cristallizzati e riflettono il fatto che mancano voci nuove e originali che si affacciano sulla scena, realizzandosi parallelamente un “impigrimento” generale dei giornali». Chiosa Aldo Balzanelli, che condivide la stessa lettura di Varesi: «Per quanto riguarda il linguaggio, soprattutto in una prima fase, c’era un’attenzione molto forte alla costruzione del pezzo. In una fase successiva questi aspetti si sono molto attenuati, un po’ perché la redazione è cresciuta molto con ingressi massicci di persone nuove e il gruppo è diventato più difficile da guidare. Un po’ perché, francamente, è cambiato l’atteggiamento dei giornalisti: non vedo più colleghi molto concentrati nella ricerca dell’attacco di un pezzo. Nei primi anni qui, ma ovunque, una delle scene più frequenti era vedere redattori che strappavano cinque, dieci, volte l’attacco perché non piaceva. Adesso questo non succede più».
6. I rapporti con la redazione centrale
Un ultimo argomento su cui è stata raccolta la testimonianza di tutti gli intervistati riguarda i rapporti della redazione bolognese con la redazione centrale di Roma, che si va ad analizzare attraverso le loro parole.
Ancora la segreteria di redazione, Silvia Rubini ricorda: «Ho avuto la fortuna di avere un ruolo particolarmente coinvolgente: all’epoca i responsabili di segreteria di una redazione avevano un ruolo molto autonomo, anche rispetto alla sede centrale, pure dal punto di vista decisionale o degli acquisti, praticamente gestivo l’ufficio da sola. Certamente però i direttori con i quali ho avuto modo di lavorare hanno prestato molta attenzione a tutte le edizioni locali, e proprio in quest’ottica Mauro ha istituito la conference call con tutte le redazioni ogni mattina alle 11. Era un modo per coinvolgere tutte le redazioni e sentire la voce di tutti».
A questo proposito Giovanni Egidio ribadisce: «la riunione è un modo per tenersi collegati e in sintonia con il giornale nazionale, a volte serve per capire che aria tira: senti che discutono particolarmente di una cosa e ti dà la possibilità di farci un ricasco sul locale. Altre volte arrivano delle richieste specifiche: tutte le redazioni devono fare un certo tipo di inchiesta che sviluppiamo sul locale restituendola a Roma in una forma più breve, in modo che possano comporre un pezzo panoramico. La conference-call è un modo per accorciare le distanze, per essere più coinvolti: mentre prima ricevevi una chiamata dopo la riunione del centrale in cui ti informavano delle decisioni prese, adesso ci si confronta. Dà molta soddisfazione riuscire talora a incidere sull’agenda romana, cioè quando proponi uno spunto su cui iniziano a lavorare anche loro attivando un’iniziativa in cui anche le altre locali si impegnano sullo stesso argomento lasciando a noi il pallino per fare il chiodo, la notizia portante prima dei vari approfondimenti».
Aldo Balzanelli, invece, tratta il tema da un punto di vista prettamente redazionale, asserendo: «l’autonomia era molto ampia, confidando sul fatto che i responsabili delle redazioni, che progressivamente crescevano in Italia, erano affini alla redazione centrale dal punto di vista culturale e del modo di fare il giornale. Io credo che in dodici anni di direzione qui a Bologna, Scalfari prima e Mauro dopo abbiano chiamato dieci volte per segnalare qualcosa che non andava. Ogni tanto un direttore o un vicedirettore decidevano che le locali avrebbero dovuto fare insieme un’inchiesta, altrimenti l’autonomia era praticamente totale, a volte quasi eccessiva. Nelle locali a tratti ti sentivi quasi abbandonato perché il gruppo dirigente del giornale era tutto preso dal fare il giornale nazionale e trascurava le cronache locali, spesso trascurava anche gli input che venivano dalle redazioni locali, perché “Repubblica” è sempre stato un giornale molto romano: tutto quello che succedeva a Roma era molto importante, quello che succedeva nelle zone periferiche, a meno che non fosse qualcosa di clamoroso, passava a volte in secondo piano. Ciclicamente, un vicedirettore riceveva l’incarico di seguire le locali, ma dopo un mese o due tornava tutto come prima. Anche perché è oggettivamente difficile per chi sta a Roma capire cosa succede qui: non conosce nessuno e deve necessariamente fidarsi di chi è sul territorio». Varesi e Nigro danno usano rispettivamente queste parole: il primo sostiene che «considerando il nostro profilo, l’autonomia sia totale. Magari le censure sono più sulla grafica che sui contenuti. È chiaro che se domani diciamo “Viva Casapound”, qualcuno ci richiama, ma non c’è una giurisdizione che sovrintende da Roma le nostre pagine»; il secondo invece spiega nel dettaglio: «C’è tanta autonomia. Talora la redazione centrale chiama alla sintonia sui temi, ma ognuno poi declina il giornale come vuole. Un ruolo molto forte ce l’hanno i capi-redattori locali: ad esempio, il giornale di Savonuzzi era molto più sbarazzino di quello di Ramenghi, l’approccio era totalmente diverso, ma è normale che sia così e anche Balzanelli e Egidio hanno il loro stile. In realtà distinguerei momenti diversi: all’inizio il rapporto con la redazione centrale era molto lasco. Scalfari incontrava tutti i nuovi entrati e la chiacchierata con lui incuteva una profonda soggezione, era una specie di Madonna Pellegrina: quando mi assunse Savonuzzi nel ’87, mi disse “Luciano domani mettiti la giacca blu e il pannolone, perché vai a parlare con Scalfari”. La stessa cosa accadeva con Indro Montanelli al “Giornale”. Il direttore ogni tanto girava le redazioni per coordinare qualche iniziativa, ma i caporedattori locali sono come quei viceré che stavano lontano e dovevano fare gli interessi della casa madre al meglio che potevano. Lo scambio vero si realizzava quando accadevano eventi importanti e venivano gli inviati. Quindi l’autonomia era enorme, da un certo punto di vista maggiore rispetto ad oggi, semplicemente perché si era più distanti. Adesso, ogni mattina ci si vede per la conferenza del mattino e gli scambi di opinione sono continui, per cui fra centro e periferia, sui temi comuni, la sintonia e il legame sono molto forti. Ma, anche oggi, la costruzione quotidiana del giornale è nella totale discrezione delle redazioni locali, che comunque devono tenere alto il livello e non perdere copie o pubblicità».

Note

  1. Intervista con l’autore raccolta il 10/05/2019 a Bologna.
  2. Inserto pubblicitario presente in Prima Comunicazione, gennaio 1976.
  3. Mauro Forno, Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano, Laterza, Bari, 2012, pag. 193.
  4. Eugenio Scalfari, Racconto autobiografico, Einaudi, Torino, 2014, p. 87.
  5. Eugenio Scalfari: “Vi racconto come è nato l’Espresso”
  6. Giovanni Valentini, la Repubblica tradita, PaperFIRST, Roma, 2016, p. 20.
  7. Cfr. Angelo Agostini, “la Repubblica”. Un’idea dell’Italia (1976-2006), Il Mulino, Bologna, 2005, p. 58.
  8. Marino Livolsi, La “macchina giornale”, in Marino Livolsi (a cura di), La fabbrica delle notizie. Una ricerca sul “corriere della Sera” e “la Repubblica”, Franco Angeli Editore, Milano 1984, p. 52.
  9. Sandro Valentini, Materiali per una storia della sinistra italiana, Edizioni Punto Rosso, Milano, p. 234.
  10. Giorgio Bocca, La gente vuole il giornale-giornale: il resto è pubblicità, in “Prima Comunicazione”, Gennaio 1976, p. 10.
  11. Ibidem
  12. Eugenio Scalfari, Un giornale indipendente ma non neutrale, in “La Repubblica”, 14 gennaio 1976, p. 6.
  13. Nello Ajello, La prima notte di Repubblica, in “La Repubblica”, 05 ottobre 1995.
  14. Maurizio Stefanini, Il partito “Repubblica”, Boroli Editore, Milano, cit., p. 53.
  15. Lorenzo Capitani, La storia e la memoria del PCI nel tempo del “disagio della democrazia”: il caso dell’Emilia-Romagna. Conversazione con Carlo Galli, in Lorenzo Capitani (a cura di), Emilia rossa. Immagini, voci, memorie della storia del PCI in Emilia-Romagna (1946-1991), Vittoria Maselli Editore, Correggio, 2012, p. 13.
  16. Cfr. il discorso tenuto da Togliatti al teatro municipale di Reggio Emilia il 24 settembre 1946, intitolato Ceto medio ed Emilia rossa
  17. L. Capitani, La storia e la memoria del PCI nel tempo del “disagio della democrazia”: il caso dell’Emilia-Romagna. Conversazione con Carlo Galli, in L. Capitani (a cura di), Emilia rossa. Immagini, voci, memorie della storia del PCI in Emilia-Romagna (1946-1991), cit., p. 12.
  18. La percentuale della popolazione attiva nell’agricoltura scese dal 51.7% del 1951 al 20% del 1971.
  19. La più importante azione collettiva di questo tipo si verificò in seguito alla devastante alluvione del Polesine (novembre 1951), quando gli attivisti del PCI aprirono le porte delle proprie case ai rifugiati senza tetto vittime delle inondazioni.
  20. Sebastiano Giordani, Tessere in rosso. Il Pci emiliano-romagnolo negli anni Settanta
  21. Intervista con l’autore raccolta il 24/05/2019 a Bologna.
  22. Intervista con l’autore raccolta il 24/05/2019 a Bologna.
  23. Roberto Bergamini, Il movimento fra sociale e politico: l’esperienza bolognese, in Giovanni Cocchi, Mirco Pieralisi, 1977-1987, dieci anni cento domande, Agalev Edizioni, Bologna, p. 170.
  24. Davide Ferrari, “Fra le culture diffuse”. Appunti sulla vicenda e i caratteri del PCI in Emilia Romagna, in L. Capitani, Emilia Rossa. Immagini, voci, memorie dalla storia del PCI in Emilia-Romagna (1946-1991), cit., p. 55.
  25. Gad Lerner, Una rottura necessaria, una finestra sugli anni Ottanta, in G. Cocchi, M. Pieralisi, 1977-1987, dieci anni cento domande, cit., p. 183.
  26. Intervista con l’autore raccolta il 10/05/2019 a Bologna.
  27. Intervista con l’autore raccolta il 13/05/2019 a Bologna.
  28. Aldo Ciampi, Montanelli lascia, Scalfari raddoppia, in “Orizzonti industriali”, n. 1/2, 1982, p. 27.
  29. Cfr. Fernando Pellerano, I 25 anni di Repubblica Bologna, in “Ordine Giornalisti Emilia Romagna”, gennaio 2006, n. 67, pp. 52-53.
  30. Aldo Ciampi, Montanelli lascia, Scalfari raddoppia, cit., p. 27.
  31. Ibidem, p. 28.
  32. L. Capitani, La storia e la memoria del PCI nel tempo del “disagio della democrazia”: il caso dell’Emilia-Romagna. Conversazione con Carlo Galli, in L. Capitani (a cura di), Emilia rossa. Immagini, voci, memorie della storia del PCI in Emilia-Romagna, cit., p. 19.
  33. Intervista con l’autore raccolta il 17/12/2018 a Bologna.
  34. Lavorano con più dignità, ma solo quattro mesi all’anno, in “Prima Comunicazione”, ottobre 1976, p. 37.

Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2019 Luca Altieri