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Platonismo e vitalismo in Inghilterra. Anne Conway e il matrimonio tra scienza sperimentale e spirito
di , numero doppio 46/47, luglio 2018/giugno 2019, Saggi e Studi,

Platonismo e vitalismo in Inghilterra. Anne Conway e il matrimonio tra scienza sperimentale e spirito
Come citare questo articolo:
Marco Ghione, Platonismo e vitalismo in Inghilterra. Anne Conway e il matrimonio tra scienza sperimentale e spirito, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 47, no. 3, luglio 2018/giugno 2019

1. Premessa

Nella seconda metà del XVI secolo, l’Inghilterra conosce uno sviluppo culturale e scientifico senza precedenti. Dopo la restaurazione monarchica e alla vigilia dei Principia newtoniani, anche per effetto della grande circolazione di idee che l’interregno di Cromwell aveva consentito, le accademie e i centri della cultura inglese assumono le fattezze di uno splendido laboratorio culturale. Si manifestano i primi prodotti di questa stagione straordinaria nella scienza politica di filiazione cartesiana e meccanicistica di Thomas Hobbes e nei lavori di un’intera generazione di scienziati e filosofi naturali, con a capofila gli air-pump experiments di Robert Boyle.
Nell’Inghilterra del secondo Seicento era quindi ben viva la presenza di circoli e istituzioni di efficacia e ingegno, dove i virtuosi dell’epoca riuscivano a elaborare e a diffondere i frutti delle loro indagini1. In tale cornice, così favorevole alla libera ricerca e allo sviluppo di nuove declinazioni di pensiero, matura il proprio sguardo sul mondo Anne Conway (1631-1679), rara figura di filosofa e studiosa di scienze. Indubbiamente la Conway si muove sullo sfondo di condizioni ambientali ed economiche assai benigne. La famiglia paterna era infatti ascesa al rango nobiliare grazie a un cursus honorum di tutto rispetto nel campo legale: il padre Heneagh era riuscito a raggiungere nel 1626 la posizione di Speaker alla Camera dei Comuni.
Anne Finch vede la luce il 14 dicembre 1631, pochi giorni dopo la morte di Heneagh, secondo marito della madre Elizabeth Bennett, sposata in prime nozze con un facoltoso mercante di Londra. Figlia della buona aristocrazia terriera inglese, Anne aveva coltivato fin dall’adolescenza vivaci interessi per la filosofia e le scienze applicate.
Anche il matrimonio a soli diciannove anni con il visconte Edward Conway, raffinato bibliofilo che poteva vantare una biblioteca di oltre diecimila volumi, le consentì di coltivare a fondo le sue inclinazioni. Le sue tendenze speculative si erano poi perfezionate sotto il magistero di Henry More (1614-1687), forse il maggiore tra i platonici di Cambridge, di certo il più illustre2. In precedenza era stato il fratello John Finch, medico destinato a una brillante carriera diplomatica, al quale Anne era molto legata, ad avvicinarla al filosofo inglese. John aveva infatti frequentato presso il Christ’s College di Cambridge le lezioni di More.
Pur essendole precluso, in quanto donna, l’accesso all’università, lady Conway ebbe modo apprendere le idee di More intrattenendo con lui un ricco carteggio. Per Anne non si trattava del primo scambio epistolare, né della prima occasione nella quale approfondiva la filosofia e la letteratura. Già la breve corrispondenza con il patrigno, il Visconte Conway, mostra come Anne fosse in possesso di un’erudizione quasi sterminata, che le permetteva di spaziare dalla lettura di contemporanei come i poeti John Donne e Henry Wotton, a riflessioni sulla querelle des anciens et des modernes3.
Il fratello John introdusse Anne all’attenzione di Henry More dopo aver ottenuto il Master of Arts al Christ’s College, nel 1649. Al tempo del suo incontro con Anne, More non si era ancora tuttavia distinto come uno dei grandi esponenti del platonismo di Cambridge, benché avesse rivelato le sue tendenze platoniche in una serie di poemi sull’anima vicini alla filosofia di Plotino4.
Il suo orientamento platonico del resto non gli impediva di entrare in contatto con le novità filosofiche più rilevanti del tempo, tanto da rendersi noto come uno dei primi esponenti del Cartesianesimo di Oltremanica. Nel 1648, dopo le entusiastiche letture del Discours e della Dioctrique, il giovane More aveva in effetti intrapreso, su incoraggiamento di Samuel Hartlib, una corrispondenza con Descartes, interrotta dalla morte del filosofo francese due anni più tardi. In essa More aveva sottolineato come la mancanza di estensione delle sostanze incorporee fosse un grave difetto dei sistema di Cartesio.
Peraltro, varie lacune della fisica cartesiana portavano il platonico inglese a sollevare altre obiezioni: non lo convincevano il vorticismo in relazione ai moti celesti, e la negazione dell’esistenza di uno spazio assoluto. La corrispondenza con Cartesio ammontava però solo a quattro lettere inviate da More, e a due repliche del filosofo gallico, più una terza che giunse postuma. Nondimeno, nonostante tali critiche, il pensatore inglese teneva in grande conto la filosofia naturale di Cartesio, come ci dimostrano queste osservazioni dell’amico John Worthington:

Avete raccomandato il più possibile lo studio di Des Cartes, non conoscendo migliore introduzione alla filosofia. Anche nei vostri libri tornate vigorosamente su tale consiglio, al punto di avere così acceso alcuni animi a tale impresa che la vostra lettera a V.C., scritta molto tempo dopo, non è servita a renderli più moderati. Essi infatti si sono letteralmente entusiasmati del filosofo5.

More d’altronde non era l’unico tra i savants d’Oltremanica a nutrire un grande interesse per Cartesio e la sua opera. Anche William Cavendish e Sir Kenelm Digby, come il matematico John Pell6, mostravano ammirazione per il filosofo e scienziato francese. Tali nuovi fermenti si accompagnavano all’esigenza di sostituire nell’apprendimento della filosofia il vecchio aristotelismo delle università con uno schema pedagogico più fresco.
Nel 1654 John Webster aveva inoltre proposto una riforma universitaria che introduceva Cartesio nel curriculum. Tuttavia, come è possibile notare nella corrispondenza tenuta con Cartesio, la recezione del cartesianismo da parte di More non era stata certo acritica o incondizionata. Sono le lettere del carteggio tra More ed Anne Conway, che, in quanto donna, non poteva beneficiare della frequentazione del college di Cambridge come il fratello, a dirci di più intorno alle idee del filosofo platonico su Cartesio e sul ruolo che giocava nel suo insegnamento.
Dalle lettere si comprende come il cartesianismo fosse alla base della pedagogia di More. Purtroppo di questa introduzione alla filosofia tramite lo studio di Cartesio ci sono rimaste solo quattro lettere, tre di More e una quarta scritta da Lady Conway in risposta al maestro. Il testo base su cui vertevano le analisi di More e le osservazioni della Conway erano i celebri Principia philosophiae, tradotti dal filosofo inglese. Ma era una questione di methodus discendi, più che di contenuti metafisici, a far prediligere a More i testi cartesiani. A More premeva in primo luogo la formazione della capacità critica dell’allievo, e in quest’ottica i testi cartesiani costituivano un eccellente banco di prova.
Dalla corrispondenza con la Conway emerge, insomma, il sostanziale interesse di More per il metodo cartesiano sul piano pedagogico. Un metodo ideale per il filosofo dilettante, il quale non poteva disporre di elaborate nozioni di logica o di storia della filosofia, e che basandosi sul mero common sense poteva stimolare con successo il ragionamento filosofico.
Abbiamo invece visto come riguardo alla fisica di Descartes il giudizio di More non fosse altrettanto benevolo, pur giudicando centrali i suoi contributi. Per More era infatti di prima importanza l’abbozzo di una filosofia naturale in grado di assorbire i recenti guadagni meccanicisti e cartesiani, e tuttavia capace di svincolarsi dall’ interpretazione che ne forniva il filosofo francese, così poco affine alla tradizione platonica. In questa impresa costruttiva, la dimostrazione dell’esistenza di entità incorporee sarebbe stata fondamentale.
D’altra parte, tutta la metafisica dei platonici di Cambridge parla di uno Spirito Naturale che vivifica il cosmo, agente universale che nella declinazione della filosofia di More viene anche definito “Principio Hyliarchico”. More cercava di estendere l’applicazione di questo schema anche alle scienze empiriche, spingendosi a leggere negli esperimenti di Robert Boyle sulla pompa ad aria la prova dell’esistenza dello Spiritus Naturae.
La risposta di Boyle alla lettura vitalistica dei suoi esperimenti fu tuttavia ferma e precisa. Il grande chimico inglese respingeva le ipotesi circa l’esistenza di cause intermedie tra il Creatore e la materia. Boyle ammetteva l’esistenza di fenomeni naturali provocati da processi non visibili, ad esempio negli effetti del magnetismo, ma non per questo – a suo avviso – era necessario ricorrere all’intervento di uno spirito universale per spiegarli, come avevano fatto alcuni filosofi naturali di indirizzo paracelsiano7. Non è tuttavia chiaro se il deciso rifiuto di Boyle verso enti intermedi e teorie metafisiche fosse motivato solo da un rigido razionalismo sperimentale, oppure se vi giocasse una parte considerevole anche la sua rigida professione di fede, che riteneva minacciata da idee di matrice neoplatonica8.
In ogni caso, anche Lady Conway sposò una filosofia naturale di stampo vitalista, ma, a differenza di More, respinse del tutto ogni compromesso con il dualismo cartesiano. Vedremo quindi come il pensiero della Conway, pur facendo tesoro dell’influenza di More, si sia sviluppato con una certa originalità, grazie al suo spirito indipendente di ricerca ma anche alla conoscenza di Franciscus Van Helmont, grazie alla quale venne in contatto con la kabbalah ebraica.

2. La filosofia di Anne Conway tra Henry More e l’incontro con Franciscus Van Helmont

L’afflato vitalistico che, insieme al platonismo, pervade l’opera di More costituisce un’influenza all’epoca piuttosto comune, e si radica in una determinata concezione della storia e della conoscenza di derivazione rinascimentale. Sarah Hutton ha interpretato il movimento dei platonici cantabrigensi come una vera e propria rifioritura in terra inglese del platonismo fiorentino del tardo Quattrocento9. Tuttavia il platonismo di Cambridge manteneva una sua identità precisa, che ci impedisce di etichettare il circolo come una mera riproposizione della filosofia ficiniana. In un paese così proiettato alle conquiste mercantili ed alle esplorazioni geografiche, all’indomani della rivoluzione cromwelliana, gli elementi di innovazione erano tali che una ripetizione pedissequa della filosofia del Rinascimento italiano sarebbe stata impossibile.
Il cartesianesimo aveva del resto mutato definitivamente il ruolo dell’uomo nel pensiero e nell’apprendimento degli studi scientifici. Nonostante tali divergenze, peraltro, la cultura rinascimentale lasciò ai platonici di Cambridge ed al pensiero della Conway un grande legato, la centralità dell’approccio sincretista in filosofia, ovvero l’esaltazione della philosophia perennis. Il termine fu coniato da Agostino Steuco,10 ma l’idea di una convergenza tra le grandi dottrine e le grandi religioni era moneta corrente nella cultura della prima età moderna. Con il termine philosophia perennis ci si riferisce infatti al nucleo immutabile di ogni sapienza, la verità eterna verso cui convergono le grandi dottrine degli antichi e dei moderni, trasmessa sotto diverse forme e sotto differenti latitudini filosofiche.
Il secolo della scienza sperimentale ancora ben conservava l’ideale della philosophia perennis. Si trattava infatti di una concezione ben presente anche nei circoli di matrice pansofista, come quello di Hartlib, e nello stesso Cambridge circle di More e Cudworth; era stata però bandita dai grandi affreschi teorici di Cartesio, Hobbes e Spinoza. Il manifesto della filosofia perenne di More è senz’ altro la sua Conjectura cabalistica del 165311. Nel libro, la fonte originaria della prisca sapientia era identificata dall’autore con la cabala giudaica, che sarebbe passata da Mosè a Pitagora e quindi a Platone, infondendo in ogni grande teoria il proprio nucleo immutabile di verità. L’opera di More, tuttavia, si occupa principalmente di esporre, sotto il velo di questa sapienza atemporale, i grandi temi e i grandi autori della filosofia platonica, fusi sia con la filosofia vitalista sia con le istanze corpuscolari tipiche del meccanicismo del suo tempo. In ogni caso, da degno esponente della philosophia perennis, Henry More fa risalire i prodromi della sua corrente fino al pitagorismo. Secondo More, infatti, la dottrina dei pitagorici comportava, oltre alla platonica teoria delle idee, la credenza in un diffuso spirito vitale che animava il cosmo, composto tuttavia da atomi.
Questa varietà di influenze esercitò senza dubbio una certa attrazione su Anne Conway e sul suo progetto di costruire una propria, autonoma, visione filosofica. Al centro di una vita intellettualmente molto intensa e certo rara anche nell’ambiente privilegiato dell’aristocrazia terriera anglosassone, il disegno filosofico della Conway sembra esprimersi per un lato nei rapporti che coltivò, incidendo nel pensiero dei suoi compagni di riflessione, per l’altro negli scritti concepiti, primo tra tutti i Principia. L’opera centrale di Anne Conway, nella quale espone la sua filosofia, sono infatti i Principia, stesi in latino e in seguito tradotti e pubblicati postumi con il titolo di Principles of the most Ancient and Modern Philosophy, per interesse di Franciscus Van Helmont12. Il trattato, probabilmente sempre grazie a Van Helmont, arrivò fin nelle mani di Leibniz13. I Principia condividono con il platonismo di Cambridge il tributo a una prisca sapientia, nella convinzione che il cuore speculativo delle dottrine degli antichi propaghi i suoi influssi anche nelle filosofie più recenti.
Senza dubbio, nel testo, uno dei principali elementi innovativi rispetto al maestro More è il netto rifiuto del dualismo cartesiano. More aveva infatti diviso nella sua metafisica il mondo in materia e spirito, senza tuttavia dipendere dalla separazione cartesiana tra res cogitans e res extensa. Per il filosofo di Cambridge era infatti una pura assurdità ritenere che la mente non trovasse una collocazione nello spazio. Proprio in base a questo motivo, definiva infatti Cartesio “the prince of nullibists”. Dunque, rigettato il dualismo meccanicista, la filosofia naturale di Anne Conway appare in equilibrio tra una spiccata attenzione verso il mondo naturale e una visione del cosmo pervasa da un afflato mistico e religioso, dovuta in buona probabilità anche all’influenza di Van Helmont.
Bersaglio principale è l’idea di More che separa la divisibilità dei corpi dall’indivisibilità delle anime. In questa affermazione Anne scorge una contraddizione insanabile della filosofia di More, capace di minarla alle sue stesse radici. Infatti, rifiutando Cartesio, il pensatore inglese associa anima e corpo nell’ unica categoria della res extensa, differenziando la natura delle due sostanze solo in virtù dei diversi attributi. Si può quindi affermare che solo entro certi limiti la Conway rimanga fedele alla dottrina del maestro, anche se è possibile ritenere che questa sua posizione fermamente monista sia emersa a seguito dell’incontro con Van Helmont figlio e con i testi della kabbalah ebraica.
L’ultimo significativo periodo della vita intellettuale di Anne Conway vede infatti l’influenza determinante del medico e filosofo Franciscus Mercurius Van Helmont (1614-1698), conosciuto per la prima volta nel 1670. Benché fosse un valente filosofo naturale, Franciscus doveva la sua formazione al padre Jean Baptiste van Helmont (1579-1646), che con i suoi scritti aveva profondamente influenzato la chimica e le dottrine biologiche del Seicento europeo.
L’incontro tra Franciscus Van Helmont e Lady Conway fu decisivo per entrambi. Il vitalismo helmontiano ben si conciliava con le idee della Conway, nutrite del platonismo del circolo di Cambridge e aperte verso i settori della conoscenza che facevano ricorso alle pratiche alchemiche e spagiriche. Van Helmont era arrivato in Inghilterra al fine di concludere un affare importante per conto della sua protettrice, la principessa Elisabetta del Palatinato. Il poligrafo fiammingo ebbe anche modo di visitare Henry More, il cui parere era stato richiesto da Kristian Von Rosenroth in modo da avere nuovi lumi sull’opera di traduzione e di divulgazione della kabbalah ebraica che stavano portando a compimento, destinata nel giro di pochi anni a concludersi con la stampa della Cabbala Denudata14.
Del resto, già da tempo sull’isola, inizialmente per merito di Samuel Hartlib e del suo circolo, la medicina paracelsiana e la iatrochimica del vecchio Van Helmont erano state trionfalmente accolte. La piena ricezione della fisica helmontiana avvenne però solo con la traduzione del magnum opus del medico fiammingo, l’Ortus medicinae, nel 1664, per iniziativa del figlio Franciscus15.
La scienza della vita di Van Helmont percorreva una strada propria, lontana dall’aristotelismo e dal galenismo come dal paracelsismo e dalle filosofie atomistiche allora in vigore. Van Helmont poneva alla base della natura delle monadi incorporee, soffuse da un principio vitale, capaci di combinarsi e di comporre ogni cosa.
L’elemento che fungeva da sostrato era l’acqua, che in ogni corpo si combinava al fuoco, il principio attivo, in modo da costituire una coppia di principi, il primo maschile ed igneo, il secondo femminile e umido. Tutti gli enti vitali erano inoltre informati da un principio cosmico di natura divina, il Blas, l’agente responsabile dei loro cambi e movimenti. Nel loro sviluppo, gli organismi si generavano dall’acqua grazie ai loro semi e al principio vitale che contraddistingueva le caratteristiche di ciascuno, l’archeus16.
Nella moltitudine di queste differenziate monadi vitali che formavano le creature e gli esseri viventi, si riscontrava infine un archeo principale, capace di determinare la complessione generale della creatura, l’archeus influens. Anche se non siamo certi di una conoscenza diretta delle opere di Van Helmont da parte di lady Conway, è assai probabile che grazie a Franciscus avesse appreso i rudimenti essenziali delle teorie del padre.
Del resto, alcuni aspetti della filosofia naturale di lady Conway presentano notevoli affinità con il pensiero di Van Helmont padre. Anne d’altronde riteneva, al pari di Van Helmont, che i corpi solidi traggano origine da un fluido, e che ogni sostanza fosse in origine spirituale, e non corporea. Franciscus Van Helmont divenne in breve tempo il medico personale di lady Conway, tanto da prendere dimora nel 1671 nella villa di Anne e del marito a Ragley, nel Warwickshire. Sebbene il suo contributo non si dimostrò alla fine dei conti decisivo per la guarigione di Anne, la profonda vicinanza dei suoi interessi speculativi a quelli di Anne fu alla radice di un forte legame intellettuale tra i due, e probabilmente anche della conversione di entrambi al quaccherismo17.
Quest’ultima, radicale, scelta avviene negli ultimi anni di vita di Anne, probabilmente tra il 1677 ed il 1678. Una simile professione di fede poneva lady Conway in aperto contrasto sia con la sua famiglia sia con il maestro More, mentre la avvicinava naturalmente a Van Helmont, che aveva avuto modo di frequentare i Quaccheri già nel Palatinato, e al leader scozzese del movimento George Keith, anch’egli profondamente influenzato dalla cabbala di Rosenroth18. Di certo tra i motivi di questa conversione stanno i dolori che colpivano Anne fin dalla più tenera età, che la dottrina quacchera esaltava attraverso la meditazione sulla figura del Christus Patiens, modello universale della sofferenza di tutti i credenti.

3. Alcune conclusioni

Un bilancio provvisorio su una figura così ricca, tanto nella vita quanto nel pensiero, di implicazioni di ordine filosofico, scientifico, sociale e religioso come quella di Lady Anne Conway si mostra assai problematico. Lady Conway visse in qualche modo da appartata protagonista una stagione straordinaria nell’evoluzione della scienza e della storia delle idee, riuscendo tuttavia a ricavare una propria originale sintesi da tutti i fermenti culturali che allora agitavano la società inglese più colta. Senza dubbio una delle cifre più caratteristiche del suo pensiero fu – sulla scorta degli insegnamenti di More e Van Helmont, ma anche di altre influenze – il grandioso tentativo di conciliare una filosofia attenta ai fenomeni empirici e ai recenti guadagni delle scienze con una concezione profondamente spirituale dell’uomo e del cosmo.
Che un disegno speculativo così articolato fosse opera di una donna estremamente colta e versatile, la quale comunque all’interno della vita pubblica dell’epoca occupava una posizione piuttosto marginale, è sicuramente motivo di stupore e riflessione, ma rappresenta anche un vivo stimolo per ulteriori ricerche.

Note

  1. Per un inquadramento generale su scienza e tecnica in Ighilterra fra il Sei e Settecento, si consultino, a titolo ricognitivo, Cristopher Hill, Milton and the English Revolution, Penguin Press, London, 1979; Charles Webster, Samuel Hartlib and the Advancement of Learning, Cambridge University Press, Cambridge, 1970; Steve Shapin, Simon Schaeffer, Leviathan and the Air-Pump: Hobbes, Boyle, and the Experimental Life, Princeton University Press, Princeton, 1985; Lawrence Principe, The Aspiring Adept: Robert Boyle and His Alchemical Quest, Princeton University Press, Princeton, 1998.
  2. Il nucleo costitutivo del circolo di pensatori inglesi noto come platonici di Cambridge sorge per l’iniziativa di Benjamin Witchcote, che durante la guerra civile inglese ebbe la funzione di cappellano del King’s College di Cambridge. Vedi Rogers, G.A.J., J.-M. Vienne, Y.-C. Zarka (eds.), The Cambridge Platonists in Philosophical Context. Politics, Metaphysics and Religion, Kluwer Academic Publishers, Dodrecht, 1997; Mario Micheletti, I platonici di Cambridge. Il pensiero etico e religioso, Morcelliana, Brescia, 2011.
  3. Cfr. The Conway letters. The Correspondence of Viscountness Anne Conway, Henry More and their Friends, edited by S. Hutton and M. H. Nicolson, Clarendon Press, Oxford, p. 35.
  4. Henry More, Psychodia platonica: or A platonicall song of the soul, [microform] consisting of foure severall poems; viz. Psychozoia. Psychathanasia. Antipsychopannychia. Antimonopsychia, Cambridge, 1642. Cinque anni più tardi More diede alle stampe altri poemi di argomento filosofico. Cfr. Id., Philosophicall Poems, Cambridge, printed by Roger Daniel, 1647.
  5. John Wortington, The Diary and Correspondence of John Worthington, edited by J. Crossley and R.C. Christie, Chetham Society, Manchester, 1847-1886, vol. III, p. 254. Traduzione propria.
  6. John Pell (1611-1685), matematico inglese, gravitò nella giovinezza intorno al circolo di Samuel Hartlib, del quale condivideva gli ideali pansofici ed enciclopedisti. Nel 1638 si fece promotore della creazione di un linguaggio universale. Si veda Noel Malcolm, Jacqueline Stedall, John Pell (1611-1685) and His Correspondence with Sir Charles Cavendish: The Mental World of an Early Modern Mathematician, Oxford University Press, Oxford, 2005.
  7. Si veda Robert Boyle, An Hydrostatical Discourse occasioned by the Objections of the Learned Dr. Henry More (1672), in The Works of the Honourable Robert Boyle, London, 1772, vol.III, p.276.
  8. Sarah Hutton propende per la seconda interpretazione. Vedi Sarah Hutton, Anne Conway. A woman philosopher, Cambridge University Press, Cambridge, 2004, p. 136.
  9. S. Hutton, Anne Conway, cit., pp. 157-159.
  10. Agostino Steuco (1497-1548), umanista e letterato, nel suo De perenni philosophia tentò di dimostrare come la maggior parte delle dottrine professate dagli antichi fossero in sostanziale armonia con i principi della fede cattolica.
  11. Henry More, Conjectura cabbalistica: or, a Conjectural Essay of Interpreting the Minde of Moses According to a Threefold Cabbala, viz., Literal, Philosophical, Mystical, London, J. Flesher, 1653.
  12. Anne Conway, Principia philosophiae antiquissimae et recentissimae de Deo, Christo, et creatura id est de spiritu et materia in genere, in Opuscula philosophica…, Amsterdam, 1690; modern reprint Id., The Principles of the most Ancient and Modern Philosophy, parallel text edition by Peter Loptson, Delmar, New York, 1998.
  13. Cfr. Allison Coudert, Leibniz and the Kabbalah, Kluwert, Dodrecht, 1995, e Id. The Impact of the Kabbalah in the Seventeenth Century. The Life and Thought of Franciscus Mercurius van Helmont (1614-1698), Brill, Leiden, 1999.
  14. Kabbalah denudata seu doctrina hebraeorum trascendentalis et metaphysica atque theologica opus antiquissimae philosophiae barbaricae variis speciminibus refertissimum, Sulzbach, 1677-78. Vol II, 1684. Sulla diffusione delle dottrine cabalistiche nel XVI secolo europeo si veda ancora Allison Coudert, The Impact of the Kabbalah, cit.
  15. Jean Baptiste Van Helmont, Ortus medicinae, id est initia physicae inaudita, progressus medicinae novus in morborum ultionem ad vitam longam…edente authoris filio Francisco Mercurio van Helmont, cum ejus praefatio ex Belgico translata, Elzevir, Amsterdam, 1648.
  16. Ortus medicinae, cit., pp. 500-501.
  17. Il movimento dei Quaccheri, noto come the Religious Society of Friends, nacque in Inghilterra intorno alla metà del XVII secolo per iniziativa di un gruppo di predicatori appartenente al calvinismo puritano dedito alle presunte pratiche della Chiesa delle origini, come il sacerdozio universale di tutti i credenti. I principali esponenti furono George Fox (1624-1691) e Robert Barclay (1648-1690). Il movimento ebbe una straordinaria diffusione nelle colonie dell’America del Nord.
  18. George Keith, Immediate Revelation, or Jesus Christ the Eternall Son of God….and the Things of his Kingdom immediately, 1668.

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