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Quando la fine appare l’inizio: l’evoluzione della lotta armata fra pentitismo e dissociazioni in Brigate Rosse e Prima Linea
di , numero 56, dicembre 2023, Saggi e Studi, DOI

Quando la fine appare l’inizio: l’evoluzione della lotta armata fra pentitismo e dissociazioni in Brigate Rosse e Prima Linea
Come citare questo articolo:
Esther Guiducci, Quando la fine appare l’inizio: l’evoluzione della lotta armata fra pentitismo e dissociazioni in Brigate Rosse e Prima Linea, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 56, no. 5, dicembre 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.11057

1. Introduzione


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Il presente contributo mira ad analizzare il fenomeno lottarmatista negli anni Ottanta, momento culminante della fase emergenziale e post-emergenziale, prendendo in esame il progressivo processo di degradazione di due dei principali gruppi della sinistra estrema, Brigate Rosse e Prima Linea. In questo senso, si cercherà di ricostruire la sintomatologia che chiarisce la difficoltà delle organizzazioni nel portare avanti la progettualità armata, che lungi dal rappresentare la fase iniziale d’accesso al processo rivoluzionario, palesa in maniera sempre più lampante il progressivo svuotamento di prospettiva politica e d’analisi interna alle due entità di riferimento.
Soprattutto alla luce della contestuale ridefinizione di «un assetto politico e culturale che rielabora linee nuove di ricostruzione delle società»1 avviatasi nel nuovo decennio, l’ipotesi armata, per come essa viene pensata e rapportata al movimento trasformativo nel suo complesso, comincia a rendersi impraticabile e a mostrare la fragilità delle organizzazioni nel loro rapporto con la classe di riferimento, anch’essa investita da un processo di modificazione significativa. A ciò si aggiunge, peraltro, anche l’azione dello Stato italiano, che imbocca la strada della “guerra” con la durezza della sua risposta difensiva2 ; perciò, nella complessa dialettica rivoluzione/controrivoluzione che si ingenera, la sempre più debole tenuta interna di Br e Pl si scontra necessariamente con l’insieme di provvedimenti giuridici, legislativi, penali e politici che mirano al disgregamento dei gruppi stessi e all’uscita dal terrorismo. Gli effetti che la sconfitta militare, gli arresti e le delazioni sempre più numerose comportano, non fanno altro che accelerare il processo di decadenza già avviato all’interno organizzazioni, ormai ripiegate intorno al baluardo della costruzione del partito armato che ormai non distingue più fra mezzi e finalità e che, in maniera sempre più lampante, si esaurisce nel puro militarismo. E allora, mentre si assiste al riassetto della legalità parlamentare, l’erosione del progetto armato -che, nel frattempo, raggiunge l’apice dell’efferatezza proprio nei suoi ultimi colpi di coda- si manifesta anche in tutta una serie di risposte dei militanti alla crisi che spaziano dal pentitismo, alla dissociazione sino, ad esempio, a chi ipotizza riorganizzazioni delle strutture e ricerca nuovi terreni di lotta, come quello carcerario.
Sullo sfondo dello scontro con lo Stato, la rottura del fronte eversivo si declina in un complesso insieme di cause ed effetti, in cui a favorire la ritirata dell’esercito rivoluzionario compartecipano anche la collaborazione dei pentiti, la stretta repressiva e le svolte significative impresse alle indagini già dall’inizio del decennio3. Ponendo come obiettivo la ricostruzione del processo di esaurimento del progetto armato, della sua eziologia e delle conseguenze, si è scelto di assumere come “sistemi”, dunque organismi dotati di strutturazione e logica interna, i più noti gruppi lottarmatisti italiani, Brigate Rosse e Prima Linea; la scelta di privilegiare i due attori, peraltro, permette anche di valutarne le evoluzioni storiche e politiche reinserendole all’interno della tradizione marxista rivoluzionaria e di matrice marxista-leninista, a cui esse fanno riferimento in maniera più o meno esplicita e rispetto alla quale è possibile individuare degli smarcamenti significativi in relazione allo svolgimento del processo rivoluzionario stesso, tanto più se contestualizzati rispetto alla parentesi di crisi generale che si trovano ad attraversare. Le parabole delle organizzazioni, infine, vengono contestualizzate in un lasso temporale che procede dal 1980 al 1987, in modo tale da riuscire ad abbracciare la fase post-emergenziale e gli itinerari giuridici e legislativi che hanno portato all’elaborazione di leggi ad hoc per l’uscita dal terrorismo. In ultima istanza, ripercorrere la parabola involutiva dei gruppi eversivi e stilare un bilancio sia sulle motivazioni profonde che ne stanno alla base, sia sugli effetti che esse hanno comportato, non può prescindere dai percorsi personali e dalle adesioni dei militanti; perciò, il saggio muove anche attraverso le loro testimonianze, avvalendosi dei documenti e delle interviste risultanti dal programma di ricerca sul terrorismo portato avanti, dal 1981, dall’Istituto Cattaneo di Bologna.

2. Il progetto armato e la caduta nell’interregno
L’interregno4 gramsciano in cui prende vita il processo di decadimento dei gruppi eversivi è un luogo perturbante, del tutto sconosciuto poiché rinnovato e, al contempo, profondamente familiare. È lo scenario in cui, a partire dal 1980 -anno in cui culmina, peraltro, il terrorismo su ambo i versanti5-, si delinea un decennio che nasce in piena contrapposizione con tutto ciò che il precedente ha rappresentato. È l’ecatombe dell’impegno per come lo si era inteso fino a quel momento, delle identità collettive forti, teatro della disaffezione per i partiti e della «riformulazione della politica»6. E mentre la ristrutturazione capitalistica e il neoliberalismo ridefiniscono economia, lavoro e società, «l’onnivora categoria del riflusso»7 abbraccia la propensione ai consumi, all’evasione in ogni sua forma, al ritorno del privato sul pubblico che vede sostituire «le vetrine al posto dei libretti rossi»8. Nella terra di passaggio fra vecchio e nuovo, tuttavia, al clima edonistico, al “rampantismo” mai esausto, all’elezione della corruzione a nuovo sistema, fanno contrappeso gli spettri di quanto avviatosi negli anni precedenti; e, nonostante le immagini patinate e il benessere ostentato, «il terreno attorno è scandito dalla degradazione sociale, dalla droga, dall’industria dei sequestri e dalla lotta armata9».
Lotta armata, dunque, come fenomeno che ancora persiste negli anni Ottanta. Ma il suo protrarsi è un incedere claudicante, gli ultimi spasmi di un corpo morto. Tuttavia, la complessità dell’evoluzione – o involuzione- storica di Brigate Rosse e Prima Linea, a questa altezza, coincide e continuerà a coincidere anche con un grado di attivazione militare estremamente significativo10. Crisi e apogeo si controbilanciano, anche se i sintomi del profondo logoramento interno a cui sono sottoposti i due gruppi e il loro progetto armato cominciano a rendersi del tutto autoevidenti. Soprattutto interrogando la pubblicistica d’area, l’impressione che si ricava è quella di una profonda necessità di stilare un bilancio su quanto è avvenuto e quanto sta avvenendo: una riflessione non solo strategica, ma anche teorica da discutere in merito alla dialettica esistente fra movimento rivoluzionario e classe di riferimento. Perciò, mentre Br e Pl vivono le loro vicenda su «due livelli, quello dello stillicidio degli attentati e quello dell’avvio di profonde fratture interne»11, le altre anime che compongono la Nuova Sinistra cominciano ad interrogarsi sulla liceità della violenza politica. Ci si può riferire, ad esempio, ad una delle ultime testate esplicitamente marxiste-leniniste, Andare Controcorrente: il giornale, in questo caso, pubblica una disamina che risulta significativa rispetto a quanto sta accadendo fra le file due gruppi, toccando, peraltro, una delle problematiche fondamentali del rapporto fra rivoluzione e utilizzo della violenza come mezzo politico:

«Il terrorismo ha fallito proprio nel rapporto tra lotta generale delle masse e lotta armata, confondendone i termini e scambiandone i ruoli. È però assai strano che chi non si cura del lavoro di crescita ideologica, politica e militare tra le masse si definisca rivoluzionario. […] La concezione militaristica di porre l’individuo al di sopra della classe, l’assassinio politico al posto della lotta di classe non potevano che accelerare lo sgretolamento di chi ha inteso clandestinizzarsi. Inoltre, è stato confermato che la scelta della lotta armata senza un legame organico con la classe operaia, cioè senza che questa partecipi dirigendo la lotta contro gli apparati dello stato, è come sempre una scelta suicida […]. Difficile è invece costruire giorno dopo giorno, quel rapporto politico con la classe, per organizzare i vari momenti di lotta, far crescere la coscienza rivoluzionaria delle masse, partendo dal loro livello di comprensione della realtà, sapendo utilizzare bene i crimini della borghesia e non, al contrario, pretendere e credere di imporre il proprio livello soggettivo.12»

L’impressione che se ne ricava è non solo di una generica esautorazione della legittimità dell’ipotesi armata -che, perlomeno fino alla metà del decennio precedente, era stata condivisa da una parte della stessa sinistra extraparlamentare e legittimata de una certa «opacità operaia»13 -, ma anche quella di un processo di scollamento sempre più evidente dalle masse proletarie da parte delle organizzazioni che si fanno depositarie delle loro rivendicazioni e necessità. Il contributo prende nome, non casualmente, di Fallimento di una strategia suicida. Lasciamo spazio, dunque, ad alcune considerazioni. Il cortocircuito interno al progetto lottarmatista per come esso era stato pensato fino ad allora diviene sempre più palese; Br e Pl iniziano a mostrare difficoltà d’analisi e d’interpretazione delle mutate condizioni in cui si muovono, soccombendo di fronte ad un compito politico che non si distingue da quello militare, ma che anzi nasce come immediatamente tale. A posteriori, con la conclusione dei processi e a pene scontate, sono gli stessi militanti a tornare a riflettere sull’impasse in cui le organizzazioni si ritrovano. Moretti, ad esempio, nell’ammettere la sconfitta militare inferta dallo Stato italiano alle Brigate Rosse, sottolinea in realtà come il problema, e dunque anche la grande spia del logoramento delle capacità d’analisi politica, sia stato il non aver compreso il cambiamento del tessuto sociale all’interno del quale era nato originariamente il progetto armato14; parimenti, anche Barbara Balzerani, considerando una serie di cause interne ed esterne rispetto al processo di sconfitta, rileva le scissioni interne, gli arresti di massa, le sconfitte subite abbiano contribuito alla debolezza politica, ma che tuttavia, la ragione prima della sconfitta è la crisi del progetto politico, mascherato da una grande capacità militare, ma ormai svuotato di significato complessivo15. L’incapacità di operare nelle condizioni storiche mutate degli anni Ottanta, e l’impossibilità di ripensare non solo la propria strategia, ma anche presenza politica, segna l’inizio dell’isolamento del gruppo.
Parimenti, anche fra le file di Prima Linea alcuni militanti hanno una percezione non dissimile e, già sincronicamente rispetto al lasso temporale a cui ci stiamo riferendo, si accusano a vicenda di «aver forzato la visione della realtà in modo arbitrariamente soggettivo»16. Dunque, le organizzazioni «ignorano i processi di ristrutturazione in atto»17 e, se da un lato forzano le interpretazioni del contesto -basti pensare, ad esempio, ai capi storici di Pl che già nel 1979 sono convinti che «ormai la guerra civile è esplosa»18-, dall’altro non sembrano in grado di comprendere la portata della «congiuntura di transizione»19 nella quale si trovano ad operare. A ciò si aggiunge, peraltro, anche l’aver accantonato ogni ruolo “didattico” nei confronti delle masse proletarie; la classica idea di avanguardia leninista viene capovolta e non c’è tentativo di preparare politicamente la classe di riferimento, ma si opera al di fuori di essa, pur pretendendo di farsene interpreti.
Va rilevato che il vuoto di prospettiva comincia anche a rifrangersi nelle numerose fratture interne che puntellano Brigate Rosse e Prima Linea, le quali rendono ineludibili non solo le differenze interpretative della nuova congiuntura in cui si trovano ad agire le organizzazioni, ma anche l’inadeguatezza del perpetrarsi, strenuo, di una strategia armata svincolata da ogni lucida analisi concreta che tenesse conto della condizione del movimento, delle condizioni oggettive e, dunque, anche della risposta dello Stato, che con la stretta repressiva e legislativa chiarisce già dagli albori del decennio la volontà di risolvere il problema terroristico con mezzi straordinari20. L’impossibilità, dunque, della costruzione di un fronte politico unitario che allargasse «la discussione a settori più ampi della sinistra estrema, non solo quella clandestina e militarizzata»21 comporta, a ben vedere, due ordini di conseguenze. Prendendo in considerazione l’annata 1980-1981, per quanto riguarda le Br, è possibile rintracciare già una serie di elementi critici che dimostrano la difficoltà di elaborazione di una strategia politica ad onda movimentista ormai esaurita, nonostante la loro efficienza in termini militari -basti ricordare, in questo senso, la sequenza di omicidi e rapimenti della primavera-estate ’81 che funge de indicatore sintomatico rispetto alle capacità armata del gruppo22. Peraltro, la graduale «presa di consapevolezza profonda di una sconfitta, prima politica e di conseguenza militare»23 viene ad enfatizzarsi soprattutto quando l’azione statale riporta le prime grandi vittorie in termini di arresti e delazioni; all’altezza del febbraio 1980, mentre le Br sono al punto più alto della loro «propaganda del fatto»24, viene arrestato Patrizio Peci e comincia a delinearsi, all’interno dell’organizzazione, il problema non solo delle infiltrazioni, ma anche quello delle collaborazioni e del pentitismo, conseguenze ennesime del processo di degradamento politico:

«Le masse operaie ci avrebbero seguiti? […] non ci sarebbe stato nessun coinvolgimento delle masse, noi saremmo rimasti sempre gli stessi e quindi saremmo finiti in galera dal primo all’ultimo aspettando che le masse venissero a liberarci fra le vacanze a Riccione e la settimana bianca, fra la tredicesima e la quattordicesima. Insomma, eravamo sconfitti militarmente e politicamente. […] Ciò che ti sconvolge subito è paragonare la forza dello Stato alla tua debolezza.25»

Dunque, l’affermazione dalla crisi interna al sistema va chiaramente letta alla luce dell’inestricabile dialettica che si ingenera con la risposta repressiva che, progressivamente, porta all’estremo le rotture già abbozzate; si accennava, in questo senso, a due considerazioni ulteriori. Se, infatti, il periodo di oscurità e travagli dell’universo brigatista, ulteriormente scosso dall’arresto di Moretti e la consequenziale salita al vertice di Senzani, da una parte dà come esito dissensi e frazionamenti sempre più espliciti, al contempo si tenta di ricompattare la strategia intorno a nuovi territori di lotta e rivendicazioni sperimentate solo a partire da mutate condizioni contestuali, come l’ambito carcerario. È chiaro che, mentre le colonne risultano sempre più frammentate e accerchiate fra Roma, Napoli, Milano e Veneto, si cominci a questionare la necessità di trasformare le Br in un punto di riferimento complessivo, e che quindi, attorno alle forme di lotta armata, si esprimesse un programma politico ben più ampio26. Intorno nel 1982, al margine dell’operazione Dozier, appare tuttavia già chiaro che il partito armato è in condizione di stallo irreversibile; ciò non significa che, per l’appunto, i colpi di coda che verranno a palesarsi anche negli anni successivi abbiano diminuito la loro forza militare, tutt’altro –l’ultima azione, ad esempio, è riconducibile al 198827-; ciò significa, invece, che la suddetta forza militare sia rimasta l’unico baluardo di una analisi e prassi politica, di solco marxista tradizionale, ormai esauritasi da tempo, di un legame con i soggetti sociali di riferimento del tutto scomparso, del corpo morto di una progettualità rivoluzionaria ormai da tempo lontana. Enrico Fenzi, ex brigatista, è molto tranciante sulla questione. Durante l’intervista portata avanti da Giuseppe de Lutiis per le ricerche sul terrorismo portate avanti dall’Istituto Cattaneo di Bologna, gli viene chiesto il perché dell’insuccesso del progetto armato:

«Perché…quella lotta armata era un fenomeno finale e non iniziale, chiudeva…delle ipotesi, chiudeva delle esperienze, era il coronamento di un qualcosa….non era l’inizio di qualcosa, era il coronamento di una serie di carriere individuali, politiche individuali, di una serie di storie individuali….e di gruppo, era il coronamento di una…di una coerenza sviluppata…attraverso gli anni del dopoguerra, (…) non era una cosa nuova, era il coronamento di cose probabilmente molto vecchie, mentre…; e quindi la nuova società italiana non ha…non si è riconosciuta in definitiva in queste cose, perché non le appartenevano praticamente più.28»

La cronaca del 1980 e il sopra citato arresto di Peci, peraltro, portano alla ribalta anche l’annosa questione legata a Prima Linea ed un altro dei “grandi” pentiti che cominciano a farsi strada nell’orizzonte del lottarmatismo. Se, infatti, il lavoro di Dalla Chiesa assesta colpi non mortali alle Br e alla sopravvivenza del gruppo, per Pl l’esito dell’azione contro-guerrigliera dello Stato risulta del tutto fatale. In concomitanza con l’arresto e l’identificazione di Roberto Sandalo, membro di spicco di Prima Linea a Torino, si annoda anche la vicenda parlamentare intorno al «fantomatico comandante Alberto»29, poi rivelatosi Marco Donati Cattin30, figlio del ministro della Democrazia Cristiana Carlo Donati Cattin. L’inchiesta della Magistratura portata avanti col fine di chiarire se l’identità del militante, e soprattutto il suo peso, fossero già note a forze dell’ordine e agli alti esponenti del Governo ci dà «la misura dell’uso politico cui il terrorismo era piegato un po’ da tutti»31 e, al contempo, anticipa il processo di sfaldamento completo dell’organizzazione che, nonostante l’attentato a Sergio Lenci e ulteriori azioni soprattutto legate alla liberazione di compagni detenuti32, sembra ormai soccombere di fronti agli arresti e all’offensiva delle istituzioni. Il comportamento di Pl, in questo senso, è molto diverso da quello delle Brigate Rosse, così come l’approccio alla questione della lotta armata e dei suoi esiti. La data cerniera che in questo caso ci permette di ampliare gli elementi d’analisi è il 1982, anno «dell’inizio ufficiale del movimento della dissociazione»33, cui destineremo ulteriore attenzione più avanti soprattutto in relazione all’utilizzo del percorso premiale da parte dello Stato. Tornando, dunque, a Prima Linea, il vuoto politico dell’organizzazione di fronte al profondo mutamento contestuale, permette di pervenire ad una conclusione del tutto non scontata: ovvero la presa di consapevolezza che il progetto armato risulta ormai esaurito a quest’altezza e la decisione di lavorare per un percorso dissociativo corale. Mentre i 51 detenuti di Rebibbia, tutti ex militanti dell’estrema sinistra, pubblicavano il documento titolato Una generazione politica detenuta, l’idea della “dissociazione del colpevoli” va ad investire Pl a partire dai grandi processi di Torino e Firenze del 1982-1983:

«PL, rispetto al nucleo dei dissociati di Rebibbia, si assumeva in toto l’onere della lotta armata, e proprio a partire da quest’assunto dichiarava estinta quella possibilità, intraprendendo quella che loro avevano definito l’opzione della reversibilità della lotta armata, ovvero tornare indietro, interrompere un percorso, […]. L’esigenza era quella di non lasciare la storia dell’organizzazione in mano ai collaboratori, ma provare a descrivere il senso di un decennio di ribellione armata, assumendosi il peso delle scelte e contemporaneamente affermando nei singoli processi la propria posizione rispetto ai singoli capi d’accusa. Una strategia d’uscita che PL maturava di pari passo al cambio di clima culturale, sociale ed economico manifestatosi fra la fine dei settanta e l’inizio del decennio successivo. La generazione della lotta armata non era stata certo figlia della depressione economica, ma piuttosto delle grandi attese generate dal miracolo economico. E nel passaggio da un decennio all’altro, lo spirito rivoluzionario che aveva pervaso larga parte dei giovani e della classe lavoratrice europea sembrava essersi assopito sopraffatto dal nuovo spirito del tempo che tendeva al cosiddetto riflusso. Il cedimento era forse arrivato inatteso, ma non al punto da far maturare il senso della sconfitta. Gli attori dell’antistato rimanevano fermi in campo.34»

Va sottolineato, inoltre, che in questa fase di negoziazione con le istituzioni, Pl giunge, con il congresso finale e al culmine della riflessione individuale e collettiva, ad alcune considerazioni che vale la pena menzionare. In primo luogo, la rottura politica e ideologica con tutto il milieau marxista rispetto a cui aveva preso vita il progetto; il decadimento del sistema, in questo senso, passa anche per la dimensione meramente esistenziale e per la necessità di ricostruzione delle vite dei militanti, ormai distrutte dal crollo del gruppo e dall’inevitabile processualità giuridica rispetto alla quale dover fare i conti. Sul piano storico, invece, l’abbandono definitivo della lotta armata privilegia anche l’obiettivo di piena ricostruzione della genesi e dello sviluppo dell’organizzazione, con i suoi obiettivi e metodi, affinché la narrazione, come già accennato, non venisse lasciata ad altri35. La nascita del fenomeno dissociativo, dunque, diviene sintomo ed insieme risposta dell’incapacità del fronte eversivo di prospettare un progetto politico interno alla classe e per la classe, anch’essa ormai in mutamento sostanziale. Lo ricorda con difficoltà, ad esempio, una delle militanti di Pl, Florinda Petrella, in una riflessione a condanne effettuate del 1986:

«[…] la vittoria finale, questo non l’avevamo mai pensata, perché non pensavamo alla vittoria finale in quanto non pensavamo a un obiettivo finale, pensavamo a queste dimensioni multiformi […]. più che altro riflessione non sul piccolino di dire “chi vince?”, perché quello di dire “come può può, dove può portare una cosa di quel genere?” e questo avrebbe significato, se ne fossi stata capace, non ne sono stata capace, dire “aspettiamo un attimo, non facciamo più niente, finchè stiamo capiamo dove stiamo, dove arriviamo” e probabilmente sarebbe stato un atto di grande coraggio dire “aspettiamo”.36»

3. Carcere, dissociazione, pentitismo: la caduta del sistema e le risposte
Va notato, a questo punto, come la presa d’atto del fallimento, in taluni casi il ripudio della violenza e l’accettazione delle regole democratiche furono punto di arrivo di un percorso legato, in rapporto dialettico, alla durezza delle condizioni di detenzione dei militanti carcerati37; e, parimenti, tale fu anche il perseverare del progetto lottarmatista da parte di altri. Ciò non appare scontato, ma altresì ingenera una serie di cortocircuiti che vale la pena esaminare per comprendere gli esiti della caduta delle organizzazioni e il loro significato. Primariamente, va sottolineato che i fenomeni presi in considerazione, quali pentitismo, dissociazione e, all’estremo rovescio, l’atteggiamento dei cosiddetti irriducibili. La risultanza, nei primi due casi, è rappresentata da un processo di disimpegno e di presa di consapevolezza tutta interna alla propria soggettività, entrambi momenti dell’iter che si inaugura con la carcerazione e, di conseguenza, da leggere inscindibilmente in relazione all’azione dello Stato rispetto al fenomeno terroristico e all’emergenza. Dunque, la disgregazione di Brigate Rosse e Prima Linea, così in generale il decadere di qualsiasi supposta validità e fattibilità del progetto armato dagli anni Ottanta in poi, oscilla proprio rispetto ai fattori individuali e contestuali: dagli errori interpretativi, la disillusione e la sconfitta percepita, alla stretta repressiva, legislativa e al pacchetto di provvedimenti emergenziali messi in atto dallo Stato38.
L’esperienza del carcere, in questo senso, risulta centrale; e lo è sia per le organizzazioni eversive, sia per lo Stato stesso. Il fronte della sinistra estrema e, in questo caso, i due gruppi da noi presi in considerazione, assumono il «carcere come terreno dell’azione collettiva e come possibile luogo del reclutamento di nuovi militanti, come luogo di riflessione teorica e come punto rilevante nella formazione dell’immaginario attorno alla repressione statuale»39; parallelamente, «per altro verso, considerato dal lato delle istituzioni, carcere come snodo significativo dei processi di criminalizzazione dei movimenti sociali, come momento dell’azione di intelligence e di counter-intelligence, come laboratorio delle strategie antiterroristiche»40. Sul finire degli anni Settanta e a deterioramento delle organizzazioni già avviato, il tema della repressione diviene quindi centrale e strumento fondamentale per la polarizzazione contro lo Stato, che, da canto suo, lo utilizza «come forma di pressione di ricatto, quasi come prolungamento della prassi inquisitoria spostata dalla magistratura»41. Sia Brigate Rosse che Prima Linea, dunque, si trovano ad avviare nuove linee di intervento per quanto riguarda l’estensione della lotta armata anche in questo ambito, nel tentativo di inoculare nuova forza agli organismi che lentamente vengono smantellati, ma con differenze significative. Come si può ben constatare, se in Pl già comincia ad abbozzarsi la necessità di dialettizzare il rapporto con lo Stato, che sta inferendo colpi significativi all’organizzazione – non a caso, di lì a poco, la dissociazione corale del gruppo-, le Br sviluppano organismi di lotta propriamente carcerari, a partire dal Fronte delle carceri guidato da Senzani; in questo senso, sebbene lo svilupparsi di un nuovo terreno d’azione politica possa servire a rafforzare il progetto brigatista, tuttavia esso nasce sulla scia dei frazionamenti già in atto e comporta una scissione significativa fra dentro e fuori e una autonomizzazione sempre maggiore dei militanti detenuti. Inoltre, soprattutto alla luce dell’insorgenza di fenomeni collaborazionismo con le istituzioni vengono avviate la “campagna contro gli infami”, i cosiddetti pentiti, e una serie di pratiche di schedatura, processi, indagini e condanne interne al carcere, contro i militanti che decidono di spezzare il vincolo solidaristico e ideologico dell’organizzazione42. L’ossessività con cui venivano condotte queste pratiche ricompare, peraltro, nelle memorie di ex militanti come fattore di velocizzazione di dissociazionismo e pentitismo:

«[…] Le ho detto un elemento che è quello della situazione carceraria che mi rappresentava…la dissoluzione di un’esperienza politica….; naturalmente questo è molto…è un aspetto, poi ce ne sono molti di più ideologici, analisi di quello che succedeva, motivi e spinte personali, io ora non è che posso riassumere…ecco certamente in ogni caso l’essersi trovato subito a contatto con un mondo carcerario attraversato da questa violenza, con questi episodi di morte…con questi omicidi […], bè tutto questo ha costituito una grossa spinta […]. Era la prima volta che me ne rendevo conto, di come si fosse scatenata una sorta di corsa…davvero al “tanto peggio, tanto meglio”, cioè mi ero accorto che a un certo punto le Brigate Rosse non avevano da offrire agli altri detenuti che la loro prospettiva del peggio […]. Ricordo l’atteggiamento del brigatista che era veramente l’affossatore di ogni riforma carceraria […], erano incapaci di proporre una prospettiva concreta di lotta…nelle carceri…di offrire questa prospettiva agli altri carcerati: agli altri carcerati prospettavano solo il diventare brigatisti, il…partecipare agli omicidi e agli accoltellamenti di chi si stava per dissociare o si dissociava […].43»

Dunque dissociati dalla lotta armata e pentiti: due categorie di ex militanti rispetto a cui risulta centrale non solo l’amministrazione e gestione penitenziaria, ma più generalmente la serie di provvedimenti giuridici e legislativi messi in atto dalle istituzioni nel contesto emergenziale. Lo Stato democratico si trova ad elaborare diversi repertori d’azione, che spaziano dal fronte repressivo, soprattutto attraverso le indagini portate avanti con i Nuclei di Dalla Chiesa, a quello legislativo, attraverso l’introduzione di legislazioni d’emergenza e percorsi premiali44. Le misure militari e giuridico-politiche, tuttavia, sollevano una serie di questioni non poco scontate; in primo luogo, l’impossibilità di riscontrare dei precedenti nella storia del diritto italiano e, parallelamente, in quello di altri paesi. Ciò comporta, che ci si muove adeguandosi per approssimazione e in un terreno del tutto inesplorato, con la serie di rischi che questo può comportare una contingenza simile. A ciò si aggiunge anche la natura “strumentale” di questi provvedimenti di scopo che, per la loro durezza ed eccezionalità, dovrebbero avere validità temporanea e che, invece, vengono conservati nel tempo e sfruttati successivamente come validi strumenti per la lotta alla mafia45. In questo modo, tuttavia, nel nostro caso specifico occorrerebbe interrogarsi sull’eventuale sostituzione dell’azione politica e sociale con la risposta penale.
Addentrandosi nel merito di alcuni provvedimenti significativi e delle loro conseguenze, ricordiamo alcuni passaggi cardine:

«I provvedimenti cardine furono rappresentati dalla legge sui collaboratori di giustizia, L. 304/1982, che introduceva, per la prima volta nel nostro ordinamento giuridico, forti sconti di pena per imputati che avevano deciso di collaborare con la magistratura. L’evoluzione della normativa premiale veniva completata con la legge n. 34 del 18 febbraio 1987, recante misure a favore di chi si dissociava dal terrorismo. Insieme alla costruzione di un’importante e complesso apparato legislativo […] un altro campo delle politiche di contrasto al crimine organizzato di stampo politico veniva individuato nelle carceri. La «differenziazione» carceraria rendeva la pena detentiva particolarmente dura e nel 1977 il governo istituiva le carceri speciali di massima sicurezza. Non solo, ma venivano anche istituite nel 1983 delle «aree omogenee», create dal socialista Nicolò Amato, direttore generale degli istituti penitenziari, luoghi all’interno dei quali veniva favorire la socializzazione dei detenuti politici che avevano intrapreso un preciso percorso di dissociazione dalla lotta armata.46»

Tenere conto della strategia dello Stato, dunque, permette di dare una lettura più ampia dei fenomeni presi in considerazione; il movimento dialettico che intercorre fra rivoluzione controrivoluzione appare accelerato dalle leggi eccezionali e dal loro carattere criminogeno,, mentre pentitismo e dissociazione assumono significati più complessi se inquadrati, da un lato, all’interno del processo di svuotamento di prospettiva politica complessiva e, al contempo, in quell’insieme di misure autoritarie messe in atto dallo Stato; in questo modo, i due fenomeni, così come la permanenza dei cosiddetti irriducibili, diventano al contempo sintomi, ma anche risposte, del complesso contesto in cui si ritrovano i due rappresentanti del fronte eversivo; considerare in questa ottica l’evoluzione storica del terrorismo e della lotta contro di esso appare l’unico strumento per sventare il rischio di appiattire i fatti.
Nonostante la disorganicità dei fenomeni, tuttavia si possono estrinsecare alcune considerazioni. Interessante, a questo proposito, risulta la dichiarazione stessa di Peci all’indomani del suo arresto; per l’ex militante, infatti, «i pentiti che dicono di aver avuto problemi politici, etici, morali, religiosi, psicologici raccontano balle»47, poiché «ciò che ti sconvolge subito è paragonare la forza dello Stato alla tua debolezza»48. In effetti, il coinvolgimento di termini di discussione legati all’ambito della morale, e dell’etica, ci portano ad osservare una sorta di contaminazione di sfere che, nel contesto dello Stato di diritto, dovrebbero rimanere distanti; e allora, la già difficile natura definitoria dei reati politici:

«Ha favorito la giustificazione di sconti di pena in termini etici oltre che utilitaristici: e la sincerità del pentimento ha finito per essere misurata non solo sulle disponibilità alla confessione, ma anche su quantità e qualità di informazioni, secondo una tradizione inquisitoriale profondamente radicata nella coscienza collettiva del Paese.49»

Questo meccanismo mercantile e la visione dell’azione di contrasto alla lotta armata che riconosce come risolutivo lo strumento dello sconto di pena o delle condizioni carcerarie migliori, quale strumento in grado di scardinare la solidarietà del fronte nemico50. E ciò appare quanto di più vero soprattutto se si tiene conto sia dei casi di tortura fisica, sia di altri tipi più sottili di violenza, tali per cui si può parlare di «soave inquisizione»51; senza contare, peraltro, la necessità di far fronte alle logiche dello schieramento imposte dalle rappresaglie portate avanti in carcere dai militanti. L’insieme di queste logiche, così come abbozza Peci, favoriscono sicuramente il ripensamento e l’allontanamento dall’esperienza della lotta armata. Dalla prospettiva di chi sta all’interno, invece, il pentito, il traditore, è anche la risultante della crisi politica stessa della lotta armata52; ma allo stesso modo, anche il pentito punta il dito sugli stessi fattori: Antonio Savasta, ad esempio, afferma che il pentimento è «risultato collettivo di dibattiti all’interno dell’organizzazione e critica al metodo stesso della lotta armata»53, riconducendone i natali alla debolezza delle organizzazioni. In ogni caso, il discorso legato al percorso e all’elaborazione della legge sui pentiti alimenta il movimento della dissociazione e la legge consequenziale. Sulla base del “documento dei 51”, gli ex militanti avviavano il discorso legato al rifiuto della lotta armata, ormai indissolubilmente divaricata rispetto ai movimenti sociali, la profonda autocritica e l’obiettivo di stabilire un rapporto dialettico con chi fosse sensibile al superamento dell’emergenza, nel tentativo di reinserire la generazione detenuta in un’ottica riformista54, senza piegarla, tuttavia, alla logica dell’abiura che implicava la legge sui pentiti. È comunque importante notare come la presa d’atto del fallimento del progetto rivoluzionario e armato per come esso era stato pensato, così come l’accettazione della regola democratica è il punto di arrivo di un lungo percorso legato anche alla durezza delle condizioni dei carcerati55. L’elemento, peraltro, emerge anche in diverse interviste fatte ad ex militanti:

«[…] Io sono stata mandata subito a Voghera, cioè ho fatto venti giorni in camera di sicurezza poi son stata mandata a Voghera…lì va bè Voghera ha richiesto immediatamente una chiusura in se stesso, una ricompattazione fra tutte noie, le donne che si son trovate lì per far fronte alla pesantezza dentro un carcere che era veramente allucinante […].56»

Alla stessa maniera, anche Bonavita:

«Perché poi gli anni di galera devi farteli, in quell’ambiente devi starci, e sai benissimo cosa significa essere isolato, essere additato come il reprobo, come…Allora, o decidi di accettare quella dimensione e ti metti in mano allo Stato, pero’…no?-metterti in mano allo Stato signfica poi due cose: o starci in termini del poveraccio che si fa una vita da cani sempre, perché è isolato poi dagli altri detenuti, è isolato- le guardie naturalmente si rifanno di tutto quello che hanno subito prima, perché non hai avuto un passato molto piacevole – e l’altra invece è collaborare, di “pentirti” fra virgolette, e allora poi magari trovi una collocazione dove puoi vivere e dove sei protetto […].57»

All’estremità opposta, la ricostruzione del crollo delle organizzazioni, dei sintomi e delle risposte ci consente di menzionare, in ultima istanza, i cosiddetti “irriducibili”. Nel caso specifico, i militanti di Brigate Rosse e Prima Linea che si rifiutano di rinnegare l’esperienza armata e difendono la natura del progetto come quella di una “qualsiasi guerra”, hanno alcuni punti in comune58. È importante sottolineare, ad esempio, come aldilà della risultante, entrambi i gruppi privilegino una ricostruzione e valutazione del fatto storico a partire da considerazioni collettive e rientranti nella dimensione politica; si tratta, molto spesso, di prendere coscienza dell’inadeguatezza d’analisi dei gruppi e incapacità di farsi non solo interpreti della realtà italiana che sta mutando, ma anche del rapporto con la massa e la classe operaia di riferimento. Il ruolo di pentiti e dissociati, dunque, non sarebbe stato l’elemento essenziale al crollo definitivo dei gruppi e del fenomeno lottarmatista, quanto piuttosto il primo sintomo della debolezza teorica e strategica dei gruppi: «non siamo stati sconfitti dai pentiti […]; è stata la sconfitta a produrre i pentiti. Essi sono un disastro, culturalmente prima ancora che politico, che va oltre la lotta armata»59. Il complesso scenario, dunque, si chiude nel 1987 con la legge sulla dissociazione; sui giornali si titola Anni di piombo addio, anche se la quadra fatica a trovarsi in maniera univoca. Il crollo dei sistemi è ormai irrevocabile e quasi completo, nonostante gli ultimi colpi di coda dell’azione armata si protraggano fino alla fine del nuovo decennio. Ciò che interessa rilevare, ai fini della nostra analisi, è che ponendosi di fronte ai sintomi dei processi di logoramento delle organizzazioni, così come alle risposte consequenziali a questo movimento degradativo, in realtà non si riesca a fornire una categorizzazione chiara delle une, piuttosto che delle altre; ora, come allora, l’unico modo per poter intraprendere ipotesi interpretative risulta solo la lettura dei fenomeni in stretto rapporto dialettico, nel tentativo di ricostruirne una storia che non sia separata, ma del tutto complementare.

Bibliografia
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Documenti d’archivio
Archivio Storico, Istituto Parri, Fondo Dote, Bologna, Italia, Quaderno Della Porta, Intervista a Grazie Grena.
Archivio Storico, Istituto Parri, Fondo Dote, Bologna, Italia, Quaderno Passerini, Intervista ad Alfredo Buonavita.
Archivio Storico, Istituto Parri, Fondo Dote, Bologna, Italia, Quaderno Della Porta, Intervista a Florinda Petrella, 6 febbraio 1986.
Archivio Storico, Istituto Parri, Fondo Dote, Bologna, Italia, Quaderno Giuseppe de Lutiis, Intervista a Enrico Fenzi.
Archivio storico della Nuova Sinistra “Marco Pezzi”, fascicolo n.234, Fallimento di una strategia suicida, in «Andare Controcorrente», II, n.1.

Note

  1. Paolo Capuzzo, Gli anni Ottanta in Europa: trasformazioni sociali e linguaggio politico, in Paolo Capuzzo, (a cura di) Gli anni Ottanta in Europa. Interventi di Richard Vinen, Lutz Raphael, Giovanni Gozzini, Marco Gervasoni, «Contemporanea», fascicolo 4, ottobre 2010, p. 697.
  2. Monica Galfrè, La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987, Bari, Editori Laterza, 2014, p. 9.
  3. Monica Galfrè, La guerra è finita, cit., p. 6.
  4. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Volume I – Quaderni 1-5, Quaderno 3 (1930), Torino, Edizioni Einaudi, 2014, pp. 281-417.
  5. Guido Crainz, Il paese reale. Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi, Roma, Donzelli Editore, 2012, p. 57.
  6. Paolo Capuzzo, Gli anni Ottanta in Europa, cit., pp. 697 ss.
  7. G. Crainz, Il paese reale, cit., p. 43.
  8. Giuseppe Nascimbeni, Il deserto dei giovani, in «Corriere della Sera», 14 gennaio 1979.
  9. Giorgio Galli, Compagni che ballano, in «La Repubblica», 24 dicembre 1978.
  10. Cfr. G. Galli, Storia del partito armato, Milano, Rizzoli, 1986; Andrea Tanturli, Prima linea: L’altra lotta armata (1974-1981), Roma, DeriveApprodi, 2018.
  11. Giorgio Galli, Piombo rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 ad oggi, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2013, p. 150 [1^ ed. 2004].
  12. Archivio storico della Nuova Sinistra “Marco Pezzi”, fascicolo n.234, Fallimento di una strategia suicida, in «Andare Controcorrente», II, n.1.
  13. F. Palaia, Una democrazia in pericolo. Il lavoro contro il terrorismo (1969-1980), Genova, Il Canneto editore, 2019, p. 196.
  14. Mario Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana, Milano, Mondadori, 2003, p. 179 [1^ ed. 1997]
  15. Barbara Balzerani, Compagna luna, Milano, Feltrinelli, 1998, p. 81.
  16. Corrado Stajano, L’Italia Nichilista, cit., pp. 179-180.
  17. Mario Moretti, Brigate Rosse, cit., p. 207.
  18. Corrado Stajano, L’Italia nichilista, cit., p. 164.
  19. Gruppo di Studio Resistenze Metropolitane (a cura di), L’ape e il comunista. Il più importante documento teorico scritto dalle Brigate Rosse, Roma, PiGreco, 1980, p. 269.
  20. Gabriele Licciardi, La rivoluzione è finita, la guerra continua. Carceri, pentiti e dissociati 1980-1987, «Meridiana», n. 97, 2020, pp. 105-122.
  21. Renato Curcio, A viso aperto. Intervista di Mario Scialoja, Milano, Mondadori, 1993, p. 210.
  22. Giorgio Galli, Piombo rosso, cit., p. 181.
  23. Gabriele Licciardi, La rivoluzione è finita, la guerra continua, cit., p. 108.
  24. F. Benigno, Terrore e terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica, Torino, Einaudi, 2018.
  25. Patrizio Peci, Io l’infame. Storia dell’uomo che ha distrutto le Brigate Rosse, Milano, Sperling & Kupfer, 2008, p. 200.
  26. Giorgio Galli, Piombo Rosso, cit., pp. 170 ss.
  27. Pino Casamassima, Brigate Rosse. Storia del partito armato dalle origini all’omicidio Biagi (1970-2002), Milano, Baldini+Castoldi, 2022, p.
  28. Archivio Storico, Istituto Parri, Fondo Dote, Bologna, Italia, Quaderno Giuseppe de Lutiis, Intervista a Enrico Fenzi.
  29. Monica Galfrè, La guerra è finita, cit., p. 22.
  30. Sulla vicenda si rimanda a Monica Galfrè, Il figlio terrorista. Il caso Donati Cattin e la tragedia di una generazione, Torino, Einaudi, 2022.
  31. Monica Galfrè, La guerra è finita, cit., p. 23.
  32. Giorgio Galli, Piombo Rosso, cit.,161.
  33. Gabriele Licciardi, La rivoluzione è finita, la guerra continua, cit., p.113.
  34. Gabriele Licciardi, La rivoluzione è finita, la guerra continua, cit., p.113.
  35. Anna Cento Bull, Philip Cooke, Ending terrorism in Italy, Londra, Routledge, 2013, p. 75.
  36. Archivio Storico, Istituto Parri, Fondo Dote, Bologna, Italia, Quaderno Della Porta, Intervista a Florinda Petrella, 6 febbraio 1986.
  37. Monica Galfrè, La guerra è finita, cit.; p. 109.
  38. Anna Cento Bull, Philip Cooke, Ending terrorism in Italy, pp. 20 ss.
  39. Christian G. De Vito, La lotta armata e la «questione delle carceri», in Simone Neri Serneri (a cura di, Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra radicale negli anni Settanta, il Mulino, Bologna, 2012, p. 288.
  40. Ibidem.
  41. Monica Galfrè, La guerra è finita, cit.; p. 46
  42. Christian G. De Vito, La lotta armata e la «questione delle carceri», cit., pp. 294 ss.
  43. Archivio Storico, Istituto Parri, Fondo Dote, Bologna, Italia, Quaderno Giuseppe de Lutiis, Intervista a Enrico Fenzi.
  44. Gabriele Licciardi, La rivoluzione è finita, la guerra continua, cit., p. 107
  45. Andrea Baravelli, Per una storia della risposta penale al terrorismo italiano (1976-1982), «Meridiana», n.97, 2020, pp. 73-88.
  46. Gabriele Licciardi, La rivoluzione è finita, la guerra continua, cit., p. 106.
  47. Patrizio Peci, Io l’infame, cit., p. 200.
  48. Ibidem.
  49. Monica Galfrè, La guerra è finita, cit.; p. 79.
  50. Andrea Baravelli, Per una storia della risposta penale al terrorismo italiano, cit., p. 84.
  51. Monica Galfrè, La guerra è finita, cit.; p. 81.
  52. Archivio Storico, Istituto Parri, Fondo Dote, Bologna, Italia, Quaderno Giuseppe de Lutiis, Intervista a Enrico Fenzi.
  53. AC, Audizione di Savasta, pp. 387-89.
  54. Cfr. Paolo Persichetti, Oreste Scalzone, Il nemico inconfessabile. Sovversione sociale, lotta armata e stato di emergenza in Italia dagli anni Settanta ad oggi, Odradek, Roma, 1999.
  55. Monica Galfrè, La guerra è finita, cit., p. 109.
  56. Archivio Storico, Istituto Parri, Fondo Dote, Bologna, Italia, Quaderno Della Porta, Intervista a Grazie Grena.
  57. Archivio Storico, Istituto Parri, Fondo Dote, Bologna, Italia, Quaderno Passerini, Intervista ad Alfredo Buonavita, 13 Maggio 1985.
  58. Anna Cento Bull, Philip Cooke, Ending terrorism in Italy, cit., p. 81.
  59. Mario Moretti, Brigate Rosse, cit. p., 251.

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