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Le mani sulla città. Una spietata denuncia della Napoli del laurismo.
di , numero 56, dicembre 2023, Saggi e Studi, DOI

Le mani sulla città. Una spietata denuncia della Napoli del laurismo.
Come citare questo articolo:
Federica Gatti, Le mani sulla città. Una spietata denuncia della Napoli del laurismo., «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 56, no. 1, dicembre 2023, doi:10.48276/issn.2280-8833.10938

«E quindi l’appello che io faccio ai giovani è questo: cercare di essere onesti, prima di tutto, la politica deve essere fatta con le mani pulite. Se c’è qualche scandalo, se c’è qualcuno che dà scandalo, se c’è qualche uomo politico che approfitta della politica per fare i suoi sporchi interessi, deve essere denunciato!» Presidente della Repubblica Sandro Pertini, 1983

1. Il dopoguerra e la febbre della ricostruzione
Alla fine del secondo conflitto mondiale l’Italia versa in gravissime condizioni: è un Paese distrutto, materialmente e moralmente; bisogna ricostruire l’economia ma anche le istituzioni democratiche dopo l’avvento del fascismo, l’armistizio dell’8 settembre 1943 e il conseguente vuoto di potere biennale.
La ricostruzione è messa in atto dalle forze politiche protagoniste della guerra di liberazione: i grandi partiti di massa, come la Democrazia cristiana, il Partito socialista italiano e il Partito comunista italiano, ed altre formazioni antifasciste, come il Partito d’azione.
Il primo governo del dopoguerra è guidato da Ferruccio Parri e dura dal giugno 1945 fino alla fine dell’anno; per poi essere sostituito a partire dalla primavera del 1947 da governi di coalizione tra Dc, Psi e Pci.
Il 2 giugno 1946 gli italiani sono chiamati alle urne e per la prima volta votano anche le donne: un referendum chiede di scegliere tra monarchia e repubblica, inoltre bisogna votare i membri dell’Assemblea costituente che deve mettersi in opera per la nascita di una nuova costituzione democratica. Vince la repubblica, ma di pochi voti, infatti il sud si schiera quasi compatto a favore della monarchia mentre nell’Assemblea costituente sono rappresentati i grandi partiti popolari1. Essa si riunisce per la prima volta il 25 giugno del 1946 e sceglie come suo presidente il socialista Giuseppe Saragat; in seguito elegge Enrico De Nicola come capo provvisorio dello Stato. L’Assemblea termina il suo lavoro sul finire del 1947 e il 1° gennaio 1948 entra in vigore la nuova Costituzione.
Nel resto del mondo le tensioni tra il blocco americano e quello sovietico sono sempre più forti e questo ha ripercussioni anche in Italia: nel mese di maggio del 1947 il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi vara un governo senza partiti di sinistra fondato sulla coalizione tra Dc e partiti di centro. Le elezioni che si tengono nel mese di aprile del 1948, precedute da una campagna elettorale senza esclusione di colpi, dove l’avversario viene demonizzato, sono ampiamente vinte dalla Dc, anche grazie all’appoggio degli Stati Uniti e del Vaticano.
In questo quadro politico l’imperativo assoluto del periodo è lo sgombero delle macerie, il ripristino dei servizi essenziali alla popolazione e l’edificazione di nuove abitazioni che rispondano alle richieste della massa degli sfollati: “Ci basta una capanna per vivere e dormire, ci basta un po’ di terra per vivere e morire. A queste condizioni crederemo nel domani!” 2, cantano i poveri di Miracolo a Milano, film del 1951 di Vittorio De Sica da un soggetto di Cesare Zavattini.
I danni provocati dal conflitto sono enormi, sebbene meno gravi che in altri stati europei come la Germania. In Italia sono fortemente colpiti il patrimonio abitativo e le infrastrutture: più di tre milioni sono i vani distrutti o terribilmente danneggiati; sono compromessi un terzo della rete stradale e trequarti di quella ferroviaria. I danni sono concentrati nel triangolo industriale Torino-Milano-Genova e nelle grandi città. Estremamente pesante è il problema delle case che già prima della guerra era molto grave, come mostra il censimento del 21 aprile dell’anno 1931 che rileva 41,6 milioni di abitanti e solamente 31,7 milioni di stanze 3.
Con la scusa di voler superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione dei centri abitati vittima del conflitto attraverso quelli che vengono definiti come dei dispositivi agili e di emergenza, è accantonata la legge urbanistica del 1942 e viene varato dal governo un provvedimento sui piani di ricostruzione, disciplinati da norme speciali.
I comuni inseriti in appositi elenchi approvati dal ministero dei Lavori pubblici devono adottare entro tre mesi il piano di ricostruzione; le spese per la sua progettazione sono a carico dello Stato. Per rendere più semplice e veloce la messa in opera dei progetti, la cui durata totale non deve superare i dieci anni, sono previste procedure abbreviate per le espropriazioni e l’intervento diretto dello Stato, o dei privati attraverso concessioni del ministero dei Lavori pubblici; infine particolari facilitazioni fiscali. Con altri provvedimenti legislativi, vengono poi concessi indennizzi e contributi per i danni di guerra e per la riparazione e ricostruzione di abitazioni danneggiate o distrutte dal conflitto 4.
La legge nazionale sulla ricostruzione viene varata il 10 aprile 1947 e concede ai proprietari dei terreni l’80% di finanziamento, per ammortizzare la parte restante questi iniziano a vendere i diritti di ricostruzione agli speculatori. La città diventa merce di scambio e viene messa in vendita senza alcun tipo di controllo da parte degli enti che avrebbero dovuto vigilare come, ad esempio, l’Ente autonomo case popolari 5. Il valore di un terreno può essere così aumentato a dismisura per scopi personali, attraverso il sapere tecnico ed enti conniventi, il Piano legittima la speculazione e favorisce l’illegalità tra gli imprenditori e la classe politica6.
Gli interventi e il grande numero di cantieri edili aperti hanno un forte impatto sulla percezione della condizione nazionale da parte della popolazione che vede nei nuovi palazzi lo specchio dell’Italia democratica che reagisce alla strage della guerra e si muove verso il boom economico.
I nuovi edifici danno vita a quartieri che sono piccole città nella città, che spesso nascono in aree lontane dal centro e prive di servizi e spazi pubblici che rappresentano, però, grandi investimenti nel comparto edile e modifiche nelle destinazioni d’uso dei terreni agricoli che diventano come per magia edificabili. É in questo modo che un gran numero di professionisti del settore partecipa alla realizzazione di nuovi quartieri popolari, dove prevale un preciso modello di edilizia standardizzata che rielabora lo stile razionalista del Ventennio. Nel luglio del 1949 è ultimato il primo cantiere a Colleferro, oggi parte della città metropolitana di Roma, che innesca la febbre della ricostruzione che rende l’edilizia uno dei primi comparti economici del Paese.
Il cambiamento funzionale di terreni agricoli trasformati in aree edificabili e la mancanza di verde e di spazi pubblici rappresentano un insieme di scelte non sostenibili dal punto di vista ambientale, culturale e sociale. I cittadini, anche se beneficiari di nuove condizioni abitative, sono totalmente esclusi dal prendere decisioni sulla ricostruzione dei propri spazi con esiti disastrosi sulla partecipazione collettiva. La costruzione di nuove case in cui spostare un’ampia fascia di sfollati non tiene conto della complessità di una mancata integrazione urbana dei quartieri nelle città e della consequenziale mancata integrazione della popolazione nei luoghi per lei costruiti.

2. Napoli: la capitale della speculazione
Sul finire della Seconda Guerra Mondiale, Napoli è colpita prima dai bombardamenti alleati e in seguito dai gravi danni provocati dai tedeschi in ritirata. Sono diversi gli oltraggi al patrimonio storico artistico della città partenopea e tra essi vanno sicuramente ricordati la distruzione della Basilica di Santa Chiara a causa di uno spezzone incendiario nell’agosto del 1943 e la perdita delle carte e dei documenti antichi conservati presso l’Archivio di Stato che viene bruciato dai soldati tedeschi nascosti nella villa di San Paolo Belsito.
Le opere di ricostruzione e le modificazioni urbane, dopo una iniziale concentrazione sulle zone centrali e intermedie del capoluogo partenopeo, come i rioni San Pasquale a Chiaia , Miraglia e Sannazzaro, si spostano nella periferia dove si protraggono a lungo generando opere di speculazione che stravolgono, ancor più dei danni bellici, il volto di Napoli attraverso i lavori di imprenditori e privati determinati a guadagnare il massimo di rendita fondiaria e ottenere dei finanziamenti pubblici.
I problemi della città sono diversi, primi fra tutti la ristrettezza degli spazi, la disordinata e confusa edilizia e la miseria di alcune classi sociali, che hanno portato ad uno spaventoso sovraffollamento e ad un’incredibile densità di popolazione.
Secondo i modelli della geografia urbana, la città di Napoli dovrebbe costituire, nel suo processo di espansione, un esempio tipico di accrescimento per strappi o salti7. E ciò in base sia alle caratteristiche geomorfologiche del suo territorio che all’inevitabile ruolo predominante degli aggregati sparsi di origine rurale come casali e masserie che rappresentano i riferimenti costruiti più importanti, numerosi e significativi della regione.
Il piano regolatore del 1939 può essere considerato la base per lo sviluppo urbanistico ai piedi del Vesuvio nel dopoguerra, nonostante le diverse modifiche. Le famigerate varianti, che devono il loro nome al commissario prefettizio cittadino Correra, legalizzano ogni tipo di scempio perpetrato dai costruttori ai danni di Napoli. Egli si serve infatti di un escamotage, rivelato solo in seguito dall’urbanista Antonio Guizzi che è consulente per la sceneggiatura del film Le mani sulla città e si è battuto per ripristinare la verità storica sugli anni della speculazione, che consiste nel richiamo ad una vecchia delibera comunale da cui fa dipendere tutte le richieste di rettifica.
L’idea di fondo prevede quartieri dislocati come satelliti collegati al centro storico preesistente con un richiamo al piano urbanistico della grande Londra8, che prefigura tutto l’assetto dell’area metropolitana: cintura di verde con una corona di quartieri satellite intorno al centro e promozione dell’edilizia con un programma di espansione in assenza però di tutele per il paesaggio ed il territorio.
Ingegneri e geometri sono convinti che solo l’allontanamento dal nucleo cittadino della popolazione, favorito dalla costruzione di nuovi vani abitativi nella periferia, determinerà la diminuzione della pressione demografica della città e ne migliorerà le condizioni igieniche. La logica del diradamento finisce però con il prendere mano ai progettisti, che prevedono radicali manomissioni di tutto il territorio urbano.
La ragione con cui viene predisposto l’impianto quindi è quella di contenere la crescita della città storica esistente facendo ipotesi di agglomerati satellite e mantenendo parti di suolo agricolo ma, pur essendo molto simile al programma britannico, viene considerata dai costruttori e dalle amministrazioni locali del tempo come un ingombrante ostacolo da rimuovere ad ogni costo.
É difatti lo studio progettuale del Piano regolatore del 1946, che riprende solo in parte le idee della pianificazione del 1939, che viene adottato dalla Giunta Comunale per confrontarsi con le macerie del secondo conflitto mondiale, almeno fino a quando Achille Lauro diventa sindaco di Napoli nel 1952.
L’idea dominante nel 1946 è quella di potenziare l’espansione edilizia in tutte le direzioni possibili con un occhio di riguardo ai territori lungo la costa per favorire l’economia portuale oltre che lo sviluppo agevolato di zone panoramiche al fine di evidenziare la posizione privilegiata di terrazza sul Mediterraneo della città partenopea. L’allargamento di Napoli è proposto dal progetto sulla base di lottizzazioni ampie e indifferenziate che in alcuni casi comportano sventramenti e demolizioni.
Negli anni Cinquanta e Sessanta la connivenza politica del governo nazionale e delle amministrazioni locali degenera però in una feroce speculazione intensiva sulle colline cittadine, distruggendo il paesaggio agricolo e saturando gli spazi con palazzine residenziali, pur mantenendo il vecchio sistema viario che si rivela fallace e insufficiente. L’incremento del patrimonio abitativo fra il 1951 e il 1961 è di circa 300000 stanze mentre le licenze edilizie rilasciate nel decennio sono oltre 11.500 9.
Prima responsabile del massacro di Napoli è l’amministrazione comunale che si occupa del territorio in nome di interessi particolari. Autorevoli studiosi fanno gioco alla speculazione nonostante lo smembramento dell’università, con la decentralizzazione delle facoltà sul territorio, seguendo decisioni prese caso per caso, con una visione esclusivamente edilizia del problema. È utile qui ricordare, però, anche la forte opposizione di accademici come Roberto Pane, storico dell’arte e professore di Caratteri stilistici e costruttivi dei monumenti, coordinatore di gruppi di ricerca e autore di Piani regolatori, che denuncia il difficile rapporto tra nuovo e insediamenti storici; Luigi Cosenza che si laurea in ingegneria ed è attivo come architetto, urbanista e come voce critica nei confronti della Giunta, redigendo progetti e pubblicando contributi; Domenico Andriello, componente del Consiglio direttivo dell’istituto nazionale di Urbanistica e attivo oppositore della speculazione edilizia.
Episodio simbolico della situazione napoletana è quello che vede protagonista il grande ampliamento del rione Carità, dove Giunta e consiglio comunale autorizzano lo svisceramento della vecchia contrada e la costruzione del nuovo quartiere, mentre gli abitanti delle case antiche sono cacciati con la forza e le imprese private fanno i propri comodi costruendo un grattacielo, sede della Società Cattolica di assicurazioni, che modifica fortemente il paesaggio urbano.
Il 18 novembre del 1958 il commissario prefettizio Correra, nominato in seguito allo scioglimento dell’amministrazione Lauro, adotta un nuovo piano che sarà poi bocciato dal Ministero dei Lavori Pubblici nel 1962. Questo provvedimento prevede lo sfruttamento e l’edificabilità diffusa su tutto il territorio comunale con indici altissimi, autorizza lo sventramento e la distruzione del centro storico consentendo demolizioni, nuove strade, edilizia di sostituzione e la soppressione totale del verde e del paesaggio napoletano. Il nuovo programma risponde alle esigenze della politica di Achille Lauro e segna la vittoria dell’interesse privato dei grandi elettori monarchici, mercanti di aree fabbricabili e costruttori. Il documento del 1958 è il progetto che cambia per sempre il volto della città partenopea, lasciando sul suo viso cicatrici di cemento che porta ancora oggi 10.
La ferita più profonda attribuibile all’amministrazione locale e nazionale è quella dell’edilizia economica e popolare: il rione Traiano a Soccavo, La Loggetta, Ponticelli sono quartieri edificati nelle aree indicate all’interno del piano dell’amministratore Achille Lauro, ovvero nelle zone meno abbienti del territorio cittadino, creando in tal modo dei veri e propri slum di segregazione sociale distanti e mal collegati al centro: ghetti privi di una propria identità dove si trasferiscono, a volte sotto minacce e costrizioni, gli appartenenti ai ceti sociali più bassi.
Tra il 1957 e il 1961 la periferia nord occidentale di Napoli, territorio contraddistinto da campi e antichi casali, è sfigurata da palazzoni alti fino a 6 piani, come mostrano i primi minuti del film di Francesco Rosi Le mani sulla città, edificati in base ad un indice di fabbricabilità fondiaria pari a 10 mc per ogni mq occupato. Tra questi nuovi rioni spiccano i 7000 vani abitativi di Secondigliano, gli insediamenti come Pozzuoli e alcune aree a ovest del nucleo cittadino come San Giorgio a Cremano.
La speculazione edilizia porta alla nascita dell’immagine di Napoli come l’ammasso urbano che oggi conosciamo, con un flusso di pendolari che si spostano dalle zone periferiche, spesso degradate e fatiscenti, verso il centro storico, unico polo dell’intera città metropolitana. Di questo processo di decentralizzazione e variazione urbana, cui Napoli fu assoluta protagonista, parla Francesco Rosi nella celebre pellicola Le mani sulla città, Leone d’oro alla mostra del cinema di Venezia nel 1963. Sullo sfondo dell’iconica locandina del film il regista pubblica la fotografia di una delle aeree simbolo della speculazione edilizia partenopea: il Vomero.
La zona del Vomero deve il suo nome ad un gioco contadino che incorona come vincitore chi, con il vomere (la lama) dell’aratro, traccia un solco quanto più possibile dritto; un curioso intrattenimento per il quale arrivano ad assistere sui fianchi della collina un gran numero di persone dal centro città.
Quello che fino agli anni Cinquanta è un elegante quartiere residenziale di villette Liberty, sorto nel periodo del primo risanamento cittadino del 1884, negli anni dell’amministrazione Lauro subisce una pesante trasformazione e sulla montagnola, di origini agricole come ricorda il suo toponimo, è portato avanti un progetto in larga scala di edilizia popolare. Fulgido prodotto di questa nuova modificazione urbana è quella che viene chiamata dai napoletani ‘a Muraglia Cinese, che pare sia visibile dallo spazio, proprio come il famoso monumento asiatico. La costruzione conta ben 8 fabbricati senza soluzione di continuità con altezze che raggiungono anche 16 piani che da via Belvedere si spingono quasi fino a via Aniello Falcone costeggiando via Kagoshima e via Ricci deturpando il paesaggio.
Mentre sui fertili pendii agricoli del Vomero si mette mano ai primi lavori per la nascita della “Muraglia” e a Soccavo aprono i cantieri per la costruzione del rione Traiano, nel 1960 il commissario prefettizio Correra rinnova la convenzione comunale con la Speme, una società nata per urbanizzare la collina di Posillipo non senza averla dotata preliminarmente della quarta funicolare. Il sodalizio deve edificare palazzine popolari al fine di dare una casa ai pescatori del golfo e ai contadini e a tale scopo gode di esenzioni fiscali e sovvenzioni pubbliche, ma, strada facendo, realizza parchi residenziali con rifiniture di lusso a prezzi di vendita che raggiungono i dieci milioni a vano, fuori dalla portata della maggior parte dei cittadini e in particolare dei ceti sociali meno abbienti. La Speme riesce ad ottenere dal prefetto anche il permesso di raddoppiare l’altezza degli edifici e in pochi anni completa sulla collina oltre quindicimila nuovissimi e costosissimi vani.

3. Il Laurismo: tra controllo politico e manipolazione culturale
Tra il 1952 e il 1962 a Napoli è il periodo del Laurismo, un fenomeno politico e sociale legato alla figura di Achille Lauro fondatore del Partito monarchico popolare nel 1954 e più volte sindaco della città fino al decreto di scioglimento del consiglio comunale partenopeo del 14 febbraio 1958.
Nel dopoguerra Napoli non è in grado di trarre spunto dall’esperienza della lotta al fascismo per avviarsi sulla strada di una nuova esperienza democratica, diventando così la culla della destra tradizionalista11. Del generale clima di spostamento a destra degli equilibri politici, affermatosi con maggiore forza nel sud Italia poiché non ha vissuto la Resistenza e fonda la propria struttura sulla famiglia e sulla società intesa come comunità familiare, il Laurismo è una delle maggiori rappresentazioni.
Alla fine del secondo conflitto mondiale le forze reazionarie riemergono prepotentemente, grazie anche all’amministrazione alleata dei territori, ricercando vecchi legami e ricucendo antichi rapporti clientelari al fine di riconquistare il potere locale12.
Questa identità politica conservatrice rispetto al resto del Paese si rivela negli appuntamenti elettorali del 1946 quando la città regala l’80% dei consensi alla causa monarchica e il 10 novembre si insedia la giunta di centro destra del monarchico Giuseppe Bonocore, sostituito nel 1948 dal democristiano Domenico Moscati e il 25 maggio 1952 dall’armatore Achille Lauro.
Quando si presenta alle elezioni comunali O’comandante, così lo chiamano ancora oggi i napoletani, è il proprietario della più grande flotta privata d’Europa, nonché presidente della squadra di calcio partenopea. Sull’onda di questo successo, ha inizio la sua capillare campagna elettorale dove non disdegna i metodi più particolari e stravaganti al fine di conquistare il favore popolare: promette di regalare pacchi di pasta ai poveri, distribuisce una sola scarpa o un banconota tagliata a metà, con la promessa del resto a chiusura delle urne e impegnandosi a far tornare la città la capitale del Mezzogiorno.
Il politico capisce che la chiave per il successo è nella capacità di dare voce alla protesta dei cittadini contro la mancata capacità dei gruppi amministrativi tradizionali di affrontare le esigenze impellenti di Napoli, nonostante la crisi occupazionale e il dissesto finanziario. O’comandante si presenta agli occhi dei partenopei come l’uomo forte in grado di risolvere ogni problema, anche l’immobilismo del predecessore Moscati. Inoltre, a dare man forte a Lauro c’è anche il Napoli, la squadra di calcio di cui è proprietario, appena tornato in serie A. Egli promette che, in caso di vittoria delle elezioni, avrebbe iniziato una nuova prodigiosa campagna acquisti. Con questi numeri non può che fare breccia nel cuore dei cittadini.
Dopo i metodi spregiudicati usati per accaparrarsi voti, Lauro gestisce la città con una politica riconducibile al vecchio sistema notabilare pre fascista, mantenendo quindi un fortissimo legame con la tradizione che piace tanto agli abitanti del Mezzogiorno, ma presentando anche qualche differenza che lo fa apparire più avanzato. Il Laurismo elabora una duplice forma della pratica amministrativa, aggiungendo a quella notabilare una nuova gestione di tipo imprenditoriale.
Il profilo notabilare della figura di Achille Lauro è quello che viene evidenziato dalla sua immagine pubblica. L’indipendenza economica data dal cospicuo patrimonio personale gli permette di manifestare aperto disprezzo per le regole del sistema democratico: l’opposizione non può esprimersi e il suo stesso consiglio comunale ha un ruolo marginale; ricerca a tutti i costi un consenso proprio; esaspera l’uso delle feste popolari e la sua napoletanità con cui giustifica l’improvvisazione amministrativa. Il profilo dell’imprenditore emerge, invece, nel modo in cui Lauro sfrutta il Comune di Napoli come risorsa. Il governo cittadino, accanto alle occasioni di impiego pubblico che si possono offrire in cambio di favori e di controllo degli appalti, ora regala nuove possibilità derivanti dalla politica interventista dello Stato, che fa scorrere un cospicuo flusso di finanziamenti dal governo centrale alla periferia.
O’comandantesi pone consapevolmente lungo la linea di demarcazione tra centro e periferia ricoprendo il ruolo di mediatore politico che gestisce i finanziamenti pubblici senza che ci sia alcun controllo sul suo operato. Egli è il soggetto principale di una intricata gestione in cui nessuno sa dove finiscono gli affari della città e dove comincino i suoi, quelli degli assessori e dei parenti degli assessori. Il comune è amministrato dalla Giunta che informa i consiglieri a decisioni prese o addirittura a delibere fatte. Le accuse più gravi vengono lanciate e ascoltate con indifferenza. Grossi lotti di lavori sono concessi a trattativa privata; i 35 miliardi della legge speciale su Napoli, la legge Marconcini, approvata dopo la nomina dell’armatore in Comune sono utilizzati in modo improduttivo e amministrati facendo prevalere gli interessi personali.
L’uso spregiudicato dei fondi pubblici condotto senza alcun rispetto della burocrazia dimostra come il Sindaco è conscio della posizione da referente politico locale del governo che ricopre e diventa il perno di un meccanismo di controllo sociale basato su un’ampia zona di lavoro parassitario sussidiato dall’intervento pubblico.
La giunta Lauro si caratterizza per l’impulso indiscriminato dato al settore edilizio, che viene duramente dipinto nel film del ’63 Le mani sulla città. O’comandante spesso anticipa di tasca propria i soldi per rimettere in piedi la città devastata dal secondo conflitto mondiale e questo non fa altro che accrescere a dismisura la sua popolarità, permettendo a i monarchici di passare dal 2,8% del 1948 a quasi il 7% del 1953, diventando così una forza in grado di condizionare il governo. L’anno successivo, Lauro guida la scissione del partito, consumatasi sul nodo dei rapporti con la Dc, dando vita al Partito monarchico popolare.
Il consenso al Laurismo ottenuto in fase iniziale, soprattutto da quei personaggi che guadagnano dalla trasformazione di Napoli, ha aspetti populisti perché fondato sul culto del capo che si presenta come il difensore della tradizione contro le ingiustizie subite dalla città.
La gestione di Achille Lauro stabilisce rapporti anche con le forze artistiche e intellettuali cittadine, forse più per motivi strategici che per vero interesse culturale. Il politico si impegna soprattutto in campo cinematografico diventando produttore della Partenope e progettando nel 1955 una manifestazione cinematografica per Napoli: il Festival della cinematografia americana. Idea che viene però messa da parte perché fortemente osteggiata dal governo nazionale, per il quale l’unica manifestazione cinematografica degna di nota è, e deve continuare a essere, la mostra del cinema di Venezia.
L’interesse che l’armatore mostra per il destino cinematografico partenopeo, influenzato fortemente dalla relazione con la giovane attrice Eliana Merolla, non si ferma qui. Lauro immagina una Napoli all’avanguardia nel campo della settima arte: teatri di posa e una serie di film distribuiti in tutto il mondo e vuole iniziare questo cammino verso un futuro costellato di successi con Una medicina che si chiama Napoli, film prodotto dalla Lauro-film, società nata per questo specifico scopo. La Lauro film viene però sciolta tanto velocemente come nasce, il film cassato, ma il sindaco non si arrende e, con la stessa determinazione che gli ha fatto guadagnare la sua immensa fortuna, continua a perseguire i suoi scopi e chiede nel 1957 a Eduardo De Filippo di dirigere una pellicola che esalti le bellezze della sua città ma il drammaturgo rifiuta la proposta.
Dal 1949 O’comandante è il proprietario dei tre maggiori quotidiani napoletani “Il Mattino”, il “Roma” e “Il Giornale di Napoli” dalle cui pagine muove delle vere e proprie battaglie contro artisti, spettacoli, libri e film come Catene (1949), Processo alla città (1952), Luna Rossa (1951), colpevoli di denunciare gli aspetti peggiori della città è dei suoi abitanti13. Nino Taranto, che porta sulle scene una macchietta considerata irrispettosa nei confronti del sindaco è invitato dall’assessore alla Cultura e Assistenza a modificare il testo della parte pochi minuti prima dell’esibizione teatrale. Lauro intraprende anche nei confronti di una pietra miliare della cultura napoletana come Eduardo una serie di azioni di natura vendicativa, che mettono De Filippo e la lavorazione di Questi Fantasmi in serie difficoltà, perché nega all’amministrazione municipale di poter rappresentare le commedie di Vincenzo Scarpetta di cui l’autore detiene i diritti.
La politica culturale del sindaco, tesa a proporre all’esterno l’immagine serena di una città ancora in macerie, si scontra con l’impietosa visione del presente contenuta nella drammaturgia eduardiana e stride con l’impellente bisogno di raccontare la realtà della classe culturale partenopea. Il progetto dell’amministrazione Lauro è quello di promuovere e valorizzare le espressioni più rassicuranti del teatro, della scrittura e della cinematografia napoletana, strumentalizzando temi e argomenti particolarmente cari alla città in un contesto produttivo che ben presto conduce a una deriva folkloristica.
Tra indifferenze e ritorsioni, denunce e lettere ai giornali, la relazione fra gli intellettuali e O’comandante caratterizza il clima della Napoli degli anni del Laurismo che vede culminare e tramontare la parabola politica di Achille Lauro e il trionfo di una Napoli “vera” fatta di vicoli e vicarielli, miseria e nobiltà.

4. Le mani sulla città: racconto di un dibattito oggettivo
Sono numerosi gli studi che consentono, oggi, di ripercorrere la lunga e fortunata carriera di Francesco Rosi, a partire dal lavoro di Michel Ciment Le dossier Rosi, corredato da un vasto repertorio fotografico, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1987 e in seguito tradotto e rivisto nel 2008 a cura del Museo Nazionale del Cinema di Torino. O il voluminoso libro-intervista Io lo chiamo cinematografo, curato da Giuseppe Tornatore nel 2012, dove il regista, incalzato dalle domande del collega, ripercorre la propria carriera da cineasta in un racconto personale che si intreccia con i suoi ricordi di vita. Approfondimenti su Le mani sulla città si possono rintracciare nel numero monografico della rivista “CinemaCittà”, pubblicato nel 2005, poco dopo il quarantennale del film, sotto la direzione dell’urbanista Enrico Costa, zeppo di interviste, pensieri e commenti sui più diversi argomenti, con il coinvolgimento – oltre che del regista e di altri protagonisti della pellicola – di critici, studiosi e intellettuali 14. E ancora nel volume dal titoloCon Francesco Rosi a lezione di Urbanistica, curato dallo stesso Costa e dato alle stampe nel 2012 a partire dai materiali raccolti in occasione del conferimento della laurea all’università di Reggio Calabria 15. Infine, una fonte straordinaria di documenti è costituita dall’Archivio Rosi al Museo Nazionale del Cinema di Torino, acquisito tra il 2003 e il 2008, ordinato e in parte consultabile in rete; oltre che dalla mostra, il catalogo e il podcast dedicati alla vita del cineasta e alle sue opere dall’istituzione museale nel 2023 16.
L’analisi attenta di queste fonti, oltre alle numerose interviste rilasciate dal film-maker, consente oggi di rispondere a diverse domande sul lavoro del cineasta e in particolare su Le mani sulla città, attualizzandolo e rapportandolo ai contesti e ai momenti in cui veniva proiettato.
Rileggendo le parole di Francesco Rosi e in particolare quelle scambiate con Giuseppe Tornatore, raccolte in una serie di incontri durata quasi due anni, colpiscono la lucidità dei pensieri, la forte etica delle idee, il desiderio di ripudiare la retorica e l’enfasi dei problemi. Una chiara cognizione dei mali di Napoli e della nostra società, del nostro Paese, senza concessioni verso facili sentimentalismi, contraria ad ogni piagnisteo in un “misto di amore, di delusione, di preoccupazione e anche di dolore” soprattutto nei confronti della città in cui è nato.
Com’è noto, Le mani sulla città si sviluppa nell’ambito di un crescente interesse di Rosi per i temi del Sud, per quella questione meridionale di cui oggi non si sente più parlare e che ha fatto propria negli anni giovanili dall’incontro con i testi di Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini e Guido Dorso 17.
Gli anni del miracolo economico hanno rilevanti effetti su Napoli, ma, allo stesso tempo, coincidono con la nascita della speculazione edilizia: la città si espande in tutte le direzioni creando le sterminate periferie che gravitano attorno al centro storico mentre lo spazio urbano è considerato la risorsa cruciale su cui puntare in una prospettiva di tipo economico e politico.
È in questo clima che il costruttore Mario Ottieri diventa la punta di diamante del gruppo parlamentare di Achille Lauro e firmatario assieme a O’comandante di numerosi progetti avallati dal governo grazie al favore di deputati compiacenti. Gli edifici costruiti dall’imprenditore sono ancora oggi considerati vere e proprie sciagure edilizie come il palazzo che porta il suo nome e che affaccia su piazza Mercato, il cantiere dei lavori che daranno vita al Grattacielo della Cattolica di via Medina e la fondazione sul territorio di duecentomila vani in soli due anni duecentomila quintali di cemento armato colati e cinquantamila tonnellate di ferro. È imputabile al costruttore anche parte dello scempio urbanistico ancora oggi visibile nella parte più alta di Via Aniello Falcone al Vomero, una serie di edifici altissimi costruiti direttamente sul ripido versante della collina: ‘a Muraglia Cinese.
Nel 1963, allo scadere del mandato parlamentare di Ottieri, esce nelle sale Le mani sulla città di Francesco Rosi che critica fortemente il suo operato e lo vede come chiara ispirazione del protagonista Edoardo Nottola.
Rosi, in modo preciso e puntuale, in Le mani sulla città, racconta come intorno alla figura di Achille Lauro si raccolgono costruttori, imprenditori agricoli, proprietari di lotti e casolari interessati al processo di modifica del territorio partenopeo, che coincide con la valorizzazione speculativa delle aree.
L’edificazione intensiva delle colline e l’addensamento di parti cospicue dei tessuti antichi non hanno sconvolto solo il paesaggio cittadino, riducendo al minimo gli spazi dedicati al verde e saturando ogni suolo edificabile, ma anche il regista che decide di rimando di denunciare la situazione della sua città.
Significativa a questo proposito è la didascalia del film che precisa che i personaggi e i fatti narrati sono frutto dell’immaginazione ma è autentica la realtà sociale e ambientale che li ispira. Il cineasta si propone di smascherare gli ingranaggi del mercanteggio truffaldino che permettono agli interessi economici e politici dei privati di spadroneggiare su Napoli che, come sostiene lo sceneggiatore Raffaele La Capria“era una città bellissima e sono riusciti a rovinare tutto, anche la salute e la vita dei suoi abitanti.”
La volontà di mostrare come le sponde del Vesuvio siano regolate da un gomitolo di interessi che mescolano in maniera oscura, e anche molto chiara, la politica con l’economia è esplicitata dalla trama che racconta del crollo di un palazzo in conseguenza a dei lavori di demolizione ad esso adiacenti, causando morti e feriti.
Responsabile del disastro, avvenuto realmente in un degradato quartiere di Napoli, è l’imprenditore edile Edoardo Nottola che viene coinvolto in un’inchiesta da cui esce senza ripercussioni giudiziarie, ma inevitabilmente compromesso agli occhi del partito di Destra per cui è consigliere comunale.
I compagni lo abbandonano e il suo nome alle elezioni viene ritirato, ma Nottola, arrogante e irremovibile, attinge ad ogni risorsa in suo potere e, spalleggiato da alcuni consiglieri corrotti, diventa il primo candidato nel gruppo di Centro. Solo l’opposizione di Sinistra sembra decisa a contrapporsi alla dispotica ascesa dell’imprenditore: a guidare la protesta è il consigliere De Vita che, dopo attente ricerche, scopre e denuncia il coinvolgimento del costruttore e dei suoi alleati nella vittoria di un appalto su cui pesano forti interessi economici e politici. Contemporaneamente, il quartiere colpito dal recente crollo è gravato da un’ordinanza di sfratto da parte del comune che provoca la rivolta dei cittadini, il cui risultato sono duri scontri con le forze di polizia. Nonostante il grande malcontento popolare, i disordini dovuti al rovesciamento della maggioranza e la caparbia resistenza dei suoi oppositori, il costruttore ottiene comunque la carica di assessore all’edilizia, creando profonde fratture anche nella Destra. Questa, con i suoi rappresentanti in una posizione scomoda e ormai compromessi, torna infine ad appoggiare Nottola per salvaguardare il proprio tornaconto.
Con questo film Rosi vuole portare a conoscenza dei cittadini l’esistenza di una classe politica moralmente impresentabile, disposta ad ogni intrallazzo e compromesso pur di conservare il potere, arricchita da traffici speculativi sulla vendita dei terreni resi edificabili, che ben ne rappresenta la vocazione parassitaria. Per la classe dirigente descritta dal regista contano solo l’opportunismo e il potere e ogni metodo è concesso per conquistarlo e mantenerlo. I discorsi elettorali sono solo belle parole e servono per ottenere il consenso in un sistema che è ormai solo l’ombra della democrazia. Così si creano fortune colossali, trasformando i possedimenti agricoli in foreste di cemento, devastando il centro storico, mercanteggiando, sostituendo i casolari con palazzoni che sconvolgono il tessuto urbano e costringono le classi più disagiate a trasferirsi. L’arricchirsi di pochi è la disgrazia di molti in una Napoli che diventa il simbolo di tutte le megalopoli occidentali colpite dalla sciagura della speculazione immobiliare.
La pellicola nasce dal bisogno del cineasta di portare sul grande schermo una storia pubblica che pur avendo come protagonista l’essere umano con i suoi sentimenti parla di un uomo le cui azioni, nel bene e nel male, possono essere giudicate dallo spettatore in quanto direttamente e personalmente coinvolto nelle conseguenze del suo agire perché parte della società.
Il regista, che ha già fatto esperienza cinematografica, per imbastire la trama frequenta il consiglio comunale di Napoli, partecipa di nascosto al Congresso della Democrazia cristiana dal quale nacque il Centrosinistra e si lascia inghiottire dalla città, dalla sua gente, dalle sue strade, dai suoi bassi, per poter presentare al suo pubblico delle riflessioni reali che lo riguardino non solo come fruitore ma anche come cittadino.
Giorno dopo giorno, dettaglio dopo dettaglio Rosi e i suoi collaboratori si impegnano in una vera e propria inchiesta dal taglio giornalistico e dagli appunti raccolti en plain air prende vita il nucleo drammatico del film; è nelle contrapposizioni tra mentalità e moralità diverse, nelle denunce di truffe del piano regolatore, che, cambiando il colore su una mappa, può cambiare la destinazione d’uso del terreno corrispondente, che nasce e si sviluppa la trama.
Mentre l’aula del consiglio viene ricostruita con precisione negli studi di Cinecittà, i membri dell’assise sono reclutati dall’autentico panorama politico della Napoli di Achille Lauro.
Con la voglia di collaborare per costruire una città più giusta e un Paese migliore il regista e La Capraia rimangono colpiti da Carlo Fermariello, segretario della camera del Lavoro e consigliere Comunale con competenze urbanistiche per conto del Pci e dal suo fervore nel sollevare il problema edilizio. Rosi gli chiede di interpretare il ruolo del consigliere De Vita, perché, dirà poi, ascoltandolo varie volte parlare al consiglio comunale si è reso conto che nessuno meglio di lui può interpretare la parte e farsi capire anche dalla gente semplice che vuole rappresentare e per i cui diritti si batte anche e soprattutto nella realtà. Fermariello è titubante sul fatto di accettare o meno la proposta del regista; la Federazione Provinciale napoletana del Pci non ritiene adeguato e consono che uno dei suoi esponenti di maggior prestigio si presti a cose frivole come il cinema, anche se la partecipazione al film può essere un’occasione per poter puntare i riflettori sulle battaglie democratiche dei comunisti e sottolineare la grave situazione di Napoli e della sua periferia.
Il consigliere del Pci cede alle pressioni di Rosi solo a seguito a dei colloqui che ha con gli operai di alcune fabbriche del napoletano che lo incoraggiano a prendere parte alla pellicola per fare in modo che un loro dirigente possa dal grande schermo fare comizi, essere ascoltato da tanta gente e denunciare la situazione di precarietà in cui vivono a tutta Italia.
Il film rappresenta le diverse anime di una città sottolineando con forza la profonda spaccatura tra le varie categorie sociali: il “noi”, che simboleggia la società delle persone comuni e gli strati più fragili della collettività, si contrappone al “loro”, che allude alla classe politica e tutti quelli che stanno ai vertici della piramide sociale. Il cittadino mostrato da Rosi nel girato è una sorta di personaggio/ombra, reso muto nel processo decisionale e totalmente assente in tutte le scelte politiche che lo riguardano a causa degli inciuci, della corruzione e soprattutto dell’alleanza non tanto segreta tra le classi sociali più abbienti e i diversi livelli del potere, compreso quello ecclesiastico.
Le riprese delle macerie del crollo della palazzina ricordano oltre alle catastrofi della Guerra Mondiale appena conclusa anche il crollo della democrazia partecipativa e l’assenza della comunità dei cittadini come componente fondamentale nel prendere decisioni per il futuro di Napoli. L’ intensità anche emotiva del disastro simboleggia la rovina dell’intera città in mano agli speculatori.
Lo spadroneggiare di Nottola, interpretato dall’attore statunitense Rod Steiger, è evidenziato dalla mappa che in una scena è appesa al muro del suo ufficio, del tutto simile a quella che Rosi vede nelle sedute del consiglio comunale di Napoli, e dal plastico che rappresenta la nuova espansione: la città ideale dell’imprenditore e la sua capacità di controllo e di dominio dello spazio pubblico non si limitano agli edifici ma comprendono anche gli abitanti e le loro vite.
Il regista punta la macchina da presa sullo speculatore e sulla classe politica di cui è parte, lasciando la comunità sullo sfondo, ma senza mai dimenticare i drammi che vive la cittadinanza che viene espropriata di ogni possibilità di azione e protesta, di percezione della propria condizione di insicurezza e della possibilità di esercitare i suoi diritti fondamentali.
Il cineasta espone la situazione di Napoli in modo secco, apparentemente senza schierarsi e tantomeno dando soluzioni bensì denuncia apertamente quanto realmente accade durante l’amministrazione di Achille Lauro e nella fase immediatamente successiva, quando inizia l’ascesa della famiglia Gava.
È indicativo, riguardo alla portata innovatrice e provocatoria di questa scelta, il pesante giudizio del Centro Cattolico Cinematografico:

Se il film si fosse limitato a prendere energicamente posizione e a condannare il fatto denunciato e cioè l’operato di quanti sfruttano la loro autorità civile e politica per attuare colossali speculazioni economiche a proprio vantaggio, potremmo senza dubbio aderire alla tesi che vede prevalere l’impegno sociale su quello politico, e accoglierlo con tutta la simpatia che può suscitare un’opera che seriamente e coraggiosamente richiami gli uomini politici ai loro doveri. Ma il film di Rosi è tendenzioso ed equivoco, e la polemica contro la speculazione edilizia diventa un pretesto per fare della propaganda, e faziosa per di più, come è facilmente ricavabile sia dal tono comiziesco che il film spesso assume, sia dal modo in cui è congegnato il racconto, sia, infine, dal modo in cui sono stati prospettati i personaggi e i rapporti che tra di loro vengono ad instaurarsi.

Tutto il film è costruito come una riflessione sul rapporto tra potere e politica che si sviluppa in forma di dibattito, di cui fatti e personaggi diventano argomenti imprescindibili.
Essendo il lavoro di Rosi una discussione aperta egli, almeno in apparenza, non esprime il suo pensiero lasciando allo spettatore la piena libertà di farsi una propria idea e giungere autonomamente a delle conclusioni sui fatti raccontati. Il documento, la trama, acquisisce un senso nel momento stesso in cui diventa argomento di discussione.
I detrattori, come evidenziano le parole del Centro Cattolico Cinematografico, affossano la pellicola definendola un comizio, come se la cosa fosse di per sé squalificante e di basso livello non rendendosi conto, però, che la sua originalità è proprio nella calcolata struttura oratoria, tendente a superare la freddezza didascalica e la finzione di un cinema che si definisce verità pur mancando della sincerità oggettiva di un dibattito che si dichiara apertamente tale.
La reazione di quella politica che si sente direttamente chiamata in causa, e in un certo verso sbugiardata, dal film non si fa attendere: l’ ormai ex sindaco Achille Lauro chiede la convocazione di un consiglio comunale straordinario che condanna il girato, mentre la Democrazia cristiana campana ha l’idea di organizzare un dibattito pubblico, dove sono presenti anche i rappresentanti della famiglia Gava, il sindaco Ferdinando Clemente di San Luca ed altri personaggi di spicco della classe dirigente partenopea, che rivela una concezione della società di chiara ispirazione marxista che tende egoisticamente a vedere il bene solo da una parte 18, definendo l’opera di Rosi non cinema ma solo fazioso commento politico 19; giudizio che sarà sconfessato in occasione del conferimento del Leone d’oro nel 1963. Tuttavia, a dispetto delle reazioni, il film è accolto con grande favore sia dalla stampa progressista che dalla critica. Giancarlo Pajetta commenta sulla rivista mensile “Cronache meridionali” del settembre 1963 che non esiste un realismo più vero di quello che mostra chiare le cose di oggi, perché chi racconta ha già scorto quelle di domani 20.
Ed è proprio il carattere oracolare della pellicola a colpire lo spettatore, anche a distanza di sessant’anni, confermando la potenza e l’attualità dei temi e del modo in cui vengono trattati dal cineasta. Le mani sulla città si rivela modernissimo non solo per quello che documenta, ma soprattutto per ciò che lascia intuire del futuro destino di Napoli e della società: basti pensare che proprio nel 1963 si varerà il provvedimento di costruzione del Centro Direzionale, poi realizzato molti anni dopo, mentre verranno concesse ancora per tutto il decennio migliaia di licenze edilizie a fronte di un territorio urbano che crolla e ad ogni cedimento uccide i suoi abitanti, al punto da sollecitare nel 1969 una commissione nazionale d’inchiesta21.

5. Conclusioni
Le mani sulla città è un lucido pamphlet della situazione napoletana negli anni della speculazione edilizia. La pellicola adatta e semplifica il difficile linguaggio della politica rendendolo comprensibile a tutti, suscitando perplessità sul buon funzionamento delle istituzioni e, in particolare, sui risvolti di queste nella vita dei cittadini partenopei negli anni dell’amministrazione di Achille Lauro. Il paternalismo dell’imprenditore politico e la sua propaganda, sfruttano la situazione socio-economica disastrosa di Napoli, che alimenta le false speranze dell’elettorato. Il Comandante decide di puntare tutto sugli annunci di opere pubbliche, che poi non di rado sono costruite grazie a finanziamenti personali. Lo stile di governo della città viene sostanzialmente incentrato sul rapporto diretto con il carismatico Sindaco che risulta in qualche modo estraneo al circuito politico tradizionale, vuoi per provenienza vuoi per i temi di rottura con il potere centrale che utilizza nei suoi comizi.
Il popolo è fermamente convinto che Achille Lauro, sia come loro, uno del sottoproletariato; o comunque che lo fosse stato prima di affermarsi come imprenditore.
Il messaggio che O’Comandante lancia alla città per tutto il periodo del Laurismo è di possibilità e di speranza, connesso alla sua storia personale e a un certo disprezzo per le regole, che si leva con forza contro Roma e a favore del Mezzogiorno.
La miscela di sentimenti populisti e storia di successo personale dà ottimi risultati e permette all’armatore di curare i propri interessi privati più della cosa pubblica. La Giunta Lauro si caratterizza negli anni per l’impulso indiscriminato dato al settore edilizio, che stravolge il volto della città con la sistemazione urbanistica di piazza Municipio e lo svisceramento del rione Carità, la costruzione delle nuove periferie e l’uso propagandistico dell’assistenza pubblica. Fin dall’esercizio del 1954 il bilancio del Comune presenta un considerevole deficit, derivante anche dall’aumento spropositato dei dipendenti pubblici, frutto anch’esso della speculazione e dell’uso del posto di lavoro pubblico come merce di scambio.
L’Italia del dopoguerra e l’esplosione di sacchi edilizi nelle sue maggiori città, dai palazzinari di Roma allo sventramento di Napoli, è raccontata dal film di Francesco Rosi come un rinnovamento materiale ma immorale in cui gruppi di imprenditori senza scrupoli cambiano violentemente la fisionomia del territorio urbano con la scusa del progresso e dell’intervento sociale, in realtà aggirandosi come leoni intorno a interessi privati in una savana di rapporti di corruzione con istituzioni compiacenti a fini elettorali.
Il film si concentra sulla Napoli della classe politica, dei consigli comunali e degli accordi mercanteschi, in una logica di scambio di favori per interessi comuni tra pubblico e privato che paradossalmente sembra costituire l’ossatura più solida del nostro Paese.
La corruzione si instaura nell’amministrazione cittadina partenopea per effetto del rapporto che viene subito ad instaurarsi tra una burocrazia debole, uscita dal fascismo distrutta e perciò desiderosa di protezione, ed una classe politica che per lo più non conosce lo Stato, ne ignora i meccanismi essenziali di funzionamento ed ha per questo motivo un bisogno estremo di collaborazione.
È in questa condizione che elementi esterni come gli imprenditori edili dello stampo di Mario Ottieri si trovano a svolgere un’azione di supporto del nuovo ceto politico talmente forte da diventare parte di esso; così hanno in cambio mano libera nelle scelte interne riguardanti il personale, gli appalti e i finanziamenti provenienti dal governo centrale.
Rosi si impegna per raccontare la situazione partenopea, per ridare voce alle persone comuni zittite dalla speculazione dell’amministrazione Lauro e a questo proposito è rappresentativa la sequenza della rivolta del rione a seguito dell’ordinanza comunale di sfratto. Il regista decide di scritturare gli ormai ex abitanti della vera palazzina crollata in un quartiere della città, attori non professionisti a cui viene chiesto di protestare nel momento in cui il severo commissario di polizia passa tra la folla a seguito della caduta improvvisa e violenta di una struttura del tutto simile alla loro vecchia casa. Volti veri e presi tra la gente, a cui però si affida una voce di studio in fase di doppiaggio per favorire la trasparenza delle intenzioni autoriali e mostrare quella che sarebbe dovuta essere la partecipazione collettiva al momento del cedimento strutturale dell’edificio nella realtà.
L’idea di fondo è quella di aiutare il cittadino ad alzare un vero grido di protesta, con la voce di altri perché da solo non è riuscito a ribellarsi, contro l’indifferenza del potere pubblico.
L’esperimento va ancora oltre nella sequenza dei comizi elettorali, in cui probabili immagini di repertorio sono giustapposte a riprese di Steiger che cammina tra i manifesti politici senza che si avverta il minimo scarto tra la qualità delle due serie di inquadrature; il reale si mescola alla finzione cinematografica a sottolineare il puntuale lavoro di ricerca giornalistica.
Lo strettissimo rapporto tra la classe politica della Napoli dell’armatore e l’economia è raccontato dall’inchiesta, che ha il merito di allestire una tragedia collettiva in cui tutti hanno le proprie ragioni. Fatta eccezione per l’appassionato consigliere comunista Fariniello, tutti gli altri personaggisono mossi da ragioni sempre connesse all’interesse economico privato, alla corruzione e al malaffare, ma su di loro il regista mantiene uno sguardo a suo modo asciutto e privo di condanna. Le ragioni di Nottola, che rinfaccia ai monarchici di volerlo mollare dopo aver comprato per loro montagne di voti non sono corrette ma del tutto comprensibili così come quelle dei monarchici, che accusano l’imprenditore edile di averli sfruttati per i suoi tornaconti.
Francesco Rosi racconta il vero dramma di una città, in cui gli abitanti sono resi muti mentre le ormai consolidate pratiche di malaffare conducono per primi i responsabili nella condizione di prigionieri. Il film mostra uno degli effetti più dannosi della corruzione cioè quando, invece di mettere in opera rimedi, essa viene accettata come ineliminabile e in un certo senso quasi necessaria componente del funzionamento delle istituzioni.
Il sacco urbanistico stringe l’Italia in una morsa di cemento che non conosce parte politica, che fa della speculazione la sua regola e della deroga ai piani regolatori la sua legge. Intreccia il calcestruzzo con un potere politico immorale, infetto e spaccone che senza sensi di colpa compra consensi a suon di fruscianti banconote e scambia favori con i vertici della società usando a proprio vantaggio le persone più fragili.
Il valore storico del film di Francesco Rosi è nell’aver descritto, condannato e insinuato nelle coscienze il dramma di un’epoca che è ancora oggi sotto gli occhi di tutti i cittadini, napoletani e non. La potentissima sequenza di apertura dell’opera parla da sola e chiunque la veda oggi non può fare a meno di pensare al recente crollo 22di Torre del Greco e verificare che nel 1963 il sacco della città è in gran parte già compiuto. I disastri urbanistici non si fermano e, anzi, peggiorano: dai circa 2 milioni di metri cubi di lottizzazioni autorizzate da Lauro tra il 1951 e il 1960 si passa agli oltre 10 milioni durante le amministrazioni straordinarie o guidate dalla Dc nel successivo decennio 1961-72 23.
La realtà storica e la veridicità di quanto Rosi ha saputo rendere in immagini e narrazione è confermata dalle ricerche documentarie, dai quotidiani dell’epoca e dagli articoli di riviste impegnate come “Urbanistica” che, a partire dal numero 26 del marzo 1959, dedica ampio spazio al Piano Regolatore della giunta Lauro e riporta le denunce di accademici importanti come Pane e Cosenza, e, soprattutto, pubblica gli atti del Consiglio comunale e gli elaborati del piano del 1958.
Il tentativo di mettere le mani sulla città è stato concreto, documentato e, in larga misura, tragicamente riuscito. Napoli ne paga ancora le conseguenze, spesso senza che gli stessi cittadini ne abbiano sufficiente cognizione, come dimostra l’abbandono in atto del centro storico, le cui cause sono ricondotte proprio a quando si preferì lasciare la città vecchia al degrado, a vantaggio dell’espansione urbana e della speculazione sulle aree agricole più facilmente acquisibili dai privati.
Sono l’immobilità delle classi dirigenti e l’assuefazione dell’opinione pubblica dinanzi a questi avvenimenti ad essere gli elementi più preoccupanti della condizione napoletana del periodo del Laurismo, ma è cambiato qualcosa da ciò che denunciava il film di Rosi? Le nostre mani sono davvero pulite?
Ovviamente no, le mani sulla città continuano ad essere messe ancora oggi, con le stesse metodologie e tecniche di allora e perfino con nuove e più raffinate modalità; basti pensare al fascicolo aperto alla Procura di Milano nei primi anni Novanta da Antonio Di Pietro e alle indagini condotte anche da altre procure italiane, che si concentrano appunto sulla collusione fra politica e imprenditoria, alle inchieste contro Francesco De Lorenzo, Antonio Gava, Paolo Cirino Pomicino e a quelle su Giorgio Moschetti. Tangentopoli fu l’insieme di dossier della magistratura che tra 1992 e 1994 scoperchiò un vasto sistema organizzato di corruzione utilizzata da tutti i partiti per finanziare le loro attività e, in molti casi, per arricchire singoli politici e dirigenti. Tra il 1992 e il 1996, ci fu una media di duemila persone indagate per corruzione, concussione o altri reati cosiddetti contro i doveri d’ufficio ogni anno 24. Le cifre, mai raggiunte in precedenza, portarono al crollo degli storici partiti che avevano guidato la Prima repubblica 25 ma non generarono una effettiva moralizzazione della realtà politica italiana.
I problemi alla radice della corruzione e della generale percepita immoralità hanno continuato a rappresentare una costante nella vita pubblica del nostro Paese, senza che ai vari slogan elettorali seguisse un concreto e reale cambiamento. La sensazione è che tutto sia rimasto proprio come nel film di Francesco Rosi, in aperta contraddizione con la regola gattopardesca scritta da Tomasi di Lampedusa per il personaggio di Tancredi: “Perché tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi”.

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Mostre
Le mani sulla verità. 100 anni di Francesco Rosi., Museo Nazionale del Cinema di Torino, Mole Antonelliana – 15 novembre 2022 > 17 aprile 2023, a cura di Domenico De Gaetano e Carolina Rosi con Mauro Genovese e Fabio Pezzetti Tonion. Catalogo online: Le mani sulla verità. 100 anni di Francesco Rosi. Podcast
Gherardo Colombo, Non aprite i cassetti del potere. Mani pulite e lo scandalo delle tangenti, RaiPlaysound 2023. Non aprite i cassetti del potere. Mani pulite e lo scandalo delle tangenti
Camilla Maino, Silvia Baldetti, Citizen Rosi – Storia di un regista scomodo, Museo Nazionale del Cinema di Torino 2023. Citizen Rosi. Storia di un regista scomodo

Note

  1. È pertinente ricordare che il risultato del referendum istituzionale ha di fatto spaccato l’Italia in due blocchi. La parte settentrionale del Paese si presenta repubblicana e progressista mentre quella meridionale è monarchica e conservatrice.
  2. Vittorio De Sica (regia, 1951), Miracolo a Milano, B/N, 100 minuti, Produzioni DeSica Ente nazionale industria.
  3. ISTAT, Censimento generale della popolazione: 21 aprile 1931. Istituto centrale di statistica del Regno d’Italia, Roma, Istituto poligrafico dello Stato, 1933.
  4. Simona Colarizi, Storia del novecento italiano, Milano, Rizzoli, 2000, p.322.
  5. Al momento della sua istituzione, acquisisce tredicimila metri quadrati di terreni dalla Banca d’Italia nelle zone di Poggioreale, Fuorigrotta e Arenaccia. Nel 1910 inizia le costruzioni di edilizia popolare a Poggioreale, per un totale di 173 vani. Successivamente si prosegue con la costruzione di edifici a Fuorigrotta (rione Duca d’Aosta e rione Miraglia, quest’ultimo intitolato al primo presidente dell’istituto, conte Nicola Miraglia). Nonostante la periodica mancanza di liquidità e i gravi danni arrecati dalla seconda guerra mondiale, alla fine degli anni Cinquanta l’istituto ha edificato un totale di 957 fabbricati, a Napoli e provincia, per il fabbisogno di numerose famiglie. Il periodo di massima attività corrisponde a quello della speculazione edilizia condotta sotto l’amministrazione del sindaco Achille Lauro. In questo periodo sorgono veri e propri rioni, come Traiano, tra i quartieri Soccavo e Fuorigrotta, dell’evidente carattere speculativo. Tra il 1947 e il 1958 lo I.A.C.P. raggiunge la fase di massima attività. L’edificazione si spinge anche nei quartieri Vomero (via Rossini), Barra (zona Baronessa). Per approfondire l’argomento: Daniela Lepore, Il centro storico di Napoli. Vecchi propositi e nuovi progetti., in “Meridiana”, 5, pp.129–142. Consultabile all’indirizzo: Il centro storico di Napoli. Vecchi propositi e nuovi progetti
  6. Il provvedimento prevedeva la separazione tra la proprietà delle aree e il titolo dei proprietari di edificare su questi territori, tramite la sistematica appropriazione pubblica della rendita fondiaria, che si sarebbe realizzata nelle trasformazioni urbane.
  7. Pierre George, La geografia delle citta, Napoli, ESI, 1963.
  8. Il piano della Grande Londra di Patrick Abercrombie, architetto e urbanista inglese, prevedeva di circondare l’area metropolitana con una cintura verde, progettando fuori da questa nuovi agglomerati urbani più piccoli, riducendo così la densità di popolazione nel centro città. Inoltre, il progetto prevedeva la costruzione di autostrade e raccordi anulari per spostare il traffico automobilistico dalle zone centrali più congestionate. Per maggiori informazioni consultare: Patrick Abercrombie, Town and Country Planning, London, T. Butterworth Limited, 1933 (ed. it. 2001) e Luca Gaeta, Umberto Janin Rivolin, Luigi Mazza, Governo del territorio e Pianificazione spaziale, Milano, CittàStudi Edizioni, 2013, p.209.
  9. Andrea Ungari, Prima e oltre Berlusconi. Il caso Achille Lauro, in ”Rivista di politica”, n.2, 2011, pp.103-118.
  10. Andrea Ungari, Prima e oltre Berlusconi. Il caso Achille Lauro, op.cit., p.115.
  11. Roberto Chiarini, La destra italiana, dall’Unità d’Italia a Alleanza Nazionale, Venezia, Marsilio, 1995, p.96.
  12. Andrea Ungari, Prima e oltre Berlusconi. Il caso Achille Lauro, op.cit., p.102.
  13. Massimo Caprara, I Gava, Milano, Feltrinelli, 1975, pp.34-35.
  14. Francesco Rosi: Le mani sulla città, 1963-2003, in “CinemaCittà”, numero monografico su Francesco Rosi e Le mani sulla città, a. I, n. 1-2-3-4, gennaio 2005. Il testo contiene anche numerosissime immagini e documenti di grande interesse, oltre ad una rilettura del film attraverso le sue location.
  15. Enrico Costa (a cura di), Con Francesco Rosi a lezione di urbanistica, Reggio Calabria, Città del sole Edizioni, 2012, p.75.
  16. Il fondo raccoglie documenti, fotografie, libri, riviste, articoli e ritagli di giornale, manifesti e documenti audiovisivi, nonché la documentazione dei film di Rosi, tra il 1928 e il 2008 (Cfr. Museo Nazionale del Cinema, Archivio Francesco Rosi).
  17. Francesco Rosi: Le mani sulla città, 1963-2003, in “CinemaCittà”, numero monografico su Francesco Rosi e Le mani sulla città, a. I, n. 1-2-3-4, gennaio 2005.
  18. Michel Ciment, Dossier Rosi,op. cit., p.55.
  19. Gian Luigi Rondi, “Le mani sulla città” non è cinema ma solo fazioso commento politico, in “Il Tempo”, 6 settembre 1963, p. 10. Cfr. anche Id., La vittoria di “Mani sulla città” ultimo errore di una mostra sbagliata, ivi, 8 settembre 1963, p. 6.
  20. Gian Carlo Pajetta, Le mani sulla città, in “Cronache meridionali”, a. X, n. 9, settembre 1963, pp.51-52.
  21. Francesco Erbani, Trasformismo politico e trasformazioni urbanistiche, in Francesco Rosi: le mani sulla città, 1963-2003, op.cit., pp. 187-191.
  22. Crollo palazzina a Torre del Greco, 25 indagati. Aperto un fascicolo di indagine con l’ipotesi di crollo colposo”, in “IlSole24Ore.com”, 17 luglio 2023. Consultabile all’indirizzo: Crollo palazzina a Torre del Greco, 25 indagati
  23. Andrea Geremicca, A proposito di analogie, in Francesco Rosi: le mani sulla città, 1963-2003, op.cit., p.164.
  24. Per maggiori informazioni e chiarimenti sul “sistema Milano” vedere G.Barbacetto, P.Gomez, M. Travaglio, Mani pulite (La vera storia), Chiarelettere Editore, Milano 2012.
  25. Sul disfacimento della prima Repubblica vedi L.Cafagna, La grande slavina (L‟Italia verso la crisi della democrazia), Marsilio Editori, Venezia 1993 e sulle nuove forze politiche che si spartiscono i voti persi dai vecchi partiti vedi S. Colarizi, “Storia politica della repubblica” (1943-2006), Editori Laterza, Bari 2007.

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