Bibliomanie

Un esicasta della Fine. Guido Morselli e le cronache del dopo-mondo
di , numero 54, dicembre 2022, Saggi e Studi, DOI

Un esicasta della Fine.  Guido Morselli e le cronache del dopo-mondo
Come citare questo articolo:
Giuseppe Crivella, Un esicasta della Fine. Guido Morselli e le cronache del dopo-mondo, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 54, no. 7, dicembre 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.10136


Il mar del mòrmoro mèrmera all’orecchio della mente, roccia inesplorata […]
da spazio a spazio, tempo dopo tempo in varie fasi di scrittura come in varie
pose di sepoltura…
(J. Joyce, Finnegans Wake)


1. Apocalisse apofatica
Desolata e inospitale, come un pianeta sconosciuto anteriore alla comparsa delle prime forme di vita, si presenta la Terra ove un giorno si risveglia il protagonista di Dissipatio H. G. dopo aver covato torbidi progetti di suicidio. Ma, stranamente, al mattino è il genere umano ad essere scomparso, in ottemperanza forse ad una beffarda logica inversa per cui ad essersi suicidati in blocco – in maniera paradossalmente involontaria – sono stati tutti gli altri abitanti della Terra, che dei piani dell’uomo non sapevano nulla. Da qui l’idea di erigere per loro un monumento funebre composto di rovine tecno-industriali in perfetto stato di conservazione ed ancora blandamente funzionanti:

«ho deciso di innalzare alla memoria, in piazza del Mercato (Widmad), un cenotafio. Mi pare che si dica così. Ci ho lavorato un paio di giorni: un furgoncino commerciale e una Mercedes coupé, formano la base del monumento, una ventina di televisori, tolti dal Grande Emporio. Il corpo. Sulle TV qualche apparecchio fotografico e di cinepresa, ceste di bottiglie di cocacola. In cima, all’altezza di tre metri circa da terra, un cartellone enorme, che riempiva una vetrina dell’Agenzia di Viaggi, Un Kodachrome di metri 3×2, intimante una spiaggia, con la famosa arena bianca, delle Bahamas, e l’invito “Voliamo laggiù – dove la vita è migliore.” Un po’ sull’aria della canzone tahitiana: Native Gods are calling, To them we belong.1»

Inizia così il romanzo di Guido Morselli, apparso nel 1977 presso Adelphi, che dette una notevole fama2 all’autore suicidatosi quattro anni prima. L’opera si caratterizza per una tale originalità di temi che difficilmente riesce a trovare una collocazione precisa all’interno del vasto campionario di moduli afferenti alla fantascienza3.
Se, per esempio, proviamo ad utilizzare il bel testo di Giovannoli La scienza della fantascienza per inquadrare Dissipatio H. G. vedremo che sorgerebbero numerosi problemi riguardanti il principio di categorizzazione da mettere in campo per classificare l’opera in questione4. Più che un romanzo di fantascienza, Morselli sembra esser riuscito a scrivere una sorta di possente dramma astrattamente metafisico5, il quale potrebbe affiancare senza problemi opere come L’invenzione di Morel di Bioy Casares, Nova Express di William Burroughs, L’immortale di Jorge Luis Borges, Il Dottor Faustroll di Alfred Jarry, nonché alcuni testi di Giorgio Manganelli tratti da Centuria, apparso non a caso qualche anno prima di Dissipatio H. G.
Si tratta in molti di questi casi di mondi estremi, per usare una nozione messa a punto da Jean-Clet Martin6, ove le condizioni di vita dei personaggi sono tali per cui essi finiscono per accedere ad una dimensione postuma del tempo che li costringe ad una maniacale riflessione, in cui il loro pensiero si agita brancolando nel trascendentale Supervacuum a cui sembra averli condannati per sempre l’impenetrabile deliberazione di un Dio demente e sinistro7.
Quest’ultimo, nel caso di Morselli, ha tramutato il protagonista del romanzo in un monologante superstite chiamato a sperimentare il paradosso di una fine-del-mondo che ha avuto luogo senza alcun effetto, trascorsa nella bianca inapparenza d’un Evento – come lo chiama il personaggio di Morselli per tutto il libro – il quale, a parte la scomparsa degli uomini, non lascia alcuna traccia, la cui immane eccezionalità cioè risiede nel fatto d’essersi venuta a produrre nel punto esatto della propria trasparente cancellazione.
Nulla pertanto inquieta e disturba più di una fine-del-mondo che si attua lasciando tutto come era prima di essa, sconvolgente e traumatica proprio perché ciò che avrebbe dovuto mettere fine a questo tempo di indefettibile documentabilità e tracciabilità si è presentato con i caratteri dell’inavvertito e dell’irreperibile.
Il momento della fine non si iscrive più nell’ambito del tempo umano col segno apocalittico di una cessazione definitiva che arriva a colpire indiscriminatamente tutte le cose, ma piuttosto s’insinua nella stanca polvere dei giorni, carica della tragica comicità di un evento la cui straordinaria unicità consiste nel fatto d’essersi verificato quale frangente epocale per la storia degli uomini senza che alcuno di essi abbia effettivamente avuto la possibilità di rendersene conto. Alfredo Giuliani ha inquadrato questo stato di cose in un celebre saggio, ora contenuto nella raccolta intitolata Le droghe di Marsiglia. Scrive acutamente il critico italiano:

«vinto […] dalla ribellione del suo corpo, il protagonista torna indietro, risbuca dal cunicolo, scende a valle e ritrova il mondo interamente ripulito di esseri umani. La scomparsa degli uomini non è la Fine del Mondo, anzi. Presto ogni angolo ricomincerà a verdeggiare. A Crisopoli i corvi posano sul frontone del teatro, i gatti popolano le gradinate dei templi finanziari, vagolano cani senza più padroni; in campagna vacche e capre brucano. Non è accaduto nulla di visibile: semplicemente i corpi umani sono stati tolti, sottratti agli affari, svaniti. Sono loro, tutti gli altri, che se ne sono andati senza lasciare traccia. E insieme con loro sono finalmente svaniti l’Imbruttimento, l’Inquinamento, l’Inferocimento e la “peste monetaria”.8»

Giuliani ribalta immediatamente la chiave interpretativa che apparentemente sembra imporsi a una prima lettura: qui non si tratta più della fine del mondo. Si tratta piuttosto di una nuova Genesi, forse di una palingenesi in cui quei tre attori nefasti evocati alla fine dell’estratto appena riportato sono stati definitivamente espunti di concerto con l’obliterazione capillare di ogni essere umano, tranne naturalmente il suicida monologante, il quale si trova così costretto a dover sopravvivere non solo al proprio mancato decesso, ma anche a quello di tutti i suoi simili, risucchiati senza resto in quell’ipotetico Nulla che egli cerca strenuamente e vanamente di mettere a fuoco.
Avviluppato in un onnipervasivo crampo di entropia, il mondo perpetua la propria esistenza in una sorta di diffuso stato catatonico. Da ciò deriva la necessità di mettere a fuoco la prima connotazione inquietante che si impone a noi: a questo cataclisma è sopravvissuto solo ciò che non ha coscienza di sé, solo ciò che è del tutto privo di una forma superiore o abbastanza evoluta di autocoscienza9. A questo parametro non sembra far eccezione neppure l’unico superstite dal momento che, come racconta egli stesso, nel frangente esatto in cui si è consumato l’Inspiegabile10 egli era completamente privo di sensi, svenuto a causa di un violento trauma cranico occorsogli durante il goffo tentativo di suicidio.
A questo punto una fauna guardinga si fa avanti sulla piazza di Crisopoli, nei luoghi a maggiore impatto antropico della città stranamente deserta, abbandonata ad uno sfacelo ove gatti, corvi, pipistrelli e cani iniziano a dilagare, ad avventurarsi probabilmente alla ricerca di cibo, ma anche incuriositi dall’assenza inspiegabile degli uomini, svaniti improvvisamente in un altrove dello spazio-tempo da cui non è previsto ritorno e che, in preda ad una gelida fantasia apocalittica11, il narratore prospetta in questi termini:

«adesso, direttori, editori, scrittori, colleghi, ex-colleghi e pseudo-amici stanno tutti “di là”. Calcano i glabri pendii del monte Armageddon. In attesa della estrema sentenza, scavano occhiuti con le unghie la cenere a coprire le telex e le macchine da scrivere a cui sono, giustamente, incatenati. Angeli vigilano dall’alto del monte onde non fuggano. Tre angeli neri, gli stessi a cui, in vita, si prosternavano idolatri, e ognuno dei tre porta uno scudo e su uno degli scudi si legge Sociologismo, sull’altro Storicismo, sul terzo Psicologismo. A piè del monte due serpi loricate strisciano sibilando e buttando fuoco. E ognuna sulle scaglie ha una scritta, e su una si legge: Advertising, e sull’altra Marketing.12»

L’umanità è stata quindi comicamente respinta in una latitudine di insignificanza: i due termini che scintillano vacui e pressoché incomprensibili nella nuova dimensione in cui stagnano gli ex abitanti del mondo suonano come delle parole arcane e minacciose, latrici di una punizione sovrannaturale, a cui appare del tutto impossibile assegnare una definizione esaustiva. “Di là”, in questo buffonesco inferno posticcio allestito con gli scenari di cartapesta tipici di una scadente sit-com televisiva, dominano dei termini il cui significato ormai sembra essersi decomposto.
Nel loro istantaneo Armageddon gli uomini si sono portati dietro scorie amorfe di un linguaggio che non riesce più ad esprimere nulla, lacerti di un interminabile discorso che ora appare sotto le fattezze di un rumore di fondo, il quale fodera in maniera prosastica perfino l’inferno con grandi scritte pubblicitarie o microscopici simboli di celebri marche che hanno preso l’aspetto di ironiche e icastiche iscrizioni funerarie.
“Di qua” invece, all’indomani di questa criptica catastrofe, il mondo conosce la propria convulsa apocatastasis, viene cioè ricondotto ad una condizione di imperfetta – o corrotta – verginità: le tracce del passaggio umano permangono come sparuti relitti di una storia che presto sarà dimenticata, rimossa per sempre da una realtà atemporale come quella anteriore alla comparsa del primo uomo: «tutto a posto e in ordine ma immobile e fuori dal tempo, perché è l’uomo che fa il tempo delle cose»13, osserva ad un certo punto il sopravvissuto.
Morselli quindi fin dalle prime pagine ci proietta nei meandri di uno Spopolamento14 ove i segni e i sintomi della dimensione propriamente antropomorfa sono contemporaneamente espunti dalla situazione effettiva, ma resi assolutamente necessari al fine di decifrare quell’anomalo stato di cose. Non a caso, dopo aver evocato la posizione di Montaigne in merito all’ipotesi di una possibile fine del mondo15, Morselli derubrica quanto si presenta ai suoi occhi parlando a chiare lettere di un paradosso farsesco16 nelle cui spire annega ogni forma di razionalità ed ogni sforzo di razionalizzazione messi in campo per comprendere – o tentare di spiegare – l’Evento.
Basti dire, ad esempio, che la prima reazione del narratore all’indomani della scomparsa consiste addirittura nel cercare assurdamente di mimetizzarsi con l’estinzione totale da cui non sa come (e perché) sia riuscito a salvarsi:

«il secondo giorno […] me ne sono stato seduto alla macchina un pomeriggio, senza toccarla. Il ticchettio dei tasti mi avrebbe sconvolto. O era come superstizioso dovere, non rompere il silenzio. In cucina, per riscaldarmi, il caffè in punta di piedi. Fuori sul selciato, la pioggia batteva sonoramente, ma io non dovevo fare rumore. Dovevo, come gli altri, essere morto.17» Il superstite appare da subito determinato a voler rigettare la propria immotivata condizione di sopravvissuto. Egli stesso avverte la sua presenza come incongrua ed inammissibile rispetto a ciò che si è prodotto nelle fibre più profonde della realtà. Sagomandosi sul silenzio e sull’immobilità del mondo esterno, sull’attonito girare a vuoto del tempo in cui il mondo sembra essere caduto, il narratore cerca di pervenire ad una sorta di grado-zero dell’autocoscienza e soprattutto della nebulosa consapevolezza di quanto accaduto.
Se l’inferno ove ora potrebbero essere relegati gli uomini era roboante e sovraccarico di tristi emblemi mondani, Crisopoli ed il resto della Terra sono spettralmente taciturni, simili in ciò ad una sconfinata necropoli18 che il narratore in un primo momento esplora alla ricerca di qualche altro sopravvissuto.
È un mondo ove ancora funziona l’elettricità, dove ancora gli schermi televisivi proiettano immagini e figure, in cui le radio ancora emettono un flebile ronzio meccanico, dove gli apparecchi telefonici ancora squillano mettendo il superstite in contatto con un non-luogo da cui una voce metallica non smette di ripetere in maniera ossessiva sempre il medesimo messaggio preregistrato. Sono tutti suoni di contorno che accerchiano la persona loquens, ad essa si approssimano, arrivando a lambirla mentre essa cerca di tramutarsi in una lacuna, in un’assenza, capace di percorrere la superficie terrestre senza alterarne la funebre quiete seguita all’Evento.
Il cenotafio evocato en passant nell’estratto riportato in apertura molto probabilmente non è pensato tanto per l’umanità estinta, ma segnala piuttosto la presenza di un morto che non occupa il suo posto effettivo in questo sterminato sepolcro tecno-industriale. In quel cenotafio il narratore sogna di tumulare se stesso nel momento in cui la detraenza definitiva19 in forza di un inesplicabile contraccolpo tornerà per un attimo indietro per riprendere l’ultimo uomo rimasto in vita.

2. Apoteosi o interludio?
Si produce a questo punto un ulteriore ribaltamento della situazione: là dove la Terra appare come morta, in realtà essa è più viva che mai20. L’unico superstite che sembra conservare in sé tracce di vita, a tutti gli effetti proviene da una morte appena sfiorata, cercata ma comicamente mancata, rimasto suo prigioniero senza tuttavia esser riuscito a identificarsi in pieno con essa. Immediatamente dopo il passo appena riportato, la persona loquens prosegue infatti affermando:

«le mie funzioni, normali: mangiavo con fame, persino voracemente, mentre l’orrore non s’interrompeva, perché non c’erano intervalli e io rabbrividivo mangiando, al ritmo della mia masticazione. Dormivo e, curioso a dirsi, senza sogni. Fumavo qualche pipa, bevevo cognac nella solita misura. Urinavo più del solito; la paura, è noto, mette a prova l’emuntorio. Anche quando la paura diventa necessità e si connatura con l’individuo, come stava capitando a me. Sono stati, prima della crisi risolutiva, due giorni, non di più e non completi. In quanto a esperienza, un saggio di eternità.21»

Avvertendosi sotto le sembianze di un’ingiustificabile escrescenza, dolorosamente eccedente rispetto a tutto il resto dell’esistente per l’irriducibile coefficiente di autocoscienza che egli reca con sé, il superstite per i due giorni successivi all’Evento persegue senza risultati apprezzabili una sorta di deliberata e paralizzante devitalizzazione del sé. Ma, pur ridotto alle mere funzioni organiche, l’unico sopravvissuto viene come respinto ogni volta da capo verso una dimensione minima di propriocettività22 da cui egli non riesce mai a riscattarsi23.
Sospeso a metà tra l’organico e l’inorganico, il narratore non smette di auscultarsi, quasi origliando attraverso l’opaca parete del suo corpo le vibrazioni minime e impercettibili di un mondo che, divenuto mostruosamente inesplicabile, ora appare in preda ad una degenerazione irreversibile, ora sembra prossimo a risorgere dalle sue ceneri dopo essersi liberato dell’unico parassita capace di mettere a repentaglio la sua stessa esistenza. In quel sonno senza sogni c’è la rivelazione lampante di questa vita che tende a pietrificarsi senza però riuscirvi. I sogni non visitano più la persona loquens dal momento che la sua stessa vita risulta caratterizzata da una sorta di sorda impregnazione onirica24, la quale invischia il superstite in ogni istante della sua vita diurna.
In merito a quanto detto finora, ci pare quindi di poter evocare alcune analisi di Gianni Celati. Nel saggio d’apertura della sua silloge di interventi sulla narrativa del Novecento, egli nota infatti che questo tipo di opere25 «deve evacuare il soggetto empirico, ridurlo a mito negativo dell’esteriorità mondana, introdurre un nuovo e più radicale sistema di esclusione che lo rigetta al di là delle soglie del sapere»26.
Tale lavoro di riduzione ed abolizione del soggetto empirico è però tutt’altro che semplice. Il protagonista di Dissipatio H. G. infatti deve accettare il fallimento costante dei suoi tentativi di auto-obliterazione, concludendo che perfino la sola attività di minzione risveglia nelle sue membra – stanche e prostrate dall’esercizio indefesso dell’indagine inerente all’accaduto – un vasto riverbero di risonanze psichiche27, le quali non possono in alcun modo essere messe in quiescenza28 e che tramano senza sosta avviluppanti ragnatele di filosofemi che si richiudono ogni volta sulla sopravvivenza del narratore, quasi a intrappolarlo nelle spire di una spastica filogenesi degenerativa:

«vedo una piramide. Se la considero bene, è una piramide, temporale, capovolta. Anzi, sono due piramidi. L’una, ritta, dal primo uomo o ominide capostipite si allarga, negli eoni, sino ai formicolanti miliardi di esseri della stessa specie che avevamo la notte del due giugno. Appesa a quella, la piramide capovolta (e, questa, senza estensione temporale ma solo ideale), che dai formicolanti miliardi si restringe d’improvviso in un individuo solo: questo vertice terminale sono io.29» L’eternità che egli sperimenta è quindi solo di natura ideale o, meglio, quasi spettrale; potremmo quasi arrivare ad affermare che essa ha un’origine maniaco-depressiva. E, proprio per questa ragione, egli appare in mezzo agli sparsi ruderi tecno-industriali della Civiltà appena estinta, come una fosforescenza inquieta, come una superfetazione parassitaria, condannato ad abitare questo incredibile suicidio cosmico con le movenze larvali di una creatura pertinacemente infestante.
In quei due giorni di agonizzante confusione e viscerale smarrimento, di ostinate incertezze e inevase domande metafisiche, il sopravvissuto compie una specie di dolente apprendistato, tramite il quale egli capisce di poter partecipare all’Evento solo prendendone le distanze, cessando di cercarne in maniera spasmodica e accanita una spiegazione più o meno logica, ed iniziando a raccoglierne le cifre sparse al fine di stilarne una sorta di dettagliata cronaca quotidiana perfettamente inconcludente, dal momento che rimane del tutto irreperibile la causa ultima di ciò che ha scatenato quella situazione totalmente assurda.
Inoltre, l’ossessione sepolcrale di cui è preda il sopravvissuto spinge quest’ultimo a vedere e a concepire la Terra sotto le fattezze di un esangue bazar archeologico30 in cui gli oggetti si distaccano poco a poco da quegli stessi nomi con cui per decenni gli uomini li avevano inchiodati a delle anguste matrici di ustensilité che all’indomani della dissipatio non hanno più alcuna ragion d’essere. Il sopravvissuto si rende conto di tutto ciò passando dinanzi alla facciata di un edificio che gli si para di fronte avvolto da una fredda aura di inesplicabilità: «le tre finestre sotto il portico hanno perso il loro significato macabramente commemorativo, ora ne hanno un altro, sono vuote»31.
In questo vuoto, in questo sguardo senza occhi che ogni singolo oggetto, che ogni singolo angolo della città rivolge all’ingombrante presenza residuale del superstite, quest’ultimo in effetti rivede e riconosce il proprio sguardo attonito, puntato su di una realtà ormai a lui aliena e remota, la quale lo ha espulso per ben due volte dalla propria rarefatta e frammentaria cornice ontologica: la prima, allorché l’Evento lo ha eccettuato, dimenticando di coinvolgerlo nel miracolo orrendo32 con cui è stata evacuata la razza umana, facendone così al tempo stesso un prescelto e un reietto33; la seconda volta quando egli si è reso conto che la sua sopravvivenza coatta non può trovare in alcun modo una collocazione coerente con questo inedito stato di cose: «sul trauma paralizzante si leva e vaneggia la paura. Che è fatalmente un male della ragione discorsiva, estraneo agli angeli e alle bestie»34.
Da tutto ciò deriva una conseguenza su cui forse la critica non ha riflettuto abbastanza: in questo universo post-storico e felicemente disumano, perde immediatamente di significato una delle attività cognitive più importanti e vitali per gli uomini, ovvero l’operazione del classificare35. Grazie a quello che ci dice il protagonista sappiamo infatti che sotto il profilo economico-finanziario Crisopoli si presenta come un centro piuttosto ricco ed iperproduttivo. A fronte di ciò i suoi abitanti, solerti e precisi, avevano messo a punto repertori e cataloghi, registi ed archivi ove ordinare e categorizzare con inflessibile premura sistematica tutto l’esistente36. All’indomani del cataclisma planetario37 di questa operazione non rimane più nulla, gli schedari sono degradati ad ossari. In uno stupendo scritto della fine degli anni Ottanta Franco Rella, da altre angolature ha affrontato questo tema, proponendo una serie di considerazioni che ci sembrano decisamente pertinenti in relazione a quanto esaminato finora. Scrive il pensatore di Rovereto:

«le cose si distendono indifferenziate e indifferenti. Troppo forti perché esse siano annientate nel nulla, ma impercorribili, impraticabili, perché non è più dicibile la loro diversità, la differenza che le unisce in una tensione. Il sentimento di questo essere in una “sorta di eternità senza consistenza”, in questo grigio, è il sentimento della noia […]. Noia e bêtise sembrano ormai dominare, come ciò che non ha figura, tutto l’orizzonte umano. Le cose, nel momento in cui vengono semplicemente trascritte e collezionate, senza alcun senso e senza alcuno scopo […] precipitano in un vortice, in una sorta di congelata vertigine.38» Rella blocca l’istante febbrile in cui le cose si ritraggono in una plaga obliqua di muta indifferenza e di sibillina lontananza. La stessa ovvia dicibilità dell’oggetto si contrae in una spaesante regione di silenzi, ove la parola è oggetto di un’inarginabile obsolescenza. L’oggetto ora recalcitra molesto, soggetto a un processo di defunzionalizzazione39 in forza del quale perfino i prodotti industriali più semplici si profilano sotto le crude sembianze di anti-merci40, quasi a lasciar intendere che l’incontrollata stratificazione kitsch di Crisopoli possa essere riscattata, e quasi redenta, solo rivelando la smisurata facies hippocratica che essa cova e cela sotto la propria la maschera di marcescente plutocrazia, di cui in fin dei conti non restano che reliquie necromantiche41:

«entravo in una grande città: ma non era tanto l’entità fisica dell’agglomerato a rassicurarmi. Con i suoi quattrocentomila mercanti, Crisopoli è positiva come la positività stessa. Disponibile a ogni cosa, tranne i miracoli. Zavorrata d’oro monetato nelle sagristie delle sue sessanta banche, non può lievitare nel meraviglioso, o anche solo nell’imprevisto. La più alta concentrazione di ricchezza che si conosca; e una sostanza così concreta non si sprofonda per maleficio del diavolo, non si vanifica per grazia o castigo celeste. Le sue radici attingono l’aeternum del capitale, quintessenza della realtà […]. La città intatta, appena abbandonata, è già archeologia.42»

Seguendo inoltre la formidabile disamina che Francesco Orlando consegna nel suo poderoso volume del 1993, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, possiamo osservare che, se fino all’Evento i soggetti riuscivano ad antropomorfizzare l’inanimato, è ora proprio l’inanimato a prendere il largo, tramutando in inerte cosalità tutto ciò che prima del due giugno rientrava in uno spazio semantico e pragmatico prettamente umano43. Lasciamo a tal proposito ancora una volta la parola a Morselli stesso che osserva con divertita amarezza: «che cosa facevano “loro” in sostanza […]? Beh, è abbastanza semplice: agivano in vista di utilità. Inoltre ragionavano sulle cose che si vedevano intono, o che credevano di vedersi dentro. Poi, le rappresentavano, parole, segni, suoni»44.
Prima di aggredire la consistenza materiale degli innumerevoli utensili prodotti dall’uomo, questo serico disfacimento senza nome e senza causa caria sotterraneamente la spessa falda di incrostazioni simboliche che gli abitanti di Crisopoli avevano secreto su ogni cosa. Ora essi si aprono ad una pluralità caotica di usi che non possono più essere riassorbiti in una sfera di interesse direttamente riferibile ad una dimensione più o meno umana45.

3. D’une narration épilogale
Numerose sono state negli anni le ipotesi relative alle filiazioni e alle ascendenze più o meno dirette di un romanzo come Dissipatio H. G.46. Certo, va detto che non è facile ricostruire quali siano stati i modelli che hanno ispirato Morselli nell’elaborazione della storia. Ma ciò che colpisce in quest’operazione sulla ricostruzione degli antecedenti dello scrittore bolognese è senza dubbio la grande eterogeneità dei riferimenti che vengono chiamati in causa o proposti di volta in volta: Giuliani, ad esempio, si richiama al filone della fantascienza post-apocalittica evocando Shiel e suggerendo, senza esplicitarlo, Fred Hoyle. Manganelli invece muta completamente registro e indica come capostipite del romanzo «il dialoghetto leopardiano tra Ercole e Atlante»47.
In effetti bisognerebbe innanzitutto ricordare che lo stesso Morselli, attraverso la voce del suo personaggio, ci istruisce in merito all’origine della nozione e del processo della dissipatio per la quale siamo rinviati prima a Giamblico48 e poi all’epistola De Fine Temporum dell’agiografo e apologeta Salviano da Treviri49.
È alquanto difficile stabilire se il mondo estremo tratteggiato in questo romanzo morselliano sia un luogo ostile o possa essere concepito nuovamente come un grembo accogliente per eventuali forme di vita superiori. Certo, Giuliani giustamente nota che, se in Shiel c’è alla fine della vicenda il tentativo di ricomporre una coppia edenica per ripopolare il pianeta, qui la coppia ha una flebile coloritura misterica50, dal momento che Karpinsky funge da acheronteo psicopompo atteso, probabilmente senza alcuna speranza effettiva, al solo scopo di accompagnare il narratore nelle anfrattuosità del Nulla ove si è rintanato il resto dell’umanità.
Questi riferimenti dottissimi vengono utilizzati dall’autore per produrre una serie di raffinate e capziose variazioni proprio sul tema della dissipazione. Ecco che allora gli uomini e le donne, con tutti i loro corpi completi di abiti, di scarpe, di portafogli, sono stati presumibilmente nebulizzati, sono evaporati, si sono volatilizzati. Scrive Morselli: «un mondo tutto corpo, credente solo nella tangibilità, viene scorporato. Contraria per contraria expiantur»51. Addirittura il celebre schema triadico dello stesso Hegel52 viene esplicitamente chiamato in causa per rendere conto di questo immaterialismo ontologico53 che trova nella volatilizzazione generalizzata il momento culminante della propria manifestazione compiuta:

«scomparsa di Giovanni e consorte, dal loro letto. Ecco, l’immagine di un’umanità resa volatile e che si sia diffusa, disciolta, nell’atmosfera, mi si è già affacciata e l’ho respinta. Invece, concorda coi fatti. È favolosa, ma non è favoloso tutto? I vecchi paradigmi collaudati non servono più, ci vuole altro. Volatilizzazione, perché? Vediamo: potrebbe essere un reagire della Natura, o di un’extranatura, alla materialità in cui “loro” vivevano.54»

Questo estratto è particolarmente interessante per la menzione di quell’extranatura che per un attimo lampeggia nella mente del sopravvissuto, lasciando intendere che l’ipotesi fantascientifica afferente ai moduli specifici dell’esobiologia inizia a profilarsi con una notevole pregnanza esplicativa.
Il problema è che a quell’extranatura sembra appartenere proprio il narratore, il quale di fatto già prima del prodursi dell’Evento afferiva ad una forma di vita – qui in accezione prettamente wittgensteiniana55 – in fin dei conti del tutto incompatibile con il resto dell’umanità56, a tal punto che alla persona loquens del romanzo sembrano attagliarsi esattamente le parole con cui Manganelli presenta Morselli stesso, ovvero come «un signore […] delicato, sommesso, discreto, sempre pronto alla sconfitta […], un perfetto disadattato»57.
Poco più avanti, la dissipatio, la volatilizzazione, viene concepita in un’accezione ancora diversa, ancor più calata in un’improbabile dimensione teologale58 che spinge il sopravvissuto a parlare expressis verbis di angelicazione della Specie59. Uno dei grandi motivi di fascino del romanzo infatti è proprio questa oscillazione perpetua tra l’idea che la dissipatio si sia venuta a produrre secondo i termini di un castigo divino esercitato contro la radicata pravità umana e il sospetto – alquanto vacuo e immotivato – che essa sia una sorta di mistero glorioso60 grazie al quale l’Uomo è riuscito a ottenere un’imperscrutabile forma di salvazione.
Divenuto in tal senso un apolide61 metafisico, il narratore transita senza sosta da una congettura all’altra, snocciolando per tutto il giorno un rosario di teoremi del tutto inconcludenti. Nel ferreo e insondabile sistema di calcolatissime anomalie che innervano tortuosamente l’inesausto gioco lugubre di Dissipatio H. G. tutto appare contraddistinto dai toni di quel labirintico furore raziocinante62 che già Manganelli riconosceva come uno dei tratti dominanti della scrittura morselliana:

«se l’universo degli altri suoi libri era in qualche modo storto, contorto, sghembo, questo è rovesciato, pulitamente, totalmente: il suo modello mentale è un grafico, come quello che il sopravvissuto disegna a riassunto della storia umana. Ma c’è da aggiungere che questa immagine capovolta rovescia un universo che è a sua volta rovesciato. Dunque, dal gioco esce una figura che ha senso.63» Alla luce di ciò quindi la vicenda narrata nel testo concresce geometricamente su se stessa come una lenta ma inesorabile spirale, la quale poco a poco assorbe nel proprio inarrestabile moto dettato da una logica perversa ogni aspetto del reale: oggetti, animali, paesaggi, macchine e perfino i minimi stati psichici del superstite sono aspirati dentro questa sorta di macroscopica bolla transtemporale in cui i vari accadimenti riferiti – ed in parte ricostruiti – dalla persona loquens, nonostante la loro irriducibile irrazionalità, si concatenano gli uni agli altri in maniera sottilmente e inspiegabilmente consequenziale, a tal punto che, come ha notato magistralmente Manganelli, la sconvolgente paradossalità dell’Evento non può e non deve mai essere ritrascritta secondo dei canoni stilistici che prevedano qualcosa di marcatamente allucinatorio64.
Il narratore appare sempre sospeso fra le compassate gestualità di un vago spiritismo fin de siècle e la dura disciplina culminante in una fatiscente ascesi mistica65, che ignora ormai la postulazione finale di qualsiasi Deus absconditus, per concentrarsi sulle flebili tracce di quello che potrebbe al massimo essere la legnosa pantomima di un dio rudimentale.
Da ciò deriva il ricorso insistito e quasi snervante a quella prosa duramente protocollare, asciutta e spigolosa da nudo referto nosografico, che ci accompagna dall’inizio alla fine del testo66, intervallato da qualche squarcio di trattenuta visionarietà, come quello riportato poco sopra relativo al patinatissimo inferno ove si troverebbero ora tutti gli uomini. Lavorando secondo questa linea di ricerca formale Morselli riesce pertanto a candidarsi a notaio dell’impossibile67. Relativamente a ciò nota ancora l’autore di Nuovo commento:

«questo è il fascino bizzarro e discretissimo di Guido Morselli: la precisione maniacale, la minuzia notarile, la tranquillità catastale con cui tocca, e ironizza, e racconta ciò che non è accaduto, che non accadrà, che non può più accadere; ancora con le parole di Morselli, «una contro-realtà» descritta «nei termini del realismo». In conclusione, quella prosa strumento tipico di narrazione del reale dimostra che la consistenza intrinseca di ciò che è accaduto e di ciò che non è accaduto è assolutamente la medesima.68» Con grande precisione Manganelli riesce a cogliere ciò che di perturbante Morselli dissemina nel corso della sua narrazione cristallina e ipnotica: la coesistenza capillarmente conflittuale di istanze reciprocamente refrattarie, le quali tuttavia si richiamano a vicenda al solo scopo di respingersi sempre da capo e di escludersi senza tregua.
Dissipatio H. G. è la vitrea messa in scena di un’astratta tragedia avente come protagonista un soggetto divenuto ormai preda di un pathos raziocinativo che conduce il pensiero al proprio collasso. Smembrato in una congerie di supposizioni senza costrutto, di ipotesi inverificabili, di interpretazioni antinomiche germinanti le une dalla confutazione delle altre, il pensiero finisce con lo slogarsi in un delirio gelidamente algebrico di iperboliche aporie che il narratore porta a reagire e ad interagire tra di loro, con l’intento sinistramente parodico di inscenare un mimodramma del sacrificium intellectus.
Egli è quindi posseduto dalla cognizione melanconica di trovarsi esposto alle profondità insondabili di una realtà composta dai frammenti impazziti di una putrefatta metafisica69. Ogni cosa qui obbedisce a quella regola dell’inversione, dello sdoppiamento, della biforcazione, della divergenza tra prospettive esegetiche confliggenti ma interconnesse, in un circuito di interferenze e di congruenze incrociate ove la momentanea espunzione di una tesi porta alla paralisi improvvisa dell’intero ragionamento dilemmatico70.
In tale «neo-mondo del paradosso»71 ogni cosa, ogni concetto, ogni idea si salda malignamente al suo contrario, alla sua puntuale negazione, così che a dominare è un anchilosante ed onnipervasivo principio di contaminazione intestina tra due o più nozioni diverse e spesso contrapposte: l’improvvisa fine dell’umanità va in realtà concepita e riletta come la premessa ontologica per un nuovo inizio epocale; la vita del narratore è la controfigura mostruosamente ironica di un interminabile decesso destinato a trascinarsi sine die; l’ultimo giorno dell’umanità (sabato 1 giugno)72 si protrae stancamente, dilatandosi in un’insopportabile eternità senza approdi, la quale non ammette e non tollera più alcuna ipostasi di trascendenza.
Si inaugura così il proliferare selvaggio di un reticolo sempre più ampio di disgiunzioni chiamate a correlare in maniera aberrante coppie di termini, in cui ciascuno di essi è sempre ritrascritto come il doppio deforme dell’altro. Tutto ciò sfocia in una convulsa schematicità diallelica capace di tramutare la ragione del protagonista in una forma elettiva di asfittico anancasmo: «lei è un temperamento ripetitivo, mi diceva Karpinsky. La ripetitività, nel senso che ad essa danno gli psicologi, è una caratteristica che potrebbe aver favorito il mio adattamento»73.
Alla luce di quanto appena enucleato, pare quindi possibile suggerire una certa prossimità tematica tra il romanzo in questione e le medesime atmosfere di sospensione reperibili nei testi narrativi di un autore piuttosto lontano e difforme rispetto a Morselli, il quale però in testi come Le ressassement éternel, Celui qui ne m’accompagnait pas, Le Très-Haut o L’instant de ma mort lavora la dimensione temporale in modo tale da mandarla in scacco, raggelandola in un’immobilità assoluta che non ammette deroghe o eccezioni. Si tratta naturalmente di Maurice Blanchot, per il quale Jonathan Degenève in un celebre saggio apparso sul numero monografico di Europe consacrato all’autore de L’espace littéraire ha coniato una formula che potrebbe adeguarsi al caso in questione74.
Degenève infatti, dopo aver osservato che spesso presso i primi réctis blanchotiani l’impianto diegetico tende sempre ad approssimarsi astintoticamente al punto-zero del proprio sviluppo endogeno, avanza l’ipotesi secondo la quale si potrebbe parlare in casi come questi di narration épilogale75, lasciando intendere con questa espressione che i romanzi blanchotiani sarebbero il prodotto di una persona loquens che si ostina a protrarre la propria cadaverica esistenza in un controverso spazio di discorso – che egli denomina post-fin76 – generato dal fatto che viene ad intercalarvisi un dirompente ma pressoché inavvertibile «décalage entre la fin de l’histoire et la fin de la narration»77. Lasciamo la parola a Degenève:

«dire en outre», en effet, du grec epilegein, suppose qu’une fin a déjà au lieu et que, après cette fin, dans une postérité et dans une consécutivité curieuse, on passe à un «ajout qui constituera ce qu’il faut bien appeler une seconde fin. Entre ces deux fins, la différence n’est pas de degrés mais bien de nature. Et ce dans la mesure même où ce surplus n’est pas à niveau avec le reste.78»

Nel corso del suo stupendo saggio Degenève propone delle letture molto attente relative all’impiego, sempre variato e sempre innovativo, che Blanchot fa dell’epilegein. Naturalmente qui non possiamo soffermarci su tutti gli aspetti su cui si focalizza il critico, ma ci preme isolarne solo tre perché possono di fatto risultare molto utili in sede di conclusioni:
I. In questa apocalittica anticamera dell’eternità su tutto ciò che è sopravvissuto e perdura inconsapevole aleggia quel sentimento di inesistere79 in cui la Natura è precipitata, trascinando con sé tutti gli oggetti quotidiani che ora appaiono pertanto vicini e irraggiungibili, noti ed irriconoscibili. È vero, ad un certo punto il narratore nota che gli altri uomini non hanno lasciato tracce80, dal momento che egli, oltre a non aver ritrovato i corpi, non ha trovato neppure gli abiti che essi indossavano nell’istante della scomparsa. Ma è altrettanto vero che a sopravvivere sono rimaste unicamente le cose di uso ordinario, le quali ora si stagliano come segni di un mondo decrepito e aurorale.
II. Una volta scivolati in questa palude di acronia, gli oggetti non sono più interrogabili o interpretabili. Questa tabe celeste, scesa con micidiale levità sull’Uomo, ha fatto sì che la Natura si tramutasse in un immarcescibile obitorio di forme trapassate. Da qui la delicata dannazione in cui vive e si agita il narratore: non appena la sua attenzione si posa sugli oggetti, questi iniziano a sfocarsi, a sfumare mollemente in un’opacità fossile che in ultimo li porta ad arretrare in un tempo divenuto inaccessibile per il superstite.
III. Agli occhi del sopravvissuto – visto come una sorta di trascurabile lapsus in seno alla ferocia sterminatrice che ha cancellato l’umanità – l’Evento si disegna con le sembianze di un’immensa macchia di Rorschach, infinitamente cangiante se considerata a partire dal grumo di concause deputate a scatenarlo ed altamente mutevole nei suoi imponderabili risvolti. Il modello mentale di Morselli non è pertanto Pietro Ispano con le sue assiomatiche Summulae Logicales, ma piuttosto Fredegiso di Tours, autore di quella Epistola de nihilo et tenebris di cui Dissipatio H. G. potrebbe a buon diritto esserne l’apocrifa postillatura81.
I suoi trascendentalia non sono altro che schiume di memorie impersonali arenatesi in un ottuso divenire che procede senza mai trascorrere: in tal senso le immagini del presente che gli si assiepano dinanzi sfolgorano come le affilate e geroglifiche macerie delle tremanti immagini provenienti da un passato oramai del tutto inappropriabile. La delirata logica interna di questa finis temporum, procrastinata in un frastagliarsi indistinto di diacronie alla deriva, retrocede all’improvviso fino al balbettante inizio della Storia, costringendolo ad ammutolire. Il silenzio sempre in agguato dietro lo struggente monologo dell’ultimo uomo non è altro che quello insondabile ed immane delle Origini, il quale echeggia labilissimo solo nell’insignificabile82.

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Note

  1. G. Morselli, Dissipatio H. G., Adelphi, Milano, 1977, pp. 67-68. da ora sempre abbreviato in nota con DHG, seguito dal numero di pagina.
  2. Cfr. G. Manganelli, Altre concupiscenze, Adelphi, Milano, 2022, pp. 121-127.
  3. A, Giuliani, Le droghe di Marsiglia, Adelphi, Milano, 1977, p. 309-316. Giuliani ad un certo punto richiama il celebre romanzo The Purple Clouds di Matthew Phipps Shiel apparso nel 1901. Naturalmente lo stesso Giuliani osserva che non ci sono elementi effettivi per dimostrare che Morselli conoscesse questo testo.
  4. R. Giovannoli, La scienza della fantascienza, Bompiani, Milano, 1991, pp. 315-328.
  5. A. Giuliani, Le droghe di Marsiglia, cit., pp. 313-315.
  6. J-C Martin, Logique de la science-fiction. De Hegel à Philip K. Dick, Les Impressions Nouvelles, Paris, 2017, pp. 74-111. Con l’espressione mondi estremi Martin designa quegli universi finzionali in cui di fatto la vita umana si trova esposta a condizioni di possibilità che tendono a negarne in maniera puntuale l’esistenza effettiva. I mondi estremi rappresentano quindi una sorta di stadio ultimativo della vita, in cui questa si trova dinanzi ad un bivio: o estinguersi definitivamente o protrarsi sviluppandosi in forme inedite e spesso pressoché mostruose.
  7. Su questo cfr. soprattutto G. Manganelli, Altre concupiscenze, cit., p. 126: «in che modo ha potuto, l’intera umanità, dissiparsi corporalmente, istantaneamente? L’evento non è naturale, né scientifico: né malattia, né guerra, né catastrofe possono compiere questo annichilimento dell’essere umano. Questa scomparsa è, non v’è dubbio, di competenza della teologia». Rimandiamo anche alle posizioni di Morselli in merito alla postulazione di una Teodicea dell’assurdo, G. Morselli, Realismo e Fantasia. Dialoghi, NEM, Varese, 2009, pp. 415-416.
  8. A. Giuliani, Le droghe di Marsiglia, cit., p. 313. Corsivi nostri. Cfr. DHG, p. 63.
  9. Ivi, p. 93: «la notte del 2 giugno ha fatto cessare la vita pensante, e dunque la Storia». Su questo cfr. G. Morselli, Realismo e Fantasia, cit., p. 40 e pp. 82-84.
  10. Ivi, p. 18.
  11. Ivi, p. 88.
  12. Ivi, pp. 87-88.
  13. Ivi, p. 35.
  14. Ivi, p. 40, ove il superstite si diverte a fantasticare immaginando che l’estinzione sia stata provocata da una improbabile «Bomba S (Spopolamento, repentino e radicale), bomba R (Rarefazione)».
  15. Ivi, p. 54.
  16. Ivi, p. 55.
  17. Ivi, p. 18.
  18. Ivi, p. 63 e p. 103.
  19. A. Giuliani, Le droghe di Marsiglia, cit., p. 314.
  20. DHG, p. 54.
  21. Ivi, p. 18. Corsivi nostri.
  22. Su questo aspetto assolutamente centrale, cfr. G. Morselli, Realismo e Fantasia, cit., pp. 133-136: «anche la localizzazione della sensazione in una determinata zona o in un punto del sensorio esterno è dovuta non direttamente al soggetto, ma all’autocoscienza che in lui assume il sensile. La sensazione nella sua attualità presuppone, come ti dicevo, il sussistere di un rapporto tra il sensile già entrato a far parte del senziente, e l’oggetto: una sorta di flusso continuo dal secondo verso il primo, onde noi ci sentiamo in presenza dell’oggetto e ci rendiamo conto di percepirlo, non di pensarlo soltanto». Poco più avanti Morselli, per spiegare in maniera ancor più chiara questo assunto, propone l’esempio della percezione – vaga ma irrefutabile – che si risveglia in noi allorché una mosca si posa su una zona specifica della nostra epidermide, rendendola così irresistibilmente presente. Andrebbero anche tenuti presenti gli assunti sul cogito che Morselli espone poco più avanti, Ivi, pp. 222-227.
  23. Già nel settimo dialogo di Realismo e Fantasia Morselli scriveva: «se ci precludiamo ogni contatto con il mondo che ci circonda, il senso fondamentale del nostro essere assume una fissità inerte», Ivi, p. 307. Il superstite di fatto annega in questa fissità inerte senza riuscire ad obliarsi; anzi egli rimane invischiato in essa, trovandosi costretto a dover registrare in ogni istante della propria giornata la scomodità di tale situazione.
  24. Si tratta di una questione che Morselli aveva sentito l’esigenza di affrontare già in un passo piuttosto denso del sesto dialogo di Realismo e Fantasia, cfr. Ivi, pp. 233-234: «il problema […] è di stabilire come si diano rappresentazioni aberranti o anomale, e in che precisamente consista tale loro anomalia. Ma questo problema non si pone solo per il sogno». Corsivi nostri. Il superstite del romanzo si trova quasi costretto a postulare una sorta di oniromanzia ad occhi aperti.
  25. Come spiega lo stesso autore, i testi letterari che egli prende in esame sono accomunati da un diffuso stato di crisi del soggetto narrante. La scrittura arriva così a parodizzare a e a dissolvere la persona loquens, tramutandola di fatto in un prodotto derivato – e pressoché degradato – delle funzioni stesse del linguaggio messo in gioco. È emblematico in tal senso il caso del Molloy di Beckett, a cui Celati dedica uno dei saggi più incisivi e originali, cfr. G. Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, Einaudi, Torino, 1975, pp. 103-110 e soprattutto pp. 155-184.
  26. Ivi, p. 82.
  27. G. Morselli, Realismo e fantasia, cit., p. 285.
  28. In merito a ciò cfr. il commento alla pagina di diario di Morselli in D. Mezzina, Le ragioni del fobantropo. Studio sull’opera di Guido Morselli, Stilo, Bari, 2011, p. 227.
  29. DHG, p. 82. Corsivi nostri.
  30. Ci permettiamo di riprendere questa formula da G. Celati, Finzioni occidentali, cit., pp. 187-212. Va detto che Celati non nomina mai Morselli in questo scritto.
  31. DHG, p. 100.
  32. Ivi, p. 99.
  33. Ivi, p. 113.
  34. Ivi, p. 104.
  35. Ci pare che qui l’oggetto morselliano riveli una marcata affinità con l’oggetto surrealista, così come esso è stato delineato da Gabellone, cfr. L. Gabellone, L’oggetto surrealista. Il testo, la città, l’oggetto in Breton, Einaudi, Torino, 1977, p. 124. Gabellone mostra esattamente come presso certi autori tale categorizzazione vada miseramente in frantumi lasciando l’oggetto fluttuare tra soglie di significati difformi e inconciliabili.
  36. Ivi, p. 121.
  37. DHG, p. 41.
  38. F. Rella, Limina. Il pensiero e le cose, Feltrinelli, Milano, 1986, pp. 102-103.
  39. F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Einaudi, Torino, 1993, p. 26.
  40. Ivi, 20.
  41. Ivi, p. 12.
  42. DHG, pp. 34-35.
  43. Ivi, p. 29: «a parte l’aggressione dei problemi irrisolti, c’è l’assedio delle piccole cose “care”. Piccole case familiari e vischiose, gli oggetti che ti agguantano, e ognuno ha il suo modesto fascino prensile, tenace, è la foto fatta da te, incorniciata da te, della neve d’aprile sul selciato, il tappetino finto-buchara che ti sei regalato per Natale, la macchina da scrivere col foglio infilato sul rullo, il fanale da caccia a carburo che non ti serve ma sta così a posto in anticamera col suo rosso vivo, il long-playing con la sonata per piano di Albinoni. E ognuno col suo struggente appello, con la sua insidia».
  44. Ivi, p. 82.
  45. Cfr. ancora L. Gabellone, L’oggetto surrealista. Il testo, la città, l’oggetto in Breton, cit, pp. 111-112.
  46. Su questo cfr. P. Villani, Il caso Morselli. Il registro letterario-filosofico, ESI, Napoli, 1998, pp. 75-116.
  47. G. Manganelli, Altre concupiscenze, cit., p. 126.
  48. DHG, p. 77.
  49. Ivi, p. 78. Cfr. anche P. Villani, Il caso Morselli, cit., p. 104.
  50. A. Giuliani, Le droghe di Marsiglia, cit., p. 315.
  51. DHG, p. 58. Corsivi nostri.
  52. G. Morselli, Realismo e Fantasia, cit., p. 21.
  53. DHG.
  54. Ibidem. Corsivi nostri.
  55. «Il romanzo di Morselli si presenta come una riflessione totalizzante su ciò che Wittgenstein chiamava la nostra forma di vita: l’insieme dei giochi linguistici che definiscono la nostra identità e il nostro rapporto con la realtà oggettiva. Il discroso apocalittico non riguarda la fine del mondo fisico, bensì il passaggio da un ordine interpretativo ad un altro radicalmente diverso», cfr. F. Mussgnug, Finire il mondo. Per un’analisi del romanzo apocalittico italiano degli anni Sessanta, in Contemporanea, n. 1, 2003, p. 32.
  56. Aspetto questo ben sottolineato da Segre nel suo scritto Guido Morselli e i mondi alternativi, ora in C. Segre, Fuori del mondo, Einaudi, Torino, 1990, pp. 85-86.
  57. G. Manganelli, Altre concupiscenze, cit., p. 122.
  58. A. Giuliani, Le droghe di Marsiglia, cit., p. 313.
  59. DHG, p. 83.
  60. Ibidem.
  61. G. Manganelli, Altre concupiscenze, cit., p. 124.
  62. Ivi, p. 123.
  63. Ivi, p. 127.
  64. Su questo Manganelli è stranamente ambivalente: nel saggio del 1975, intitolato Raccontò il possibile inesistente e dedicato alla pubblicazione di Roma senza Papa, lo scrittore milanese esclude senza mezzi termini che il ricorso all’allucinazione possa apportare qualcosa di pregnante alla narrazione di Morselli. Egli però cambia in parte idea già nell’articolo del 1976 – avente per oggetto Il comunista – ove scrive che il romanzo si connota per una «pervasiva allucinazione di decenza [che] copre scheletri di angosce, di ironici errori temporali, di impossibili», Ibidem, p. 124.
  65. DHG, p. 140, ove vengono esplicitamente chiamati in causa gli esercizi spirituali.
  66. Rimandiamo qui anche alle analisi sulle peculiarità del discours fantastique sviluppate in T. Todorov, Introduction à la littérature fantastique, cit, pp. 87-96.
  67. DHG, p. 122.
  68. Ibidem.
  69. Ivi, p. 125, dove il narratore, dopo aver esplicitamente evocato il dubbio sistematico di Cartesio, scrive di sé «mi potrei definire: un pensiero mortuario che sfiora sgomento la morte consumata, mentre vagheggia la Morte-ipostasi».
  70. G. Manganelli, Altre concupiscenze, cit., p. 127: «il sopravvissuto si diverte a fantasticare una generale assunzione in cielo della razza umana: il Cielo come un aspiratore silenzioso e istantaneo. Ma egli sa cosa significa quella dissoluzione: “un mondo tutto corpo […] viene scorporato. Un mondo tutto corpo è identificabile con la morte; è la morte. Dunque il mondo si è metamorfosizzato in morte. Il sopravvissuto si è salvato perché, innamorato della morte, ha trovato al suo posto la vita».
  71. DHG, p. 119.
  72. Ivi, pp. 22-24.
  73. Ivi, p. 93.
  74. Cfr. J. Degenève, Ce qui vient après la fin. Les reprises dans les épilogues du premier Blanchot, in Europe. Revue littéraire mensuelle, Maurice Blanchot, n. 940-941, Septembre 2007, pp. 114-126.
  75. Ivi, p. 122.
  76. Ivi, p. 119.
  77. Ibidem.
  78. Ivi, p. 116.
  79. Ivi, p. 107.
  80. DHG, p. 64.
  81. L’idea che la trattatistica medievale possa benissimo rientrare nel novero del romanzesco è un grande cavallo di battaglia di Morselli. Nel celebre Intermezzo critico collocato nel cuore di Contro-passato prossimo l’autore scrive: «oggi il romanzo non è nella letteratura, è la letteratura. Da esso non si esce. Aggiungerei che il romanzo è persino transletterario, per i nostri gusti d’oggi. Include, per esempio, o può includere la teologia. Non la fanta-teologia, per carità: la teologia. Di recente, un competente della materia ha notato che il trattato di Origene Contra Celsum si legge bene anche in chiave di romanzo», cfr. G. Morselli, Contro-passato prossimo, Adelphi, Milano, 1975, p. 117. Su questo cfr. anche P. Villani, Un mistico ribelle. A-teologia e scrittura in Guido Morselli, Graus, Roma, 2012, pp. 75-99.
  82. G. Guglielmi, La prosa italiana del Novecento. Umorismo, metafisica, grottesco, Einaudi, Torino, 1986, p. 161.

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