Bibliomanie

Molière e noi adesso. Un teatro universale e alcune sue ricadute sociali
di , , numero 53, giugno 2022, Saggi e Studi, DOI

Molière e noi <em>adesso</em>. Un teatro universale e alcune sue ricadute sociali
Come citare questo articolo:
Liano Petroni, Davide Monda, Molière e noi adesso. Un teatro universale e alcune sue ricadute sociali, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 53, no. 13, giugno 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.9944

I suoi occhi sono eccezionali: vi leggo uno strano, costante ghigno sarcastico, e al tempo stesso una sorta di eterno stupore di fronte al mondo. In questi occhi c’è qualcosa di voluttuoso, come di femminile, e nel profondo una segreta paura.
M. Bulgakov, La vita del signor de Molière, 1962

«Non ho nessun desiderio di tornare indietro… è una gran misericordia divina che il passato riesca a distruggersi, con i suoi morti, le sue larve, le scenate orribili, gli equivoci, la gelosia, l’invidia, il dolore… Forse soltanto il primo tempo della mia infanzia vorrei che riapparisse… Ma quei primissimi anni riguardano me e non so cosa c’entrano col nostro colloquio, un colloquio con lei che conosco appena».
G. Macchia, Colloquio immaginario con la figlia di Molière, 1975

[Ho la presunzione] che il teatro di Molière sia portatore di un sistema di idee, di un messaggio che ci è oggettivamente contemporaneo. Questo messaggio appartiene al teatro, ma appartiene anche alla scienza dell’uomo. E sotto questo punto di vista Molière è un classico, a mio parere, che la società italiana deve ancora raggiungere. Per dirla in termini di repertorio, una «novità». […] Ebbene, penso che il teatro italiano, e con esso la borghesia italiana, abbiano «saltato» Molière, così come succede a certi adulti che, nel loro sviluppo, rimuovono una delicata ed essenziale fase di crescita. Così poi non riescono più a stabilire, coi fatti rimossi, la giusta distanza.
C. Garboli, «Tartuffe», copione fatale (1976), in Id., Tartufo, 2014
Nel tentar di colloquiare ancora su Molière1, in questa temperie lontana mille miglia dalla sua per un gran mare di motivi, non è certo nostra intenzione trattare tutti i problemi – vari e vastissimi – concernenti la sua opera che peraltro, oggi forse più che mai, appare viva, giovane e finanche proattiva. In queste paginette, desidereremmo piuttosto indicare quegli elementi che, in essa, ci sembrano essenziali, anzitutto per confermare, una volta ancora, la validità fresca, dinamica, pressoché incomparabile del suo teatro. Chi, d’altronde, oserebbe – adesso, ossia a quattro secoli dalla nascita – attaccare la sua forza problematica, la sua attualità vigorosamente inattuale e, comunque, la sua plurisecolare, prodigiosa fortuna?
La sola, come dire, lunghissima e fedelissima militanza molieriana di un Cesare Garboli, superba coscienza critica di tempra europea, basterebbe a smentirlo. Basti qui un frammento eloquente, tolto da una pagina quasi autobiografica (2014) stesa originariamente nell’estate del 1973: «Ognuno ha i suoi classici. O, forse, ciascuno ha un “suo” classico: un compagno di veglia, un segreto e inseparabile interlocutore. Non un maestro, ma un alleato. Sulle sue immagini, e magari sulle sue deformità, misuriamo quasi senza saperlo, quasi senza volerlo, la nostra personale lettura del mondo. Un classico al quale dedichiamo, frequentandolo, forse minore cura, minore studio che ad altri, tanto sono solidali e fraterni i rapporti che abbiamo stabilito con lui. Ebbene, questo classico personale, privato, familiare, simile alla vecchia e affumicata specchiera dell’ingresso di casa che ci restituisce ingranditi i nostri piccoli pensieri, più vaste le nostre modeste emozioni, è nel mio caso Molière. E sono così abituato ad amare Molière che, se ci penso, ho perfino cessato di meravigliarmi del suo talento». Di là da queste dense ed intense considerazioni nobilmente private, Molière ha d’altro canto prodotto indubbiamente per qualsivoglia “lettore di buona volontà” (P. Levi) un’opera di grande vigore per arte, cultura, creatività, acuta osservazione e… coraggio.
Come non condividere allora quanto Yves Bonnefoy ha osservato, non troppi anni fa, nella densa ed intensa prefazione a una diffusissima edizione delle Fleurs du mal (l’ultima ristampa è del 2021): «une oeuvre de poésie n’existe que par son aptitude à susciter des lecteurs, à les appeler à soi, à les retenir d’une façon qui fera apparaître en elle des aspects encore inédits de sa vérité». Ed è ben chiaro e palese che la formula «oeuvre de poésie» vale per ogni “parto spirituale” prodotto dall’ingegno umano con valenza creativa, qualunque sia la forma o il genere in cui esso si esprime.
Molière soddisfa – e, nel contempo, richiede – uno spettatore esigente, poiché le sue pièces, ancor più che da leggere (ma non lo escludono, tutt’altro…), sono da vedere, scritte come sono da un grande e appassionato professionista della scena, da un homme de théâtre davvero “di razza”: autore, attore, regista, organizzatore. E, pure in grazia di tali esperienze tutt’altro che comuni, attento osservatore del mondo che lo circonda e dei propri simili, di cui, specie nei capolavori, è un sottile, sopraffino e, talvolta, spietato analista.
Asserì egregiamente, a suo tempo (1957), un altro homme de théâtre di ottimo gusto e lunga, apprezzata esperienza come Léon Moussinac: «Molière occupa un posto incomparabile, poiché la sua opera raggiunse come nessun’altra l’universalità. Con lui il genio del teatro s’impose e si espresse con una serie completa di capolavori. Molière visse e morì per il teatro. […] Grazie a Molière, la grandezza comica diventò pari alla grandezza tragica, e si può dire che l’abbia addirittura superata. I suoi eroi infatti, benché presi dall’attualità, assurgono spesso a un carattere più universale di quello degli eroi tragici: essi gli hanno assicurato, per la qualità profondamente umana del suo genio, la più alta gloria possibile». Evidentemente, ogni riferimento al genio proteiforme e ineffabile di Shakespeare è qui… puramente voluto! Ci torneremo più avanti.
Desideriamo comunque trascrivere subito il parere convergente, steso in forma definitiva proprio in quegli anni (1960), di Carlo Pellegrini, francesista e comparatista toscano, com’è noto, tutt’altro che pigramente provinciale: «Nelle sue commedie ci sono qua e là parti serie, tragiche, commoventi: se in fondo il comico finisce coll’avere il sopravvento, questo trapasso da un tono all’altro, come nella vita, conferisce alle opere una verità maggiore, impegna ancor di più il lettore a partecipare alla vita che si è ritratta. Questa alternativa dà alle commedie di Molière talora un carattere un po’ enigmatico, suscettibile d’interpretazioni assai differenti, ed è una delle ragioni del fascino che esercitano. Ma la diversità di tono, la logica più conseguente alternata con parti in cui sembra trionfare l’irrazionale, l’analisi profonda dell’anima umana quale ammiriamo in alcune figure, posta vicina a rappresentazioni di personaggi che sembrano vivere di una loro vita estremamente semplice e quasi primitiva, non nuocciono generalmente all’unità dell’opera: questa è data dalla simpatia sempre presente nell’autore, che avvolge le sue creature più diverse in un’atmosfera dalla quale ricevono tutte una loro impronta, che è ad un tempo diversa e uniforme».
Molière, per di più, era dotato di un’alta, forse quasi inflessibile coscienza morale, nonché del potere di suscitare emozioni molteplici e variate, di evocare fatti e suggestioni, di creare sogni e fantasie, di descrivere ambienti e personaggi, di passare dagli iperurani dell’ideale al terreno (e finanche ai bassifondi) del concreto, di far sorgere drammi amari e di generare risate omeriche, di provocare lacrime e sorrisi, di procurare giocondità e costruire fiere ironie, con un’eccellente capacità di “reificare” il tutto, di raccordarlo dentro il milieu quotidiano, che immaginava, nel bene e nel male, autentico, effettuale, pressoché perenne. «Molière – ha scritto in termini acuti quanto cauti Michele Mastroianni (2013) – non è, per certo, un moralista di professione, e vuole anzitutto, come abbiamo sottolineato, far ridere. Inoltre, i riconoscimenti di cui gode da parte del potere (della Corte, in primo luogo) lo pongono in una situazione di ufficialità, che costringe a un relativo conformismo, religioso, politico, sociale. Sarebbe pertanto sbagliato voler fare delle sue commedie un’opera di denuncia sociale in senso rivoluzionario, o perlomeno anticonformista di principio. Tuttavia, è vero che su alcune questioni ritorna con insistenza, assumendo un atteggiamento decisamente polemico: come sull’autoritarismo dei padri, sulla formazione delle ragazze, sul problema del matrimonio, sull’ipocrisia religiosa e morale, sulla falsa scienza e ciarlataneria dei medici».
Per quanto premesso, non vorremmo qui prospettare – considerata l’abbondanza ininterrotta e quasi disarmante degli studi molieriani – una grigiastra, tediosa e de facto sterile rassegna delle pubblicazioni riguardanti l’autore del Tartuffe, del Dom Juan e del Misanthrope. D’altra parte, muovendoci da pur informati e diligenti bibliografi, a fortiori in quest’occasione, risulteremmo tanto inutili quanto risibili.
Possiamo permetterci di proporre, invece, una lettura storico-critica del suo teatro per donne e uomini liberi del terzo Millennio? Sì, presumibilmente sì. E si tratta di un’ipotesi non troppo vieta e trita che – se non ci tradiranno sensibilità, gusto, erudizione, coordinate inadeguate o bolse – otterrà lo scopo prefissato: invitare a una rilettura-riascolto di Molière o, più realisticamente, del Molière lato sensu migliore. Ciò, beninteso, in tutta umiltà e cioè, etimologicamente, in sintonia tendenziale con quell’humus, con quella caleidoscopica realtà da cui è scaturita, variatis variandis, anche l’opera molieriana, così pienamente ancorata alle sue fonti vive e alle sue fondamenta esistenziali e, parallelamente, così universale, universale tout court: tale caratteristica insieme straordinaria, rarissima e sorprendente la rende tuttora, con ogni probabilità, in grado di donare nuovi sensi e significati validi, proficui, progettuali a chiunque coltivi la pazienza saggia e lungimirante di leggerla (o rileggerla) attentamente e adagio.
Opportuno evocare subito, in tale direzione, talune conclusioni (1980) di una filologo egregio anzitempo scomparso, Verdun-Louis Saulnier, oggi d’altronde assai più noto per le esemplari fatiche rinascimentali: «Molière, il più francese e il più universale degli scrittori francesi (“è tanto nostro quanto vostro”, diceva [John Philip] Kemble), non è soltanto, e di gran lunga, il massimo autore teatrale; gode (privilegio da tener presente) di una popolarità che solo quella di La Fontaine riesce ad eguagliare. Anzi: degli altri classici si conoscono soltanto alcuni capolavori, un testo o due, mentre di Molière – unico fra gli scrittori francesi – quasi tutti i titoli tengono il cartellone e restano nella memoria».
In armonia con tali posizioni, un uomo di teatro di provata, inconcussa qualità come il compianto Luigi Lunari ha affermato (2006) in tal senso: «Pochi autori del passato sono vivi e presenti sulla scena contemporanea quanto Molière con i suoi testi più noti, soprattutto con le grandi commedie di carattere quali L’avaro, Il borghese gentiluomo, Il malato immaginario, che – al di là di ogni oggettivo valore – soddisfano in particolare le esigenze di protagonismo di grandi e meno grandi attori. […] Sotto un profilo di più sostanziale importanza, tale presenza denota il fatto che Molière è parte di quel patrimonio che il passato sta trasmettendo al futuro».



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Forse non è inutile tornare un istante a un “lungo Ottocento” che, specie quando si ragiona di “storia della ricezione”, si prende sovente alla leggera senza effettiva cognizione di causa. A ogni buon conto, si noterà più avanti la singolare convergenza di tali giudizi con quelli che, forse a giusto titolo, ottengono nel terzo Millennio i maggiori consensi. Ha scritto Henry Becque (1886), che di teatro s’intendeva: «Il n’appartient à personne de grandir Molière»; e ancora: «Lorsqu’on a dit de lui qu’il est le premier et peut-être le seul poète comique, on lui a rendu un hommage suffisant, celui qu’il mérite»; ciò nondimeno, nel chiedersi chi fosse davvero Molière, rispondeva: «C’est un auteur dramatique».
Egli si riallacciava così, almeno in qualche misura, a quanto, nella famosissima Préface (1827) al proprio Cromwell, aveva asseverato un Victor Hugo ancora un poco acerbo, ma comunque già d’indubitabile talento: «Pour se convaincre du peu d’obstacles que la nature de notre poésie oppose à la libre expression de tout ce qui est vrai, ce n’est peut-être pas dans Racine qu’il faut étudier notre vers, mais souvent dans Corneille, toujours dans Molière. Racine, divin poète, est élégiaque, lyrique, épique; Molière est dramatique. Il est temps de faire justice des critiques entassés par le mauvais goût sur ce style admirable, et de dire hautement que Molière occupe la sommité de notre drame, non seulement comme poète mais encore comme écrivain. Palmas vere habet iste duas».
Siamo rimasti, nel nostro postmoderno avanzato, in sintonia sincera e fonda con questi due pareri “d’autore”? Forse sì, se ci riferiamo al giudizio di valore dato sull’opera di Molière (le parole di Henry Becque richiedono peraltro un’integrazione, che tenteremo di esporre in chiusura); ma aggiungeremo subito che sono da apportare alcune precisazioni, e che numerose ricerche successive hanno posto in evidenza utili e, talora, insperati arricchimenti.
Vediamoli lestamente insieme, osservando anzitutto che essi sono individuabili – quasi a priori – in una concezione dell’arte molieriana che lega ognora strettamente l’opera scritta alla sua attività quotidiana: i suoi testi, in altre parole, alla sua industriosità, alla sua attività infaticabile e struggente di attore, di capocomico, di “uomo di teatro” – in tutta l’ampiezza dell’espressione.
Ciò senza mai dimenticare, beninteso, la sua sagacia nel considerare – anzi scandagliare con pur vigilata libertà, scavare in profondità, notomizzare funditus – il microcosmo dell’io e, nel contempo, il macrocosmo della società in cui viveva, giacché «l’école du monde, en l’air dont il faut vivre/Instruit mieux, à mon gré, que ne fait aucun livre». E il tutto, va da sé, senza mettere in secondo piano la sua cultura, ossia l’enciclopedia complessa e abbondante di saperi che alimenta, anima e vivifica la sua “vocazione teatrale”, la sua “scelta teatrale” volontaria, tenace, sofferta usque ad mortem. I rimandi, spesse volte fondati a livello prettamente intertestuale, a Pascal, a Kierkegaard – agli opera omnia di Kierkegaard, beninteso – e, in special modo, al Bergson (1900) di Le rire. Essai sur la signification du comique (cfr., ex multis, C. Rozzoni, 2011) ci sembrano pressoché necessari.
Mondo e teatro, dunque: ci avvaliamo qui, per ragioni in prevalenza pragmatiche, di una felice formula binaria, ma in realtà plurivalente, concepita da Carlo Goldoni – autore, fra il resto, di un’apprezzabile commedia in martelliani intitolata Il Molière (1751) – onde illustrare l’origine autentica delle proprie Commedie: basti qui por mente all’eloquente, cristallina prefazione introduttiva all’edizione veneziana del 1750.
Sia come sia, mondo e teatro – in una dimensione globale interagente – sono la duplice ma omogenea scaturigine delle pièces molieriane: l’unitaria Weltanschauung che le compone, le forma, le plasma, in un tessuto innovativo, in una scrittura vera, essenziale, non certo ignara della migliore ars rhetorica ma, parallelamente, priva di fronzoli, ninnoli e di altre vacue ampollosità; siamo dinanzi, in breve, a una scrittura affatto naturale, perché, come Molière afferma ore rotundo nel Misanthrope:

Ce style figuré, dont on fait vanité,
Sort du bon caractère et de la vanité:
Ce n’est que jeu de mots, qu’affectation pure,
Et ce n’est point ainsi que parle la nature.


Palese, quindi, che il significato genuino della produzione molieriana può esser colto solo se, all’indagatore dell’essenza della natura e all’assertore dei suoi diritti “necessari”, consideriamo inscindibilmente unito il prediletto, tenacemente voluto, mestiere dell’uomo di teatro. Tale stile di vita e di pensiero fa di Molière un autore che, inter alia, fruisce del pieno possesso e dell’uso consapevole delle tecniche più scaltrite ed efficaci della gestualità e dell’interpretazione teatrali: scelta di cadenze e di posture, di atteggiamenti e di toni, di tempi e di mimiche. Così, in questo giusto quanto inimitabile amalgama di elementi oltremodo diversi, il nostro inquieto, incontentabile drammaturgo ha trovato l’elemento cruciale, prima, e il perfezionamento, poi, della propria arte.



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Jean Baptiste Pouguelin (sic) è stato battezzato nella chiesa di Saint-Eustache a Parigi, il 15 gennaio 1622, come si sa. Figlio di Jean, un mercante tappezziere che più tardi si comprerà «un office de tapissier et valet de chambre ordinaire du roi» con diritto ereditario e guadagni assicurati, il giovane Poquelin, figlio primogenito e perciò destinato ad ereditare i diritti paterni, segue i suoi studi al Collège de Clermont (attuale liceo Louis-le-Grand), presso i Gesuiti, in un ambiente riservato alla nobiltà e alla buona borghesia. Suoi compagni di scuola sono alcuni futuri “libertini”, fra cui – si dirà, ma è tutt’altro che appurato – Cyrano de Bergerac.
Si è scritto a più riprese che il futuro Molière è stato discepolo del coltissimo, poliedrico, profondo Pierre Gassendi, per la libertà, aggiornata quanto occhiuta, che ognora dimostra nelle sue idee; ma le prove sode di tale magistero diretto appaiono oggi piuttosto fragili, nonostante, sul punto per più versi decisivo, rimanga ancora condivisibile il giudizio di Jean Sylvain Bailly (1769), illuminista e “illuminato” di qualità ucciso dal peggior furore giacobino: «Molière non fu meno filosofo che poeta. In tutti i secoli, si sa, i grandi poeti e i grandi filosofi sono stati rari; dunque, ciò che è ancora più raro, ciò che rende Molière inimitabile, è che lui è sia l’uno sia l’altro»..
Come che sia, sembra opportuno attenersi, specie in questa sede, all’opinione prudente del “vecchio” Couton (1971), cioè che la cosa sia «discutable, mais non impossible», anche perché ideologie varie circolavano ovviamente nell’ambiente parigino. D’altra parte, l’equilibrio – sia pure con piglio ben deciso nelle sue espressioni – seguito da Molière nel manifestare le proprie opinioni (sovente sotto la protezione e con l’appoggio del Re Sole) sembra trovare la più corretta ed efficace definizione in un distico posto in bocca al saggio Philinte: «La parfaite raison fuit toute extrémité/Et veut que l’on soit sage avec sobriété». Infine sulla questione, ben più rilevante e spinosa di quanto non appaia ictu oculi, si è espresso da par suo pochi anni or sono, in un’esemplare monografia (2018), il miglior “molieriano” – con ogni probabilità – vivente, ossia Georges Forestier: «Il faut donc se résigner à l’idée que rien ne nous permet de connaître les activités et fréquentations de Molière entre la sortie du collège autour de 1640 e ses premiers pas comme comédien moins de trois ans plus tard».
Terminati i suoi studi secondari a diciotto anni, frequenta la facoltà di Giurisprudenza e finisce col diventare avvocato (presumibilmente pagando!). Ma il suo già manifesto amore per il teatro, favorito in lui dall’ammirazione verso il magnetico Tiberio Fiorilli – un singolare partenopeo giunto a Parigi nel 1640 e ben più celebre come Scaramouche – e ancor più dalla passione per l’attrice Madeleine Béjart, lo induce a rinunciare alla posizione sociale paterna e a scegliere, nel 1643, la professione dell’attore. Lo stesso anno fonda, con la Béjart e altri nove attori, una compagnia a cui viene dato il nome d’Illustre Théâtre; l’anno successivo (1644) ne prende la direzione con lo pseudonimo di Molière. Debiti, prigione, rapido recupero della libertà grazie ad un amico, rimborsato poi da Poquelin padre; ma è la fine dell’Illustre Théâtre. Nell’autunno del 1645, Molière lascia Parigi, forse entrando già allora nella compagnia di Dufresne, e cominciando il famoso, prolungato periodo di peregrinazioni in provincia. A Lione, nel 1654, rappresenta la sua prima commedia: L’Etourdi, mentre nel dicembre 1656, a Béziers, rappresenta per la prima volta il Dépit amoureux.
Nel 1658 la compagnia ritorna a Parigi, arricchita di esperienze e conoscenze anche nel campo della commedia dell’arte, che Molière aveva peraltro prediletto, come testé accennato, sin dall’adolescenza. Ottiene la protezione di «Monsieur, frère du roi»; recita dinanzi al re Luigi XIV, che gli concede senza ambagi l’uso della sala del Petit-Bourbon, in alternanza con gli attori italiani; passa poi, nel 1660, alla sala del Palais-Royal, ove rimarrà fino alla morte col suo gruppo di attori. Il resto è storia e perciò non pare qui indispensabile ricordarlo: conviene però notare che, con i primi successi parigini e alla corte del re, sono cominciate le rivalità, le camarille, le polemiche. Molière, pertinace, lotterà sino alla fine, nonostante la fatica, le infedeltà di Armande Béjart (sposata nel 1662), le diverse patologie logoranti.
A parte precedenti esperimenti ispirati da lavori teatrali italiani e spagnoli, a parte taluni «divertissements» (di cui due soli restano: La Jalousie du Barbouillé e Le Médecin volant), la carriera letteraria di Molière – non già la carriera teatrale, da tempo maturata e che di quella si fa il supporto – comincia con Les Précieuses ridicules, nel 1659. Esse ebbero, com’è risaputo, un cospicuo successo di pubblico. Siamo però lontani dalla «grande comédie», in cinque atti, con intrecci complessi e spesso intricati, romanzeschi, fantasiosi, galanti, brillanti di spirito. La loro struttura è, al contrario, ancora quella della «farce»; ma la sostanza è già satirica, con significati e stili mai raggiunti allora da una farsa, sebbene l’autore si attenga alla caricatura divertente – sempre per modo di dire… – di una moda della società del suo tempo: degli eccessi, cioè, della degradazione di una famigerata tendenza culturale dell’epoca (del preziosismo, sia ben chiaro, non già della préciosité). Le Précieuses, in sostanza, attestano già – con dovizia di «fantasia comica» e di «fantasia verbale», che appariranno sempre più evidenti nelle sue migliori commedie future – che la commedia è per lui certo un “gioco”, ma un “gioco” che riproduce la vita. Fantasia verbale, si noti bene, che in Molière è fantasia essenziale: è forma-sostanza, è creazione tout court – e cioè poesia, specie nelle opere più mature.
Alle Précieuses fa seguire Sganarelle ou le Cocu imaginaire (1660), altra farsa più burlesca che satirica, rilevante più che tutto per l’apparizione del personaggio di Sganarelle: un pover’uomo che sogna nobiltà e grandezza mentre tutti si fanno beffe di lui e che, oltretutto, è sistematicamente ingannato dalle donne! A ogni modo, Sganarelle è un personaggio in cui Molière innesta, fonde con la parola, l’impiego della mimica, ampiamente messa a profitto in quanto, come detto, la padroneggiava già da maestro. Un personaggio che va posto in risalto, specie perché dimostra – e Arnolphe, di lì a poco, ne sarà la probatio probata – che Molière nel concepire le sue commedie teneva presente il ruolo che personalmente avrebbe interpretato.
L’apparizione di tale personaggio, quindi, è altrettanto importante per la ricchezza interpretativa di cui fruisce per capacità e volontà del suo autore, che ne farà uno dei propri ruoli preferiti. Infatti Sganarelle assorbiva – come accadrà a successivi personaggi analoghi – le qualità interpretative di Molière, unanimemente riconosciute dai contemporanei, da cui fu sempre considerato un attor comico straordinario.
Possiamo dunque condividere l’opinione di Antoine Adam, il quale ha asserito da par suo (1952) che non solo «Sganarelle nous apporte la révélation du vrai génie de Molière. Pour la première fois, l’écrivain réussit à associer intimement la parole et la pantomime»; ma anche che tale farsa-commedia è più complessa e corposa di quanto possa apparire ad un primo contatto, poiché essa è di un «comique énorme, et qui ne craint pas d’aller jusqu’à la bouffonnerie. Mais comique profond, et qui atteint en nous une zone où seule la tragédie d’ordinaire pénètre, la région de la honte et de la peur. Sganarelle est grotesque. Mais il est tout proche de nous, il est nous-mêmes. Il est cette partie de nous que tout notre effort est de masquer, la partie pitoyable et honteuse, celle de nos ridicules, de nos lâchetés, de nos défaites».
La stessa situazione scenica quasi si ripete, ma con ben altra maturità, nel personaggio di Arnolphe, uno dei protagonisti de L’école des Femmes (1662, preceduta dall’école des Maris dopo l’insuccesso di Dom Garcie de Navarre, la sua prima “grande comédie”: ambedue del 1661). Arnolphe, di fatto, vi acquista consistenza e senso autentico anche in virtù della già consumata arte del contrasto, che Molière applica largamente ai suoi personaggi e che qui si rivela perlopiù attraverso Agnès, meravigliosa figura femminile, sempre rafforzandola con precise sottolineature mimiche.
La riuscita della commedia sta proprio nell’aver saputo esprimere, mettendo a profitto, ancora una volta, tutti gli umori e i fattori determinanti della comicità molieriana, la profonda serietà umana di due contrastanti situazioni tradizionali: l’una, che rappresenta al vivo la pretenziosità violenta, quasi tirannica, ma anche drammatica e lacrimevole, di una vecchiaia ingenerosa, abbrutita tanto dall’egoismo quanto da un gretto moralismo, che peraltro nasconde malamente una manifesta, esecrabile lussuria; l’altra, che dispiega con stupenda naturalezza, per contro, il fascino genuino e candido della giovinezza e del vero amore: «Il le faut avouer, l’amour est un grand maître:/Ce qu’on ne fut jamais il nous enseigne à l’être». Dopo affermazioni di questo genere, è comprensibile che qualche studioso sia stato indotto ad attribuire a Molière (ma oggi i pareri più esigenti sono discordi) talune Stances, in cui figura il seguente verso: «[…] c’est dormir que de ne point aimer».
L’école des femmes accoglie così il palesato e reiterato proposito di rispettare e descrivere la natura (la natura umana, è evidente, che vuole «peindre d’après nature», come presto vedremo), con un’intenzione morale ben precisa: la liberazione della donna da vecchie e aride discipline, da errate e stolide abitudini inveterate, ossia, in una parola, dall’imposizione di una subordinazione assoluta della moglie al marito, che (salvo eccezioni rare, presenti in un’élite) la relegava al rango di semi-schiava, attraverso la privazione di qualsiasi cultura e di una “civile conversazione” proficua e, magari, illuminante.
Molière ha preso partito e, per fortuna, si esprime teatralmente e non con una delle tante, troppe prediche, sovente algide quanto sterili, di gran moda, è notorio, nel Seicento europeo: preferisce presentarci lo spettacolo mirabile di un’anima femminile che si libera autonomamente, e che, a mano a mano, scopre la verità e la felicità attraverso l’amore, il vero amore.
Con questa sua “grande comédie” Molière crea qualcosa di nuovo – non soltanto dal punto di vista formale. Si tratta di una novità globale e, in qualche modo, rivoluzionaria, con la quale intende dar piena soddisfazione al destinatario par excellence dei suoi lavori: il pubblico. Evidenzia difatti, in più riprese, che la grande regola sociale da rispettare è una sola: «Je voudrais bien savoir si la grande règle de toutes les règles n’est pas de plaire, et si une pièce de théâtre qui a attrapé son but n’a pas suivi un bon chemin».
Della novità oggettiva i contemporanei si accorgono subito, specie perché una delle costanti del suo teatro è la chiarezza. Così, assieme al successo, nascono quasi d’improvviso violente polemiche, perlopiù suscitate dai soloni della morale o, più esattamente, del moralismo tradizionale, che giungono a vedere, in Molière, un empio degno del rogo! L’autore si difende, e si difende con l’unico strumento di cui può disporre (ma, va da sé, come pochi): il teatro.
Scrive perciò due atti unici in prosa, data l’urgenza (nel duplice significato del sostantivo) del tema da affrontare: La Critique de l’école des femmes (giugno 1663), e L’Impromptu de Versailles, di pochi mesi posteriore (ottobre 1663). Su di essi conviene forse indugiare almeno un poco, poiché siamo qui dinanzi a testi rivelatori sia della poetica molieriana, sia della consapevolezza da Molière oramai acquisita del suo far teatro “a tutto tondo”: come autore, come attore, come capocomico.
Non s’intende però – sia ben chiaro – etichettare Molière con un’ideologia piuttosto che con un’altra, non si vuol farne, in altri termini, un sermonneur, in primo luogo perché, oggettivamente, non lo è mai stato. Si vuole semplicemente segnalare che egli ha piena coscienza e precisa volontà – Tartuffe, Dom Juan, Le Misanthrope, L’Avare e, per aspetti non secondari ma un po’ datati, anche Les Femmes savantes presto lo confermeranno – di attenersi all’antica tradizione del castigat ridendo mores, ovverosia della commedia concepita come quadro satirico della società (degli uomini) del proprio tempo; si ragiona oramai di una commedia stimata addirittura più difficile da comporre della tragedia: il Nostro lo farà dire inequivocabilmente a Dorante, in una parte iniziale del passo che stiamo per citare. Rappresentazione, certo, non arringa; ma, insistiamo, rappresentazione pienamente consapevole.
Ecco infatti come Uranie e Dorante, nella sesta scena della Critique de l’école des femmes, espongono idee basilari per Molière: «URANIE – […] La tragédie, sans doute, est quelque chose de beau quand elle est bien touchée; mais la comédie a ses charmes, et je tiens que l’une n’est pas moins difficile à faire que l’autre. – DORANTE: Assurément, Madame […]. Car enfin, je trouve qu’il est bien plus aisé de se guinder sur de grands sentiments, de braver en vers la Fortune, accuser les Destins, et dire des injures aux Dieux, que d’entrer comme il faut dans le ridicule des hommes, et de rendre agréablement sur le théâtre les défauts de tout le monde. […] Lorsque vous peignez les hommes, il faut peindre d’après nature. On veut que ces portraits ressemblent; et vous n’avez rien fait, si vous n’y faites reconnaître les gens de votre siècle».
Su questo punto, ai suoi occhi determinante, Molière insisterà ancora nell’Impromptu de Versailles, ove spicca, fra il resto, un abile ricorso alla tecnica del teatro nel teatro. Alla quarta scena di tale atto unico fa dire ore rotundo a Brécourt: «L’affaire de la comédie est de représenter en général tous les défauts des hommes et principalement des hommes de notre siècle». Quindi, con motivazioni fondate, sembra lecito sottolineare tale aspetto “contemporaneo”, storico, storicizzato, del teatro di Molière: un teatro calato dichiaratamente nel proprio tempo, sia per dare una precisa concretezza alle sue descrizioni, sia per interessare maggiormente il suo pubblico. Qui giova sottolinearlo, in special modo, non tanto per ingigantire l’evidenza dei suoi intenti morali, bensì per additare la particolare, studiatissima attenzione rivolta dallo scrittore a una nutrita serie di difetti umani, troppo umani che, di fatto, trascendono anche per lui tempi e spazi specifici e circoscritti. Forse la profonda, esigente lectio ermeneutica (1960) di H.-G. Gadamer è ancora, fra il resto, una delle migliori per intendere a dovere ineludibili problematiche del genere.



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Molière è uno scrittore classico che sa esprimere tutta la complessità di un’epoca, la sua, da lui rappresentata in modo stilisticamente ricco e, forse, incomparabile: riesce così a dominare, anzi a trascendere, i contrasti del barocco, pur assimilandone i riflessi più durevoli. Un classico tout court dunque – di classe, etimologicamente, anzi di gran classe! – che nell’allora binomio epocale di Barocco e Classicismo segue prioritariamente le istanze proprie del secondo, volendosi però – come già superbamente rimarcato da Jean Rousset in una monografia imprescindibile (1953) – sempre oculato e non inerte osservatore delle vicende/vicissitudini del proprio tempo.
In tale contesto, e per chi si mostrava attento alla società in cui viveva, non poteva sfuggire a Molière (ma avevano addirittura agito in modo da attirare su di loro il suo spirito di osservazione) la potenza sotterranea e menzognera dei «dévots», che si erano arrogati il potere di decidere per tutte le coscienze. Proprio questo Molière non tollera, ed è proprio questo che gli fa scrivere Le Tartuffe ou l’Imposteur.
Tale pièce non era certo destinata a combattere la fede cristiana, la religione nazionale, la religione del suo Re (che, non lo si dimentichi, è stato anche – per molti anni – il suo protettore), bensì l’impostura, l’ipocrisia autoritaria, la dissennatezza, l’innaturalezza degli uomini: Molière, come risaputo, rispettava la natura e la poneva, presumibilmente, in cima alle proprie pur tremule certezze.
Due, dunque, erano le ragioni che inducevano Molière a portare sulla scena tale aberrazione della società in cui si trovava a vivere. Una era essenziale, “necessaria” o “naturale”: il rispetto, cioè, della natura; l’altra, invece, era storica, suggeritagli dal reale potere dei «dévots». D’altro canto, Molière era abbastanza accorto – anche politicamente – da sapere di non poter attaccare i gran signori (ossia i suoi protettori) e, dunque, di potersi prendere certe confidenze soltanto con i borghesi; e – altra accortezza da rimarcare – personalmente interpreta (con la consueta maestria dell’attore de race) il personaggio di Orgon, non già quello di Tartuffe. Ha sintetizzato con impeccabile acume Mastroianni (2013): «La grande tirata del quinto atto sull’ipocrisia è qualcosa di più di un attacco alla falsa religiosità: è addirittura un’identificazione totale dell’ambiente “devoto” (quella costellazione di tendenze svariate, spesso in vicendevole contestazione dottrinale) con un vero e proprio gruppo di pressione politica, una specie di partito, o società non dichiarata, pronta alla difesa dei suoi membri, indipendentemente dalla sincerità delle scelte morali dei singoli. La pagina molieriana è talmente dura che si spiega il moltiplicarsi d’interventi per giungere alla censura e al divieto anche del Dom Juan».
Accorgimenti che non gli servirono però molto, poiché contro di lui si accesero violente polemiche, sicché la vicenda del suo Tartuffe si svolse in maniera veramente complessa, attraverso tre stesure successive, modificate e distanti nel tempo, soprattutto a causa di gravi problemi con la censura, incentrati in prevalenza su questioni di natura religiosa: 1664, prima rappresentazione; 1667, seconda rappresentazione; 1669, terza rappresentazione. Il successo fu comunque enorme, e il lavoro è veramente buono: soprattutto i primi tre atti sono di fattura eccezionale.
Al problema religioso si ricollega altresì – quasi naturalmente – il problematico, spinoso e un po’ sulfureo Dom Juan ou le Festin de Pierre (1665), che risponde ancor più alle regole della “grande comédie”, concepita secondo i canoni del tempo: oltre all’osservanza dello schema tradizionale, vi abbondano i cambiamenti di scena e le imprese romanzesche e, in qualche caso, fantasiose tout court.
Circa questa pièce Giovanni Macchia ha peraltro offerto, in anni ormai lontani (1966), una lectio di moderazione esegetica ed ermeneutica che, non solo ai nostri occhi, risulta ancora per più aspetti insuperata: «La grandezza del Don Giovanni di Molière non ha, rispetto alla tradizione, nulla di rivoluzionario. Consiste se mai in un illuminato dosaggio di elementi contrari, ripresi da varie fonti, utilizzando ciò che doveva essere utilizzato per dare parvenza d’unità alla commedia e respingendo ciò che doveva essere respinto. Il genio di Molière, con le sue impennate e le sue trovate irresistibili, resta un genio critico: critico rispetto alla tradizione teatrale e a un’idea di teatro quale andava affermandosi in Francia in quegli anni. Hanno rimproverato al suo Don Giovanni di essere alquanto scucito e avventuroso. Evidentemente dimenticavano la tradizione letteraria con cui egli aveva a che fare e la costituzione stessa e la natura della leggenda».
Sia come sia, Molière sembra crearsi gradualmente regole autonome; e, per dar maggiore unitarietà alla sua commedia, affida al racconto, non alla rappresentazione diretta sulla scena, le imprese più straordinarie o mirabolanti; riduce il numero dei personaggi, di cui invece sviluppa la psicologia; fa aderire la parola all’azione, secondo l’antico insegnamento appreso dalla commedia dell’arte.
Molière – ribadiamo una volta ancora, a costo di tediare a morte il lettore – non cessa mai di essere uomo di teatro; e le regole, per lui, sono quelle interne allo spettacolo che crea. L’ha scritto d’altronde – e apertis verbis – nella Critique de l’Ecole des femmes: «Vous êtes des plaisantes gens avec vos règles […]; ce ne sont que quelques observations aisées, que le bon sens a faites».
Dom Juan, dunque, è un’altra delle pièces più nuove, drammatiche e dirompenti di Molière, tanto che ancora una volta suscitò parecchie polemiche. Ma, se molto si è insistito sulle questioni della religione, dell’empietà, del libertinaggio – ivi, certo, largamente affrontate – troppo poco rilievo si è dato, con ogni probabilità, alla questione sociale.
Eppure è ben presente, e a vari livelli; ma lo è soprattutto, pensiamo, nei rimproveri che Dom Louis rivolge al figlio degenere per quel suo «amas d’actions indignes», che gli fanno chiedere: «qu’avez-vous fait dans le monde pour être gentilhomme? Croyez-vous qu’il suffise d’en porter le nom et les armes, et que ce nous soit une gloire d’être sorti d’un sang noble lorsque nous vivons en enfames? Non, non, la naissance n’est rien où la vertu n’est pas. […] Apprenez enfin qu’un gentilhomme qui vit mal est un monstre dans la nature, que la vertu est le premier titre de noblesse, que je regarde bien moins au nom qu’on signe qu’aux actions qu’on fait, et que je ferais plus d’état du fils d’un crocheteur qui serait honnête homme que du fils d’un monarque qui vivrait comme vous». Ci si avvia così, lentamente e con ondeggiamenti e contrasti, a sostituire all’ideale rinascimentale del gentilhomme, del courtisan, quello dell’honnête homme.
Al Dom Juan segue la pièce che comunemente viene considerata il culmine dell’arte molieriana (ma dell’arte soltanto o anche della sua poesia?): si allude, ovviamente, a Le Misanthrope (1666). Essa è nata sempre nell’ordine d’idee di curare una «peinture des moeurs» del proprio secolo, ricamando una satira sottile e fonda dei tipi più caratteristici presenti nel suo complesso e complicato milieu: in tal caso, i «marquis», una «coquette», una «dévote»; e senza dimenticare, assieme a tutto questo vero e proprio pandemonio sociale, le forme ridicole della «politesse» mondana, la mania di mettere in rima parole galanti, certi abusi antigiuridici quanto osceni (come, a esempio, quello di far visita ai propri giudici). Ma, su tale dramma determinante, conviene forse ascoltare la voce ingiustamente negletta (1934) per decenni, non solo in Italia, di Mihály Babits, uno dei maggiori hommes de lettres ungheresi della prima metà del Novecento che ad esempio, in questo passo, pare muoversi con eleganza rara, inter alia, fra condivisibili memorie shakespeariane e una sociologia del teatro che in realtà, al tempo, era ancora priva di una dimensione sociologica specifica: «Molière sapeva trovare, a volte, una voce realmente tragica, che però si affrettava a controbilanciare con l’umorismo più grossolano. I suoi eroi si dibattevano in maniera commovente nelle trappole costruite dai loro medesimi caratteri. Succedeva anche talora che gli spettatori, e in segreto anche l’autore, si trovassero a simpatizzare con la figura messa alla berlina. Simpatizzavano con lei, ma continuavano a riderne, perché “non è di questo mondo”. Fu il caso del Misantropo, la più profonda tra le commedie di Molière».
E tuttavia, per disporre di un giudizio più aggiornato e solido circa questa singolarissima pièce – sì complessa e talora sfuggente, ma non di rado di valore incomparabile pure per il cittadino europeo del Terzo millennio – giova forse ascoltare, una volta ancora, Georges Forestier, autorevole quanto infaticabile (1993): «Le Misanthrope è l’ultima tappa nella realizzazione della “grande commedia” di Molière. […] Il titolo di quest’opera ha indotto i critici frettolosi a interessarsi unicamente al carattere del personaggio centrale, Alceste: è pur vero che Le Misanthrope rappresenta la data di nascita della commedia detta di carattere. Ma non era solo questo: gli studiosi più autorevoli hanno posto l’accento sulla critica dei costumi, che costituisce uno degli aspetti essenziali dell’opera e che, in modo particolare, il ruolo del misantropo rende possibile, nemico com’è di tutti i vizi della società, così come, d’altronde, il ruolo della civettuola maldicente, Célimène, che, a colpi di ritratti raccontati o scritti dalla gente che frequenta il suo salotto, mette crudelmente in luce i difetti di ogni tipo di cortigiano».
Pure questa commedia fa gioco a Molière per colpire miserie e meschinità del proprio tempo, ma conferma altresì, di nuovo, la sua volontà ferma e pressoché chirurgica di penetrare nelle profondità dell’animo, nella parabola esistenziale di qualsivoglia essere umano: basterebbe por mente adagio, peraltro, ai titoli della massima parte delle sue commedie per capire quale importanza ha sempre conferito alla descrizione dei personaggi e dei caratteri: fissa tutte le sfaccettature rilevanti, le complesse aporie proprie di ogni individuo che, come dianzi accennato, esistono di certo indefinitamente e sono più o meno costanti, ma che, nel contempo, si determinano storicamente, ovverosia in un mutare complesso, quanto mai imprevedibile, senza fine.
In altre parole, tali variabili umane si definiscono nella storia, volta a volta configurandosi nella situazione dominante o pregnante del momento, che – in fondo – è quella che dà loro una specifica, distinguibile, reale caratterizzazione. Nella storia insomma – per l’autore del Misanthrope, vivo e attivo nel “suo” Seicento francese – si ha la definizione di quel determinato individuo, del personaggio rappresentato. D’altronde, con ogni probabilità, Molière predilige la completezza e la precisione, la rifinitura ogni volta che gli sia possibile, la strutturazione pressoché analitica di ogni carattere, laddove ripudia la vacuità verbosa, la cultura superficiale quanto ostentata, qualsivoglia brama, in una parola, di apparire: le pose false, la facile facondia etc.
A un personaggio, quello del protagonista Alceste, ha saputo poi conferire una profondità umana di qualità ammirevole, che sa dar libero sfogo a «ces haines vigoureuses/Que doit donner le vice aux âmes vertueuses», anche se dovrà infine riconoscere la propria sconfitta: «J’ai pour moi la justice, et je perds mon procès». Alceste osserva, trincia giudizi, s’indigna a morte: è testimone e giudice inflessibile e severo; ma, nello stesso tempo in cui esamina gli altri e li giudica nelle loro insensatezze, nelle loro buffonerie, giudica anche se stesso, le proprie ridicolaggini. E si ritira, si isola, alla fine, in preda – si direbbe – a una profonda depressione.
Per Molière, la natura umana non può, a ogni buon conto, essere cambiata davvero. A proposito, per esempio, del non corrisposto amore di Alceste per Célimène e di éliante per lui, in sostanza fa premettere ad Alceste stesso la propria opinione: «ma raison me le dit chaque jour:/Mais la raison n’est pas ce qui règle l’amour». Sembrava che unicamente l’amore (va qui ricordata Agnès) permettesse di modificare la natura, almeno in parte. In realtà, l’amore può permettere soltanto di scoprirla, perché è l’amore stesso ad essere spesso senza regole, senza una ragione condivisa o, comunque, condivisibile.
Concludendo un discorso tuttora persuasivo sull’indole lato sensu tragica del nostro commediografo, Giovanni Macchia ha affermato limpidamente una volta (1987): «Ed è qui ch’egli si è fermato, quasi ai limiti del tragico – che pure in gioventù lo aveva tentato […] – ma senza mai decidersi a varcarlo: un regno assoluto della fatalità, di un’oscurità che non si può illuminare, un meccanismo che non si potrà mai correggere. Il mondo di Racine è alle porte».
Con Amphitryon (1668), con L’Avare (1668) – troppo spesso ritenuta, ancor oggi, poco più di una mera farsa –, con Les Femmes savantes (1672), Molière riprende tipi o temi noti; ma li tratta, ancora una volta, con mezzi eccezionali, ancorché facilmente riconoscibili come suoi propri. La novità maggiore delle pièces posteriori al Misanthrope sembra risiedere, piuttosto, nell’approfondimento di una ricerca o persino, alle volte, nell’abbandonarsi ad essa.
Indugiamo un poco sull’Avare, se non altro per la formidabile popolarità di cui, da secoli, seguita a godere anche nel nostro Paese. Protagonista tanto indiscusso (e ingombrante) quanto dispotico, insopportabile e quasi folle della commedia è, come risaputo, Arpagone, un vecchio vedovo avidissimo che peraltro – a modo suo, si capisce – è ancora innamorato. Un critico politicamente scomodo ma di fine e accreditata perspicacia, Ramon Fernandez, quasi cent’anni fa (1929) ha vergato su tale figura a tratti caricaturale un parere alquanto tranchant e, per certi versi, riduttivo (lo ha esaminato millimetricamente, una volta ancora, Cesare Garboli [2014]), che tuttavia conviene trascrivere, prendendolo cum grano salis: «Ogni parola, gesto, atteggiamento di Arpagone è una descrizione critica del suo carattere; ed è tale da privare il vecchio di qualsiasi umanità, trasformandolo in un animale mitologico della famiglia delle chimere e dei centauri. Accettiamo di considerarla reale e, contemporaneamente, la rifiutiamo in quanto insensata, cosicché la nostra mente, dopo le convulsioni della risata, serba solamente la verità, rifiutando la spoglia umana che ha permesso di percepirla. Una volta accettata la differenza di natura fra scena e mondo, Arpagone è il risultato logico della psicologia molieriana del personaggio comico. Isolato, cieco, sordo, assorto nel proprio delirio, inesorabilmente colpito da tutti i proiettili da lui stesso scagliati sull’umanità, il personaggio comico si configura compiutamente nella demenza. Arpagone è un pazzo. In lui riconosciamo i tratti dell’avarizia, come in certi malati di mente riconosciamo i tratti della volontà di potenza. Perciò i suoi atti provocano solamente scompiglio, ma non hanno alcuna conseguenza umana».
Pur nell’evidente, calcolata radicalità, appare però ben più sostanzioso e illuminante, a nostro gusto, il punto di vista elaborato da Garboli (2016, postumo) non solo sul singolarissimo, grottesco vegliardo, ma sull’intera pièce: «Il protagonista dell’Avare è il denaro. Il denaro sotterrato a pochi passi dalla scena. Non il denaro di Plauto, il tesoro nascosto nella pentola, spensierato e vitale, demoniaco e festevole come le risate di un buffo dio pagano; ma il denaro “borghese”, il denaro coi suoi pensieri segreti, le sue leggi esatte e implacabili, la sua logica funerea e impassibile, le sue ragioni impenetrabili, i suoi tassi, i suoi interessi, i suoi sconti, i suoi calcoli, e la sua occulta, complicata macchina finanziaria. Harpagon è il sacerdote mitico, imperscrutabile, e insieme il testimone preciso di questa logica occulta, di questa decrepita ragione. Intorno a lui non c’è una famiglia. Ci sono fedeli che officiano: i servi, gli innamorati, i mediatori di Harpagon, immagini spettrali di vivi-morti, esseri sepolcrali che nutrono la fame del padre».
Pure nell’Avare, spicca allora l’utilizzazione di una gran varietà di toni e di temi, anziché di problemi; emerge inoltre la volontà di creare e d’infondere sostanza nuova a nuove forme di spettacolo, come quella della comédie-ballet, in cui il movimento è vita, in cui vengono combinate insieme le tradizioni più diverse (latina e perciò anche greca, italiana, spagnola e francese), le derivazioni più varie: da quelle culturali a quelle popolari, dai lazzi della commedia dell’arte alle musiche (perlopiù) inedite e raffinate di un Lulli. Nascono così, in tale cantiere poietico singolarmente operoso, L’Amour médecin (1666), George Dandin (1668), Monsieur de Pourceaugnac (1669), Le Bourgeois gentilhomme (1670), Le Malade imaginaire (1673).
Con quest’ultima pièce si è interrotta, ma non certo spenta, la voce eloquente di Molière, d’altronde approdata, con la pacatezza del saggio fratello Béralde, a un atto di piena fiducia nei riguardi della natura: «La nature, d’elle même, quand nous la laissons faire, se tire doucement du désordre où elle est tombée. C’est notre inquiétude, c’est notre impatience qui gâte tout».
Nella nostra temperie, tale esaltazione della natura può essere considerata eccessiva, qualora non sia calata nel contesto molieriano; ed è proprio questo che il lettore dovrebbe fare per intendere il senso effettivo del teatro molieriano, che anzitutto per la sua qualità alta e inedita merita ancora di avere lettori e spettatori attenti e consapevoli.
Circa poi gli studiosi, oggigiorno si sono aperte – e puntualmente si aprono – nuove e, almeno in apparenza, originali prospettive d’indagine. Si tende non di rado, presumibilmente, a individuare una teoria pressoché sistematica (ma l’autore la rifiutava, come si è visto e rivisto sopra) del teatro molieriano. Si mira così a investigare i rapporti fra teatro e società, teatro e pubblico, teatro e potere, teatro ed epoche letterarie, poetica teatrale e tecnica, spazio teatrale e scenografia, autore e attore, regia, testo e spettacolo, testo e musica, specificità del linguaggio teatrale et similia.
Henry Becque, prima non per caso evocato, vedeva nella funzione molieriana del rappresentare i propri simili il modo migliore di fornirci strumenti idonei e adeguati alla nostra paideia, alla nostra humanitas, alla nostra Bildung, alla nostra formazione, insomma, di persone, oltre che alla formazione della capacità egregia di testimoniare, a nostra volta, ogni bene intellettuale e morale possibile. Il compito etico-civile di Molière, in sostanza, abita fondamentalmente qui, e per questo, almeno nella nostra prospettiva, il suo messaggio è ancora attuale in questo tormentato e tormentoso 2022.
Non senza un lucido quanto suggestivo entusiasmo, Georges Forestier ha concluso il dottissimo, sinfonico, forse ineguagliato volume di sintesi e, a un tempo, di approdo (2018) dianzi citato: «Molière suscita l’admiration par cette qualité qui lui était propre et le hissait au-dessus de tous les autres auteurs comiques: la capacité à faire rire en donnant l’illusion du naturel. C’est ce qui lui a valu d’être surnommé “le peintre” par ses contemporains, et c’est par là qu’il a ensuite donné l’impression, et la donne toujors, d’atteindre l’universel humain et d’être un auteur intemporel. Sans doute, est-ce la principale raison pour laquelle, de géneration en génération jusqu’à nous, lecteurs et spectateurs se déclarent touchés jusqu’au tréfonds de leur âme par cet auteur de comédies, qui réussit à transfigurer un genre réputé léger, et par l’homme fascinant, mistérieux, qui fut capable de cette alchimie».
Sulla scia di queste eccellenti riflessioni relative, una volta ancora, all’universalità pressoché incontrovertibile del messaggio molieriano, sperando di mantenere una promessa fatta al lettore in apertura di questo arabesco saggistico, ci sta a cuore concludere – ma in tutta semplicità – sulla comparazione fra il genio di Shakespeare e quello del Nostro, una vexata quaestio che, dall’alba del Settecento a oggi, si ritrova costantemente (e, a dirla giusta, talvolta ossessivamente) sia in sedi scientifiche sia in contesti degnamente divulgativi. Ma, al di là di tante e tante differenze spesse volte patenti (contesti storici e sociali, modelli stilistici adottati, argomenti dei drammi, posizioni religiose, fonti filosofiche e teologiche et alia), i due uomini di lettere e di teatro sono accomunati e, in qualche misura, affratellati dalla dimensione, dalla portata, dal respiro universali del loro immortale travaglio creativo.
Già Fortunat Strowski, instancabile, poliedrico storico delle idee e delle lettere francesi perfettamente coevo del nostro Croce, propose sul tema (1923) approdi forse un po’ perentori, almeno per la sensibilità ora prevalente, ma tutt’altro che scontati: «Pour comprendre la grandeur d’un tel génie, il faut comparer Molière à ses pairs. Deux hommes ont créé comme lui des personnages d’un admirable relief : c’est Shakespeare et c’est Balzac. Mais les personnages de Shakespeare ont tant de fantaisie et de poésie que leur réalité en est comme voilée. Quant aux héros de Balzac, ils sont plus solidement pris dans le réel ; mais malgré, ou peut-être à cause des ressources que le roman offre pour l’analyse des caractères complexes, Balzac n’a pas su leur donner la simplicité e le naturel des personnages que Molière nous peint d’un seul coup. En vérité, le génie de Molière n’a point d’égal dans la littérature. Le peintre seul peut, comme lui, prêter à des êtres imaginaires cette solidité, cette individualité, cette indéfinissable unité que la nature donne aux êtres réels. On pourrait dire de Molière ce que Montesquieu, je crois, écrivait de Raphaël, “que Dieu se servit de ses mains pour créer”».
Di là dalle ottime intuizioni e dalle generose espressioni che nobilitano la prosa di questa memorabile individualità del secolo passato, ci appaiono oggigiorno di gran lunga più puntuali e costruttive – per motivi in prevalenza palesi, ma anche di ordine prettamente epistemologico – le seguenti considerazioni sintetiche (in Perucca, 2022) di Christian Belin, un altro esperto in storia delle idee e delle lettere perlopiù seicentesche che, da più di un ventennio, si segnala per l’innovativa, robusta raffinatezza dei propri contributi: «Le parallèle entre Molière et Shakespeare (comme d’ailleurs entre Racine et Shakespeare) a longtemps été un stéréotype de la critique littéraire, depuis Voltaire jusqu’à Gide en passant par Hugo et Stendhal. Les auteurs allemands du Sturm und Drang et du Romantisme en particulier se sont focalisés sur la comparaison que l’on pouvait faire entre deux systèmes dramatiques, et ils ont donné majoritairement la préférence à Shakespeare (la violence des passions, la liberté d’invention etc.) pour mieux manifester leur allergie à un “classicisme” français accusé de tous les maux, mais très souvent caricaturé. Goethe cependant était plus nuancé et ne cachait pas son admiration pour Molière (Le Misanthrope était l’une de ses pièces préférées). En réalité, on compare souvent ce qui n’est pas comparable, en commettant des contresens ou des anachronismes portant sur des contextes culturels parfois très différents. Ce qui est beaucoup plus remarquable, en revanche, ce sont les affinités insoupçonnées de ces deux dramaturges : leur capacité de renouvellement dans des genres pourtant fortement balisés ; la créativité de leur langue ; la profondeur philosophique cachée dont ils savent auréoler, presque par inadvertance, tel ou tel dialogue, telle ou telle réplique».
Al di là di pur coinvolgenti e, talora, artiglianti discussioni di questo tipo, se si desidera avere (e mantenere) un’immagine convincente di Molière conviene sempre ricordare, a nostro modesto avviso, che la sua besogne quotidiana, costante, irrinunciabile è stata quella di conferire a personaggi – ma i latini, come mai si è stancato di rammentarci, inter alios, l’inesauribile, abissale Carl Gustav Jung, li chiamavano personae… – labili, contingenti e fragilissimi, in fondo, una seconda possibilità esistenziale: una vita letteraria, ossia una vita ben più stabile, durevole e, certamente, più utile a livello etico-civile.
Come non por mente – chiudendo ora davvero – ai Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello (così cari da sempre, ex multis, a Giovanni Macchia), nonché agli “orizzonti di senso” (ci riferiamo in primis al “secondo Heidegger”) difficili, tormentosi o asperrimi che essi ci forniscono a tempo indeterminato, senza fine e senza fini?
Allora, dai personaggi del teatro di Molière, da tale loro “seconda vita”, potremo ricevere, auspicabilmente, un’unica lectio davvero duratura, davvero morale e giammai biecamente moralistica: quella che si trae (o che, comunque, si può trarre) dalle migliori manifestazioni artistiche dell’inesausta e, non di rado, angosciata ricerca nel divenire multiforme, labirintico, imprevedibile della natura umana.

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Note

  1. Liano Petroni (1921-2006), che oggi avrebbe più di cent’anni, è stato professore emerito di Lingua e Letteratura francese presso l’Ateneo bolognese. Studioso e docente di fama internazionale, nonché insigne decano dei francesisti italiani, Petroni ha rappresentato, per quasi mezzo secolo, una delle figure più vivaci ed affidabili nel panorama accademico e culturale bolognese. Nato a Montecarlo (Lucca) il 20 agosto del 1921, Liano Petroni si è formato prima in Italia e quindi in Francia, sotto la guida di Luigi Russo, Giovanni Macchia, Carlo Pellegrini, Giorgio Pasquali, Delio Cantimori, Guido Calogero, Pierre Moreau, Verdun-Louis Saulnier, Ferdinand Baldensperger e di altri protagonisti della filologia europea. Della sua vasta, aggiornata e sempre rigorosa produzione, ci limitiamo in questa sede a menzionare le indagini sul Tasso, i contributi sul teatro moderno e, soprattutto, i numerosi studi consacrati al Romanticismo: ancor oggi imprescindibili sono la monumentale monografia Poetica e poesia d’Alfred de Vigny (1956) e l’esemplare edizione critica dello Chatterton (1962), la pièce più celebre e felice del grande, inafferrabile homme de lettres francese. In ambito contemporaneo, spiccano i saggi su Albert Camus (di cui Petroni fu intimo amico), gli articoli dedicati a L. S. Senghor e le pagine su Antonine Maillet, un’originalissima scrittrice canadese. Tanto nelle ricerche quanto nei corsi universitari, egli ha manifestato un incessante desiderio di aggiornare, espandere e raffinare i propri strumenti esegetici ed ermeneutici. Vero pioniere nello studio delle Letterature dei paesi francofoni, Liano Petroni ha fondato, nel 1981, la rivista Francofonia. Studi e ricerche sulle letterature di lingua francese, che continua regolarmente ad ospitare contributi riguardanti la globalità delle letterature di lingua francese. Didatta di serietà, intelligenza e humanitas davvero non comuni, Petroni si è speso con lucida passione per tanti e tanti decenni, impegnandosi liberalmente nella formazione di parecchie generazioni di studenti. Come qualcuno ancora ricorda, specie negli ultimi tempi diceva – forse sin troppo spesso – che l’ultimo suo vero allievo ero io. Mah… Certo, diciott’anni (1988-2006) d’intensa, pressoché quotidiana collaborazione intellettuale e, alla fin fine, complessiva non sono davvero un giorno: come avrebbe detto questo incomparabile maestro, riprendendo un vecchio proverbio della sua altra patria, la Francia: à bon entendeur, salut! D’altronde, egli ha sempre donato un’importanza decisiva ai rapporti umani degni di questo nome, a qualsivoglia sodalizio virtuoso ed effettivamente costruttivo, sempre animandoli e vivendoli in maniera intensa quanto responsabile e disinteressata; fra gli innumerevoli suoi amici – come dire – decisivi, conviene qui comunque rammentare almeno: Vittorio Lugli, Aldo Capitini, Eugenio Garin, Carlo M. Cipolla, Walter Binni, Giuseppe Caputo, Norberto Bobbio, Carlo Bo, Mario Luzi, Pierre Brunel, Yves Bonnefoy, Corrado Rosso, Giovanni Dotoli, Giovanni Bogliolo, Italo Mariotti, Alberto Destro, Andrea Fassò, Emilio Pasquini, Ezio Raimondi, Umberto Eco e Carlo Azeglio Ciampi, con cui condivise, fra il resto, intensi anni di studio presso la Normale di Pisa. La rielaborazione funditus a quattro mani (con me, naturalmente) di questo pezzo molieriano, pubblicato originariamente in un volume collettaneo (2006), è stata la sua ultima fatica scientifica. Qui tuttavia, specie nell’intento di giovar davvero al lettore europeo del 2022, ho riveduto aggiornato diversi passi del saggio, pur sforzandomi costantemente di non tradirne lo spirito elaborato in una miriade di colloqui, accademici e non; preciso infine che, salvo rarissime eccezioni, i corsivi presenti nelle citazioni dalle fonti secondarie francesi e italiane sono miei [Davide Monda].
  2. Considerata la sede, certo nobilissima ma non stricto sensu specialistica, che accoglie generosamente questa prosa storico-critica, si è ritenuto adeguato indicare quasi esclusivamente le fonti secondarie su Molière tuttora disponibili in volumi tendenzialmente monografici.

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