Bibliomanie

Ottant’anni senza Bergson. Paolo Taroni sul tempo
di , numero 53, giugno 2022, Letture e Recensioni, DOI

Ottant’anni senza Bergson. Paolo Taroni sul tempo
Come citare questo articolo:
Claudio Tugnoli, Ottant’anni senza Bergson. Paolo Taroni sul tempo, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 53, no. 25, giugno 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.9852

La prima edizione di questa traduzione italiana1 della controversa opera di Bergson sulla Relatività risale a venticinque anni fa (H. Bergson, Durata e simultaneità (a proposito della teoria di Einstein), a cura di Paolo Taroni, Pitagora, Bologna 1997). Taroni l’anno successivo pubblicava il volume Bergson, Einstein e il tempo. La filosofia della durata bergsoniana nel dibattito sulla teoria della relatività per le Edizioni Quattroventi di Urbino. E quattordici anni dopo dava alle stampe Filosofie del tempo. Il concetto di tempo nella storia del pensiero occidentale (con prefazione di Vincenzo Fano, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2012): in un volume di più di settecento pagine, Taroni rileggeva la storia della filosofia esaminando le diverse teorie sulla natura del tempo, distinguendo tra un problema ontologico (realtà o irrealtà del tempo) e un problema gnoseologico-epistemologico (se il tempo si possa conoscere, percepire, misurare); e illustrando le posizioni che negano l’esistenza di una dimensione temporale, ridotta ad apparenza illusoria o la considerano un tratto irriducibile dell’esistenza finita, come nell’esistenzialismo.
Recensendo su Dialegesthai questo volume, a pieno titolo opus majus di Taroni, commentavo che nessun pensatore ha potuto eludere la riflessione sulla temporalità, seppure nessuno ha dato una risposta definitiva. Mi chiedevo allora quale fosse la ragione del fascino che da sempre esercita la riflessione sulla natura del tempo. Concludevo con l’autore che la motivazione non è solo di tipo intellettuale, l’aristotelico òrexis tou eidénai: essa coinvolge l’intera esperienza che l’uomo ha della precarietà e finitezza della propria vita, con la previsione della fine che lo attende. Non sappiamo che cosa sia il passato e neppure se esista, così come non sappiamo che cosa siano il presente inafferrabile e il futuro, l’incognita più oscura; eppure «viviamo come se esistessero queste dimensioni, e il desiderio di conoscerle e di sapere in che cosa consistano è l’essenza della ricerca umana del tempo. L’ansia per la conoscenza del tempo ritengo nasca dal desiderio (alchemico, faustiano e tutti gli esempi che la letteratura ha proposto ne sono la testimonianza) di allontanare il termine ultimo del tempo individuale» (Taroni, Filosofie del tempo, cit., p. 612). Del resto ogni sapere, si può dire, nasce dal desiderio di conseguire una qualche forma di controllo del fenomeno studiato. La conoscenza della natura del tempo, per quanto inevitabilmente aporetica, parziale e ipotetica, contribuisce a renderci familiare il futuro − la sola dimensione del tempo che davvero ci inquieta − o, almeno, ci illude di sapere qualcosa in più riguardo al mistero del tempo.
Nella sua ricerca presente e passata Taroni giunge alla conclusione che la riflessione sul tempo è difficile e complicata. Noi viviamo per lo più di automatismi e di abitudini apprese. Ed è bene che, normalmente, gran parte dei nostri apprendimenti primari restino inconsci, giacché portarli a coscienza, divenirne consapevoli incepperebbe l’esecuzione delle abilità corrispondenti. Se siamo anima e corpo perfettamente adattati alla vita (come quando giochiamo a tennis o andiamo in bicicletta) non percepiamo qualcosa come il tempo che scorre. In tale condizione di felicità esistenziale il tempo è vissuto e noi siamo dentro la sua corrente, come potremmo essere alla guida di un’automobile che ci porta dove vogliamo. E se le cose vanno bene, non pensiamo né al tempo né all’automobile. La coscienza si mette in moto quando l’organismo avverte un disagio: la riflessione sul tempo è la spia di un disagio esistenziale, la conseguenza della dilatazione della coscienza, sempre più invadente, curiosa, problematica, critica, proprio nella misura in cui il soggetto ha perduto la sintonia con la realtà del mondo. Il senso di efficacia che di solito è trasmesso dall’inconscia esecuzione di normali attività della vita quotidiana, una volta inceppato, promuove la riflessione della coscienza sul divenire e sul tempo.
Tuttavia, mentre il nostro inconscio è adeguato a vivere e operare nel tempo, la nostra coscienza non incontra lo stesso successo impegnandosi a pensarlo. Lo dimostrano le aporie e i paradossi che nella storia del pensiero, a più riprese, hanno costretto le teorie filosofiche sul tempo a dichiarare fallimento o, comunque, a ridurre fortemente le loro pretese esplicative. Forse l’insuccesso è dipeso dal fatto che la coscienza, prima di tutto, è mistero a se stessa. E un mistero dovrebbe riuscire a spiegarne un altro? Oppure possiamo anche dire che la coscienza è una disfunzione o la conseguenza di una disfunzione dell’organismo nel suo rapporto con la realtà e il tempo. E che la riflessione sul tempo cerca di ricomporre un’armonia perduta, di ricostruire un nuovo adattamento, di natura concettuale, al flusso temporale. Ma innanzi tutto, la coscienza si trova a dover fare i conti con l’oggettivazione – separazione e distacco – del flusso temporale, pur continuando, di fatto, a farne parte. Non è già questa una contraddizione? Poi, rappresentandosi il divenire temporale come conditio sine qua non di qualsiasi movimento, può chiedersi se possa esistere il tempo senza il movimento, quel movimento di cui il tempo, secondo la nota definizione aristotelica, sarebbe la misura secondo l’ordine del prima e del poi.
Una più attenta riflessione obbliga allora a riconoscere che la misura presuppone il misurante, nel nostro caso l’anima. Senza l’anima il tempo non sarebbe percepito, ma non si può dire che il tempo abbia un’esistenza esclusivamente soggettiva. Risulta difficile sostenere un soggettivismo che non riconosca alcuna realtà al tempo in sé, dal momento che il soggetto deve poter concepire una temporalità oggettiva, che prescinda dalla durata della sua vita effimera. Ancora, il tempo non può essere pensato come un processo che ha inizio e fine, perché stabilito un inizio, dobbiamo pensare a un prima, e stabilita una fine, dobbiamo aggiungere un dopo. Se il tempo corrompe ogni cosa, è a sua volta corruttibile oppure invece eterno e incorruttibile? E se fosse corruttibile, non avendo natura propria indissolubile, di che cosa sarebbe imitazione? E l’imitazione potrà essere difforme dal modello pur continuando a esserne imitazione fedele? La tentazione poi di concepire il tempo come non essere, per togliere di mezzo tutte le contraddizioni che lo rendono inafferrabile, si presenta più volte nella storia del pensiero, da Parmenide agli scettici e oltre, fino a John McTaggart. Il passato non è più, pur essendo stato futuro e presente; il futuro non è ancora, ma sarà presente e passato; il presente è stato futuro e sarà passato, ma non ha durata: non è forse questa una dimostrazione dell’irrealtà del tempo?
La realtà del tempo è solo vissuta e non appena esso è fatto oggetto di riflessione sorgono dubbi pressoché insolubili sulla sua natura, proprio in conseguenza della pretesa di poterlo studiare e comprendere prescindendo dalla connessione simpatetica o sintonia con il mondo, come direbbe Minkowski. Il richiamo all’autore di Le temps vécu. Études phénoménologiques et psychopathologiques, 1933 (trad. it., Eugène Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, di G. Terzian, Einaudi Torino 1971 e 2004, pubblicato su licenza per Corriere della sera, con prefazione di Vittorino Andreoli, RCS quotidiani, Milano 2011) permette di ricordare, a questo punto, un saggio d’importanza storica fondamentale, ove l’incontro di Bergson e Husserl predispone lo scenario categoriale in cui Minkowski inserisce le sue analisi.
L’esordio di Minkowski nell’introduzione è un annuncio significativo: «Quello del tempo e dello spazio è il problema centrale della psicologia, della filosofia e direi addirittura di tutta la cultura contemporanea». La fenomenologia di Husserl consente di studiare i fenomeni vitali in se stessi, prescindendo da qualsiasi apparato categoriale o premessa; la filosofia di Bergson, contrapponendo l’intuizione all’intelligenza, il tempo allo spazio, dimostra come il problema del tempo sia per tutti la questione più essenziale e personale.
Intuizione del tempo significa essere immersi nel flusso del divenire vitale, mentre l’intelligenza tenta l’impresa di uscire dal flusso temporale per assumerlo a oggetto d’indagine, quindi di rimanervi all’interno e, insieme, di collocarsene al di fuori. Il tempo ci si presenta come fenomeno primitivo, come mutamento incessante, ma il pensiero è adatto a pensare l’essere, non il divenire. Il divenire è inaccessibile alla conoscenza, al pensiero discorsivo, proprio per la sua natura refrattaria all’analisi intellettuale. In questo senso il divenire è irrazionale, come dimostrano le tipiche argomentazioni che incontriamo nella storia del pensiero, volte a dimostrare che il tempo è contraddittorio in se stesso.
Ma l’argomentazione relativa all’irrealtà del tempo, cui si è accennato sopra, secondo Minkowski «serve solo a dimostrare che il tempo diventa un puro nulla se lo si considera dal punto di vista della logica; essa dice unicamente che il tempo è irrazionale nella sua stessa essenza, che esso viene ridotto a nulla se gli si applicano i principi del pensiero discorsivo e che, di conseguenza, non deve in nessun caso essere affrontato da questo punto di vista» (Minkowski, op. cit., p. 21). Si dovranno dunque adottare metodi più adatti a cogliere la natura del tempo.
Sulle orme di Bergson, Minkowski osserva che la fisica studia la realtà del divenire con la metodologia analitica dell’intelletto, scomponendo il movimento in diversi momenti di stasi la cui somma, naturalmente, non può darmi alcun movimento. Senza il presente della coscienza non avremmo alcun tempo su cui riflettere: il futuro sarà presente e passato, il passato è stato futuro e presente. Ma la stessa nozione di presente non è originaria. L’azione è nel presente, ma sappiamo di essere nel presente solo mediante una narrazione che si aggiunge quindi all’azione stessa. «Quando dico “è il mio presente”, Io non faccio che una narrazione sia a me stesso sia ad altri della mia azione, nel momento stesso in cui la eseguo. Così il presente è un racconto dell’azione che noi facciamo mentre stiamo agendo. Il presente è un atto particolare che riunisce la narrazione e l’azione. E siccome nel presente c’è narrazione, ciò implica necessariamente fenomeni di memoria. Questo sembra paradossale: come si fa a mettere la memoria nel presente e perché raccontare un’azione nel momento del suo compiersi? Tuttavia questa è un’azione necessaria che permette di unire in un’unica storia completa il presente, il passato e l’avvenire, che di per sé non sono che poesie o fabulazioni. Il presente torna a rendere la memoria più consistente e la riconduce sul terreno pratico dell’azione» (Minkowski, op. cit., p. 33).
Proprio perché non originario, mai dato a priori, il presente è il risultato di uno sforzo notevole, che i malati temono e questo spiega perché preferiscano vivere nel passato o nel futuro; i malati di solito non si curano del presente, elaborando una memoria fabulante in cui c’è spazio solo per il passato e l’avvenire. Il presente e il non presente, passato e futuro, condividono una natura comune, presentano una certa omogeneità. Infatti il passato è stato presente, il futuro sarà presente: al tempo stesso il presente è nato dal passato al quale dovrà presto ricongiungersi. Il passato, da cui è sorto il presente per differenziazione, è svanito e tuttavia esiste nel passato, in ciò che un tempo è stato presente. Il presente è costruito mediante una fabulazione memore del passato e al passato lo stesso presente è destinato a uniformarsi costantemente. Lo slancio vitale che ci protende verso lo scopo da raggiungere, è generale e indefinito, non necessariamente accompagnato dalla consapevolezza che esiste un dopo. Lo slancio vitale è vissuto come se l’intero universo fosse proteso a muoversi verso l’avvenire. Anche se lo slancio vitale è la sola cosa che possa dare senso alla vita, in taluni momenti può sopraggiungere il pensiero che l’Io, con tutto ciò che può realizzare, è ben misera cosa rispetto all’universo.
L’idea dell’insignificanza di ogni nostra opera, congiunta alla prospettiva inesorabile della morte, può indurre a desistere, può rallentare o bloccare lo slancio vitale. E tuttavia anche il pessimismo è una specie di azione e di impegno, infatti il pessimista, se non è ridotto all’estremo dell’inazione, elabora in sistema comunicabile il suo pessimismo. «Perché in noi non c’è che un desiderio primario, quello di vivere e di agire» (Minkowski, op. cit., p. 49). L’Io che si espande nel mondo attraverso le azioni e le opere che compie, è spinto da uno slancio personale, che non si limita all’Io ma lo colloca in una posizione e gli conferisce un ruolo all’interno di una realtà molto più grande.
Lo slancio personale è affermativo, non necessariamente discorsivo. Il pensiero religioso deriva la sua forza dal fatto di aver dato vita a un insieme di forze divine che sovrastano l’Io, per dare un volto e una fisionomia familiare all’Io, all’universo organizzato di cui l’Io si sente parte e detentore di una funzione. La sorgente stessa della vita rimane dietro la superficie della nostra vita mentale, rimane inconscia, seppure non nel senso che l’inconscio sia il luogo di fatti che si trovano al di sotto della soglia della coscienza e possano tuttavia rendersi accessibili ad essa. La natura dell’inconscio è tale che, in ogni caso, non potrà mai essere rappresentato mediante gli elementi della coscienza, di per sé statici e separati.
Lo slancio vitale possiede una forza e una spontaneità che lo rende imprevedibile nella sua evoluzione e nei suoi effetti. Non è forse vero che prevedere tutto significa annientare l’attività stessa, trasformarla in processo meccanico privo di interesse? (Recensione mia di Paolo Taroni, Filosofie del tempo in Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia.
La traduzione e il commento storico-critico del volume Durata e simultaneità, preceduto dal saggio introduttivo di Taroni su «Bergson-Einstein. Storie di polemiche e di incomprensioni» (pp. 7-72), presuppongono competenze multiple in riferimento sia alla filosofia e al pensiero di Bergson, sia alla teoria della Relatività e al linguaggio matematico. Il volume che Taroni ha curato con rigore storico-critico oltre ai sei capitoli dell’opera di Bergson (1. La semi-relatività; 2. La Relatività completa; 3. Della natura del tempo; 4. Della pluralità dei tempi; 5. Le figure di luce; 6. Lo Spazio-Tempo a quattro dimensioni) e a alla Nota finale (Il tempo della Relatività ristretta e lo Spazio della Relatività generale), contiene tre Appendici (1. Il viaggio nella palla di cannone; 2. Reciprocità dell’accelerazione; 3. Il “tempo proprio” e la “linea d’universo”), la Discussione con Einstein (6 aprile 1922), la Lettera a Richard Burdon Haldane (30 giugno 1922), I Tempi fittizi e il Tempo reale (maggio 1924), la Lettera al Direttore della «Revue de Philosophie» (luglio 1924), la Nota della Direzione della «Revue de Philosophie» (luglio 1924), la Lettera a H.A. Lorentz (9 novembre 1924), la Lettera a H.A. Lorentz (28 novembre 1924), la Lettera a H.A. Lorentz (28 dicembre 1924), la Lettera a Albert Einstein (5 febbraio 1925), la Lettera a Albert Einstein (18 giugno 1925), la Lettera a Albert Einstein (15 luglio 1925), la Lettera a Cº Macmillan (21 marzo 1926), Nota I alla Introduzione (seconda parte) al volume La pensée et le mouvant, 1934.
Bergson si decise a pubblicare Durée et simultaneité nel 1922 con l’obiettivo di conciliare la teoria della Relatività con la concezione di un tempo unico per tutto ciò che esiste. Come avvertiva Bergson nella Prefazione, «volevamo sapere in quale misura la nostra concezione della durata fosse compatibile con le visioni di Einstein sul tempo. La nostra ammirazione per questo fisico, la convinzione che non ci trasmettesse solamente una nuova fisica, ma anche un modo nuovo di pensare, l’idea che scienza e filosofia siano discipline differenti ma fatte per completarsi, tutto questo ci ispirava il desiderio e ci imponeva anche il dovere di procedere a un confronto» (p. 75).
Il 6 aprile 1922 Bergson e Einstein si incontrarono partecipando a una seduta della “Société française de Philosophie”, alla quale erano presenti anche i matematici Jacques Hadamard e Paul Painlevé, i fisici Jean Becquerel e Paul Langevin, i filosofi Léon Brunschvicg, Edouard Le Roy e Emile Meyerson. L’evento, organizzato da Xavier Léon, è rimasto memorabile. Chiamati a dibattere sulla teoria della relatività, il grande filosofo e il geniale scienziato presentarono le rispettive relazioni e discussero. Ma, come ricorda Taroni, André Robinet avrebbe detto che si era trattato di un doppio monologo. L’evoluzione del concetto di durata, di cui Taroni ricostruisce sinteticamente le tappe, parte dal Saggio sui dati immediati della coscienza, in cui essa è ancora coscienza, per divenire il tessuto della realtà con L’evoluzione creatrice. Cade il diaframma tra Io e realtà esterna: l’universo è una totalità che dura analogamente alla coscienza. I due tempi, psicologico e fisico, sono così unificati da Bergson nell’unica durata. Ma agli occhi di Einstein rimane insuperabile la distinzione tra tempo psicologico e tempo fisico, tra una dimensione soggettiva del tempo e una oggettiva.
La teoria della relatività, di fatto, era incompatibile con la concezione newtoniana di un tempo unico universale all’interno del quale si collocano tutti gli eventi di differente durata. Einstein respingeva decisamente l’idea di Bergson, che esista una Coscienza universale che domina i tempi locali – idea incompatibile con la concezione relativistica del tempo. Taroni ricostruisce puntualmente le polemiche successive a quella memorabile seduta del 6 aprile 1922. Durée et simultanéité fu ripubblicata più volte fino alla ristampa del 1931, allorché Bergson decise di vietarne ulteriori edizioni. Bergson poteva essere accusato di non aver ben compreso la teoria della relatività nella sua critica espistemologica, e a sua volta poteva lamentare che la sua opera non fosse stata capita. A un certo punto, Bergson decise di porre fine al fiume di controversie che la sua incursione, peraltro magistrale e coraggiosa a un tempo, nella teoria della Relatività, aveva suscitato. La necessità di ribattere ininterrottamente alle obiezioni e alle critiche che gli piovevano addosso da più parti lo aveva costretto a nuove precisazioni e integrazioni al volume. Nel 1931 decise allora di far calare il silenzio sull’intera questione: tutto quello che doveva dire l’aveva detto.
L’opera Durée et simultanéité non perde nulla della sua importanza per la comprensione della filosofia di Bergson se si segnalano gli errori che l’autore ha commesso nella sua interpretazione della teoria della Relatività. Secondo alcuni, scrive Taroni, Bergson difende il senso comune per sostenere la propria concezione filosofica.
Un errore di Bergson consiste nell’analizzare i fenomeni in base a un solo sistema di riferimento, come se costringesse il fisico a preferire un sistema di riferimento. Hervé Barreau, citato da Taroni, sostenne che «Bergson non tiene conto del fatto che è inevitabile che uno stesso fenomeno appaia differentemente a due osservatori posti in sistemi differenti» (p. 32). Altro errore di Bergson è quello di ridurre il principio di relatività alla relatività del movimento, riservando al fisico il ruolo di osservatore in un solo sistema di riferimento. «Bergson crede, così» commenta Taroni «di potersi porre al di fuori dei tempi fisici, che lui considera fittizi, artificiali e schematici, reintroducendo così un tempo universale, di cui la teoria della Relatività aveva mostrato l’insensatezza» (p. 33).
Bergson però, che aveva respinto il modello newtoniano del tempo, aspirava a dimostrare che l’universo dura e aveva creduto di trovare nel tempo universale della Relatività einsteiniana una conferma della sua teoria della durata. Ma come sappiamo per Einstein esiste solo il tempo psicologico soggettivo, al quale limita la nozione di durata, contestando la pretesa di estendere all’intero universo il tempo dei dati immediati della coscienza. Il disaccordo tra Bergson e Einstein riguarda anche il concetto di simultaneità: per il primo la simultaneità è di immediata constatazione in base alla possibilità della coscienza di prestare attenzione a più eventi nello stesso tempo; per il secondo invece la simultaneità ha un carattere mentale, soggettivo, infatti la relatività delle durate e delle simultaneità è incompatibile in fisica con l’idea di un Tempo universale. Nella fisica einsteiniana esistono tanti tempi quanti sono gli eventi riferiti a sistemi differenti.
Sia Bergson che Einstein difendono le proprie posizioni rispetto al tempo. Nonostante la stima per Einstein, Bergson non poteva comprendere o, per meglio dire, accogliere la teoria della Relatività. Infatti, come avverte Taroni, «i fisici pensano che Bergson commetta un errore materiale, ma alcuni non colgono che questo errore materiale ricopre un errore molto più grave, il rifiuto filosofico del valore della teoria della Relatività, perché incompatibile con la sua filosofia, secondo cui è reale solo ciò che è vissuto, percepito o percepibile» (p. 34). Per Bergson il tempo reale è quello vissuto, che egli espande a “respiro” dell’universo, mentre la teoria della Relatività si basa sul ragionamento e sul calcolo, su tempi misurabili, su rappresentazioni schematiche e su equazioni. Bergson poteva così additare in Einstein il nuovo Cartesio. Il filosofo dell’Evoluzione creatrice contesta il razionalismo troppo astratto di Einstein, che si allontana dai fenomeni reali, adotta una metodologia deterministica e riduce il tempo a spazio, come dimostrerebbero a suo avviso la nozione di tempo come “quarta dimensione dello spazio” e lo “spazio-tempo” misurabile con procedimento geometrico. Per Bergson il tempo-durata non è misurabile.
Fisici e matematici non hanno cercato di capire fino in fondo il senso del saggio di Bergson e lo hanno duramente condannato, come André Metz, citato da Taroni, il quale sostiene che l’autore di Durata e simultaneità non era in grado di comprendere la portata rivoluzionaria della teoria della Relatività sul piano fisico-matematico. Bergson aveva sperato di poter conciliare la propria teoria della durata con una teoria fisica dalla novità dirompente, ma doveva rimanere deluso perché non c’è modo di conciliare la fisica einsteiniana con la slancio vitale. Bergson attribuisce al tempo una qualità irriducibile allo spazio e accusa i fisici di spazializzare e perciò snaturare il tempo, la durata, alla quale attribuisce un primato ontologico assoluto. All’opposto, per il fisico il tempo è riducibile alla dimensione spaziale, non ha una realtà separata. Se coincide con la durata bergsoniana, allora certamente per il fisico il tempo non ha alcuna realtà che non sia puramente psicologica. Einstein non ha forse detto che la qualità esclusiva del tempo, l’irreversibilità, è un’illusione?

Note

  1. Nota critica e recensione di Henri Bergson, Durata e simultaneità. A proposito della teoria di Einstein e altri testi sulla Relatività, con tre Appendici: Discussione tra Bergson e Einstein; «I Tempi fittizi e il Tempo reale» e la successiva polemica tra Henri Bergson e André Metz; Lettere a Einstein e ad altri sulla relatività. Edizione italiana a cura di Paolo Taroni, Orthotes, Napoli-Salerno 2022.

Questo articolo è distribuito con licenza Creative Commons Attribution 4.0 International. Copyright (c) 2022 Claudio Tugnoli