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L’innominabile ventre: malattie e alimentazione
di , numero 53, giugno 2022, Note e Riflessioni, DOI

L’innominabile ventre: malattie e alimentazione
Come citare questo articolo:
Maria Rosa Pantè, L’innominabile ventre: malattie e alimentazione, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 53, no. 20, giugno 2022, doi:10.48276/issn.2280-8833.9831

Nel bene o nel male, purché se ne parli

Ventre, intestino, interiora, epa, trippa, budella, pancia, pinguedine, addome, adipe, viscere purga, clistere,
colite, stitichezza, diarrea, diverticolite, melena, emorroidi, rettocolite ulcerosa, obesità, bulimia, anoressia
celiachia (dalla radice stessa di colon), intolleranze alimentari, malattie del sistema immunitario, Disturbi dell’umore
Feci muco sangue microbiota fermenti lattici. Vivi. Staminali.
Da una piccolissima e superficiale ricognizione etimologica sull’argomento intestino si può notare che si passa dal colon che è un vuoto da riempire, al ventre come semplice ampliamento dello stomaco (gaster in greco), alle budella o alla trippa che invece richiamano il gonfio, il mucchio, il troppo pieno, il grasso, adiposo, pingue. Insomma di pancia e ventre si dice tutto e il contrario di tutto. E soprattutto se ne parla molto.
Ma si alternano, fra i vari sinonimi e persino fra le malattie connesse al cibo e al ventre, termini considerati pronunciabili con altri considerati indicibili se non in contesti scientifici o comici. C’è addirittura una branca importante della comicità dedicata agli escrementi e alle malattie connesse e al ventre, che gioca dunque con la scatologia (dal greco skor, skatòs escremento, ovviamente da non confondersi con èschatos, ultimo). È anche curioso che lo scarto intestinale animale, erbivoro per lo più, si chiami letame (da lieto, cioè che allieta i campi) e non cacca o feci o merda o sterco o liquami a seconda che si badi di più all’odore, alla consistenza o ad altre qualità. Certo la quantità di distinguo sul tema dice quanto, nonostante lo sprezzo, sia essenziale.
In questo caso più innominabili sono il ventre e l’escremento umano, il che dimostra una cosa importante: noi mangiamo per vivere (e talvolta viviamo per mangiare), ma disconosciamo la nostra appartenenza alla natura, prendiamo le distanze, disconosciamo il nostro stesso scarto e quell’antro oscuro che lo produce: la cavità del ventre, che è definizione evocativa, ma soprattutto scientifica.

Spezzare le catene alimentari

Nel suo libro Sulla pista animale, il filosofo e ricercatore Baptiste Morizot, che da sempre si occupa del rapporto fra mondo umano e animale (anche se noi siamo animali, primati), scrive come si possa capire il mondo degli animali e di ogni vivente attraverso le tracce, che sono per lo più escrementi ricchi di informazioni sul cibo, la salute, la malattia, il peso, il sesso, la specie, l’età, i viaggi… e dice ancora, a proposito del nostro rapporto con il resto del vivente, che noi dimentichiamo di essere carne, abbiamo rimosso il fatto che siamo biomassa a disposizione della natura, della sua continua legge di trasformazione.
In sostanza:

Per poter attingere alla nostra energia vitale quotidiana dobbiamo attendere che questa venga catturata e convertita in biomassa dai vegetali, e, in seguito dagli erbivori che li brucano, essendo noi incapaci di alimentarci direttamente di energia solare (…)1

Però abbiamo creato un mondo in cui: “possiamo nutrirci del sole imprigionato negli esseri viventi, ma gli altri esseri viventi non hanno il diritto di nutrirsi del sole imprigionato in noi”.
Noi chi? Questa rottura del patto che tiene insieme la natura, cioè io voglio mangiare, ma non voglio essere mangiato, dunque io voglio trasformare nel mio ventre la vita, ma non voglio nutrire nessuno. nemmeno i vermi della terra (infatti costruisco tombe inespugnabili), è tipica dell’umanità occidentale, in altre culture non è affatto così. Culture ormai minoritarie perché in ogni modo abbiamo cercato di eliminarle.
In conclusione (e qui Morizot cita la filosofa Val Plumwood che ha rischiato di essere divorata da un coccodrillo):

Questa concezione dell’identità umana pone gli esseri umani al di fuori e al di sopra della catena alimentare, non come commensali che banchettano in una catena di reciprocità, ma come manipolatori esterni e padroni di questa catena: possiamo mangiare gli animali, ma essi non possono mangiarci.

Chissà se il biblico Giona e Geppetto con Pinocchio sarebbero stati un buon cibo o portatori di malattie per i pesci che se li sono ingollati? Di fatto non hanno rotto il tabù occidentale: non si sono fatti mangiare.

La felicità nella pancia

Fra le malattie legate al ventre ed elencate all’inizio del saggio, forse potrebbe creare meraviglia scoprire “disturbi dell’umore”. In realtà tutti sanno che, quando qualcosa nel nostro animo non va, subito l’intestino si smuove o si contrae, è meno noto però quanto sia l’intestino a determinare il nostro umore, la nostra salute mentale.
Una ricerca dell’Università di Oxford chiarisce bene la correlazione fra cibo, intestino, cervello e umore. Pare che le fibre vegetali producano sensazioni positive sia al nervo vago, che unisce direttamente cervello e ventre, che al microbiota, cioè tutti quegli esseri: batteri, virus, funghi ecc. che ci abitano, anzi che sono noi stessi. Dunque cosa mangiamo influisce sulla nostra vita, i vegetali e le fibre sono meglio di ogni altro alimento, producono infatti serotonina. Lo studio è illustrato da Pietro Angela in un video del 20182 e intanto la ricerca prosegue.
Eppure questo legame già l’aveva spiegato Ildegarda di Bingen. Cosa dire di questa donna? È stata così tante cose che sembra una extraterrestre, di fatto è stata mistica, poetessa, scienziata, botanica, musicista, cosmologa, farmacista e medico. Vissuta fra 1098 e 1179, tedesca, è stata badessa e nel tempo libero ha fatto anche la consigliera politica.
Così scriveva nel suo libro Causae et curae dedicato proprio alla medicina:

La foschia nera generata dalla malinconia… salirà al cervello, la follia se ne impadronirà, discenderà verso l’intestino, qui distruggerà i vasi sanguigni e le viscere e renderà l’uomo totalmente folle. L’uomo dimenticherà e farà scoppiare la collera… e per questa cadrà nelle grandi malattie.3

Dunque c’è l’intuizione che nell’intestino, e in ciò che finisce nella nostra pancia, si gioca anche la partita delle grandi malattie e della qualità della nostra vita. Come ben sa il commissario Ingravallo, il protagonista di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana che Gadda descrive così: “aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione”.4
Se la digestione funziona bene, si può “stare in panciolle” che è infatti il modo migliore per dire la felice tranquillità, come dice Aldo Palazzeschi: “si buttò nell’ultima poltrona rimasta libera, in panciolle e raggiante di felicità.”5

Il cibo è salute

Ildegarda non è sola, il mondo femminile da sempre si occupa della cura e del ventre, in ebraico la parola che indica il ventre significa anche utero: viene definito l’utero di misericordia, dunque nell’intestino sta proprio il centro della cura.
Il ventre è un luogo per cui ha particolare attenzione persino Dio, un Dio più madre che padre, così scrive infatti la mistica Giuliana di Norwich a proposito dell’amore di Dio madre per ogni forma e manifestazione della vita:

L’uomo cammina eretto e il cibo che ingerisce è conservato nel suo corpo come in una borsa molto bella. E quando c’è necessità, la borsa si apre e poi si richiude di nuovo. E che sia Lui a fare questo si vede là dove Egli dice che scende verso di noi fino alle parti più umili delle nostre necessità. Perché Egli non disprezza ciò che ha creato (…).6

Una borsa molto bella che va riempita prima di tutto, infatti in un mondo per lo più povero e al limite della sussistenza la vera malattia è la fame, si veda il sogno dello zanni in Mistero Buffo, il celebre monologo di Dario Fo, dove per la fame, il contadino sogna di mangiare di tutto persino se stesso e quando si sveglia, pasteggia invece con una povera mosca.
D’altra parte il villano nasce proprio da un intestino, di asino:

pasà i noev mesi, la panza de la bestia l’era ingrusida de s’ciupà… se sentì un gran frecas, l’asen ol trà una slofa (scorreggia) tremenda e con quela salta fora el vilan (il villano) spusento (puzzolente),7

e davvero il villano è destinato a una vita di “cacca”.
In ogni caso là dove si muore di fame il cibo è cura, salute, il proverbio “a tavola non si invecchia” contiene una profonda verità.
È anche vero fin da sempre l’eccesso o la scarsità o la poca varietà della dieta porta alla malattia. Le malattie del ventre citate in letteratura per lo più riguardano o l’eccesso di peso, o gli escrementi. In difetto e in eccesso: fra la dissenteria e la stipsi.

In letteratura il ventre si nomina se fa ridere Il ventre si può nominare solo se fa ridere, in contesti comici, come appare evidente nel Malato Immaginario di Molière dove addirittura il medico più importante si chiama Purgon e, com’è nel suo nome, prescrive all’ossessionato Argante un’ enorme e costosa quantità di clisteri, come apprendiamo fin dall’incipit della commedia.

E inoltre, in data ventiquattro, un piccolo clistere insinuativo, preparatorio ed emolliente, per ammorbidire, umettare e rinfrescare le viscere di sua Signoria. (…) trenta soldi» (…) «E inoltre, alla stessa data, un bel clistere detergente, con doppia dose di catholicon, rabarbaro, miele di rosa, e altro, secondo ricetta, per sgomberare, ripulire e disinfettare gli intestini di sua Signoria, trenta soldi.» (…) «E inoltre, in data venticinque, una buona medicina purgativa e corroborante, composta di cassia fresca, senna levantina, eccetera, secondo la ricetta del dottor Purgone, per espellere ed evacuare la bile di sua Signoria, quattro franchi.»8

E così via fino alla fine della commedia.
Il ventre viene descritto per far ridere quando espelle troppo o troppo poco, persino nel secondo film di Checco Zalone, Che bella giornata dei maldestri terroristi islamici vengono sconfitti dalle cozze, poverette, che inducono in loro una spossante e salvifica dissenteria, grazie alla quale l’attentato terroristico progettato non avrà luogo.
Forse per questo effetto salutare si dice ridere di pancia quando la risata è di gusto e addirittura sbellicarsi dalle risa, cioè quasi far scoppiare l’ombelico.

Il ventre è un nuovo mondo pericoloso

L’apoteosi del cibo e dell’apparato digerente si trova nell’opera di Rabelais Gargantua e Pantagruel , cinque libri scritti nella prima metà del 1500, che narrano le vicende di due giganti padre e figlio. Giganti in tutto, nelle dimensioni, negli appetiti, nelle imprese che sono quasi tutte a sfondo gastronomico, per esempio c’è un personaggio che si chiama Gaster, c’è un popolo che ha nome Gastrolatri. In questo romanzo tutto è in eccesso perché si tratta di giganti, il cibo è sempre allegro, anche in quaresima regna l’abbondanza.
Quando il personaggio che nel romanzo descrive le gesta dei giganti si trova davanti alla enorme bocca di Pantagruele non perde l’occasione di entrare e vi trova un altro mondo, un nuovo mondo, con esseri viventi, città, coltivazioni, attività di ogni tipo (forse incontra il microbiota). Ad un certo punto del suo cammino…

CAPITOLO XXXII.
Come qualmente Pantagruele coprì colla sua lingua tutto un esercito e ciò che l’autore vide nella sua bocca.
Signori, v’è qui pericolo di peste?
– Oh, signore, risposero, muore qui vicino tanta gente che i cani corrono per le strade a raccogliere i cadaveri.
– Santo Dio! e dove?
Essi mi dissero che ciò avveniva in Laringe e Faringe due grosse città come Rouen e Nantes, ricche e di gran commercio. E la peste era stata causata da un’esalazione puzzolente e infetta uscita dagli abissi da non molto, per la quale son morti in otto giorni più di due milioni, duecentosessantamila e sedici persone.
Allora io rifletto e calcolo e trovo che dev’essere stato per un fiato puzzolente uscito dallo stomaco di Pantagruele quando mangiò tutta quell’agliata che abbian detto sopra.9


Dunque anche in questo mondo esistono le malattie e la peste e provengono dagli abissi innominabili dello stomaco e del ventre, che l’autore non pensa mai di visitare. Infatti appena potrà uscirà anche dalla bocca e narrerà cosa ha veduto all’interno.
Dentro la pancia un altro mondo, lo sanno tutti, ma delle volte il dolore alla pancia fa proprio paura, soprattutto ai bambini e alle bambine e a loro si può parlare di tutto, anche del mondo che si muove nella loro pancia, ne parlano i poeti, per esempio Roberto Piumini che, oltre alla “Ninna nanna del mal di pancia”, scrive “La canzone della cacca”, in cui il ventre diventa, come in Rabelais, un universo intero:

Sento che qualcosa sta spingendo nella pancia,
forse un ippopotamo,
o forse il re di Francia,
o un gran bastimento che dall’argine si stacca…
(…)
C’è qualcosa dentro che vorrebbe uscire fuori,
forse prigionieri,
o forse sono fiori,
forse son galline chiuse strette in una sacca…(…)
Sento un movimento che si vuole liberare,
forse sono onde che si azzuffano nel mare,
forse è un esercito glorioso quando attacca…
Sento un gran tumulto che tra poco scoppierà,
tremano i tombini sotto tutta la città,
forse è un terremoto
che sconvolge scassa e spacca…
Forse forse forse…
è la mia cacca!10


Mangiare può essere letale

Se peggio di tutto è la fame, anche mangiare troppo e male, oppure mangiare dolore e tensione può fare molto male. Questi tipi di malattie sono acquisizione recente, si comincia a parlare seriamente in letteratura (nella vita privata, negli epistolari anche di famosi poeti e scrittori, il tema è molto presente e molto serio) di cibo, malattia e disturbi intestinali nel ‘900.
Tre esempi tutti e tre poetici.
Il primo è La ricotta di Pasolini. L’attore che impersona uno dei ladroni nella crocifissione di Cristo, Stracci, un poveraccio sempre affamato, ingurgita una quantità esagerata di ricotta e di cibo avanzato, al tal punto da morire per indigestione nella scena della croce. L’idea quasi mistica (secondo me) è stata ritenuta blasfema per molti anni. Ora invece mostra intatta tutta la sua potenza poetica, legata alla vita, alla sacralità del cibo e persino, sì, del ventre.
Ventre di misericordia in cui, oltre al cibo, entrano i nostri dolori: due poetesse italiane contemporanee sanno ben interpretarlo. La prima è Patrizia Valduga

Papà, ho la rettocolite ulcerosa:
intercedi, proteggi, benedici.
Sanguino sempre, sempre più paurosa
del mio sangue, di tutto… Benedici.
E nella mente dove c’è ogni cosa
tornerò a quando eravamo felici,
stringerò la tua mano che conduce
al coraggio, e nel regno della luce.11


E la seconda è Bianca Maria Frabotta, recentemente scomparsa.

Melena
Quando, mie carte, mie parti sottili
vi bucò l’aspirina della tarda veglia
e fra tante mani cadeste
essendo già del mondo in balìa
e molto in dubbio dell’altro
– platea di stelle annerite
sui viali lenti a svuotarsi –
ipercritiche nurses, inaspettate
stars delle mie parti
delle mie carte troppo magre
tribolate, musicanti mucose.12


La malattia della terra

Da come mangiamo, da cosa passa dal nostro ventre deriva anche malattia stessa della terra. È il cibo che ammazza noi umani e il pianeta, un certo modo di mangiare è la grande malattia.
Molti scrittori e scrittrici si sono occupati dello sfruttamento degli altri animali a scopo alimentare: gli allevamenti intensivi (ma anche l’agricoltura è ormai intensiva).
Ne ha scritto il premio Nobel Coetze nel romanzo La vita degli animali, in cui una anziana romanziera Elizabeth Costello, vegetariana, mette in crisi tutti coloro cui parla della sua scelta (a partire dal figlio): “Ciò che teme [il figlio], mentre la conversazione langue, è che qualcuno se ne venga fuori con quella che lui chiama La Domanda” – «Ms. Costello, che cosa l’ha indotta a diventare vegetariana?» – e a quel punto lei, dandosi grandi arie, faccia ricorso a quella che lui e Norma chiamano La Risposta di Plutarco. Dopodiché toccherà a lui e a lui soltanto riparare il danno. La risposta in questione viene dai saggi morali di Plutarco. Sua madre la conosce a memoria; lui sa riprodurla solo in modo imperfetto.

«Lei mi domanda per quale ragione mi astengo dal mangiare carne. Io d’altra parte mi meraviglio come lei possa appressarsi alle labbra la carne del morto animale, mi meraviglio che non trovi ripugnante masticare la carne di animali scannati e smembrati e ingerire la marcia delle ferite mortali». Plutarco sa come troncare una conversazione: è per via della parola «marcia».13

Tirare in ballo Plutarco è come gettare il guanto; dopo, non è possibile prevedere che cosa accadrà. Della questione animale ormai quasi quotidianamente scrivono scienziati e scienziate perché è evidente la correlazione mortifera fra la pratica degli allevamenti intensivi e l’inquinamento dell’aria, la deforestazione, il consumo eccessivo di acqua e suolo. Insomma sacrifichiamo il futuro nostro, dei figli e della terra a una braciola, o a una scaglia di parmigiano intrisa di dolore, fra le altre cose.
Nel suo libro a metà fra romanzo autobiografico e saggio che si intitola in modo molto significativo Possiamo salvare il mondo prima di cena, lo scrittore statunitense Jonathan Foer dice chiaro e tondo qual è lo stato delle cose:

Qualche volta su un pugno deve essere scritta la parola “pugno”: per cui dirò adesso le cose come stanno: non possiamo salvare il pianeta se non riduciamo in modo significativo il nostro consumo di prodotti di origine animale.14

Eppure si deve mangiare

Come dice la poetessa Wislawa Szymborska, il ventre va riempito, lo chiede la vita stessa.

Mangiamo vite altrui per poter vivere.
Maiale deceduto con crauti defunti.
Il menu è un necrologio.
Anche l’uomo più buono
addenta e digerisce qualcosa di ammazzato
perché il suo cuore tenero
non cessi di pompare.
Anche il più lirico dei poeti,
anche il più austero tra gli asceti
mastica e inghiotte qualcosa
che pure era vivo e cresceva.
Non trovo coerenza tra questo e gli dèi buoni.
Forse perché un poco creduloni,
oppure ingenui,
hanno dato il dominio del mondo alla natura.
Ed è lei, quella pazza, che ci impone la fame,
e là dove c’è fame
finisce l’innocenza.
Alla fame si aggregano rapidamente i sensi:
il gusto, l’odorato e il tatto, e la vista,
infatti le pietanze non sono tutte uguali
e tanto meno i piatti.
Partecipa all’azione
anche l’udito, infatti
a tavola si fanno spesso discorsi allegri.15


Sembra dunque che non ci sia via di uscita, anche se possiamo scegliere di non mangiare carne e nemmeno prodotti di origine animale, ecco il gusto della pesca in una mia poesia:

Rendo grazie alla pesca,
(…)
oggi una pesca gialla, come un sole.
Sotto la buccia, pelle vellutata
di ogni amore. La forza
oh la forza che viene dalla pesca
fresca nell’estate, tu non la sai.
Non sai ancora lo zucchero buono
di quel piccolo sole minerale.
E poi conosci per inghiottimento
quando la polpa in te discende e cellula
diventa. Essenziale, necessaria,
gustosa, gaudiosamente gustosa.16


Possiamo, dobbiamo, cambiare il nostro modo antropocentrico di pensare il mondo proprio seguendo gli insegnamenti del ventre innominabile, il suo funzionamento, il suo laboratorio di vita e di misericordia.

Il ventre-compost: una nuova convivenza

In questo tempo difficile proprio dal modello del ventre può nascere la speranza di un nuovo tipo di convivenza che riesca a salvare il pianeta dai guasti provocati dall’antropocene (cioè l’epoca in cui una specie, la nostra, ha cambiato gli equilibri della natura). Due donne fondano questo nuovo modello di convivenza e non è un caso che siano donne perché il modello non è gerarchico, ma reticolare, articolato, non si basa sulla competizione, ma sulla collaborazione e la cura.
Da un lato la biologa Lynn Margulis parla di simbionte cioè di una evoluzione che non ha premiato la competizione, ma la collaborazione fra specie diverse, tesi confermata dalle ultime scoperte sul trasferimento genico orizzontale, cioè non di genitori in figli, ma fra individui e specie diverse.
Dall’altro la filosofa e drammaturga Donna Haraway parla di un modello di futuro basato sul compost. Cosa fa un compost? Raccoglie ogni tipo di scarto, senza gerarchie, grazie al lavoro di microrganismi, insetti e vermi trasforma questi scarti in una nuova vita, in concime, in humus. Così fa in noi l’intestino: accoglie, trasforma e produce nutrimento e uno scarto che noi disprezziamo e di cui ci prendiamo gioco, ma che a sua volta nutre e diventa concime.
Donna Haraway parla di simposiesi:

simpoietiche sono le configurazioni condivise che, superando il principio di autosufficienza dei sistemi viventi, pongono alla base dell’evoluzione processi trasversali di organizzazione emergente, aperti all’alterità, osservabili già a livello microbiologico.

Un agire insieme e che ha in sé la radice della poesia.
Così possiamo concludere questo percorso sull’innominabile ventre con una frase famosa di Fabrizio De André : “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.17

Note

  1. Morizot Baptiste, Sulla pista animale, Milano, Nottetempo 2020.
  2. RAI, Cervello e Intestino, Superquark 18/07/2018.
  3. Ildegarda di Bingen, Cause e cure delle infermità, Palermo, Sellerio 2019.
  4. Gadda Carlo Emilio, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Milano, Garzanti 1973.
  5. Palazzaschi Aldo, I fratelli Cuccoli, Milano, Mondadori 2009.
  6. Giuliana di Norwich, Una rivelazione dell’amore, Milano, Ancora Editrice, 2015.
  7. Fo Dario, Le commedie, vol V, Torino, Einaudi, 1977.
  8. Rabelais François, Gargantua e Pantagruele, Torino, Einaudi, 2017.
  9. Molière, Il malato immaginario, Torino, Einaudi, 1979.
  10. Piumini Roberto, Caziezel Giovanni, La canzone della cacca, ediz illustrata, Roma, Gallucci 2011.
  11. Valduga Patrizia, Requiem, Torino, Einaudi, 2002.
  12. Frabotta Biancamaria, La pianta del pane, Milano, Mondadori 2003.
  13. Coetzee J.M., La vita degli animali, Milano, Adelphi, 2003.
  14. Foer Jonathan Safran, Possiamo salvare il mondo prima di cena, Milano, Guanda, 2019.
  15. Szymborska Wislawa, Basta così, Milano, Adelphi, 2012
  16. Panté Maria Rosa, Orto-grafia, Amazon, 2019, Margulis Lynn
  17. De Andrè Fabrizio, “Via del campo”.

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