Bibliomanie

1946, il laboratorio elettorale. Manifesti e volantini dei partiti di massa italiani all’alba della Repubblica
di , numero 52, dicembre 2021, Saggi e Studi, DOI

1946, il laboratorio elettorale. Manifesti e volantini dei partiti di massa italiani all’alba della Repubblica
Come citare questo articolo:
Riccardo Pierotti, 1946, il laboratorio elettorale. Manifesti e volantini dei partiti di massa italiani all’alba della Repubblica, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 52, no. 13, dicembre 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.9633

1. La nuova decorazione urbana

«Mentre il comizio rappresenta la temporanea conquista sonora degli spazi pubblici, i manifesti costituiscono una forma di occupazione ben più longeva, che modifica l’arredo urbano e ridefinisce con i propri colori e simboli l’aspetto delle città.»1

Nel corso di quella che Maurizio Ridolfi ha definito la «lunga campagna elettorale››, le città sono state oggetto di una massiccia diffusione di manifesti e volantini elettorali, in una dimensione quantitativa inedita rispetto al passato2. La loro affissione su tutti gli edifici cittadini, dai monumenti storici alle abitazioni, passando per le Università e per i parchi, ha contribuito a ridefinire l’aspetto urbanistico di ogni città. In particolare, nei momenti immediatamente antecedenti le elezioni la «propaganda spicciola››, la forma semplice di propaganda basata sulle scritte murali e l’affissione di giornali di partito nei luoghi più frequentati, ha trovato le sue massime applicazioni sul suolo cittadino3. È questo lo scenario ripreso e descritto nelle fotografie e nei cinegiornali dell’epoca. Nella Milano che si apprestava a votare per la prima volta dalla Liberazione (il 7 aprile 1946), la pubblicistica politica si poneva come parte dell’ambiente urbano. Nelle riprese dedicate all’evento elettorale milanese, infatti, la Settimana INCOM restituisce immagini di una città completamente invasa dal materiale propagandistico, con lo speaker che, oltre a sottolineare un particolare attivismo dei democristiani e dei liberali, aggiunge:

«da qualche tempo il colore della città era sommerso dalla variopinta tappezzeria dei manifesti. Manifesti a perdifiato sull’inseguire severo delle colonne. Scritte kilometriche sui marciapiedi. Volantini ovunque, come se fosse nevicato.»4

Come ha testimoniato lo scrittore Franco Fortini, nella Milano tra la fine del ’45 e la prima metà del ’46 l’affissione del materiale propagandistico/pubblicitario era diventata un’attività integrante dell’animazione e delle dinamiche cittadine, coinvolgendo attivisti e lavoratori di qualsiasi schieramento ideologico. Nel capoluogo lombardo, infatti, non era rado vedere «dei ragazzini armati di pentolini di colla›› mentre «affiggono manifesti multicolori di falci e martelli comunisti o di croci democristiane»5.
Scenari simili si sono verificati in tutte le grandi città italiane. A Roma per le elezioni del 2 giugno 1946 (città che non aveva affrontato la tornata elettorale primaverile per le amministrative) si stima che siano stati circa 1.200.000 i manifesti diffusi in tutta la città. Come Milano, anche la Capitale italiana ha subito un’inondazione di materiale propagandistico, collocato nei principali punti visibili e simbolici della città. Ad essere luogo di affissione furono, tra gli altri, i monumenti storici come l’obelisco in Piazza Montecitorio6 e i punti di accesso alle principali vie di comunicazione con il centro, come nel caso della Porta Pinciana7, tutti completamente ricoperti di manifesti elettorali e scritte murali.
A Napoli, invece, ad essere stata oggetto di un’affissione selvaggia della pubblicistica di partito vi fu la sede dell’Università Federico II, in Corso Umberto I, la cui facciata venne del tutto tappezzata di materiale elettorale. A Genova non solo i monumenti a Cristoforo Colombo e Giuseppe Mazzini si trovarono rivestiti di nuovi colori, ma anche gli ambienti circostanti subirono la medesima sorte. In particolare, nel caso del monumento a Mazzini (un simbolo largamente utilizzato nella pubblicistica e nella retorica repubblicana) l’intera scalinata sottostante ad esso risultò occupata da un enorme manifesto inneggiante al partito monarchico dell’Unione democratica nazionale8.
Oltre a dare nuovi colori ai centri cittadini, la massiccia affissione dei manifesti elettorali ha costituito un segnale di una lenta ma progressiva ripresa della vita pubblica e della partecipazione popolare al dibattito politico. Attraverso una presenza in tutti i luoghi pubblici, comprese strade e marciapiedi, la propaganda grafica dei singoli partiti ha rappresentato una prima forma di lotta politica per l’egemonia ideologica e territoriale. Tale agone ha trovato due sue manifestazioni nella ricerca e nella conquista degli spazi fisici della città, su cui affiggere il simbolo della propria presenza (con il messaggio politico, sia esso iconografico o testuale) e, allo stesso tempo, eliminare quello dello schieramento avversario.
Inoltre, la dimensione simbolica della propaganda nella prima fase del secondo dopoguerra italiano può essere letta come la necessità dei partiti di rendersi visibili agli occhi di tutti i cittadini, dato il moltiplicarsi delle formazioni politiche, tanto sulla scena nazionale quanto in quella locale. Nello specifico, l’obiettivo del linguaggio murario era quello di arrivare a un pubblico composto sia da coloro che non erano ancora decisi se recarsi alle urne, ossia gli indecisi o gli attendisti, che a tutte quelle persone che non si recavano ai comizi e non venivano raggiunti dalla propaganda orale.
Per lo scopo pubblicitario, i monumenti rappresentavano dei luoghi perfetti per la propaganda politica, con una duplice finalità. In primo luogo, nel catturare l’attenzione dei passanti e degli osservatori essi garantivano ai partiti un’ottima visibilità e la possibilità di diffondere la propria «voce›› e i progetti in modo ampio e senza impiegare risorse umane, al di fuori dei militanti. In secondo luogo, l’affissione di manifesti e scritte murali agiva come vettore del processo di riappropriazione simbolica dei luoghi e della memoria del Paese, al fine di costruire una nuova narrazione politica integrando il patrimonio tradizionale in parte compromesso dal regime fascista.
Uno degli esempi più emblematici del processo di riappropriazione e di desacralizzazione degli spazi simbolici del fascismo è rappresentato da Palazzo Venezia, anch’esso oggetto di affissione di manifesti elettorali. Tra essi, di particolare importanza sono stati i manifesti attaccati il 17 maggio dall’Unione democratica nazionale, sotto il balcone, contenenti le scritte a caratteri cubitali: «Basta con i balconi!» e «Basta con le dittature!››. Questi, essendo stati i primi lì affissi, suscitarono sia le reazioni curiose dei passanti, che venivano attratti dalla commistione tra il messaggio elettorale e il luogo simbolico, che le proteste del direttore del locale Museo9. Inoltre, le riprese dai cinegiornali la “Notiziario Nuova Luce” e della Settimana INCOM restituiscono l’immagine di un Palazzo interamente decorato di manifesti di tutti i partiti politici e anche per questo oggetto di interesse da parte del pubblico romano. A tal proposito, lo speaker del “Notiziario Nuova Luce” definì la vista di quel luogo emblematico per la storia recente del Paese come «la più bella e incruenta vendetta contro il fascismo»10.

2. I piani di propaganda elettorale
La «lunga campagna elettorale» (per le amministrative prima, e per il 2 giugno 1946 poi) ha rappresentato anche la prima occasione del secondo dopoguerra in cui i partiti politici si confrontarono con l’elaborazione dei linguaggi elettorali. A tal proposito, le formazioni politiche, ed in particolare il Partito comunista italiano e la Democrazia cristiana si cimentarono con il compito di organizzare al meglio la comunicazione e le attività, attraverso la progettazione di vere e proprie strategie elettorali. Gli obiettivi di questi piani o strategie elettorali consistevano nello studiare e nell’attuare le forme propagandistiche migliori per diffondere il messaggio su tutto il territorio nazionale, dando una crescente visibilità al partito e radicandolo localmente11. Inoltre, in aggiunta al contesto di totale ricostruzione (economica, sociale oltre che politica) le elezioni, e dunque la propaganda politica, del 1946 si sono confrontate con un ulteriore aspetto di novità: il suffragio elettorale. Ciò ha posto le donne per la prima volta soggetti attivi (e passivi) del voto, ma allo stesso tempo le ha rese delle nuove destinatarie della propaganda elettorale delle singole formazioni politiche italiane, ampliando così le articolazioni della comunicazione e i linguaggi adottati.
Al fine di organizzare una propaganda il più efficiente possibile e in grado di ribadire tanto la valenza individuale quanto quella sociale del voto, diversi partiti gettarono le basi per la formazione di nuclei specializzati nell’elaborazione di strategie elettorali. Fra loro i compiti fondamentali e comuni a tutti queste nuove entità di studio, analisi e propaganda vi era la creazione di linee guida per la produzione o la diffusione dei volantini e dei manifesti elettorali, in modo da arrivare a tutta la società italiana.
Per le votazioni del 2 giugno 1946, le formazioni politiche italiane più attive sul fronte dell’elaborazione delle strategie elettorali attraverso i centri di propaganda furono la Democrazia cristiana e il Partito comunista. Per ristrutturare e modernizzare il sistema di comunicazione in vista delle elezioni, la Dc dall’agosto 1945 affidò il nucleo di propaganda del partito, il cosiddetto ufficio Studi propaganda e stampa (Spes), a Giuseppe Dossetti. Il nuovo direttore dell’Ufficio, però, dal 1° maggio 1946 lasciò il ruolo ad Amintore Fanfani. Sotto la direzione di Fanfani, e dunque nell’immediata prossimità della tornata elettorale del 2 giugno, lo Spes rivolse una specifica attenzione verso tutte quelle forme di propaganda attuabili da tutte le Sezioni locali, in base alle specifiche situazioni. Tra queste erano centrali le modalità di propaganda da effettuare attraverso il quadro murale (che necessitava di chiarezza, elementarità e impaginazione) e tramite la diffusione della stampa, tra cui il materiale da affiggere o distribuire12. In entrambi i casi non venivano esplicitate delle direttive politiche da attuare localmente, come ad esempio i target di riferimento o l’indicazione sul quale schieramento (repubblicano o monarchico) sostenere. Bensì, lo Spes si soffermò sulle qualità grafiche della comunicazione elettorale: essa, sia nelle forme a stampa che nel quadro murale, necessitava di una chiarezza e un’elementarità del messaggio e di una corretta impaginazione, al fine di rendere il messaggio immediato e accessibile a tutti, indipendentemente dall’educazione e dalla condizione sociale del singolo. Inoltre, lo stesso Fanfani (in carica dal 1° maggio 1946 al 30 giugno 1947), in una delle prime direttive del sottolineò che per avere un riscontro positivo l’affissione del materiale doveva avvenire nei luoghi più in vista della città, a cura di un apposito addetto per ogni Sezione. Anche la distribuzione di volantini, che doveva avvenire in modo sistematico e organizzato, andava effettuata in «luoghi ed in circostanze adatte, avendo cura di evitare il più possibile la dispersione del materiale»13.
Come per il partito democristiano, anche il Pci istituì all’interno del Comitato centrale un nucleo specializzato nella comunicazione elettorale: la Sezione stampa e propaganda, il cui vertice dal 1944 fu affidato a Ruggero Grieco. Nell’approssimarsi della tornata elettorale del 2 giugno, e dunque in previsione di un aumento di lavoro dell’organo di propaganda comunista, dall’aprile 1946 il direttore Grieco fu affiancato da Fabrizio Onofri (con ruolo di viceresponsabile)14.
A differenza del partito guidato da Alcide De Gasperi, la Sezione stampa e propaganda del Pci rilasciò delle direttive più mirate a riguardo della produzione di manifesti elettorali, all’interno di una strategia elettorale denominata «Piano di Propaganda per la Costituente››. Tra le forme di propaganda individuate dalla Direzione del Pci, la produzione di manifesti murali e di opuscoli da distribuire o da affiggere occupava la parte più cospicua del piano. Con una tiratura di almeno 5.100.000, il materiale elettorale (escludendo il la stampa da distribuire alle forze armate) verteva sulla propaganda repubblicana e a favore di un nuovo sistema democratico, ma anche per il voto politico al Pci. Tra i temi su cui veniva modulata la produzione del materiale erano presenti: la propaganda sovietica (800.000 opuscoli) e antifascista (300.000 opuscoli), quella antimonarchica e repubblicana (per un totale di 1.500.000 manifesti, contenenti messaggi chiari e dalla rapida comprensione). A ciò si aggiungevano opuscoli contenenti il programma del Pci e il suo ruolo nella ricostruzione (2.300.000 pezzi, suddivisi per target e tema elettorale, tra cui il destino di Trieste e la divisione classista della società), e una serie di manifesti murali illustrati e incentrati sulla tematica referendaria (stimati in 300.000 pezzi, a cui si doveva sommare altro materiale da riprodurre localmente e contenente il Programma del Partito, non quantificato ma appositamente realizzato per l’affissione)15.

3. Simboli dei partiti di massa
Per avere un quadro completo della propaganda politica dei partiti mediante le forme grafiche o l’affissione di volantini, un peculiare interesse deve essere posto ai simboli con i quali i partiti si presentarono alle elezioni del 1946. Presenti accanto alle figure o sullo sfondo dei manifesti illustrati, o sul fondo dei manifesti con sole scritte, gli stemmi elettorali rappresentavano uno strumento di connessione con il patrimonio simbolico della propria tradizione. Tra i partiti di sinistra, lo sfondo rosso con la falce e martello ha espresso il punto di connessione tra il Partito socialista (che alle elezioni si presentò come Partito socialista italiano di unità proletaria, Psiup) e il Pci con la tradizione socialista. Nel primo caso, però, alla falce e al martello veniva aggiunto il simbolo di un libro aperto. Il Partito comunista, invece, oltre ai simboli della tradizione socialista inserì una stella in alto a sinistra, a evocare una connessione ideale con la Rivoluzione d’Ottobre. Inoltre, la bandiera contenente falce, martello e stella e la scritta “PCI” su sfondo rosso, si sovrapponeva a un altro vessillo, tricolore. L’effetto ottico che ne deriva fungeva da risposta alle critiche di antipatriottismo subite da parte delle altre formazioni centriste e monarchiche, creando una sfera di intersezione tra l’ideologia socialista e l’immaginario nazionale. Allo stesso tempo, esso gettava una base visiva per il progetto del nuovo partito promosso da Togliatti, entrando in una competizione diretta con il patrimonio simbolico del partito democristiano 16.
La nuova dimensione figurativa, incentrata sulle tematiche sociali e sul sacrificio dei militanti comunisti, aveva il compito di rappresentare il «prisma attraverso il quale osservare la Resistenza››17, così da rivendicare in tutto i luoghi e in tutte le forme la causa patriottica del Pci. Inoltre, come ha evidenziato Roberto Colozza, la non uniformità dell’esperienza partigiana su tutto il territorio nazionale «indusse la dirigenza [del Pci] a diversificare il discorso sui simboli, arricchendolo di altri elementi»18.
La commistione tra simboli in base ai contesti locali, in verità, non ha rappresentato un evento limitabile ai soli partiti di sinistra. Ad esempio, a Rocca Priora (Roma), per rassicurare la popolazione sul mantenimento delle tradizioni e sul rispetto di ogni credo e per far leva su di esse, i partiti di diverso schieramento promossero una serie di commistioni di elementi liturgici. Venivano proposte scritte come «Dio e Popolo», o uno stemma (utilizzato dal Pri) con il monogramma di Cristo sopra la torre e il ramoscello di ulivo. In altri comuni vennero promossi simboli con una vanga e due spighe (a Tione degli Abruzzi), una falce senza martello (a Castelcolonna)19. Di fatto, sia per i simboli elettorali che per quelli mostrati durante i comizi, i codici del linguaggio religioso tendevano a sovrapporti a quelli del linguaggio politico, producendo una simbologia ibrida e modellabile in base ai contesti.
Come le formazioni di sinistra, anche il partito democristiano riprese la trama con il proprio patrimonio simbolico. Lo stemma proposto e adottato dalle elezioni amministrative, infatti, si collegava in pieno a quello già adottato dal Partito popolare di Don Sturzo, incrementando ulteriormente la percezione di continuità tra le due formazioni. Esso comprendeva una croce rossa, che richiamava alla tradizione e ai valori cristiani, con all’interno la scritta “Libertas”. A sua volta, la croce era inscritta in uno scudo bianco. Questo scudo aveva una duplice valenza simbolica: da una parte si riferiva all’unione dell’esperienza bellica con quella religiosa, dalla tradizione tardoromana di Costantino alla partecipazione cattolica alla guerra di resistenza. Dall’altro, esso era per Gonnella un riferimento allo «scudo di un libero Comune››, la cui esperienza di libertà doveva essere la via per superare le forme di campanilismo e far rinascere le istituzioni20. Come ha osservato Ridolfi, attraverso questo insieme di richiami storici (tra cui un’affinità tra lo scudo crociato e il simbolo di Casa Savoia) i codici comunicativi avanzati dal partito cattolico erano in grado di provocare un’adesione «emotiva e sentimentale in un paese antropologicamente connotato secondo la gerarchia di valori proprio di una cultura rural-popolare o tutt’al più piccolo-borghese tradizionale, innervata di rituali e linguaggi religiosi»21.

4. I Manifesti e i volantini elettorali per la questione istituzionale
I manifesti elettorali utilizzati durante la campagna elettorale si presentano divisi in categorie, con stili grafici differenti, soprattutto in base ai periodi di produzione e di diffusione. Inoltre, prendendo come punto di riferimento il Piano di propaganda comunista, il materiale prodotto ha subito una modulazione nei messaggi e nella simbologia contenuta in relazione al target elettorale e alla zona territoriale di riferimento. Per realizzare ciò e pur sempre sotto le direttive delle Direzioni centrali, per le federazioni e le sezioni locali di partito è stato necessario farsi carico dello sforzo di categorizzazione della propaganda e del volantinaggio, per ramificare e massimizzare il messaggio elettorale.
In generale, i manifesti e i volantini elettorali presenti tra la fine del 1945 e, soprattutto, il maggio 1946 si caratterizzano per l’utilizzo di due diversi linguaggi, scritto e visivo. Nella prima fase della campagna elettorale a dominare la scena sono i manifesti che presentano come caratteristica principale una comunicazione scritta in bianco e nero e con un’iconografia meno accesa rispetto a quella delle seguenti elezioni referendarie. In questo modo, il volantino aveva il duplice compito di illustrare il progetto politico del partito di riferimento e di denigrare l’avversario attraverso l’elenco dei rischi che la società avrebbe corso in caso di sua vittoria.
Unendo le due finalità, il partito comunista ha pubblicato un foglio con il quale sintetizzava le colpe della monarchia, dall’ascesa del fascismo al fallimento della guerra, e l’avarizia dei suoi attuali sostenitori, sottolineando che «la monarchia è stata complice necessaria di Mussolini e del fascismo. La monarchia è responsabile diretta della disfatta e della catastrofe». Alla scelta monarchia si contrapponevano le possibilità che si potevano aprire al popolo italiano con la Repubblica, sintetizzando il discorso in una dicotomia espressa a caratteri cubitali tra «Volete la Monarchia? NO›› e «Volete la Repubblica? SI»22. In modo ancora più crudo ed esplicito, in un altro volantino comunista la «monarchia fascista›› (un binomio, quello tra fascismo e Monarchia, indissolubile nella comunicazione comunista) veniva paragonata a un vampiro. Questo perché essa «vive solo di sangue», quello dei compatrioti23. In altri manifesti, la critica su cui verteva la campagna antimonarchica si strutturava intorno al tema del tradimento. Questo era avvenuto nei confronti della stessa Patria che avrebbe dovuto rappresentare, e del popolo italiano, che invece la monarchia in diversi momenti ha sacrificato al fascismo e ai suoi deliri autodistruttivi, senza prenderne le difese.
Inoltre, la propaganda comunista, nel modulare la propria azione ha utilizzato sia messaggi interclassisti e contenenti delle parole chiave, che messaggi concepiti per singole categorie elettorali o gruppi sociali. Nel primo caso, in un manifesto divulgato a Catanzaro il Pci insistette sulla formazione di un governo popolare che provvedesse «con energia e senza indugi, a dare pane, case, indumenti a tutti i lavoratori››. L’auspicato governo del popolo avrebbe dovuto rimediare agli errori dei monarchici e dei fascisti, ossia coloro che erano stati individuati come gli affamatori del popolo24.
Con l’approssimarsi delle elezioni, la crescita della produzione di materiale propagandistico ha investito anche i manifesti da affissione. A ciò si è associata l’elaborazione di nuovi stili e forme grafiche, soprattutto di quelle incentrate sulla dicotomia monarchia/repubblica. In diversi casi si assiste alla produzione di manifesti in cui la contrapposizione tra i due progetti politici viene rappresentata come la contrapposizione tra il bene e il male, tra due sistemi moralmente opposti.
In questi manifesti, la denigrazione dell’avversario si riflette nelle forme e nei colori utilizzati, nelle rappresentazioni caricaturali, deformi e mostruose e in grado di comunicare allo spettatore un immediato sentimento di disarmonia e repulsione. Ad esempio, allo sfondo blu sul quale si innesta l’immagine di una donna turrita e la scritta tricolore di «Repubblica›› fa da contraltare il nero dell’Istituto monarchico. Questo, raffigurato come un’ombra dalle sembianze mostruose, si lascia dietro delle rovine di un’abitazione, simbolo dell’attuale Italia e dei danni portati da Casa Savoia, sotto un cielo rosso sangue25.
In altre illustrazioni del partito comunista, l’immediatezza del messaggio è direttamente legata alla crudezza dell’immagine: sono i casi dei manifesti che ritraggono l’Italia martoriata dall’oppressione nazista: il tedesco viene raffigurato sia attraverso l’immagine di un braccio scheletrico che, nel ritirarsi verso oltralpe, graffia e martoria l’Italia. In altri manifesti l’invasore/oppressore è l’illustrato nelle forme di un gerarca nazista disteso a terra, sopra una moltitudine di crani. In quest’ultimo caso, l’immagine è ancora più evocativa in quanto il gerarca, trasfigurazione di un regime responsabile della morte di molte persone, è bloccato a terra da uno scalpello conficcato nella schiena e percosso da quattro diverse mani, ognuna con un martello, a rappresentare la vendetta e la vittoria del popolo e del comunismo sul nazismo26.
In altri casi sono stati adottati stili contenenti immagini meno cupe, se considerate sotto il profilo dei colori utilizzati, ma mantenendo un forte impatto visivo e ricorrendo a forme caricaturali dei personaggi. In un manifesto antecedente l’abdicazione di re Vittorio Emanuele III e dal diretto titolo “Via la monarchia!”, l’Istituto monarchico viene rappresentato dalle caricature del Luogotenente e del Re. I due vengono raffigurati mentre si allontanano dal centro della scena con espressione delusa, lasciando dietro di sé uno squarcio nella parete, dal quale gronda sangue. Dall’interno della parete, inoltre, emerge un uomo, scavato nei suoi lineamenti, che indica la via da seguire ai Savoia. L’aspetto dalla maggiore impressione è però il panorama che fa da sfondo all’uomo. Si tratta di una distesa di crani rivolti verso i due Savoia, a simboleggiare la responsabilità che la Monarchia ebbe nella distruzione del Paese e nella morte di milione di cittadini, che invece avrebbe avuto l’onere e l’onore di proteggere27.
A differenza del Partito comunista, la Democrazia cristiana, lasciò libertà di coscienza ai suoi elettori sulla questione istituzionale, in modo da non precludersi i voti politici da entrambi gli schieramenti e in entrambe le parti d’Italia. Questa posizione, nonostante il risultato del Congresso che presentò una maggioranza repubblicana tra gli iscritti (e solo tra essi), ha rappresentato un’oggetto della propaganda delle formazioni monarchiche per la conquista dell’elettorato democristiano. In un manifesto scritto, infatti, si faceva notare che il Congresso Dc aveva sì votato a maggioranza la linea repubblicana, ma senza che essa rappresentasse un obbligo per l’elettore del partito scudocrociato. Si cercava così strumentalizzare la posizione cattolica, invitando gli elettori a votare sia per la Democrazia cristiana che per la Monarchia, il che non significava agire in controsenso ma far conciliare «la vostra coscienza religiosa e il vostro civismo››. Il trait d’union tra il partito guidato da De Gasperi e il progetto Monarchico stava proprio nella centralità della fede nella futura società italiana. Su questo il messaggio monarchico si incentrava:

«Cattolici italiani, il vostro voto a favore della Monarchia, nel prossimo referendum, non contrasta in alcun modo con la vostra fede, anzi la seconda e la tutela giacché la Monarchia rappresenta la difesa della libertà di coscienza non meno che dell’ordine sociale. […] Fede e Patria sono uno stesso ideale splendente di eterna luce e di eterna bellezza.››28

In un altro volantino, invece, i sostenitori monarchici interni alla Democrazia cristiana direttamente delle parole di De Gasperi per denunciare i rischi di quel «salto nel vuoto›› che avrebbe rappresentato la Repubblica. Il volantino poneva al centro delle presunte dichiarazioni del leader Dc, dove neanche lui poteva «garantire che la repubblica sarà democristiana››, concludendo che «la repubblica sarà probabilmente socialcomunista» e che solo la Monarchia avrebbe potuto salvare la civiltà cristiana29. Contro queste strumentalizzazioni, un volantino del Partito avvertì tutto l’elettorato della campagna propagandistica portata avanti dai monarchici verso l’elettorato Dc, tramite anche l’alterazione delle parole di De Gasperi. L’invito ultimo, oltre a diffidare dagli organi di stampa monarchici, stava nel rispettare la posizione del Congresso e dunque «Votate Contro la monarchia. Votate per la DEMOCRAZIA CRISTIANA»30.

5. La religione elettorale
Come per i monarchici e, ovviamente, per i democristiani, anche per i comunisti e i socialisti quello della religione era un tema centrale nella comunicazione elettorale. Per le sinistre era necessario rassicurare la popolazione sulla paura della messa al bando della religione cattolica, un elemento su cui verteva la campagna anticomunista dei monarchici. A tal proposito fu prodotto un volantino interamente scritto, fatta eccezione per il simbolo del partito, ma con alternanza di colori tra il rosso e il nero. Con esso si mostrava al popolo cattolico l’unità di interesse tra la tradizione religiosa e il partito comunista nel richiedere una costituzione repubblicana e che avesse nel cattolicesimo la sua linea ispiratrice. La commistione tra le istanze sociali del partito comunista, i valori e la liturgia cristiana si concretizzava tramite un confronto tra una preghiera religiosa e i discorsi de dirigenti comunisti, o delle aree di sinistra. Il confronto metteva in evidenza l’aspetto sociale, inteso come punto di unione tra i due schieramenti. La sezione messa in risalto della preghiera, infatti, asseriva che

«Nella Costituzione sia reso a Dio il dovuto onore – sia pienamente rispettata la dignità della persona umana – siano inviolabili la libertà, i diritti e la tutela della famiglia – la giustizia sociale sia concepita e attuata secondo l’idea del Cristianesimo che la rivelò e da secoli la insegna a tutte le genti.»

A ciò corrispondeva, oltre ai diritti già esplicitati nel programma comunista, il discorso del Prof. Montesi della Dc, invitato al V° Congresso del Pci

«Migliaia di bambini della provincia di Roma sono stati quest’inverno sottratti alla denutrizione, alla miseria, al freddo delle loro povere case, delle famiglie dei contadini modenesi, membri del partito comunista o simpatizzanti, i quali, con un gesto di solidarietà sublime che davvero si riallaccia alle più nobili tradizioni del cristianesimo, hanno indicato agli italiani onesti come in effetti i comunisti agiscano in difesa della famiglia e dell’infanzia. […] Io penso che questa gente ha affermato nobilmente ed eroicamente il cristianesimo in atto.»31

In un altro foglio, il messaggio comunista utilizzava frasi con citazioni del vangelo per attaccare duramente non solo i monarchici, ma anche la Dc:

«“È più facile a un cammello passare per la cruna di un ago, che a un ricco entrare nel regno di Dio”, ha detto Gesù Cristo. Non potendo entrare nel regno di Dio, oggi i ricchi e i monarchici sono entrati nella Democrazia cristiana. Operai! Impiegati! Votate per il Partito comunista italiano!»32

Anche la Democrazia cristiana utilizzò direttamente alcuni passaggi di testi sacri o di encicliche, oltre all’avere l’appoggio propagandistico della Chiesa, attraverso l’Azione Cattolica. La sezione provinciale di Viterbo promosse dei volantini contenente esclusivamente un testo scritto, estrapolato dall’enciclica “Rerum Novarum” di papa Leone XIII (1891). Rivolti ad un contesto agricolo, i manifesti democristiani presentavano brevi frasi stampate a grandi caratteri su uno sfondo colorato, con le quali si rivendicavano e si facevano propri i temi sociali, mostrandoli da decenni già interni ai dettami della Chiesa. In particolar modo, si rivendicavano sia la dignità dei lavoratori, che ogni padrone doveva rispettare per essere un buon cristiano33, che il diritto alla proprietà privata in campo agricolo, in modo da rendere più produttivo il lavoro dei contadini34. Nonostante la sottolineatura della sacralità della proprietà privata, il tentativo dei manifesti era di mettere in evidenza la necessità di un’attenzione alle necessità dei lavoratori, che a casi estremi potrebbero ricorrere ad azioni sovversive. Ciò emerge in un altro manifesto promosso dalla sezione viterbese della Dc, indirizzato alle famiglie operaie, e sempre tratto dall’enciclica Rerom Novarum. Esso asseriva che «il quantitativo della merce non deve essere inferiore al sostentamento dell’operaio frugale, s’intende, e ben costumato… Se questi, costretto dalla necessità, accetta patti più duri…questo è subire una violenza contro la quale la giustizia protesta»35.
Più evidente è la diversificazione degli stili adottati dai partiti di massa nella produzione di manifesti elettorali illustrati. È il caso della gigantografia di Cristo, accompagnata da un estratto di un suo discorso agli apostoli sulla ricchezza e il regno dei cieli. Il manifesto, pubblicato dal Psiup, invitava tutti i lavoratori cattolici a votare «per il socialismo che redime i poveri dallo sfruttamento dei ricchi»36. Anche il Pci ha fatto ricorso all’iconografia religiosa per articolare la propria propaganda. Il richiamo a San Giorgio che uccide il drago è palese nel manifesto della Federazione di Parma, realizzato in occasione della Settimana della compagna. In questo manifesto l’illustrazione comprende una giovane donna, su sfondo bianco, coperta da una veste verde, che sorregge la bandiera rossa e con l’asta di questa uccide una figura mostruosa, sui cui tentacoli sono scritti i mali da sconfiggere: oppressione, ingiustizia, guerra, miseria, ignoranza37.
Anche la Dc non escluse la commistione di temi e simboli nella sua campagna elettorale, soprattutto tra gli aspetti sociali e quelli religiosi. Il partito cattolico diffuse un volantino, pubblicato sia cartaceo che dentro le colonne de “Il Popolo”, rivolto ai lavoratori e ai contadini, ossia delle classi sociali verso cui era forte la propaganda comunista, con il messaggio «Lavoratore! Vota per la Democrazia cristiana. Essa promette ciò che è giusto e mantiene ciò che promette››. In esso, lo splendente simbolo scudocrociato scende dal cielo verso la terra, come l’illuminazione divina, dove un contadino è pronto ad accoglierlo38. In altri manifesti, a venire sottratto dal campo d’azione socialcomunista erano gli operai e le masse lavoratrici nelle industrie. Il partito assumeva così l’immagine di un’organizzazione interclassista e popolare, con al centro l’interesse per la pace sociale e l’equità, una dimensione non raggiungibile attraverso la lotta ma con la collaborazione tra le classi39. Il popolo laborioso veniva presentato come una massa dalla quale solo in parte si coglievano i lineamenti dei singoli individui, diretta alla città e che poneva al centro della sua libertà i tre principi fondamentali, ribaditi dai tutti i partiti politici, «pace, pane, lavoro»40.
In un altro manifesto promosso dallo Spes, la simbologia divenne la chiave di lettura per trasmettere all’osservatore la posizione anticomunista del partito. Nel manifesto elettorale l’anima partito comunista si trasfigurava in una falce e martello che, invece di liberare il popolo come promesso dai comunisti, lo imprigionava. Mentre volava verso una rinascita, il popolo, rappresentato dal simbolo cristiano della colomba bianca, veniva preso per il collo da una corda appesa alla falce e tirato verso di essa e, dunque, privato della propria libertà41.

6. Famiglia, donne e propaganda
In ambito democristiano, in contrapposizione con il linguaggio verso la massa quasi uniforme del popolo vi erano i messaggi indirizzati alle donne e alla dimensione famigliare. Centrale tanto nell’universo comunista quanto in quello cattolico, la famiglia (ma soprattutto la sua rappresentazione tradizionale) «venne sovente considerata come il luogo ideale dell’apprendistato civico», essendo «spazio pedagogico prepolitico e quindi più consono degli stessi partiti a formare il “buon cittadino”»42.
Nel campo cattolico, infatti, la dimensione domestica rappresentava un elemento sempre presente nella comunicazione elettorale indirizzata alla società femminile. Questo è evidente nelle locandine nelle quali il ruolo materno veniva illustrato attraverso le immagini di donne che tengono i figli piccoli, protetti dallo scudo della Dc43. Allo stesso tempo, la dimensione famigliare è presente anche in altra pubblicistica al di fuori dell’esplicito riferimento al focolare domestico, come il materiale propagandistico che affronta la tematica del lavoro femminile in campo industriale. In uno dei manifesti elettorali diffusi per le elezioni politiche, la scritta che accompagna l’illustrazione, infatti, invita la donna a votare in quanto «è in giuoco il tuo avvenire e quello della tua famiglia»44. Inoltre, la dimensione materna non contemplava solo le giovani madri, il cui voto avrebbe garantito un futuro ai figli, ma anche le donne anziane. In quest’ultimo caso, la grafica restituiva allo spettatore il contrasto tra l’immagine dell’anziana madre rimasta sola e quella del giovane figlio colpito mortalmente nei combattimenti. A completare il manifesto vi era la scritta, utile a far leva sui sentimenti degli spettatori a favore della politica democristiana: «Non avremmo avuto la guerra se tua madre avesse potuto votare»45.
In modo simile a quest’ultimo manifesto democristiano, anche il Pci fece proprio il tema della perdita di una generazione di giovani italiani a causa della guerra voluta dal fascismo, collegata alla sofferenza di tutte le madri. A tal proposito, la Federazione di Perugia distribuì una serie di volantini nei quali si faceva leva sul connubio tra famiglia e guerra e con la donna rimasta l’ultima custode del focolaio domestico: «Donne! Non dimenticate che il fascismo vi ha strappato dal focolare domestico il marito, i figli, i fratelli e ve li ha buttati nella bufera della guerra»46.
Per i partiti di sinistra, alla dimensione famigliare della donna si univa il tema della rivendicazione dei suoi diritti, che solo in una società progressista e repubblicana potevano essere realizzati. Verso di loro la comunicazione politica toccava i temi della gestione famigliare, identificando nella donna il soggetto interno alla dimensione domestica e che perciò deve evitare il mercato nero, e della parità di salario per le lavoratrici47. Nelle locandine rivolte alle donne e con in primo piano il volto di una signora di mezz’età, il Psiup insisteva sulle articolazioni socioeconomiche del voto. Esprimere la preferenza socialista significava «votare per i diritti della donna e del lavoro», oltre che realizzare un nuovo sistema democratico e repubblicano48.
In altri manifesti, il Pci avanzava la sua funzione di tutore delle future generazioni, rivendicando il suo operato a favore dell’istituzione di asili e scuole per i bambini nonostante le difficoltà del momento49. Proprio sull’immagine dell’infante, ossia la trasfigurazione del futuro della Patria, il partito comunista ha incentrato parte della sua comunicazione elettorale mediante i manifesti illustrati. Inoltre, in aggiunta alla speranza di una nuova ricostruzione morale e fisica dell’Italia, il bambino rappresentava l’ideale dell’innocenza, la cui difesa doveva essere prioritaria per tutti i partiti. Per rimarcare l’associazione tra futuro dell’Italia e innocenza, il Pci promosse la diffusione di un manifesto raffigurante una coppia di bambini sorridenti in cammino in un campo e sovrastati, a modo di protezione e di inclusione, dalle bandiere comunista e italiana50.
In altri manifesti al destino della famiglia si univano le questioni del lavoro contadino e di quello industriale. In un’illustrazione diffusa all’approssimarsi della data delle elezioni, i tre temi trovano la propria sintesi: il campo coltivato fa da sfondo all’immagine in chiaroscuro di una famiglia (genitori e neonato), alla cui destra si scorge la sagoma stilizzata di una fabbrica, il tutto risaltato e unito dalla tinta rossa del manifesto51. A ciò si accompagnava la lotta a tutte quelle forze, a quelle abitudini e dinamiche sempre presenti che impedivano lo sviluppo e la prosperità della società italiana. In particolare, il principale ostacolo da sconfiggere sin da subito, per assicurare alle generazioni future il sano avvenire, era la corruzione. Per fare ciò, i manifesti comunisti raffigurarono l’azione del Pci come una mano vigorosa che, pur ferendosi, riusciva a sradicare la malsana e pungente pianta della corruzione52.

7. Conclusione
Nello studio della comunicazione elettorale, la prima campagna del secondo dopoguerra italiano (la prima svolta in una dimensione di massa) rappresenta un laboratorio per lo sviluppo di strategie e di nuove forme di comunicazione. In questo senso, i partiti e ancor più i propri i nuclei di propaganda si confrontarono con il compito di elaborare dei linguaggi, scritti o grafici, in grado di intercettare i sentimenti, le speranze e le paure, degli italiani, in un momento in cui la stessa idea di cittadinanza si trovava in una fase di ridefinizione.
Nella fase di transitorietà della politica italiana in cui le elezioni politiche e il referendum del 1946 si inserirono, i linguaggi dei partiti di massa, su cui si è concentrato lo studio, hanno assunto toni e specifiche diverse, in base all’orientamento politico, alle condizioni locali e alle proprie tradizioni, sia territoriali che ideologiche. Su quest’ultimo aspetto, infatti, è riscontrabile un primo punto in comune: il Pci, il Psi e la Dc effettuarono un ricongiungimento con i rispettivi patrimoni tradizionali. Questi, sia sottoforma di reti politiche attive prima del ventennio fascista, che di simboli o reinterpretazioni di essi, contribuirono ad arricchire i linguaggi di nuove topoi funzionali alla retorica elettorale.
Diversa, invece, è stata l’attenzione dei grandi partiti alla modulazione del messaggio elettorale verso gli italiani. La pubblicistica democristiana, complice anche la necessità di occupare gli spazi politici presenti sia nello schieramento monarchico che in quello repubblicano, fece propri dei messaggi basati sulla sua centralità negli scacchieri politici e sociali. Alla posizione «apolitica» si associava la necessità di introdurre riforme sociali, per il quale si chiedeva il voto, il tutto all’interno sistema che poneva come base il mantenimento dell’ordine sociale, ribadito dai messaggi di ispirazione (o di citazione) religiosa che accompagnavano le grafiche. Gli stessi simboli cristiani inseriti nelle iconografie divenivano strumenti in grado di porre la religione come leva sui sentimenti della popolazione, convogliando i voti a prescindere dallo schieramento e dal ruolo sociale del destinatario. In questo modo si realizzava la costruzione di un ambiente nel quale, pur senza l’ossessiva ripetizione del simbolo elettorale democristiano, si davano gli strumenti agli elettori per comprendere il messaggio politico e la pericolosità sociale degli avversari, in particolar modo delle sinistre. Nei manifesti in cui l’oggetto del messaggio non erano i pericoli del comunismo o degli estremismi, la comunicazione politica democristiana aveva come destinatari gli appartenenti alle classi lavoratrici, soprattutto operai e contadini (compresa la moltitudine di piccoli proprietari terrieri). Verso di essi si indirizzava una propaganda basata su slogan con all’interno una commistione di tematiche sociali e valori cristiani, mostrando così la Dc come un partito di centro, riformista ma non rivoluzionario sul piano sociale. Prendendo in considerazione il materiale elettorale prodotto ed indirizzato verso le suddette forze produttive, il principio di modulazione del messaggio nella prima campagna elettorale si presenta più come il risultato della necessità di una maggiore presenza nei confronti dei serbatoi di voti comunisti o socialisti, piuttosto che espressione di un preciso progetto di educazione politica.
In modo diverso, il Pci indirizzò il proprio messaggio verso una vasta gamma di soggetti attraverso l’utilizzo di iconografie e forme retoriche mirate. Come emerge in prima analisi dal Piano di propaganda, e successivamente dall’osservazione dei manifesti, la propaganda comunista ha posto come base su cui sviluppare la comunicazione una metodica divisione in classi sociali e professionali dell’elettorato. Questo si spiega con la necessità di effettuare una propaganda capillare in tutta la società, come richiesto dalla dirigenza comunista a tutti i militanti e a tutte le federazioni, settorializzando la comunicazione al fine di intercettare le istanze e le aspirazioni di tutte le masse elettorali53. L’effetto collaterale di un’eccessiva distinzione tra i soggetti però, come notato da Mirco Dondi, è stato quello di indebolire il messaggio politico e rendere incomprensibile agli stessi destinatari il linguaggio utilizzato, presupponendo, inoltre, un’eccessiva politicizzazione delle masse54.

Note

  1. Edoardo Novelli, Le campagne elettorali in Italia. Protagonisti, strumenti, teorie, Roma-Bari, Editori Laterza, 2018, p. 7.
  2. Maurizio Ridolfi, Marina Tesoro, Monarchia e Repubblica: istituzioni, culture e rappresentazioni politiche in Italia (1848-1948), Milano, Bruno Mondadori, 2011, p. 168. Con questa definizione si intende un ampio periodo di ridefinizione delle capacità propagandistiche dei partiti che comprende le tornate elettorali amministrative (primavera ’46) e quelle contestuali politiche e referendarie (2 giugno 1946).
  3. Angelo Ventrone, Forme e strumenti della propaganda di massa nella nascita e nel consolidamento della Repubblica (1946-1948), in Maurizio Ridolfi (a cura di), Propaganda e comunicazione politica, Storia e trasformazioni nell’età contemporanea, Milano, Bruno Mondadori, 2004, pp. 209-232, p. 211; Per il significato di ‹‹propaganda spicciola» sotto il regime fascista si rinvia a Adolfo Mignemi, La costruzione degli strumenti di propaganda, in Adolfo Mignemi (a cura di), Tra fascismo e democrazia. Propaganda politica e mezzi di comunicazione di massa, Torino, Edizioni Abele, 1995, pp. 11-51, p. 18.
  4. Vita politica. Le elezioni a Milano, Settimana INCOM 00009, 23 aprile 1946.
  5. Pietro Cavallo, Viva l’Italia. Storia, cinema e identità nazionale (1932-1962), Napoli, Liguori, 2007, p. 135. Già citato in Maurizio Ridolfi, Italia a colori. Storia delle passioni politiche dalla caduta del fascismo ad oggi, Firenze, Le Monnier, 2015, p. 31.
  6. https://www.alinari.it/img-thumb/640/LLA/LLA-S-01053A-0007.jpg, visto il 14 agosto 2021.
  7. https://www.alinari.it/img-thumb/640/LLA/LLA-S-01050B-0004.jpg, visto il 14 agosto 2021.
  8. Le elezioni per il referendum costituzionale e per la costituente, in Settimana INCOM 00014, 6 giugno 1946.
  9. Archivio centrale dello Stato (Acs), Ministero dell’Interno (Min. Int.), Direzione Generale di Pubblica Sicurezza (DGPS), 1944-1946, b. 193, f. 2, sf. 67 “Roma-Elezioni politiche”, Fonogramma 67126 della Questura di Roma, 18 maggio 1946.
  10. Meridiano d’Europa. Francia: il referendum del 5 maggio. Italia: il referendum istituzionale e le elezioni per l’Assemblea Costituente, in “Notiziario Nuova Luce” 013.
  11. A. Ventrone, La cittadinanza repubblicana. Come cattolici e comunisti hanno costruito la democrazia italiana (1943-1948), Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 52-53.
  12. Carlo Dané (a cura di), Parole e immagini della Democrazia Cristiana in quarant’anni di manifesti della SPES, Roma, Clame, 1985, pp. 16-17.
  13. C. Dané (a cura di), Parole e immagini della Democrazia Cristiana, p. 15.
  14. Fondazione Gramsci Onlus di Roma, Archivio del Partito comunista (Apc), f. 15, Riunione della Commissione per la preparazione delle elezioni per la Costituente, 11 aprile 1946.
  15. Maurizio Ridolfi, Nicola Tranfaglia, 1946. La nascita della Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 151-155.
  16. Maurizio Ridolfi, Italia a colori. Storia delle passioni politiche dalla caduta del fascismo ad oggi, Firenze, Le Monnier, 2015, p. 40.
  17. Roberto Colozza, Repubbliche rosse. I simboli del Pci e Pcf (1944-1953), Bologna, Clueb, 2009, p. 53.
  18. Ivi, p. 109.
  19. Contrassegni a vuoto, in “Il Popolo”, 15 marzo 1946.
  20. Guido Gonnella, Si vota, in “Il Popolo”, 10 marzo 1946.
  21. M. Ridolfi, Italia a colori, pp. 45-46.
  22. M. Ridolfi, N. Tranfaglia, 1946. La nascita della Repubblica, pp. 173-174.
  23. Fondazione Gramsci, Apc, Comitato regionale della Puglia, La monarchia fascista è come il vampiro, 1946.
  24. Acs, Min. Int., DGPS, 1944-1946, b. 13, f. 2/33 Manifesti di carattere politico, sf. Catanzaro, Il governo popolare, sd.
  25. http://www.manifestipolitici.it/SebinaOpacGramsci/.do?idopac=GRA0000399, visto il 6 maggio 2021.
  26. https://www.alinari.it/img-thumb/480/LLA/LLA-F-N1005B-0000.jpg, visto il 14 agosto 2021.
  27. http://www.manifestipolitici.it/SebinaOpacGramsci/.do?idopac=GRA0000398, visto il 6 maggio 2021.
  28. http://www.manifestipolitici.it/SebinaOpacGramsci/.do?idopac=GRA0015270, visto il 4 maggio 2021.
  29. Siete sicuri di essere maturi per la repubblica?, in Luca Romano, Paolo Scabello (a cura di), C’era una volta la Dc. Breve storia del periodo degasperiano attraverso i manifesti elettorali della Democrazia cristiana, Roma, Savelli, 1975, p. 20.
  30. http://www.manifestipolitici.it/SebinaOpacGramsci/.do?idopac=GRA0015084, visto il 4 maggio 2021.
  31. http://www.manifestipolitici.it/SebinaOpacGramsci/.do?idopac=GRA0015278, visto il 4 maggio 2021.
  32. A. Ventrone, Simboli e liturgie politiche nella propaganda elettorale del dopoguerra, p. 173.
  33. Acs, Min. Int., DGPS, 1944-1946, b. 13, f. 2Manifesti di carattere politico”, sf. 29 “Viterbo”, Doveri dei padroni, sd.
  34. Acs, Min. Int., DGPS, 1944-1946, b. 13, f. 2Manifesti di carattere politico”, sf. 29 “Viterbo”, s.n., sd.
  35. Acs, Min. Int., DGPS, 1944-1946, b. 13, f. 2Manifesti di carattere politico”, sf. 29 “Viterbo”, Il quantitativo, sd.
  36. http://www.manifestipolitici.it/SebinaOpacGramsci/.do?idopac=GRA0002877, visto il 6 maggio 2021.
  37. https://www.mondadorieducation.it/media/contenuti/universita/italia_a_colori/database/default.htm#, visto il 14 agosto 2021. Il manifesto è già citato in M. Ridolfi, Italia a colori, p. 39.
  38. Lavoratore!, in “Il Popolo”, 28 maggio 1946.
  39. Non lotta di classe ma collaborazione, in “Il Popolo”, 23 maggio 1946.
  40. Un popolo libero, in “Il Popolo”, 24 maggio 1946.
  41. http://www.manifestipolitici.it/SebinaOpacGramsci/.do?idopac=GRA0014508, visto il 7 giugno 2021.
  42. Maurizio Ridolfi, I vademecum elettorali nell’Italia repubblicana, “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, n. 1, 2008, pp. 147-163, p. 149.
  43. Per l’avvenire dei vostri figli, in “Il Popolo”, 19 maggio 1946.
  44. Donna. Devi votare, in “Il Popolo”, 30 maggio 1946.
  45. http://digital.sturzo.it/manifesto/1041544, visto il 23 maggio 2021.
  46. Fondazione Gramsci, Apc, b. Volantini, Federazione di Perugia, Donne!, 1946, n. 3.
  47. Acs, Min. Int, DGPS, 1944-1946, b. 13, f. 2/33 Mani festi di carattere politico, sf. Viterbo, s.n., sd.
  48. http://www.manifestipolitici.it/SebinaOpacGramsci/.do?idopac=GRA0002891, visto il 6 maggio 2021.
  49. http://www.manifestipolitici.it/SebinaOpacGramsci/.do?idopac=GRA0000400, visto il 6 maggio 2021.
  50. Manifesto Per l’avvenire d’Italia, in “Unità”, 2 giugno 1946.
  51. http://www.manifestipolitici.it/SebinaOpacGramsci/.do?idopac=GRA0002778, visto il 6 maggio 2021.
  52. http://www.manifestipolitici.it/SebinaOpacGramsci/.do?idopac=GRA0008111, visto il 7 giugno 2021.
  53. “Quaderno del propagandista”, n. 1, febbraio 1946, p. 20.
  54. Mirco Dondi, La propaganda politica dal ’46 alla legge truffa, in Adolfo Mignemi (a cura di), Tra fascismo e democrazia. Propaganda politica e mezzi di comunicazione di massa, Torino, Edizioni Abele, 1995, pp. 185-206, p. 187.

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