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Identità, soggettività e rappresentazione: la narrazione visiva di Jean-Michel Basquiat
di , numero 52, dicembre 2021, Saggi e Studi, DOI

Identità, soggettività e rappresentazione: la narrazione visiva di Jean-Michel Basquiat
Come citare questo articolo:
Giovanni Bove, Identità, soggettività e rappresentazione: la narrazione visiva di Jean-Michel Basquiat, «Bibliomanie. Letterature, storiografie, semiotiche», 52, no. 4, dicembre 2021, doi:10.48276/issn.2280-8833.9571


“If you didn’t paint, what do you think you would be doing?”
“Directing movies, I guess.”
“What kind of movies?”
“Ones in which black people are portrayed as being people, you know, of the human race. You know, not aliens, not
all negative, or thieves, drug dealers, the whole bit. Just real, real stories.”

intervista a Jean-Michel Basquiat1


1 INTRODUZIONE
La rappresentazione e la narrazione dell’identità costituiscono un interessante campo di analisi se rapportate alla semiotica. Uno studio semiotico, infatti, può essere condotto a partire dall’esplorazione dei sistemi di segni e dei discorsi che essi producono, fino a contribuire alla comprensione del carattere sociale, culturale e artistico del mondo nel quale l’opera si presenta o meglio – in termini semiotici – è enunciata, narrata, rappresentata per mezzo di un sistema segnico. In relazione al tema di questo numero, l’articolo propone un’analisi dedicata alla produzione artistica di Jean-Michel Basquiat (1960-1988) considerandola in termini semiotici e in particolare come un insieme di testi organizzato attorno a due sistemi di espressione: quello della scrittura e quello dell’immagine2. Nelle opere di Basquiat ognuno di questi sistemi si ritrova al centro di un processo creativo in grado di consegnare al destinatario dei testi visivi, o più precisamente verbo-visivi, ricchi di sfumature espressive e di contenuti che destano particolare interesse se rapportati alla narrazione e rappresentazione dell’identità individuale e collettiva.
In una prospettiva semiotica di analisi testuale – basata su un approccio attento allo studio dei sistemi di segni e di significazione relativi a un testo (oggetto di analisi) – non solo è necessario precisare strumenti di indagine, obiettivi e ipotesi di lavoro, ma è anche fondamentale rapportare le modalità espressive al tempo e allo spazio in cui hanno visto la propria genesi e hanno permesso di trasmettere un artefatto a un (potenziale) destinatario. Nel caso di Basquiat questi aspetti si mostrano molto interessanti, dal momento che si dispone di una quantità notevole di opere prodotte in pochi anni: grazie ad esse è possibile ricostruire non solo l’attività dell’autore nel quadro dell’enunciazione visiva ma anche un percorso interpretativo che si mostra denso di implicazioni sul piano strettamente socio-culturale. Quest’ultimo aspetto rende preziosa un’analisi del testo artistico se rapportata al tema che guida questo numero, ossia la narrazione e la rappresentazione in relazione a sport e identità.
Per condurre un’analisi coerente – che non ha la pretesa di essere esaustiva e rimane aperta a ulteriori integrazioni – è opportuno concentrarsi su un corpus consistente di opere. Per questo motivo, le opere sono state selezionate tenendo in conto l’evoluzione dello stile espressivo dell’autore e le tematiche che sembrano richiamare più direttamente l’attenzione sul tema dell’identità e quindi della sua stessa rappresentazione, dal momento che si è scelto di analizzare testi di carattere visivo.
Nel lavoro di Basquiat il tema dello sport emerge in maniera immediata già dal titolo di alcune opere attraverso le quali l’artista presenta il suo discorso sullo sport; tali opere condensano modalità di enunciazione e implicazioni socio-culturali, risultando infine agli occhi del lettore come un fil rouge ideale per comprendere le intenzioni dell’artista, le sue argomentazioni. Nella sterminata produzione di Basquiat lo sport è indubbiamente uno dei temi più importanti: esso è presentato attraverso l’identità e la presenza di alcuni sportivi, campioni conclamati o comunque radicati nella cultura popolare americana. Al contempo, lo sport è un’attività di valore simbolico e di rilevanza collettiva, sociale, fino a connettere la sfera identitaria individuale con quella collettiva.
Per Basquiat lo sport è anche un mezzo, uno strumento efficace per definire in modo netto la questione identitaria dei neri, riconducendola alla dimensione dell’essere umano. Se da un lato, il tema sportivo viene mostrato a partire dai titoli delle opere e dalle figure tracciate per la rappresentazione su tela, legno, cartoncino, carta comune, dall’altro l’importanza del tema stesso viene sancita dal sistema grafico-visivo che l’artista produce. Le opere prescelte e l’analisi qui condotta, infatti, permettono di ricostruire come la rappresentazione del sé e dell’identità passino attraverso la presenza della corona a tre punte: con essa, l’affermazione della regalità si rivela come un processo di valorizzazione dell’identità degli sportivi neri.
L’articolo si presenta con diverse sezioni; la prima è destinata a inquadrare il profilo artistico di Basquiat in relazione a una serie di fenomeni di carattere creativo e artistico ritenuti in grado di influenzare le sue modalità di rappresentazione dell’identità. Fra tali fenomeni, la nascita del graffiti writing e lo sviluppo di un sistema underground indipendente che ha il fine di dare visibilità a nuove forme di espressione come il graffitismo, il rap, il punk. La seconda focalizza sull’oggetto di analisi, cioè sul corpus di opere opportunamente linkate e classificate secondo due categorie tematiche generali definite come sport e esperienze sociali dei neri americani. La terza sezione, dal titolo (“Language is the killer: considerazioni sul titolo delle opere” e relativo sotto-paragrago 4.1) stimola da un lato la curiosità del lettore per quanto riguarda il sistema espressivo e, dall’altro, presenta l’analisi scientifica, aprendo così a specifici interrogativi e suggestioni di carattere socio-culturale di cui le opere sembrano essere testimoni d’eccezione. La sezione finale è dedicata ai termini chiave che hanno guidato la genesi e la produzione di questo contributo: identità, soggettività, rappresentazione, narrazione. Questi termini e le loro implicazioni di senso vengono ricondotti al livello del contenuto, della lettura e dell’interpretazione, per essere di fatto compresi attraverso riferimenti al processo di senso che essi generano.
L’obiettivo principale di questo lavoro è rendere gradualmente chiaro il funzionamento del sistema narrativo di tipo verbo-visivo allestito dall’autore all’interno dei testi presi in esame; questa operazione si sviluppa attraverso l’analisi di una grammatica del segno visivo, così come sembra emergere nel lavoro dell’artista. Insieme a questo proposito, il contributo punta a descrivere anche le strategie sottese ai testi, ovvero agli artefatti verbo-visivi prodotti da Basquiat: da un lato si presta attenzione al livello enunciativo e discorsivo, dall’altro si ricostruisce e espone la modalità enunciativa per la quale la soggettività è proiettata nel testo artistico attraverso l’uso di scrittura e immagine, intese come il cardine del linguaggio verbo-visivo dell’artista.
Per raggiungere gli obiettivi appena indicati si adotta un approccio teorico e metodologico in rapporto con la semiotica generativa-narrativa3: si procede per livelli di analisi al fine di rendere conto dell’articolazione del senso, comprenderne la genesi originata dal livello dell’espressione. La corrente di analisi del linguaggio visivo stimolata da Algridas Julien Greimas4 è stata sviluppata nel tempo anche attraverso contributi teorici specificamente dedicati allo studio del rapporto fra scritture e immagini5: per questo insieme di lavori, si è consolidato da diversi decenni il campo di ricerca e applicazione della semiotica visiva , caratterizzato da un approccio metodologico e da fasi e attrezzi di lavoro specifici. In primo luogo, si procede operando dal livello dell’espressione e indicando le componenti con carattere visivo ritenute pertinenti ai fini dell’analisi; si tratterebbe di segmentare un testo al fine di individuarne le unità plastico-figurative che ne derivano. Come si può leggere in seguito, operare nei termini di una segmentazione, infatti, permette di osservare specificamente le unità discrete che costituiscono un significante (planare) al fine di comprenderne la combinazione e definire delle figure plastiche. Successivamente, si procede per arrivare al piano del contenuto e valutare la tenuta di relazioni significanti all’interno del sistema segnico. Va da sé che ogni sistema segnico di tipo artistico è da considerarsi esso stesso come un artefatto unico ed esclusivo, manifestato attraverso l’opera d’arte di cui si fa espressione. Tale aspetto, di fatto, aggiunge un contributo specifico allo studio della produzione artistica di Basquiat inquadrando i risultati di questo lavoro nell’ambito strettamente semio-linguistico, non necessariamente condizionato da modelli di analisi di matrice storica e critico-artistica.

2 DA SAMO A BASQUIAT
Jean-Michel Basquiat è nato a Brooklyn, New York, nel 1960 da padre haitiano e madre portoricana. Avendo ricevuto una buona educazione all’immagine, soprattutto per merito della madre, Basquiat mostra la sua inclinazione al disegno fin da piccolo. Tra gli altri suoi interessi vi è anche la passione per i testi scritti in lingue diverse dalla sua, come quella spagnola e francese. La sua attitudine alla rappresentazione risulta evidente già negli anni della scuola, dove disegna continuamente traendo ispirazione dalle immagini più familiari: quelle dei cartoni animati, dei fumetti, della televisione6.
Durante l’infanzia Basquiat frequenta diverse scuole, tra pubbliche e private; nel periodo adolescenziale si ferma alla City-as-School, una scuola sperimentale concepita per ragazzi di talento che di fatto incontrano difficoltà con il metodo educativo tradizionale. In questo periodo Basquiat continua a frequentare musei, come del resto aveva fatto per tutta l’infanzia grazie agli stimoli della madre. Alla City-as-School Basquiat conosce Al Diaz, un graffitista con cui diventa grande amico e compagno d’arte. È in questo periodo che concepisce il personaggio di SAMO. Quest’ultimo viene introdotto ufficialmente da Basquiat con un articolo datato 1977 e contenuto nel “Basement Blue Press”7, il giornalino della scuola. SAMO è un personaggio che incarna una sorta di religione alternativa allo stile di vita borghese e si guadagna da vivere vendendo il suo stesso credo spirituale. L’idea piace molto all’amico Al Diaz e i due iniziano una collaborazione che li porta alla scrittura sui muri, ossia al graffiti writing.
L’attività di Basquiat come graffitista si distingue immediatamente grazie alla particolare impostazione che lui stesso decide di darle: la scrittura sui muri diventa un gesto costante e ripetitivo per presentare aforismi pseudo-religiosi, il cui contenuto sembra teso al raggiungimento di un obiettivo pianificato in un certo arco di tempo. Nel 1978 le scritte firmate da SAMO sono ormai diffusissime sulla linea metropolitana IND (IND per Independent, riferito al nome della rete di trasporto Independent Subway System), cioè quella che portava da Brooklyn al centro di Manhattan.
Nel giugno dello stesso anno Basquiat abbandona il nucleo familiare per intraprendere l’avventura della vita di strada e fermarsi infine nella zona più frizzante del centro, il Lower Manhattan, che di fatto detta la nuova estetica artistica. In quegli anni il Lower Manhattan, è ribattezzato con il nome East Village e si presenta come la culla degli spazi alternativi per la nuova tendenza artistica. I protagonisti del momento sono soprattutto giovani appartenenti al ceto medio e intrisi della cultura di strada: l’hip-hop, i graffiti, la break music, il rap e il punk diventano un comune denominatore per aggregarsi e un tratto condiviso per più motivi. Da un lato, l’istanza di rinnovamento estetico, dall’altro, l’idea di realizzare un percorso artistico che offrisse diverse opzioni di scelta e la possibilità di un riconoscimento non solo artistico ma anche sociale e culturale. Gli spazi che offrono maggiori occasioni di visibilità alla nuova onda creativa sono principalmente spazi alternativi, fuori dai circuiti ufficiali e affermati: già nel 1975, per esempio, all’Artists’ Space si tiene la mostra United Graffiti Artists. Un altro spazio fondamentale è l’ABC No Rio, nato espressamente per rigettare l’ufficialità degli spazi artistici che non prestano attenzione ai nuovi artisti; l’ABC, occupato illegalmente, raggiunge l’apice della sua importanza con la mostra Real Estate Show. Per gli aspetti più strettamente legati alla musica, come l’emergere di rap, hip-hop, breakdance e punk, readings, i club più importanti diventano il Mudd Club, il Club 57 e il CBGB che presto affascinano musicisti ormai affermati nutrendone la simpatia.
Basquiat fiuta subito la possibilità di emergere nel contesto creativo che sta sorgendo a Manhattan e così la (sua) scritta sul muro diventa il primo segnale di presenza nel tessuto urbano della città. Infatti, in poche settimane il centro di Manhattan viene invaso dalle scritte di SAMO che finiscono per suscitare l’interesse della stampa. Nel 1978 il “SoHo News” pubblica diverse foto dei suoi graffiti, cercando di identificarne in qualche modo l’autore. Basquiat, ancora con Al Diaz, conquista spazio anche sul settimanale “Village Voice”, grazie all’attività del giornalista Phillip Faflick8: i due decidono infatti di riferire la storia degli aforismi di SAMO alla rivista per la somma di 100 dollari. Così, in un articolo del 1° dicembre del 1978, il “Village Voice” cita i loro nomi e li presenta come i responsabili delle numerose scritte.
Poco dopo l’uscita dell’articolo Basquiat e Al Diaz litigano e finiscono per separarsi: con la loro separazione muore lo stesso personaggio di SAMO. Parallelamente spuntano le scritte, per opera di Basquiat, che riportano il messaggio ‘Samo is dead’ al fine di riferire quanto accaduto. Il litigio fra Al Diaz e Basquiat è causato dal loro diverso modo di intendere la presenza di SAMO nel nascente circuito artistico. Al Diaz è deciso a restare anonimo mentre Basquiat è determinato a raccogliere i frutti del riconoscimento che le loro scritte stanno ottenendo. Una volta data per definitiva la loro divergenza (1978) Basquiat inizia a sfruttare a fini promozionali e finanziari l’alter ego SAMO. Egli si tuffa in un’attività artistica personalissima: dipinge su magliette, giacche, abiti da donna e cartoline. Allo stesso tempo prova anche a vendere per pochi dollari le sue opere in giro per Manhattan e scopre che presentarsi come l’autore di SAMO gli permette di frequentare persone che si avrebbero potuto rivelarsi molto influenti sulla sua personalità artistica.
In pochi mesi Basquiat si immerge completamente nel circuito sociale e culturale che animava l’East Village. La prima possibilità di esporre le opere di SAMO si presenta nel 1980, nella mostra Times Square Show tenuta in un edificio abbandonato e occupato nel centro della città. Con questa esposizione gli artisti che operano nei clubs dell’East Village puntano a legittimare la propria attività e trasmettere l’irruenza della loro presenza estetica, espressiva: di fatto, ci riescono. Nello specifico, Basquiat partecipa con una grande installazione, firmata naturalmente con il nome di SAMO, e finisce per suscitare l’attenzione del consulente d’arte e manager Jeffrey Deitch. Una delle prove e conseguenze è data dal fatto che, in una recensione comparsa su “Art in America”, Deitch definisce gli slogan di SAMO come una eccellente combinazione tra il tratto di De Kooning e le scritte a vernice spray della metropolitana9.
Dopo il Times Square Show Basquiat viene incluso anche in una mostra curata da Diego Cortez alla P.S. 1 e chiamata significativamente New York/New Wave. Cortez organizza l’esposizione nel febbraio del 1981 con l’intento di far uscire definitivamente allo scoperto le nuove tendenze dell’arte newyorkese. Alla P.S. 1 SAMO continua a distinguersi: i suoi aforismi e il suo tratto artistico riferiscono una certa immediatezza, un emergente e urgente forma di espressione che si distacca e si distingue ormai palesemente nel panorama del graffiti writing. Le sue opere sono anche firmate da una piccola corona, che nel frattempo è diventato il suo marchio fin dalle prime comparse nelle esposizioni sopra citate. Con l’esperienza alla P.S. 1 prende forma l’amicizia fra Basquiat e Diego Cortez e come immediata conseguenza l’artista finisce per affascinare importanti galleristi come Emilio Mazzoli, Bruno Bischofberger e Annina Nosei, uscendo dalla mostra con un doppio risultato: danaro e riconoscimento artistico.
Ancora nel 1981 Basquiat fa altre comparse nel circuito artistico. Da marzo ad aprile le opere di SAMO restano esposte in due mostre al Mudd Club, la prima organizzata da Annina Nosei e la seconda da Fred Brathwaite10. Anche se entrambe le mostre sono collettive, con esse Basquiat consolida la propria personalità artistica: nel maggio dello stesso anno, infatti, si tiene la sua prima mostra personale, ancora con il nome di SAMO. La galleria che lo ospita non si trova in America ma, paradossalmente, a Modena ed è quella di Emilio Mazzoli11.
Nello stesso anno, in settembre, Basquiat espone anche alla galleria di Annina Nosei in una mostra personale: in questo modo entra nel circuito delle gallerie di SoHo (South Houston) e quindi nell’universo dell’arte ufficiale, abbandonando definitivamente quello underground dell’East Village. Cresciuto attraverso l’energia e le pulsioni del Graffitismo, Basquiat è ormai destinato a diventare uno dei protagonisti del folgorante Neo-Espressionismo, etichetta con la quale viene indicato il movimento che racchiude le espressioni artistiche che prendono forma tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. È importante precisare che l’attività artistica di Basquiat si differenzia moltissimo da quella di altri graffitisti: oltre alle figure, nelle sue opere continua ad esserci molto spazio dedicato alla scrittura, in tutte le forme che riesce a donarle. La presenza della parola scritta e di aforismi confluisce nelle più suggestive affermazioni, cancellature e “combinazioni semantiche”, quasi come per strizzare l’occhio al Postmodernismo.
Nei primi anni Ottanta Basquiat espone diverse volte in Europa e in America. Egli continua a suscitare l’interesse di molti critici e dei mass media e finisce per essere travolto dalla spirale di mercato, fama e successo che avvolge il Neo-Espressionismo in meno di soli cinque anni. Determinante, per esempio, è l’attenzione che gli prestano galleristi come Mary Boone e Bruno Bischofberger, proponendogli una collaborazione con Andy Warhol e Francesco Clemente. Nel 1984, infatti, Basquiat espone con Clemente e Warhol nella galleria di Bischofberger, a Zurigo. La mostra, intitolata “Collaborations: Basquiat, Clemente, Warhol”, stimola profondamente il rapporto d’amicizia fra Warhol e Basquiat e agli occhi di quest’ultimo rappresenta il coronamento di un sogno adolescenziale, ossia entrare in rapporto artistico con Warhol.
La consacrazione definitiva e mediaticamente esplosiva nel mondo dell’arte arriva nel 1985. A febbraio Basquiat compare sulla copertina del “New York Times Magazine”12 per un lungo e dettagliato articolo di Cathleen McGuigan. La recensione, appropriatamente intitolata New Art, New Money: the Marketing of An American Artist, genera molte critiche sul circuito artistico degli anni Ottanta, costantemente interessato all’immagine e alimentato dalle gonfiature dei media. Nel settembre dello stesso anno, invece, l’artista collabora in maniera esclusiva e personale con Andy Warhol: alla galleria di Tony Shafrazy i due artisti espongono sedici opere in una mostra semplicemente intitolata Collaborations13.
Nei mesi successivi Basquiat continua a tenere mostre personali tra l’Europa e l’America. La sua attività artistica, intanto, continua a incrociarsi anche con altri interessi, come ad esempio la musica14. Purtroppo, al contempo, egli continua ad abusare di sostanze tossiche e nell’agosto del 1988 muore per un avvelenamento causato da un miscuglio di stupefacenti.
Jean-Michel Basquiat è passato al mondo dell’arte come un personaggio simbolo degli anni Ottanta: ha ottenuto prestissimo il successo che aveva tanto sognato e che però non riuscì a gestire. Contemporaneamente, ha vissuto da protagonista in un movimento artistico che lo congelò subito nello stereotipo dell’artista eccessivo e maledetto, che finiva per appagare attraverso le droghe la propria tensione al riscatto.

3 IL CORPUS DI RIFERIMENTO
La presentazione del contesto sociale e creativo in cui emerge l’opera di Jean-Michel Basquiat permette di cogliere meglio la varietà della sua produzione inquadrandola in un arco temporale che va dal 1978 – anno della prima notizia sul “Village Voice” relativa a SAMO – al 1988, in cui muore. Eventi come la mostra Times Square Show del 1980, New York/New Wave del 1981 alla Public School n.1 (P.S. 1) e la mostra Collaborations del 1985, in cui si trova associato ad artisti già molto celebri come Francesco Clemente e Andy Warhol, permettono di cogliere la velocità dell’affermazione del suo profilo artistico in soli 4 anni. In questa prospettiva, la comprensione del Graffitismo parallelamente all’emergere del Neo-Espressionismo è spesso definita come una combinazione di fattori che hanno alimentato un fenomeno culturale di carattere sostanzialmente economico: investire in arte equivaleva a garantirsi una rendita basata su oggetti unici, inimitabili, esclusivi.
Per lo scopo di questo lavoro, naturalmente, è inopportuno approfondire le dinamiche e gli aspetti afferenti all’economia della cultura così come inquadrati all’inizio degli anni Ottanta. Risulta piuttosto interessante ricondurre l’ascesa dell’artista al suo specifico processo creativo, come è giunto ai nostri giorni. Così, per comprendere il successo e l’affermazione dell’artista, i riferimenti alle sue opere prendono le distanze dallo studio della critica e dell’economia dell’arte per focalizzarsi invece sullo studio dello sviluppo di un vero e proprio linguaggio artistico. Grazie a tale linguaggio, il risultato finale dell’atto enunciativo è un testo dotato di senso, capace di efficacia visiva, e ricco di peculiarità sul fronte dell’enunciazione, della narrazione e della rappresentazione. Il corpus di lavoro consiste in due sezioni (o gruppi) distinte per categorie tematiche. La prima è quella dello sport, esplicitamente ancorata al tema conduttore di questo numero della rivista. La seconda è relativa a fenomeni sociali, culturali e storici che hanno investito la cultura nera, intesa come l’insieme – il quadro – delle esperienze di relazione sociale che i neri americani hanno vissuto in un arco temporale storicamente definibile, noto, di dominio collettivo. Le due categorie permettono di presentare una riflessione sui processi di auto-rappresentazione messi in atto dall’artista, facilitando il riconoscimento del nesso fra identità individuale e identità collettiva.
L’analisi semiotica di un corpus piuttosto che affondare le radici in interviste e dichiarazioni di intenti rilasciati dall’artista fa leva innanzitutto sulle peculiarità del testo singolo (che definiamo come chiuso, delimitato) e poi sul corpus, osservato per la sua totalità. L’obiettivo rimane quello di restituire una interpretazione della produzione artistica, del fare-arte – come anche del fare testo – fondata su un sistema di segni, enunciato in modo singolare e in grado di generare una narrazione. Nel prossimo paragrafo si riporta l’elenco delle opere prescelte, opportunamente divise in due gruppi. Tutte le opere sono state estratte da pagine web già indicizzate15.

3.1 SULLO SPORT
Il primo gruppo di opere è stato ottenuto ricorrendo al termine sport. Esso include una serie di opere dal titolo generico Untitled assieme ad altre opere che riportano nel titolo il nome di personaggi neri del mondo dello sport. Per gli Untitled sono stati selezionati:

1. Untitled (Famous Negro Athletes) (1980-81)

2. Untitled (1981)

3. Famous Negro (1981)

4. Untitled (1982)

5. Cassius Clay (1982)
br> 6. Sugar Ray Robinson (1982)

7. St. Joe Louis Surrounded by Snakes (1982)

8. Dark Race Horse (1983) (procedere nella galleria immagini fino alla n.12)

3.2 LE ESPERIENZE DEI NERI
Per le opere del secondo gruppo è possibile operare una distinzione fra quelle che si riferiscono all’identità dell’individuo-artista Basquiat e quelle che invece riportano all’identità intesa in senso collettivo. Questa distinzione emerge di volta in volta nei paragrafi successivi. Qui di seguito le opere sono elencate in ordine cronologico:

1.Jimmy best… (1981)

2. Per Capita (1981)

3. Portrait of the Artist As a Young Derelict (1982)

4. Natives Carrying Some Guns, Bibles, Amorites on Safari (1982)

5. The Man from Naples (1982)

6. Dos Cabezas (1982)

7. The Death of Micheal Stewart (1983)

8. Discography One (1983)

9. Discography Two (1983)

10. CPRKR (1983)

11. Self-portrait (1960) (1983)

12. Max Roach (1984)

4 LANGUAGE IS THE KILLER: CONSIDERAZIONI SUL TITOLO DELLE OPERE
Il corpus appena presentato si differenzia per una serie di titoli che stimolano facilmente la curiosità del ricettore-lettore. Il terreno di esplorazione rimane naturalmente delimitato alla superficie dell’opera rappresentata. La lettura dei titoli suggerisce fin da subito l’abilità di Basquiat nell’uso del linguaggio: ogni opera può introdurre all’articolazione di un tesoro enciclopedico di termini, presentandosi come l’anteprima del “linguaggio da tela” dell’artista. Questo aspetto è più immediatamente comprensibile se si fa riferimento all’educazione che Basquiat ha ricevuto durante l’infanzia. Fortemente influenzato dalla lettura di testi in diverse lingue, l’artista ha introdotto spontaneamente termini e nomi di personaggi provenienti da altri mondi narrativi. È anche in questa prospettiva che si può riaffermare la sua dedizione alla cura del rapporto fra scrittura e immagine, come per voler sintetizzare gli aspetti e le proprietà di entrambe.
Al tratto asciutto, rigido, che delinea le sue figure – si veda per esempio la rappresentazione dei corpi in Sugar Ray Robinson e Cassius Clay – si associa una forma di scrittura ricca di termini “sintetici”, che sembrano scelti per suggerire qualcosa in modo molto diretto. Per quest’ultimo aspetto è interessante, per esempio, focalizzarsi sulla scrittura in opere come Natives Carrying some Guns, Bibles, Amorites on Safari e CPRKR.
In realtà, l’abbondanza di citazioni a carattere enciclopedico o addirittura di indice16 deriva da un gesto spontaneo, o almeno così lo definisce Basquiat in un’intervista condotta da Henry Geldzahler17. In quell’incontro l’artista afferma che la presenza dei nomi nelle sue opere è dovuta semplicemente al fatto che essi gli piacevano. Il rimando all’intervista non vuole spostare l’attenzione sulle dichiarazioni dell’artista: piuttosto serve per ricordare che l’analisi procede occupandosi dei titoli come “agenti della narrazione” al livello superficiale. È bene chiarire, infatti, in che modo i titoli – che siano originati da associazioni fra sintagmi o che siano espressi da un singolo sintagma – hanno ugualmente proprietà narrative e concorrono allo stesso modo alla produzione di senso. Così, per esempio, titoli come Untitled, Cassius Clay, Dos Cabezas, Natives Carrying some Guns, Bibles, Amorites on Safari, CPRKR, Portrait of the Artist As a Young Derelict si attivano per quanto si vede nelle opere, cioè in relazione agli elementi presenti sulla superficie della rappresentazione.
È interessante notare che l’uso di titoli riferiti all’identità di alcuni personaggi neri aggancia immediatamente l’opera alla rappresentazione di un soggetto riconoscibile per la cultura nera afro-americana: il pugile Sugar Ray Robinson o il batterista jazz be-bop Max Roach sono identificati da una rappresentazione specifica così come pure dal loro stesso nome anagrafico. D’altra parte, contemporaneamente, altri titoli presentano un campo semantico aperto, indefinito, che molti artisti scelgono di trasmettere con il termine-ombrello untitled, non intitolando l’opera.
In realtà, osservando le opere del corpus, l’analisi semiotica permette di lavorare all’interno di un campo semantico alimentato da sintagmi18 precisi e diretti, chiari e a tratti esplosivi proprio per il loro potenziale narrativo. Di conseguenza, le riflessioni sul campo semantico consentono anche di ipotizzare l’esistenza di uno o più livelli tematici su cui scegliere di collocare il contenuto semantico di un titolo; in questa prospettiva, infatti, i titoli potrebbero presentarsi come delle lessicalizzazioni19 potenzialmente in grado di coinvolgere la componente figurativa delle opere. In conclusione, dunque, la riflessione sul contenuto semantico dei titoli e l’interesse per gli elementi rappresentati finiscono per favorire l’adozione di uno strumento semiotico che faciliti la lettura dell’oggetto d’analisi: a questo proposito si può utilizzare il concetto di topic20.

4.1 TOPIC, ISOTOPIE E ISOGRAFIE: COME FUNZIONANO
Il concetto di topic affonda le sue radici nella semiotica interpretativa; nel Lector in fabula, Umberto Eco lo definisce come uno «schema abduttivo proposto dal lettore» utile per «disciplinare la semiosi» e «orientare la direzione delle attualizzazioni.»21 In tal senso, individuare un topic permette di avanzare delle ipotesi sul comportamento del testo. Tale concetto, pur essendo stato introdotto soprattutto per l’analisi di testi verbali, si rivela in ogni caso molto operativo per ipotizzare processi di interpretazione che un lettore può avanzare cercando di seguire il “discorso visivo” presentato da un opera d’arte. Sulla scia di un topic, infatti, il lettore può compiere i suoi primi passi all’interno di un testo, stabilendo un livello (o più livelli) di coerenza interpretativa: questo livello in semiotica si definisce isotopia22.
Nel lavoro di analisi il meccanismo del topic e delle isotopie è esaminato come innescato dai titoli delle opere. Questo vale soprattutto per alcune opere che recano con sé un titolo in relazione a una figura – o elemento rappresentato: è il caso per esempio di Sugar Ray Robinson. Titolo e immagine nell’opera sono in rapporto di 1:1. Quale altra interpretazione potrebbe avanzare il lettore? Qualcosa di analogo emerge in Max Roach (1984), un’opera inclusa nel secondo gruppo e in cui il titolo e la rappresentazione dello strumento musicale sono in rapporto anche essi di 1:1. Tuttavia, va rilevato che in Max Roach gli elementi sono più articolati sia a livello cromatico che per la loro disposizione sulla superficie23. In altri casi, come per esempio nell’Untitled del 1982 (contiene la figura di un busto con le braccia alzate) il titolo sembra non facilitare il lavoro sul topic e le conseguenti isotopie.
Per la teoria semiotica greimasiana, il concetto di isotopia deve essere inquadrato all’interno della componente semantica delle strutture della significazione24: in altri termini, si potrebbe sostenere che il raggio di azione dell’isotopia investe il discorso inteso nella sua totalità e realizzazione. L’isotopia, così intesa, è una caratteristica del testo, una sua proprietà, e si rende responsabile delle potenziali griglie di lettura attraverso le quali il lettore potrebbe esplicitare le “informazioni” trattenute in un testo dato. In questa prospettiva, l’isotopia – se intesa come griglia di lettura – può supportare il lettore nel tentativo di risolvere l’ambiguità di un testo. La prossima sezione, dedicata all’analisi, affronta questi aspetti evidenziando il contributo di titoli e isotopie nel quadro di un’indagine del livello del contenuto, fino a ricondurre tale contributo al funzionamento del livello dell’espressione. Per il livello dell’espressione, infatti, risulta possibile concentrarsi su un sistema di coerenza interna al testo che si definisce “isografia”25; in Greimas-Courtes26 (2007) si ritrova un approccio all’isotopia per il quale «nulla si oppone alla trasposizione del concetto di isotopia, elaborato e mantenuto fino ad ora al livello del contenuto, al piano dell’espressione» che pertiene appunto a un’articolazione coerente degli elementi riconducibili al dominio del livello plastico-figurativo, ovvero del piano dell’espressione. In tal senso, i movimenti interpretativi del lettore-ricettore inizieranno dal topic e dalle isotopie per poi poggiare più solidamente sui livelli di coerenza interpretativa offerti dalle isografie.

5 ESPRESSIONE E CONTENUTO: IL TRATTO GRAFICO PER L’IDENTITÀ
L’analisi del livello plastico-figurativo prende l’avvio studiando di volta in volta i segni presenti negli artefatti. Per questo approccio, infatti, si tenta la definizione di una “grammatica” del segno visivo, confrontando i testi nel loro insieme e focalizzando sui processi di generazione del senso più emblematici proprio per via di tali segni. L’ipotesi di una grammatica per Basquiat ha bisogno di essere infatti supportata da una preventiva osservazione delle opere, affinché si possa provare a muovere i primi passi interpretativi a partire proprio dal livello dell’espressione. Nell’avanzare con questa operazione, infatti, si vuole anche dimostrare che il discorso dell’artista va inteso anche come un atto di creatività linguistica: tuttavia, per dirla con le parole di Paolo Fabbri (2020), rimane fermo il fatto che «bisogna che emergano davvero nuove grammatiche e l’esito va verificato caso per caso»27.
Dallo studio del livello dell’espressione si tenta di definire gli elementi plastici della rappresentazione, il loro eventuale “rapporto di fiducia” con il titolo dell’opera, il tema, le isotopie e le isografie. Considerando le otto opere del primo gruppo gruppo, basate sul tema28 dello sport, si può riconoscere la frequenza di tratti grafici essenziali, affini al tratto della scrittura stessa: in pochi casi le figure sono definite sulla superficie grazie a un cromatismo in grado di restituirne immediatamente i confini. È il caso per esempio dell’opera Famous Negro, del 1981: il tratto cromatico nero indica fin da subito il bordo della testa del soggetto, il Negro. Il titolo, al contempo, non restituisce un soggetto dalla pelle nera quanto piuttosto il viso di un uomo bianco, rosaceo e con gradazioni di colore che poggiano sul rosso e l’arancione. Il colore nero non è garantito sul piano dell’espressione, in termini cromatici, pur essendo suggerito dal titolo dell’opera; in ogni caso il titolo scelto dall’autore funziona per sancire la fama del soggetto grazie all’uso del sintagma-aggettivo famous.
Una relazione differente fra espressione (cromatica) e titolo si rileva visionando l’Untitled del 1982: la figura del corpo umano, mezzo busto e braccia in alto, emerge dal contrasto cromatico con un fondo bianco. Non ci sono tratti che fanno da contorno per l’intera figura; la rappresentazione dell’umano avviene per mezzo di una opposizione dominante fra la categoria cromatica bianca e quella nera. Nel complesso, i tratti che fanno da contorno alla figura stessa sono rari: si possono sicuramente indicare quelli più evidenti, relativi a parte delle braccia – i muscoli – e il viso. Le braccia terminano con elementi di rotondità: sono i guantoni da boxe, anche essi neri. L’artista sta evidentemente rappresentando un pugile: i muscoli del petto sono “riconoscibili” grazie a un reticolo grafico, lo stesso che si ritrova sul bordo inferiore del busto per rappresentare le cuciture dell’elastico dei pantaloncini da boxe. Le linee curvilinee per i muscoli, così come quelle rettilinee per il disegno dei pettorali, quelle dell’elastico dei pantaloncini e per finire quelle per proteggere la dentatura (riconoscibili sotto gli occhi) possono essere definite isografie a tutti gli effetti: il tratto grafico-visivo poggia su una coerenza interna al testo e permette di ancorare le figure dell’espressione al piano del contenuto, favorendo l’inizio del processo di interpretazione del testo visivo. Ancora per quest’opera, risulta interessante indicare anche la presenza di un tratto grafico circolare, all’altezza del capo: esso può essere definito come un’aureola, elemento per la “santificazione visiva” del soggetto29. Lo stesso elemento appare anche in altre opere del corpus: St. Joe Lewis surrounded by snakes (1982) e Per Capita (1981, inclusa nel secondo gruppo).
Lo studio del tratto grafico è stimolante anche per l’opera Dark Race Horse (1983), che include il nome Jesse Owens, campione di atletica alle Olimpiadi di Berlino del 1936 (medaglia d’oro per il salto in lungo). L’opera è un artefatto per l’anatomia: essa offre una vista laterale della gamba del campione. Come una scheda anatomica, Dark Race Horse indica i muscoli della parte inferiore dell’arto, comunemente definita polpaccio. Non ci sono scritte per indicare la definizione dei muscoli: esistono solo frecce bianche, mentre il bordo della figura è definito con l’uso del colore rosso. Tutto è espresso su uno sfondo nero, un supporto materico estremamente pulito e nitido, come dovrebbe essere per una scheda scientifica. La riflessione sul cromatismo che supporta i bordi della figura, assieme alla presenza delle frecce, detta il topic per l’opera: come nell’Untitled (pugile) del 1982 con i pugni alzati, l’artista sta parlando ancora una volta del corpo, più precisamente di una parte del corpo.
Continuando con l’analisi del tratto grafico-visivo, è possibile aggiungere ulteriori annotazioni sulla resa dei confini delle figure, in opere come Sugar Ray Robinson (1982), Cassius Clay (1982), St. Joe Lewis surrounded by snakes (1982). Nelle prime due le figure sono delineate grazie a una semplice opposizione cromatica fra bianco e nero o fra bianco e rosso: il titolo delle opere permette di attivare il topic dello sport e riconoscere i pugili ormai celebri nel mondo dello sport e dei neri americani.
Nel quadro di uno studio della rappresentazione dell’identità, è importante rilevare che i due atleti hanno attraversato il mutamento del proprio nome anagrafico: da un lato, Cassius Clay è sicuramente il caso più celebre poiché si è convertito alla religione islamica con il nome di Muhammad Alì e contemporaneamente è passato alla militanza per i diritti civili dei neri. La storia personale di Cassius Clay è stata vissuta con molta intensità dalle comunità nere americane anche a seguito del suo rifiuto di arruolarsi per la guerra in Vietnam. Dall’altro lato, per Sugar Ray Robinson, l’artista non presenta il nome anagrafico ovvero Walker Smith Jr.
In relazione al mutamento del nome anagrafico, Basquiat presenta un sistema linguistico che provoca delle domande dal lato dell’interpretazione. Che senso ha presentare i titoli delle opere per diversi gradi di aderenza al nome anagrafico? Inoltre, ancora per il piano dell’espressione, è possibile chiedersi perché Basquiat decide di produrre due opere, nello stesso anno e sullo stesso tema, scegliendo uno stesso sistema espressivo basato sul cromatismo (che mette in opposizione il bordo della figura con lo sfondo omogeneo del nero o del rosso)?

5.1 CORONA, IDENTITÀ, REGALITÀ
Per rispondere agli interrogativi appena presentati, l’elemento grafico della corona che compare in Sugar Ray Robinson può tornare utile sviluppando un’analisi del corpus organizzata attraverso la comparazione con altre opere. In primo luogo, è interessante analizzare opere come Untitled (Famous Negro Athletes)30 elaborato nel 1980-1981 e St. Joe Louis surrounded by snake (1982), che presenta il tema dello sport del pugilato.
Nell’Untitled il segno visivo della corona è collocato sull’elemento centrale, un quadrato. Il quadrato è l’area cosiddetta base del campo da baseball: alla sinistra della base vi è la palla, in mezzo il campo, a destra la figura del viso. Questo Untitled può essere visionato nei termini di una “sintassi visiva”: l’ordine degli elementi detta un percorso di lettura. Partendo dal tema dello sport, il gioco è quello del baseball e sulla base vi è una corona, ovvero il tratto della regalità è assegnato a chi si trova e gioca nella base: l’atleta nero.
Tuttavia, anche quest’opera lascia aperto un interrogativo e una possibile attualizzazione per il discorso (visivo) offerto dalla sintassi visiva: perché la corona non è posizionata sul capo della figura? Perché questo atleta nero non ha un nome? Al livello dell’espressione non emerge alcuna forma di riconoscimento della regalità; nessun elemento è posto sul capo, sulla figura. Leggendo la frase scritta sotto le figure, il termine “famous” appare come non correlato a alcun elemento rappresentato. Qualcosa di totalmente diverso accade in St. Joe Louis surrounded by snake: non compare alcuna corona ma un’aureola da “santificazione visiva”. Infatti, già il titolo alimenta diversi livelli di coerenza interpretativa: lo sportivo nero è in primo piano e appare circondato da figure di bianchi (serpenti) che stanno sullo sfondo; potrebbero essere i bianchi (i managers) che stanno sfruttando economicamente la sua popolarità? Basquiat santifica visivamente il pugile nell’opera, scrivendo il termine “Saint” mentre l’opera non riporta il nome anagrafico (ovvero Joseph Louis Barrow) del protagonista.
Esaminare la produzione di Basquiat in senso cronologico aiuta a cogliere l’articolazione e l’evoluzione del suo linguaggio visivo e a riconoscere l’importanza di questo elemento figurativo in seno al suo fare-arte, inteso come modo di allestire visivamente un discorso narrativo. Per mezzo di questa analisi, l’indagine sull’identità e la sua rappresentazione focalizza proprio sulla corona come elemento di valore per la generazione del senso; solo a partire dalla visione-lettura comparata di alcune opere è infatti possibile spiegare per esempio perché l’elemento della corona non si trova allo stesso modo in opere analoghe come Sugar Ray Robinson e Cassius Clay (entrambe del 1982) mentre compare nell’Untitled (Famous Negro Athletes) del 1981 o nell’altro Untitled (1981) che rappresenta chiaramente un giocatore con una mazza da baseball. Sembra possibile ipotizzare che la realizzazione delle opere con la corona e il tema sportivo sia stata in un certo senso meditata per un paio di anni (opere fra il 1980 e il 1982) per essere poi “consegnata” al pubblico nel 1982 con Sugar Ray Robinson. Se si accetta una ipotesi del genere resta ancora legittimo chiedersi perché, osservando Sugar Ray Robinson e Cassius Clay, Basquiat non scrive il nome di Muhammad Alì (per riferirsi a Clay), come invece ha scelto di fare per Sugar Ray Robinson (nato Walker Smith Jr.)? Perché non rende “giustizia visiva” alla storia personale dell’atleta-cittadino nero americano?
Dalle osservazioni e dagli interrogativi avanzati la relazione fra titolo, topic, isotopie e isografie si mostra densa di implicazioni rilevanti per capire cosa è in gioco nella modalità di rappresentazione dell’identità operata da Basquiat. In primo luogo, è possibile indicare la messa in valore dell’aspetto identitario per mezzo dello sport, attività popolare per la massa: nelle opere prescelte l’importanza dello sport passa attraverso l’importanza dell’identità del soggetto rappresentato per giungere all’affermazione della regalità, o meglio a un processo di valorizzazione dell’identità nera per mezzo di una marca visiva indicata nella corona. Le opere di Basquiat restituiscono l’identità degli atleti neri in quanto famosi (ecco l’uso del termine famous nel titolo del 1980-1981), “santificati” in quanto umani comuni, dalle caratteristiche straordinarie per l’ambito sportivo del pugilato. La figura dell’atleta nero, insomma, è l’elemento chiave per comunicare visivamente la rappresentazione dell’identità.
Sul piano dell’espressione, da questa prima lettura delle opere, sono state rilevate due modalità di rappresentazione dell’identità: per la prima, si ricorre alla “santificazione visiva” rimandando alla funzione del titolo (è il caso di St. Joe Louis), per la seconda modalità si oscilla fra il nome anagrafico (in Cassius Clay) e il soprannome (Sugar Ray Robinson invece di Walker Smith Jr.) scegliendo se collocare o meno l’elemento della corona come “marca visiva” di regalità.

5.2 SFERA INDIVIDUALE E SFERA COLLETTIVA: TUTTI I NERI SONO UMANI
Inquadrando le opere del corpus in un arco temporale relativamente breve (si ricordi che Basquiat è stato attivo per circa quindi anni) risulta costante il rapporto fra la rappresentazione della propria identità artistica e la narrazione artistica dell’identità dei “suoi” eroi neri. Il secondo gruppo di opere permette di portare in evidenza come identità e narrazione risultino per Basquiat due fattori che compaiono sempre assieme nel suo universo narrativo e nel suo sistema enciclopedico. L’elemento personale è installato in ogni opera: anche se l’umanità di ogni soggetto, come la presenza dei neri, è destinata ad essere nascosta, celata, l’artista lavora per renderla più visibile, come se avessimo davanti un negativo fotografico. In termini espressivi, per esempio, risulta interessante notare il gioco di luci, macchie, sagome, ombre e parole che rendono tale umanità virtuale, incorporea, quasi ascrivibile al regime del diafano. Eppure, essa c’è: si può raccogliere proprio nella efficace e stimolante rappresentazione che ne emerge.
Le opere del secondo gruppo (una dozzina) offrono ulteriori spunti per comprendere come la rappresentazione dell’identità assuma importanza non solo in relazione allo sport ma anche alla storia dei neri afro-americani: esse riportano in primo piano il vissuto sociale, economico e culturale della comunità afro-americana intesa in senso globale.
Nel mostrare tale vissuto, Basquiat sceglie di raccontare anche se stesso: non mancano opere cariche di allusioni alla propria esperienza, attorno al mondo dell’arte, del successo, del danaro. Uno dei casi più emblematici è The Man from Naples (1982), in cui alcuni termini della lingua italiana e l’anno di realizzazione permettono di ipotizzare che l’opera è un riferimento al suo viaggio in Italia, per l’interesse del collezionista modenese Emilio Mazzoli grazie al quale l’artista realizzò la sua prima mostra personale in Europa31. I termini italiani quali “mercanti di prosciutto”, se messi in relazione all’inglese “bleachers” portano il lettore su un livello interpretativo complesso, lontano dal titolo: bleach sta per candeggina, sbiancante. La scrittura sembra suggerire un problema di colore: quello della pelle. L’esempio appena citato, ancorato al termine “bleachers”, è soltanto uno fra quelli che sono stati già tratti per la lettura della scrittura di Basquiat (si pensi anche alla comparsa di termini come “colonialization” in Natives Carrying…). Ciò che preme sottolineare, per tali scritture, è che nei termini di una analisi dell’enunciazione visiva, questa scrittura può essere definita come “enunciazionale”, in accordo con l’approccio delineato da Meyer Schapiro32, come anche ripreso da Paolo Fabbri33.
Se The Man from Naples può riferirsi all’esperienza di un singolo nero che diventa l’artista Basquiat, un’opera che invece riporta all’esperienza collettiva dei neri è Natives Carrying Some Guns, Bibles, Amorites on Safari: il termine “colonialization” risulta chiaramente leggibile da non lasciare troppo spazio a ulteriori isotopie, mentre la frase “I won’t even mention gold (oro)” sembra strizzare l’occhio ai motti di SAMO ai tempi delle scritte sui muri con Al Diaz34.
L’importanza della scrittura nelle opere appena citate riconduce all’evoluzione del tratto grafico di Basquiat: per rappresentare l’identità dei suoi soggetti si fa un uso della scrittura mirato all’allestimento di opere che sul piano dell’espressione condensano sia il vissuto dell’individuo-artista sia quello della comunità nera, ricorrendo a diversi livelli di figurativizzazione e iconizzazione35. Scrittura e immagine, allora, diventano un unico sistema segnico nei testi visivi di Basquiat: collaborano per consegnarci un testo che – usando il dizionario di Greimas-Courtes – può essere inteso «come il risultato della produzione progressiva del senso, nel corso della quale le strutture e le figure semiotiche acquistano il loro assetto36». Dall’altro lato, per il funzionamento del processo semiotico di iconizzazione, è allora possibile comprendere come, grazie agli elementi plastici individuati in precedenza, le figure già costituite tramite una griglia di lettura siano le responsabili della cosiddetta illusione referenziale37.
Per esempio, le figure usate per rappresentare le teste nelle opere Untitled (Famous Negro Athletes) del 1980-1981, Famous Negro (1981), Untitled (il pugile) del 1982, Sugar Ray Robinson (1982) sono meno ricche di tratti figurativi – meno “riconoscibili” – rispetto a quelle in Cassius Clay o in St. Joe Louis. Allo stesso modo, si può sostenere che Dark Race Horse risulta più densa di tratti figurativi rispetto ad altre opere in cui pure compaiono parti del corpo. Il tratto grafico sembra essere più preciso laddove è necessario associare la rappresentazione del corpo all’identità del soggetto così come essa è nota e riconosciuta non solo all’interno della comunità nera ma anche per la massa che segue lo sport: così è per Cassius Clay e per St. Joe Louis.
La risposta a uno degli interrogativi chiave emersi in precedenza – quello sulla scelta dei nomi Cassius Clay e Muhammad Alì – potrebbe allora essere relativa al problema dell’identità: rappresentare l’identità del soggetto dell’opera significa rappresentarlo per la sua profonda natura umana, cioè il colore nero per il pugile Cassius Clay, personaggio rappresentato nell’opera intitolata univocamente attraverso l’uso del nome anagrafico, quello originario. In termini semiotici, sul piano del contenuto l’identità del soggetto rappresentato è garantita solo se i termini della scrittura si riferiscono al nome anagrafico: ecco che la corona si pone chiaramente sul capo in Sugar Ray Robinson, mentre manca in Cassius Clay, ormai anagraficamente mutato in Muhammad Alì e noto in quanto denominato tale.
I riferimenti alla fama (e allora, indirettamente, allo status) dei “neri famosi” presentano un sistema di corrispondenze fra espressione e contenuto basato su una grammatica e economia del segno visivo che appare ora più evidente. Le regole grammaticali sono basate sul rapporto fra scrittura e immagine e prevedono un percorso interpretativo in grado di attualizzare quanto suggerito ora dalla scrittura, ora dall’immagine-figura in base ai suoi livelli di figuratività.
Le opere del secondo gruppo mostrano che questa corrispondenza funziona anche per i testi che raccontano qualcosa su personaggi (soggetti) neri non sportivi. Anche per questi casi, va notato che titoli e topic lavorano in concomitanza per portare in evidenza l’identità di personaggi del mondo della musica – in opere come Discography One e Discography Two (entrambe del 1983) , CPRKR (1983), Max Roach (1984) – oppure, in The Death of Michael Stewart (1983), per raccontare il vissuto di un graffitista nero ucciso dalla polizia. Fra le opere di questo gruppo, è fondamentale dedicare alcune riflessioni anche al Self-portrait 1960 (realizzato nel 1983) per il quale la marca temporale detta l’identità del soggetto rappresentato. Si tratta di un patto di fiducia con il titolo, rispettato nel modo più radicale possibile: Basquiat rappresenta se stesso, “assicurandosi personalmente” la sua presenza – o meglio la sua identità. Il cromatismo nero della silhouette così come la pettinatura non lasciano dubbi per la definizione dell’identità: l’affermazione del nero è nello stesso autoritratto.
Circa la rappresentazione della propria identità non si può affermare lo stesso se si osserva Dos Cabezas (1982), opera realizzata nel periodo in cui la sua amicizia con (il venerato) Andy Warhol prende avvio. In Dos Cabezas per la rappresentazione del corpo (di un nero) non ci sono tracce di cromatismo nero: più precisamente, non vi è saturazione del tono nero, come per esempio in The death of Michael Stewart; non vi sono neanche tratti figurativi destinati a essere bordi per il riconoscimento sul piano figurativo, come in Cassius Clay o nel Famous Negro (1981) per il quale il bordo nero aiuta a delimitare la testa.
In quest’opera ciò che risulta più importante evidenziare è il cromatismo dei corpi dei due artisti: per Basquiat il nero, per Warhol il bianco. Per quest’ultimo, il bianco mette in evidenza la sua stessa mano nell’atto del toccarsi il mento, come per pensare, azione caratteristica di Warhol. Il gesto per mano di Warhol è cromaticamente in primo piano grazie al colore verde: lo stesso verde che fa invece da sfondo allo spazio dal quale emerge il corpo nero di Basquiat. La corrispondenza cromatica basata sul verde detta un’articolazione per il rapporto espressione-contenuto: in avanti (“come in aggetto”) il dubitare di un uomo bianco, sullo sfondo invece l’emergere di un uomo nero. Dos Cabezas (1982) precede di un anno il Self-portrait 1960 ed è stata realizzata nello stesso anno di un’altra opera, il Portrait of the Artist as a Young Derelict (1982) in cui sembra annunciata la parabola discendente – da “young derelict” – della vita degli artisti.
L’analisi della rappresentazione dell’identità in termini di collettività può essere integrata anche da ulteriori osservazioni che, pur riportando il focus sulla figura della corona, permettono di concludere che tale elemento grafico-visivo risulta efficace sia per la firma dell’artista sia per la sua stessa proiezione (in quanto soggetto di una collettività nera) nella narrazione visiva. Per rendere questo doppio effetto, Basquiat ha attinto da una serie di termini, da un’enciclopedia per la quale si è tentato di individuare una grammatica specifica. L’iconografia africana, in primo luogo, è stata la prima fonte di cui egli si è servito per agire nel testo: la corona è segno di regalità, marca il soggetto del potere, un uomo che mostrando qualcosa sul capo comunica la sua condizione nel gruppo, nella società.
Tracciata in decine di opere e anche nei primi disegni di SAMO, questa figura può essere ritenuta ora come l’elemento principale della soggettività nel quadro di un discorso visivo-narrativo che l’artista produce per un destinatario. La “resa visiva” per tale soggettività sembra passare proprio attraverso la «capacità che un soggetto ha di porre sé stesso a oggetto della propria riflessione.»38 Nei termini di Paolucci questo concatenamento si esprime linguisticamente per mezzo di un discorso libero indiretto per il quale la soggettività «è sempre l’istituzione di un concatenamento enunciativo in cui un punto di vista ne modula un altro, assumendo la libertà di cui lo priva»39. Pare essere esattamente così quando nelle opere di questo corpus Basquiat figura «sé stesso in molteplici forme e mondi possibili alternativi al mondo reale, mettendosi in scena come un altro e oggettivandosi come soggetto specifico della propria riflessione»40; si pensi in tal caso a opere come Portrait of the Artist As a Young Derelict (1982) o al Self-portrait (1960). Riconoscendo la corona come elemento incaricato della firma, si possono anche indicare diverse funzioni per la firma stessa: tra le più importanti, vi è quella che permette al nome inscritto di esprimere l’appartenenza di un individuo a un dato universo. In questa prospettiva, la figura della corona è potenzialmente in grado di rinviare a un diverso ordine sociale. Essa, infatti, non veicola l’identità “ufficiale” dell’artista, ma si pone piuttosto come una maschera, cioè una “non-faccia”. In questo senso, la corona permette all’artista di collocarsi perfino trasversalmente nelle sue opere, in modo semplice e riconoscibile.
L’analisi della firma relativamente all’evoluzione del tratto grafico di Basquiat può essere approfondita facendo ricorso anche al contributo di Anne Beyaert-Geslin, in particolare per la firma nei graffiti. Beyaert-Geslin scrive «si, dans le tag (première signature), l’oscillation entre une présence visuelle et textuelle est conservée, dans le throwie ou signature-graffiti (seconde signature), la présence visuelle l’emporte.»41 Per Basquiat, se il termine SAMO è riferito a un primo tipo di firma, l’elemento figurativo della corona sfugge al funzionamento e alla missione del throwie, definendo la presenza dell’artista in modo radicalmente diverso dagli altri. Esaminando le firme di Basquiat e includendovi quindi il passaggio dalla firma SAMO – basata su elementi dell’alfabeto – a quella basata sull’elemento figurativo della corona, si può sostenere che per l’artista la firma-corona è il risultato della scelta di un atto estremo, che non lascia spazio all’oscillazione fra tag e throwie e genera un segno grafico unico. Tale segno prende le distanze dalle ceneri di SAMO e conferisce tratti di regalità sia al contenuto delle opere sia al loro autore, richiamando all’esistenza e al valore umano, culturale e sociale di vite possibili, delineandone quindi l’esistenza nello spazio della rappresentazione e nella narrazione. Ancora, con i termini di A. B. Geslin, «la caractérisation apparaît dès lors comme une sémiose accueillant des hypothèses de vie possible, de soi possibles.»42 È proprio con la corona, dunque, che Basquiat ha introdotto il tessuto quotidiano della sua esistenza, un tessuto fatto naturalmente di relazioni sociali; al contempo, ha “allestito” spesso un omaggio grafico e diretto a personaggi e situazioni appartenenti alla storia della collettività nera43, riservando un posto speciale anche a quelli attivi nel mondo dello sport.
La corona di Basquiat è anche una firma molto particolare perché collocata insieme a figure di corpi particolarmente originali: nelle opere vi è grande concentrazione sul corpo umano, spesso delineato come sagoma (per es. in The Death of Michael Stewart). Come è stato mostrato in precedenza, attraverso le osservazioni sul cromatismo (per es. in Dos Cabezas), sui titoli e sulla collocazione degli elementi nello spazio, è possibile sostenere che il tema dell’identità si lega alla problematica del razzismo. Tale problematica in Basquiat è parafrasata come una “definizione visiva in relazione all’altro”, che è un soggetto esistente nel mondo reale (titoli come Famous Negro ne sono esempi). È in questo quadro che Basquiat opera una scelta linguistica definitiva e affronta la problematica della soggettività per mezzo di elementi in grado di marcare la sua (stessa) presenza insieme a quella degli altri (neri): identificato sempre come l’artista nero e mai come un artista nero, egli sceglie di delineare e imporre “il suo sé” attraverso il suo stesso corpo marcato dalla regalità. Il mondo offerto da Basquiat, allora, è un mondo ancora da comprendere, ancora non visto dagli altri: «uscendo da una mostra di pittura, vediamo il mondo in maniera nuova: cioè ricombinato nel suo senso, in funzione dello sguardo che le opere trapiantano»44.

Note

  1. Intervista realizzata dalla regista Tamra Davis e dalla sceneggiatrice Becky Johnston, Beverly Hills, 1985: Becky Johnston and Tamra Davis interviews Jean-Michel Basquiat.
  2. Un primo lavoro dedicato alla produzione di Basquiat e affrontato in termini di rapporto fra scrittura e immagine è stato sviluppato con la mia tesi di laurea in Semiotica (2001), presso l’Università di Bologna.
  3. Algirdas Julien Greimas, Del senso, Milano, Bompiani, 1974 [1^ ed. 1970]; Algirdas Julien Greimas, Del senso 2. Narrativa, modalità, passioni, Milano, Bompiani, 1984 [1^ ed. 1983)]
  4. Ibidem, Semiotica figurativa e semiotica plastica, in Lucia Corrain (a cura di) Leggere l’opera d’arte vol.I, Bologna, Esculapio, 1991.
  5. Meyer Schapiro, Per una semiotica del linguaggio visivo (a cura di Giovanna Perini), Roma, Meltemi, 2002.
  6. Phoebe Hoban, Basquiat. A quick killing in art, New York, Viking Penguin, 1998.
  7. Ibidem, 1998. Tony Shafrazy Gallery, Basquiat, Milano, Rizzoli, 2000.
  8. Phoebe Hoban, Basquiat: A Quick killing in Art, 1998.
  9. Ivi, p.37
  10. La gallerista Annina Nosei si rivela come una figura chiave per il successo di Basquiat. Fred Brathwaite (aka Fab 5 Freddy) è il nipote del batterista jazz Max Roach. Basquiat e Brathwaite fanno parte dello stesso circuito di relazioni, amicizie, interessi: Fab 5 è citato da Debbie Harry (aka Blondie) nel videoclip realizzato per la canzone “Rapture” (1981) (consultato il 29 luglio 2021). Nello stesso video compare un giovanissimo Basquiat (al minuto 1.54) che ascolta un verso della canzone riferito appunto a Fab 5.
  11. Un interessate intervista a Mazzoli circa il periodo in cui si tenne la mostra e l’atmosfera che si respirava si può leggere in G. Caverni, Emilio Mazzoli, Basquiat e lo stato dell’Arte Contemporanea (visto il 9 luglio 2021).
  12. Cathleen McGuigan, New Art, New Money (visto il 9 luglio 2021).
  13. Tony Shafrazy Gallery, Basquiat, 2000.
  14. Basquiat e il filmmaker Michael Holman formarono i Gray, un duo di musica sperimentale che si esibì diverse volte negli spazi (club musicali) citati.
  15. La consultazione delle pagine linkate nel presente paragrafo è stata svolta fra il 30 luglio e il 30 settembre 2021.
  16. Per questo specifico aspetto si vedano anche opere come Discography One e Discography Two, inclusa nel corpus di questa analisi, e Tuxedo, non inclusa e facilmente recuperabile in rete.
  17. Tony Shafrazy Gallery, Basquiat.
  18. Cfr. il paragrafo 4.1.
  19. Algirdas Julien Greimas – Joseph Courtés (a cura di Paolo Fabbri), Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Milano, Bruno Mondadori, 2007 [1^ ed. 1979].
  20. Umberto Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 1998 [1^ ed. 1979].
  21. Ivi, p. 88-89.
  22. Ivi, p. 91.
  23. Per altre osservazioni sull’opera Max Roach cfr. paragrafo 5.2.
  24. Algirdas Julien Greimas – Joseph Courtés (a cura di Paolo Fabbri), Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio.
  25. Omar Calabrese, Lezioni di semisimbolico, Siena, Protagon, 1999, p.12.
  26. Algirdas Julien Greimas – Joseph Courtés (a cura di Paolo Fabbri), Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Milano, Bruno Mondadori, 2007 [1^ ed. 1979], cit., p.173.
  27. Paolo Fabbri, Vedere ad arte. Iconico e icastico, cit., p.13.
  28. Il termine tema è qui usato in riferimento a topic, come in Umberto Eco, Lector in fabula, p. 88-89.
  29. Cfr. anche paragrafo successivo 4.1
  30. L’opera originale è a colori; per il corpus non è stato possibile linkare una versione a colori. Fra le pubblicazioni che riportano una ottima riproduzione a stampa cfr. il volume Tony Shafrazi Gallery, Basquiat, Milano, Rizzoli, 2000, p.64.
  31. Cfr. parag. 1, sulla vita dell’artista.
  32. Meyer Schapiro, Per una semiotica del linguaggio visivo, p.192.
  33. Paolo Fabbri, Vedere ad arte. Iconico e icastico, cit. p.100.
  34. Cfr. parag. 1, sulla vita dell’artista.
  35. Algirdas Julien Greimas – Joseph Courtés (a cura di Paolo Fabbri), Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, Milano, Bruno Mondadori, 2007 [1^ ed. 1979], p. 124.
  36. Ivi, p. 125.
  37. Il raccordo fra figurativizzazione e iconizzazione si trova espresso, nei termini della teoria generativa del senso, alla voce “Iconicità” in Algirdas Julien Greimas – Joseph Courtés (a cura di Paolo Fabbri), Semiotica. Dizionario ragionato della teoria del linguaggio, p. 149.
  38. Claudio Paolucci, Persona. Soggettività nel linguaggio e semiotica dell’enunciazione, Milano, Bompiani, 2020, cit., p. 253
  39. Ivi, cit., p. 254.
  40. Ivi, p. 255.
  41. Anne Beyaert-Geslin, La signature-graffiti: de l’énonciation piétonnière à l’énonciation animeé, in Sémir Badir, Maria Giulia Dondero, François Provenzano (sous la direction de) Les Discours syncrétiques, poésie visuelle, bande dessineé, graffitis, Liège, Presses Universitaires de Liège, 2019.
  42. Ivi, pag. 119
  43. In particolare in alcune opere del corpus come Natives Carrying… e CPRKR la posizione della corona meriterebbe un ulteriore approfondimento analitico per la sua posizione nello spazio.
  44. Paolo Fabbri, Vedere ad arte. Iconico e icastico, cit., p. 27. La citazione è una osservazione di Fabbri circa l’opera di Nelson Goodman.

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